conciliazione obbligatoria

Conciliazione obbligatoria: stop per voli cancellati e ritardi Stop alla conciliazione obbligatoria in caso di voli cancellati o ritardi, i passeggeri potranno rivolgersi subito al giudice

Addio conciliazione obbligatoria per ritardi e voli cancellati

Il tentativo di conciliazione obbligatoria previsto per i passeggeri aerei, vittime di ritardi e voli cancellati non sarà più vincolante. In presenza di questi inadempimenti i passeggeri potranno rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria. Lo ha deciso il TAR Piemonte nella sentenza n. 1093-2024, annullando la delibera dell’Autorità di regolazione dei trasporti n. 21/2023 nella parte in cui prevede l’obbligo del tentativo di conciliazione prima di ricorrere in giudizio. Procedura che, come sostenuto anche dal ricorrente, aggrava le spese e causa un’inutile perdita di tempo.

Volo cancellato:  richiesta compensazione e rimborso spese

Un privato ricorre al TAR Piemonte, facendo presente che in data 18 febbraio 2023 lo stesso, lavorando a Verona, avrebbe dovuto raggiungere la sua famiglia, residente a Lucera, in provincia di Foggia.

Per arrivare rapidamente dal suo nucleo familiare l’uomo aveva prenotato un volo che gli avrebbe consentito di arrivare a destinazione entro la mattinata.

Pochi minuti prima del decollo però il ricorrente veniva a sapere che il suo volo era stato cancellato. L’uomo, dopo avere trovato in autonomia un mezzo di trasporto su strada, raggiungeva la famiglia in serata.

Il mese successivo l’uomo inviava un reclamo al vettore aereo, chiedendo la compensazione pecuniaria forfettaria di 250,00 euro (regolamento CE n. 261/2004 art. 7 par. 1, lett. a), il rimborso del biglietto aereo e il rimborso delle spese ulteriori sostenute. La Compagnia però non forniva alcun riscontro alle sue richieste.

La conciliazione aumenta i costi per il passeggero

Il ricorrente, che a questo punto avrebbe dovuto risolvere la controversia in via stragiudiziale, ne contesta l’obbligatorietà perché, a suo dire, il tentativo di conciliazione si risolve in un inutile perdita di tempo e in un aggravio di spese. Per il ricorrente la procedura conciliativa preventiva e obbligatoria impedisce infatti di ricorrere immediatamente in giudizio per far valere le proprie ragioni.

Per tutti questi motivi il ricorrente chiede l’annullamento della delibera dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti dell’8 febbraio 2023, n. 21 (compreso l’allegato A e tutti gli atti presupposti) perché impone la conciliazione obbligatoria preventiva in presenza di una controversia tra gli operatori economici che gestiscono servizi di trasporto e gli utenti o consumatori.

Conciliazione obbligatoria: viola il diritto di agire in giudizio

Il TAR accoglie il ricorso perché fondato. In effetti, come rileva il Tribunale amministrativo, la procedura conciliativa preventiva e obbligatoria costituirebbe un inutile e ingiustificato aggravio, viste lirrinunciabilità dei diritti previsti dal Regolamento e la predeterminazione forfettaria dellimporto della compensazione. Inoltre, essa, impedendo al passeggero di rivolgersi immediatamente a un tribunale in caso di rigetto del reclamo o di esercitare una scelta tra rivolgersi ad un tribunale o ad un altro organismo competente, precluderebbe laccesso alla giustizia, ponendosi in contrasto con il Regolamento europeo e con i principi costituzionali in materia di diritto di azione (cfr. art. 24 Cost)”. 

Il TAR fa presente inoltre che il passeggero potrebbe scoraggiarsi e rinunciare a far valere i propri diritti perché la piattaforma per la conciliazione obbligatoria prevede un accesso digitale di cui non tutti dispongono e con il quale non tutti hanno dimestichezza. Il passeggero potrebbe sentirsi costretto a chiedere  assistenza a un legale, che dovrebbe comunque pagare e a cui dovrebbe anticipare le spese necessarie per avviare la procedura. Senza dimenticare i costi che tutti i passaggi (reclamo, conciliazione ed eventuale giudizio) comportano.

 

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bacio a sfioro

Bacio a sfioro: è violenza sessuale Per la Cassazione, il bacio a sfioro integra il reato di violenza sessuale, basta il contatto delle labbra per ledere la libertà sessuale

Reato di violenza sessuale

Il bacio a sfioro integra il reato di violenza sessuale. Questo illecito penale è infatti integrato da qualsiasi atto che si risolve in un contatto fisico, anche fugace e repentino tra il soggetto agente e la persona offesa. La Cassazione ha ribadito questo principio nella sentenza n. 39488/2024.  

Il bacio a sfioro integra il reato di violenza sessuale

Un soggetto viene assolto in primo grado dal reato violenza sessuale previsto dall’articolo 609 bis c.p. La parte civile impugna la decisione. La Corte riforma la sentenza e condanna l’imputato per il reato ascritto e lo condanna a risarcire la persona offesa con l’importo di 2000 euro.

La confidenza con la collega giustificava il bacio

L’imputato ricorre in Cassazione e con il primo motivo contesta la condanna. Il ricorrente sottolinea come lo stesso fosse ragionevolmente convinto del consenso della persona offesa. Con la donna si era infatti instaurato un rapporto di confidenza e di complicità. Solo dopo il bacio si è reso conto della erroneità delle sue convinzioni.

La Corte territoriale inoltre ha travisato il senso della domanda “potevo” rivolta alla persona offesa dopo il fatto. Il giudice dell’impugnazione ha errato anche quando ha ritenuto la condotta improntata a dolo o a colpa. Il reato di violenza sessuale infatti deve essere necessariamente doloso. Per l’imputato infine il caso di specie configurerebbe un’ipotesi di delitto putativo per errore sul fatto di reato, come contemplato dall’articolo 47 codice penale.

Il solo contatto con le labbra viola la libertà sessuale

Per la Cassazione però il ricorso è inammissibile. L’agente ha commesso senza dubbio un atto di natura sessuale. Costante giurisprudenza ritiene infatti che “il «bacio» anche nel caso in cui si risolva nel semplice contatto delle labbra” è comunque idoneo a ledere la libertà e lintegrità sessuale della vittima. Dal racconto attendibile della persona offesa emerge che la donna, dopo aver scambiato cordiali convenevoli con l’imputato davanti alla macchinetta del caffè, aveva ripreso il suo lavoro indossando delle cuffiette. L’imputato a quel punto l’aveva afferrata da tergo, buttata contro il muro e baciata sulla bocca.

Non può sussistere nel caso di specie il reato putativo per le circostanze di luogo e di tempo e per la condotta incontestata dell’imputato. Indubbio che l’imputato abbia agito nella consapevolezza del mancato consenso della donna. Dopo l’atto infatti le ha chiesto: “potevo?”.

Infondata anche la convinzione che la Corte d’Appello abbia ritenuto colposa la violenza sessuale. Quando la Corte d’appello ha affermato che l’imputato avesse realizzato un illecito con dolo o colpa grave non riferiva alle responsabilità dell’illecito penale, ma alla liquidazione delle pretese civili effettuata in via equitativa.

 

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censurato l'avvocato

Censurato l’avvocato che offende e denigra la collega Sanzione della censura più adeguata rispetto alla sospensione dall’attività per l’avvocato che offende e denigra la collega

Sanzione della censura per l’avvocato

Merita di essere censurato l’avvocato che offende e denigra la collega nell’atto di costituzione e risposta. La sospensione dall’attività per due mesi non è appropriata se l’avvocato non ha precedenti disciplinari e se le frasi di contenuto offensivo e denigratorio sono inferiori rispetto a quelle per le quali è stato ritenuto colpevole dal Consiglio distrettuale di disciplina.

Lo ha chiarito il CNF nella sentenza n. 217-2024.

Procedimento disciplinare: avvocato offende la collega

Un avvocato viene sottoposto procedimento disciplinare dopo due esposti presentati dall’avvocato di controparte in una causa relativa all’affidamento e al mantenimento di un minore. L’avvocato viene incolpato, tra le altre cose, di aver utilizzato nella comparsa di costituzione parole offensive, sconvenienti e denigratorie dell’attività del collega difensore.

Lo stesso ha infatti utilizzato nell’atto termini come i seguenti:“subdole e infingarde insinuazioni”; la cattiveria più infima della signora”; nonostante la scorrettezza della collega” e similari, rivolti alla collega e alla sua cliente. Il tutto in violazione degli articoli 9, 42 e 52 del Codice deontologico Forense.

Il Consiglio di disciplina commina quindi la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per la durata di due mesi.

Frasi impiegate non sono tutte offensive

L’avvocato incolpato però ricorre la decisione davanti al Consiglio Nazionale Forense denunciando, in relazione alla contestata violazione degli articoli 42 e 52 del Codice deontologico, l’errata valutazione delle prove e dei documenti acquisiti agli atti.

Il ricorrente fa infatti presente che la maggior parte delle frasi, ritenute offensive, non erano rivolte alla collega, ma alla sua cliente. I termini “scorretta e subdola” rivolte alla collega inoltre non dovevano intendersi come offensive, ma come descrittive e giustificate dai comportamenti processuali tenuti dalla collega, che quelle parole volevano stigmatizzare.

Basta la censura, illeciti inferiori e senza precedenti

Il Consiglio Nazionale Forense precisa che la portata offensiva delle espressioni impiegate dall’avvocato ricorrente “è insita nel significato comune e corrente delle parole e delle aggettivazioni usate (subdole e infingardi insinuazioni”, scorrettezza della collega”, subdolamente adito”, riferite allAvv. [OMISSIS]; cattiveria più infima”, rissosa cliente”, boriosa e perfida cliente”, riferite alla sig.ra [OMISSIS]), e nessun passaggio argomentativo può valere a darne giustificazione anche laddove inserite, e forse a maggior ragione proprio perché inserite, in un atto diretto allAutorità giudiziaria.” 

Il CNF non nega la commissione di una pluralità di illeciti da parte dell’avvocato ricorrente, seppure nel numero ridotto di espressioni ritenute offensive e denigratorie. Esso non può neppure negare l’assenza di precedenti disciplinari. Ne consegue che la sanzione corretta da applicare nel caso di specie è la censura, non la sospensione dall’attività per due mesi.

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cane catena

Reato tenere il cane alla catena sotto il sole Cane alla catena, sotto il sole e senza acqua: la condotta configura il reato di abbandono di animali art. 727 c.p.

Cane alla catena: reato di abbandono art. 727 c.p.

Reato tenere il cane alla catena. E’ integrato, infatti, il reato di abbandono di animali di cui all’art. 727 del codice penale che punisce chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito le abitudini della cattività. Alla stessa pena  è soggetto anche chiunque detenga animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.

Il reato di abbandono si configura quindi anche quando un soggetto detenga un cane di grossa taglia a una catena di metallo pesante corte corta e stretta, in scarse condizioni igieniche, sotto il sole e senza acqua. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 38792/2024.

Tenere il cane alla catena sotto il sole senza acqua è reato

Il tribunale condanna un soggetto per il reato di abbandono di animale. Per l’autorità giudicante l’uomo è responsabile penalmente per aver detenuto un cane di razza Rottweiler in condizioni incompatibili con la sua natura, produttive di gravi sofferenze e in condizioni igieniche precarie.

L’uomo deteneva infatti l’animale legato a una corda corta e fissa tanto da provocargli uno strozzamento. Il cane inoltre si trovava esposto in pieno sole, ma la ciotola dell’acqua era vuota.

L’imputato contesta la sanzione, la somma quantificata a titolo di risarcimento in favore della parte civile e la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.

Negata la sospensione condizionale: condotta grave

Per la Cassazione il ricorso deve essere respinto. Il primo motivo appare del tutto infondato così come la seconda doglianza nella quale l’imputato ha lamentato il mancato riconoscimento della sospensione condizionale della pena.

La Cassazione al riguardo precisa che il giudice di merito ha motivato la decisione in maniera congrua ed esente da vizi logici. Lo stesso ha infatti valorizzato la gravità della condotta dell’imputato.

Nella sentenza impugnata è descritta la detenzione sotto il sole di un cane di grossa taglia al quale è stata fatta indossare una catena di metallo pesante, del tutto priva di moschettoni rotanti e attorcigliata attorno al collo. L’animale detenuto in simili condizioni era impossibilitato a muoversi, quindi non poteva raggiungere un riparo. L’animale inoltre non aveva a sua disposizione neppure una ciotola  piena d’acqua per abbeverarsi.

 

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processo estinto

Processo estinto se non si paga il contributo unificato Processo estinto in caso di omesso o parziale pagamento del contributo unificato: lo prevede l’art. 105 della bozza della manovra di bilancio

Estinzione processo senza contributo unificato

Processo estinto nel caso di omesso pagamento del contributo unificato. Lo prevede l’articolo 105 della bozza della manovra di bilancio 2025, che in materia di revisione delle spese di giustizia, dopo l’articolo 307 c.p.c aggiunge il nuovo 307 bis c.p.c.

Estinzione del processore: cosa prevede l’art. 307 c.p.c.

L’attuale formulazione dell’art. 307 c.p.c prevede diverse cause di estinzione del processo civile.

II primo comma ricollega l’estinzione del processo alla mancata riassunzione della causa nel termine perentorio di tre mesi, decorrente dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto art. 166 c.p.c o dalla data del provvedimento di cancellazione, se dopo la notifica nessuna delle parti si sia costituita entro il termine di cui all’art. 166 o se dopo la costituzione delle parti il giudice abbia disposto la cancellazione della causa dal ruolo.

Il secondo comma dispone invece l’estinzione del processo nel caso in cui, dopo la sua riassunzione, nessuna della parti si costituisca o il giudice ordini la cancellazione della causa dal ruolo.

Il terzo comma prevede infine che il processo si estingue anche quando il soggetto che vi è onerato non provveda, nei termini assegnati dal giudice o stabiliti dalla legge, a rinnovare la citazione o a proseguire, riassumere e integrare il giudizio.

Pagamento omesso o parziale: altri 30 giorni per pagare

La prima disposizione del nuovo art. 307 bis c.p.c è perentoria nella sua formulazione letterale. Essa impone infatti che Il processo si estingue per omesso o parziale pagamento del contributo unificato.” 

L’estinzione del processo però non è prevista in modo automatico. Il giudice infatti, nel corso della prima udienza, se verifica che il contributo unificato non è stato pagato o è stato pagato in parte, assegna alla parte interessata un termine di 30 giorni per provvedere al pagamento dell’intero importo o all’integrazione di quanto pagato fino a quel momento, rinviando l’udienza a una data immediatamente successiva.

Processo estinto se all’udienza di rinvio il contributo non risulta versato

Nel corso di questa nuova udienza il giudice, verificato il mancato pagamento del contributo nonostante la concessione del suddetto termine di 30 giorni, dichiara l’estinzione del processo.

Esito diverso se l’omesso pagamento del contributo riguarda la domanda riconvenzionale, la chiamata in causa, l’intervento volontario nei confronti di tutti le parti o per proporre l’impugnazione incidentale. In questi casi infatti il giudice non dichiara il processo estinto, ma si limita a dichiarare improcedibile la domanda.

Si estinguono anche processo del lavoro ed esecutivo

Queste regole, come precisano le ultime disposizioni della norma, si applicano anche elle controversie del rito lavoro e del processo esecutivo, mentre non trovano applicazione nei procedimenti cautelari e possessori.

Le reazioni dell’Avvocatura alla norma

La norma ha suscitato subito le reazioni dei principali organismi dell’avvocatura. L’Organismo Congressuale Forense ritiene incostituzionale bloccare un processo subordinandolo a imposizioni o prestazioni patrimoniali. Chiede quindi che la norma venga stralciata dal testo della manovra. Il Movimento Forense critica la norma perché in questo modo si subordina l’accesso alla giustizia a un adempimento fiscale. L’Associazione Nazionale Forense ricorda che nel 2022 il Governo aveva ritirato una disposizioni simile in quanto incostituzionale.

L’AIGA infine ha espresso la propria contrarietà alla norma con un comunicato stampa del 24 ottobre 2024 (sotto allegato), in cui il Presidente Foglieni dichiara che: “la nuova previsione normativa rischia di porsi come ostacolo al diritto costituzionalmente garantito del cittadino di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.”

 

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pensioni le misure

Pensioni: le misure più importanti della manovra Pensioni: la manovra conferma Ape Social, Opzione donna e Quota 103, novità invece per pensioni minime e per quelle dei residenti all’estero

Pensioni: le novità della manovra 2025

Pensioni le misure più importanti contenute nella manovra di bilancio 2025 che, nella sua versione iniziale, prima dell’esame parlamentare, prevede diverse novità in materia ma anche alcune conferme. 

Quota 103

Confermata quota 103 per chi è nel regime contributivo, ha raggiunto 62 anni di età e 41 anni di contributi. Più lunghi invece i tempi di attesa. I dipendenti privati dovranno attendere 7 mesi dalla presentazione della richiesta, i dipendenti pubblici 9 mesi.

Ape social

La manovra proroga Ape social per chi ha almeno 63 anni e 5 mesi di età e 30 anni minimi di contributi. I beneficiari dovranno essere:

  • disoccupati anche a causa di un licenziamento collettivo;
  • caregiver;
  • soggetti con provata riduzione della capacità lavorativa minima del 74%;
  • lavoratori impiegati in attività gravose.

Opzione donna

L’altra proroga riguarda opzione donna, di cui potranno beneficiare le donne che abbiano compiuto almeno 61 anni di età con 35 anni di contributi versati entro il 31 dicembre 2024. Le richiedenti devono però rientrare in determinate categorie:

  • disoccupate anche a causa di un licenziamento collettivo;
  • dedite all’assistenza del coniuge o di un parente di primo grado affetti da handicap grave da almeno 6 mesi;
  • con riduzione della capacità lavorativa in misura pari o superiore al 74%;
  • lavoratrici licenziate o alle dipendenze di imprese in cui è attivo il tavolo di confronto presso l’ex Mise per gestire le crisi aziendali.

Pensioni minime: misure antinflazione

L’articolo 25 della manovra è dedicato alle pensioni minime. Esso interviene per completare gli interventi transitori finalizzati al contrasto dell’inflazione registrata negli anni 2022 e 2023.

A tal fine la manovra va a modificare il comma 310 dell’art. 1 della legge di bilancio per il 2023 n. 197 del 17 dicembre 2022.

Comma 310 art. 1 legge di bilancio 2025

Questo il testo di risulta in seguito alle modifiche previste: Al fine di contrastare gli effetti negativi delle tensioni inflazionistiche registrate e attese per gli anni 2022 e 2023, per le pensioni di importo pari o inferiore al trattamento minimo INPS, in via eccezionale con decorrenza 1° gennaio 2023, con riferimento al trattamento pensionistico lordo complessivo in pagamento per ciascuna delle mensilità da gennaio 2023 a dicembre 2026, ivi compresa la tredicesima mensilità spettante, è riconosciuto in via transitoria un incremento, limitatamente alle predette mensilità e rispetto al trattamento mensile determinato sulla base della normativa vigente prima della data di entrata in vigore della presente legge, di 1,5 punti percentuali per l’anno 2023, elevati a 6,4 punti percentuali per i soggetti di età pari o superiore a settantacinque anni, e di 2,7 punti percentuali per l’anno 2024, di 2,2 punti percentuali per lanno 2025 e di 1,3 punti percentuali per lanno 2026.  L’incremento di cui al presente comma non rileva, per gli anni 2023 e 2024, 2025 e 2026 ai fini del superamento dei limiti reddituali previsti nel medesimo anno per il riconoscimento di tutte le prestazioni collegate al reddito. (…) Resta fermo che, ai fini della rivalutazione delle pensioni per gli anni 2023 e 2024, 2025 e 2026 il trattamento pensionistico complessivo di riferimento è da considerare al netto dell’incremento transitorio di cui al presente comma, il quale non rileva a tali fini e i cui effetti cessano in ogni caso, rispettivamente, al 31 dicembre 2023 e al 31 dicembre 2024, al 31 dicembre 2025 e al 31 dicembre 2026.” 

Pensione di vecchiaia: per lavoratrici con 4 o più figli

L’articolo 26 interviene sulle pensioni di vecchiaia delle lavoratrici attraverso la modifica dell’articolo 1, comma 40, lettera c) della legge n. 335/1995 La norma acquisisce così il seguente tenore letterale: Per i trattamenti pensionistici determinati esclusivamente secondo il sistema contributivo, sono riconosciuti i seguenti periodi di accredito figurativo: lett c) a prescindere dall’assenza o meno dal lavoro al momento del verificarsi dell’evento maternità, è riconosciuto alla lavoratrice un anticipo di età rispetto al requisito di accesso alla pensione di vecchiaia di cui al comma 19 pari a quattro mesi per ogni figlio e pari a sedici mesi complessivi nei casi di quattro o più figli.” 

Pensioni all’estero: stop perequazione automatica

L’ art. 27 della manovra prevede che, in via del tutto eccezionale, per il 2025, la rivalutazione automatica delle pensioni (art. 34 comma 1 legge n. 448/1998) non sarà riconosciuta ai pensionati che risiedono allestero e che percepiscono una pensione superiore al trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo di questi trattamenti. Qualora il trattamento pensionistico complessivo sia superiore al predetto importo e inferiore a tale limite aumentato dell’incremento disciplinato dal presente comma l’incremento è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.” 

Previdenza complementare

L’art. 28 modifica l’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, prevedendo che a partire dal 1° gennaio 2025, solo per raggiungere l’importo soglia mensile, in caso di opzione per la rendita, su richiesta dell’assicurato, possa essere computato insieme all’ammontare mensile della prima rata di pensione base, anche il valore teorico di una o più prestazioni di rendita delle forme pensionistiche di previdenza complementare richieste dall’assicurato.

 

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accesso agli atti condominiali

L’accesso agli atti condominiali è gratuito L’accesso agli atti condominiali è una facoltà dei condomini che non richiede l'esborso di somme ulteriori rispetto ai diritti di copia

Accesso agli atti del condominio

L’accesso agli atti condominiali non è subordinato al pagamento di alcuna somma. I condomini che chiedono l’accesso agli atti condominiali non devono pagare all’amministratore di condominio un compenso ulteriore rispetto a quello concordato al conferimento dell’incarico. Lo ha chiarito il Tribunale di Milano nella sentenza n. 15169/2024.

Richiesta di accesso agli atti: la vicenda

Due condomini convengono in giudizio l’amministratrice condominiale chiedendo che venga condannata alla consegna o alla messa a disposizione in copia dei documenti condominiali indicati nell’atto di citazione. Gli attori dichiarano di aver chiesto alla convenuta con due PEC inviate a distanza di un mese una dall’altra di poter prendere visione ed estrarre copia di alcuni documenti condominiali, previo pagamento dei relativi oneri e previo appuntamento. La convenuta però non ha fornito alcun riscontro a queste richieste. L’amministratrice contesta la domanda nel merito chiedendo nel rigetto. Dopo il fallito tentativo di mediazione la causa prosegue e giunge in decisione.  

Facoltà di visionare ed estrarre copia dei documenti

Il Tribunale rileva la fondatezza della richiesta dei condomini. Ogni condomino infatti ha la facoltà di chiedere e ottenere dall’amministratore condominiale l’esibizione dei documenti contabili anche al di fuori del rendiconto annuale dell’approvazione del bilancio. Il richiedente che avanza tali richieste non ha l’onere di specificare i motivi per i quali vuole prendere visione o estrarre copia dei documenti del condominio. Le richieste non devono naturalmente intralciare l’attività amministrativa e non devono essere contrarie ai principi di correttezza. I costi relativi devono   gravare sui richiedenti.

Illegittima la richiesta di una somma aggiuntiva

Nel caso di specie il Tribunale ritiene provata la duplice richiesta degli attori formulata a mezzo pec. L’amministratrice però ha subordinato detta richiesta al pagamento dell’importo è di 100,00 euro, in quanto attività soggetta a retribuzione separata, trattandosi di richieste personali dei singoli condomini.

Trattasi  però di una condizione del tutto illegittima. L’unico onere economico che può essere imposto al singolo condomino che richieda di estrarre copia di alcuni documenti condominiali è rappresentato dalla spesa necessaria per avere la copia della documentazione originale.

“Non può considerarsi legittima, pertanto, l’eventuale richiesta da parte dell’amministratore di un compenso aggiuntivo o di un rimborso forfettario, trattandosi comunque di attività connessa ed indispensabile allo svolgimento dei suoi compiti strutturali, e perciò da ritenersi compresa nel corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell’incarico per tutta l’attività amministrativa di durata annuale.” 

Per garantire che l’amministratrice rispetti la domanda attorea il Tribunale dispone quindi il pagamento di 20,00 euro per ogni giorno di ritardo (ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c) nell’esecuzione del provvedimento di condanna, consistente nell’obbligo di consentire ai condomini la visione e l’eventuale copia dei documenti richiesti.

 

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non bastano i viaggi

Non bastano i viaggi col compagno per l’addio all’assegno Revoca assegno divorzile: non provano la una nuova famiglia di fatto della ex moglie i viaggi e le vacanze con il nuovo compagno

Revoca assegno divorzile

Non bastano i viaggi col compagno, per disporre la revoca dell’assegno divorzile. Non provano, infatti, la nuova famiglia di fatto nè i viaggi e le vacanze estive della coppia formata dalla ex moglie e dal nuovo compagno, nè la frequentazione domestica e la corresponsione di somme di denaro nel periodo in cui l’ex marito non le versava gli assegni. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 27043/2024.

Assegno divorzile: la Corte lo dimezza

Un ex marito si rivolge al Tribunale per chiedere la revoca dell’assegno di divorzio di 1000 euro mensili spettante all’ex moglie. L’autorità giudiziaria accoglie il ricorso con decreto. La Corte d’appello accoglie invece parzialmente il reclamo della ex moglie e riduce l’assegno a 500,00 euro a partire dal 22 giugno 2017.

Nuova famiglia di fatto giustifica revoca?

L’ex marito ricorre la decisione in Cassazione. L’uomo contesta alla Corte d’appello di non aver valorizzato l’esistenza della nuova famiglia di fatto della ex moglie solo a causa della non coabitazione. Nel secondo motivo lamenta la mancata valutazione di plurimi elementi indiziari che dimostrano l’esistenza della suddetta famiglia di fatto. Con il terzo motivo evidenzia la non contestazione da parte della ex moglie della relazione con il nuovo compagno dal 2010.

La revoca dell’assegno non è automatica

La Cassazione esamina i tre motivi di doglianza e li respinge perchè inammissibili.

Gli Ermellini ricordano che secondo il più recente orientamento la nuova stabile convivenza di fatto dell’ex partner, giudizialmente accertata, incide sul diritto all’assegno di divorzio, sulla sua revisione e sulla sua quantificazione. Il nuovo progetto di vita intrapreso con il terzo e i reciproci doveri di assistenza morale e materiale non determinano però automaticamente e integralmente la perdita dell’assegno divorzile. La coabitazione assume valenza indiziaria per dimostrare il rapporto di fatto, l’assenza di coabitazione, al contrario, non è decisiva ai fini della revoca. In assenza della stabile coabitazione occorre quindi accertare l’effettivo legame di convivenza per appurare se lo stesso costituisca un ostacolo al diritto all’assegno divorzile.

Viaggi e vacanze non provano la nuova famiglia di fatto

La Corte d’appello ha negato la revoca dell’assegno di divorzio perché dagli elementi emersi non è stata documentata con certezza la formazione di una nuova famiglia di fatto da parte della ex moglie. Pacificamente assente la stabile convivenza (…) non documentano con sufficiente certezza la formazione di una famiglia di fatto, non essendo prova sufficiente di una sostanziale comunione e condivisione di vita e di impegni economici i viaggi e le vacanze estive della coppia, la frequentazione domestica documentata, né la dizione di somme di denaro nel periodo (marzo 2010-2018) in cui (lex marito) non le versava gli assegni.” 

La Corte di merito quindi, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non ha valorizzato solo la mancata coabitazione. Dal corredo probatorio complessivo la Corte ha dedotto la mancata dimostrazione della nuova famiglia di fatto dell’ex moglie. I motivi di doglianza del marito non colgono nel segno perché sono diretti in modo improprio a ottenere una rivisitazione dei fatti nel merito, ossia dei fatti storici e dei risultati istruttori.

 

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gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio anche per lo straniero senza codice fiscale Il gratuito patrocinio spetta all’extracomunitario privo di codice fiscale Italiano se fornisce i propri dati anagrafici

Gratuito patrocinio: spetta anche allo straniero privo di codice fiscale

Il gratuito patrocinio è previsto per il cittadino extracomunitario non residente anche se non possiede il codice fiscale italiano. E’ infatti sufficiente che costui fornisca i propri dati anagrafici e dichiari il suo domicilio estero. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 38751/2024.

Rigetto istanza patrocinio gratuito: codice fiscale mancante

Il Giudice unico del Tribunale di Milano rigetta la richiesta di ammissione al gratuito patrocinio avanzata da un cittadino extracomunitario. Il Giudice ha rilevato la mancata indicazione del codice fiscale. Quello fornito era stato ricavato infatti da un applicativo e il difensore non ha depositato la documentazione richiesta a integrazione. Il richiedente contesta la decisione al Tribunale, che però la rigetta. Il richiedente non ha fornito il codice fiscale e non ha indicato il suo domicilio fiscale stabile in Italia. In questo modo è impossibile controllare la sua situazione reddituale, presupposto fondamentale per l’ammissione al patrocinio gratuito.

Dati anagrafici e domicilio fiscale sostituiscono il codice fiscale

L’istante nel ricorre in Cassazione sostiene che per i soggetti che non risiedono nel territorio dello Stato l’obbligo di indicare il codice fiscale deve intendersi adempiuto con l’indicazione dei dati  anagrafici e del domicilio o sede legale all’estero. Dati che lo stesso ha fornito mediante autocertificazione.

Patrocinio per l’extracomunitario se fornisce i dati anagrafici

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso perché fondato.

L’articolo 6 comma 2 del d.p.r. n. 605/1973 dispone che lobbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con l’indicazione dei dati di cui allart. 4 dello stesso d.p.r. con leccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale allestero.” 

Il richiamato art. 4 richiede, per l’attribuzione del numero di codice fiscale delle persone fisiche il cognome, il nome, il luogo e la data di nascita, il sesso e il domicilio fiscale.

Nel caso di specie il ricorrente ha dichiarato di non possedere il codice fiscale, ma di aver indicato i dati anagrafici e il proprio domicilio fiscale all’estero. Dalle norme analizzate non emerge l’onere per il cittadino straniero non residente di procurarsi un codice fiscale italiano per provare la richiesta di ammissione al patrocinio gratuito, fermo restando l’obbligo di allegare il reddito prodotto, risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi presentata nel paese di residenza.

 

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spese forfettarie avvocato

Spese forfettarie avvocato: mai sotto il 15% Le spese forfettarie dell'avvocato non possono essere riconosciute in misura inferiore al 15% perché diminuirebbero il compenso

Spese forfettarie avvocato: si possono concordare sotto il 15%?

Le spese forfettarie del 15% che l’avvocato indica in fattura per chiederne il rimborso al cliente a titolo di spese generali possono essere indicate in una percentuale inferiore? Questo in sintesi il quesito che il COA di Torino rivolge al CNF. Più precisamente il COA chiede se sia possibile prevedere una riduzione della percentuale del 15% in sede di accordo contrattuale con il cliente o quando si partecipa a un bando pubblico.

Spese forfettarie: quadro normativo

Il Consiglio Nazionale Forense (parere n. 28/2024) ricorda che le spese forfettarie sono dovute nella misura del 15% del compenso totale, come stabilito dal dm 55/2014. La percentuale del 15% è fissa, le spese forfettarie quindi spettano all’avvocato in modo automatico, senza obbligo di documentarle come previsto invece per le spese vive. Neppure il giudice può intervenire sulla loro quantificazione.

La voce “Spese forfettarie” quindi è un parametro che vincola anche il giudice quando provvede alla liquidazione giudiziale del compenso dell’avvocato, ma anche le parti. Esse rappresentano infatti una componente del compenso.

Le legge n. 49/2023 sull’equo compenso all’articolo 3 dispone la nullità delle clausole che contemplino un compenso non equo e proporzionato all’attività svolta dai liberi professionisti iscritti a un albo, ordine o collegio professionale. Sono nulle in particolare le pattuizioni che dovessero stabilire compensi inferiori a quelli stabiliti dai parametri di liquidazione per i professionisti suddetti.

In effetti la legge n. 247/2012 e diversi decreti ministeriali prevedono per l’avvocato un compenso maggiorato del 15% per le spese forfettarie, regola che neppure il giudice può ridurre o aumentare dopo il d.m n. 147/2022.

La riduzione diminuirebbe il compenso

La maggiorazione del 15% non priva l’importo risultante del valore di compenso. Le spese vive infatti non sono incluse nella percentuale del rimborso delle spese generali, ma costituiscono una voce separata.

Ne consegue che: “sulla base di una interpretazione logico-sistematica unica della disciplina di cui all’art. 13, comma 10, legge n. 247/2012 e al d.m. n.55/2014 (e successive modificazioni) e della legge n. 49/2023 sull’equo compenso, leventuale riduzione della percentuale del 15% stabilita dal decreto ministeriale per le spese forfetarie dell’avvocato – percentuale quantificata ex lege – determina un ribasso del compenso” parametrico dell’avvocato, con conseguente violazione della disciplina dellequo compenso di cui alla legge n. 49/2023.”

 

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