resistenza a pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale: solo con violenza o minaccia reali La Cassazione chiarisce che, ai fini della configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale, in ossequio al principio di offensività, la violenza o la minaccia devono essere reali

Reato di resistenza a pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato la violenza o la minaccia devono essere reali e idonee a coartare o ostacolare l’agire del pu. Questo, in estrema sintesi quando affermato dalla sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 18583/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Campobasso ricorre per Cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Campobasso che ha assolto una donna dal reato di cui all’art. 37 cod. pen perché il fatto non sussiste. Il pg deduce l’erronea interpretazione della norma penale avendo li tribunale ritenuto necessario, ai fini della configurabilità del reato, che la condotta penale produca come risultato quello di opporsi concretamente ed efficacemente all’atto che il pubblico ufficiale sta compiendo. Aggiunge, inoltre, che il Tribunale ha considerato la condotta dell’imputata con riferimento al rifiuto di seguire i pubblici ufficiali, mentre la contestazione riguardava le minacce rivolte dalla donna agli operanti. Rileva, infine, l’irrilevanza dello stato di agitazione sulla imputabilità della donna.

La decisione

Per gli Ermellini, però, il ricorso è inammissibile in quanto deduce un motivo versato in fatto e privo di un confronto critico con la sentenza impugnata, che, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, ha assolto l’imputata, reputando l’inidoneità delle espressioni dalla stessa pronunciate ad impedire o ostacolare il compimento dell’atto d’ufficio e l’insussistenza dell’elemento psicologico.

Conclusioni che secondo il collegio si fondano “su una interpretazione della norma incriminatrice coerente con il principio di offensività, dovendosi, al riguardo, ribadire che, ai fini della configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale, pur essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un ostacolo al compimento degli atti indicati (così, da ultimo, Sez. 6, n. 5459 del 08/01/2020), è, tuttavia, necessario che la violenza o la minaccia siano reali e connotino in termini di effettività causale la loro idoneità a coartare o ad ostacolare l’agire del pubblico ufficiale, in ragione del dolo specifico che deve sorreggere il comportamento del soggetto agente (Sez. 6, n. 45868 del 15/05/2012)”.
Parimenti corretta, conclude la S.C., dichiarando inammissibile il ricorso, è “la valutazione relativa alla insussistenza dell’elemento psicologico del reato, in considerazione della diversa finalità sottesa alla condotta tenuta dell’imputato”.

L’amministratore di condominio si può criticare  L’amministratore di condominio può essere criticato per il suo operato, i condomini hanno diritto di conoscere come gestisce i beni comuni

Amministratore di condominio: criticabile in assemblea

Il condomino può criticare l’amministratore di condominio in assemblea anche con espressioni forti che ne contestano l’operato. Esse non realizzano una condotta ingiuriosa o diffamatoria  se non sono finalizzate a offendere l’onore della persona e a gettare discredito sulla stessa. Lo ha previsto il Tribunale Paola nella sentenza n. 516/2024. 

Amministratore di condominio: danni per diffamazione e calunnia

Un amministratore di condominio agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno causato dalla condotta diffamatoria o calunniosa posta in essere nei suoi confronti da un condomino. L’attore narra di essere stato amministratore del condomino a cui appartiene il convenuto e di esservi rimasto in carica fino al 16 agosto 2018.

Durante l’assemblea condominiale tenutasi in questa data il condomino convenuto lo avrebbe diffamato e calunniato. A causa di questo episodio l’assemblea non lo ha confermato come amministratore e da quel momento racconta di aver iniziato a soffrire di turbamenti psicologici come professionista e come uomo.

L’attore chiede quindi al giudice di riconoscergli il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’articolo 2043 c.c. e il risarcimento del danno patrimoniale per il mancato rinnovo dell’incarico di amministratore.

Frasi rivolte all’operato non alla persona

Il condomino convenuto contesta in giudizio le richieste attoree. Costui fa presente che nel corso di un’assemblea tenutasi nel luglio 2018 era stata deliberata la revoca del mandato di amministratore per il venir meno del vincolo fiduciario. Tale decisione però non è stata recepita.

Il convenuto precisa di aver esercitato il legittimo diritto di critica, di non aver rivolto le espressioni che gli sono state attribuite alla “persona” dell’amministratore, ma alla sua attività gestoria.

Ingiuria discriminata dal diritto di critica

Il Tribunale rigetta le richieste attoree e precisa come la tutela dell’onore di una persona si scontri con il diritto di manifestazione del pensiero, sotto il profilo del diritto di cronaca e di critica.

Nello specifico “La critica rappresenta espressione del pensiero sotto forma di giudizio e di razionalità e si concretizza nella presa di posizione motiva e argomentata su accadimenti, fatti o circostanze dei più vari settori della vita sociale. Il riconoscimento dell’esimente del diritto di critica presuppone la verità del fatto, l’interesse sociale (pertinenza) e la correttezza formale del linguaggio (continenza). Proprio perché la critica esprime una maggior valenza valutativa, si deve tollerare in tale contesto anche un uso del linguaggio vivace, ironico, polemico, aspro e pungente.”

Verità, continenza e interesse a conoscere l’operato del gestore

Nel caso di specie la condotta del convenuto è senza dubbio ingiuriosa. Le espressioni utilizzate tuttavia sono rivolte all’operato dell’amministratore per aver tenuto condotte prevaricatorie nei confronti dei condomini e di terzi. Essa risulta quindi scriminata dal diritto di critica esercitato in un contesto caratterizzato da tensione e animosità. Dalle prove è emerso inoltre che le frasi rivolte dal convenuto all’amministratore e al suo operato sono “vere” e rispettose del requisito della continenza. I condomini inoltre hanno tutto l’interesse e diritto di conoscere l’operato di chi gestisce i beni comuni.

“L’avere dunque additato la persona dell’amministratore come “sgradevole” e l’aver qualificato le sue condotte alla stregua di “minacce” o come “estorsione” rientra nel novero del diritto del diritto critica, perché costituiscono chiara espressione di una valutazione (necessariamente soggettiva) di grave disapprovazione circa i comportamenti denunciati e le modalità di gestione dell’incarico di amministratore condominiale, e non dissimulano in alcun modo un intento di gettare discredito sulla personalità morale del soggetto preso di mira.”

 

Leggi anche: Il condominio nel codice civile

Allegati

giurista risponde

Furto di energia elettrica e circostanza aggravante In caso di furto di energia elettrica, la natura della circostanza aggravante dell’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a un pubblico servizio, di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p., ai fini di formularne la contestazione, ha natura auto-evidente o valutativa?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

 

Nel caso di furto di energia elettrica, stante la natura valutativa e non auto-evidente della circostanza ex art. 625, comma 1, n. 7, c.p., essa deve essere esplicitamente contestata al fine di permettere all’imputato di esercitare efficacemente il proprio diritto di difesa. – Cass., sez. V, 14 giugno 2024, n. 23918.

Rispetto alle modalità con le quali deve essere contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p. dell’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a un pubblico servizio sussiste un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Per una prima impostazione interpretativa, dato che l’aggravante è di natura auto-evidente in quanto l’energia elettrica, su cui ricade la condotta di sottrazione, è, di per sé, un bene funzionalmente destinato al pubblico servizi, sarebbe legittima la contestazione posta in essere senza una specifica ed espressa formulazione che la menzioni.

Altro orientamento, invece, siccome ritiene che l’aggravante predetta abbia natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli svelte del legislatore, non considera legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza l’aggravante configurata solo dal fatto che i beni oggetto di sottrazione siano destinati al pubblico servizio.

Rammentate le indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite “Sorge del 2019 (n. 24906) secondo cui “la contestazione in fatto non dà luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive”, diversamente dai casi in cui, per le aggravanti, la previsione normativa include componenti valutative, ossia modalità della condotta integrative dell’ipotesi aggravata solo in presenza di particolari connotazioni qualitative e quantitative, i Giudici di legittimità propendono per il secondo orientamento.

In particolare, pur considerando indubbia la rilevanza pubblicistica di un bene come l’energia, la Suprema Corte ha ritenuto che ciò che rileva ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui al n. 7 dell’art. 625 c.p. è la concreta destinazione (piuttosto che la natura) del bene a un pubblico servizio, elemento che non può essere considerato alla stregua di un connotato intrinseco e auto-evidente data la pluralità di destinazioni che il bene-energia può avere e che, dunque, richiede una valutazione da parte dell’interprete, anche riguardo a norme extra-penali, in continua evoluzione.

A conferma di tale interpretazione vi sarebbe la lettera stessa dell’art. 625 c.p. che prevede, al suo interno, la compresenza di due diverse ipotesi di aggravanti, quelle previste dal n. 7 e dal n. 7bis (relativa alla commissione del fatto su componenti metalliche o altro materiale sottratto a infrastrutture destinate all’erogazione), legate tra loro da un rapporto di specialità.

Ritenuta la natura valutativa della circostanza, risulta necessario che il capo di imputazione sia formulato anche con specifico riferimento a una serie di elementi descrittivi e qualificativi relativi alla circostanza aggravante dell’essere il bene sottratto destinato a pubblico servizio così da rendere pienamente esercitabili i diritti di difesa dell’imputato. Necessità che deriva anche dal livello di tutela preteso a riguardo dall’art. 6, par. 3, lett. a) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che individua, tra i canoni dell’equo processo, come elemento prodromico ai fini della difesa il rendere in concreto edotto l’imputato della prospettazione accusatoria formulata a suo carico in tutte le sue componenti.

Contributo in tema di “Furto di energia elettrica”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

ordine carcerazione

Ordine di carcerazione: cos’è e come funziona L’ordine di carcerazione è il provvedimento con cui il PM dispone la carcerazione di un soggetto condannato, ma non detenuto 

Ordine di carcerazione: definizione

L’ordine di carcerazione è un provvedimento di competenza del Pubblico Ministero. L’articolo 656 c.p.p al comma 1 dispone infatti che quando una sentenza di condanna deve essere eseguita il PM emette un ordine di esecuzione con cui dispone la carcerazione del condannato, se non ancora detenuto. Qualora il condannato si trovi già in stato di detenzione l’ordine di esecuzione viene comunicato al Ministero della Giustizia e notificato all’interessato.

Contenuto dell’ordine di carcerazione

Il comma 3 dell’articolo 656 c.p.p stabilisce il contenuto dell’ordine di carcerazione, che deve essere notificato sia al condannato che al suo difensore. Il provvedimento deve contenere in particolare i seguenti dati:

  • le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e qualsiasi altra informazione utile a identificarla;
  • l’imputazione;
  • il dispositivo del provvedimento di condanna e le disposizioni necessarie a darvi esecuzione;
  • l’avviso al condannato che ha il diritto di accedere ai programmi di giustizia riparativa;
  • l’avviso al condannato (se il processo si è svolto in sua assenza) del diritto di chiedere, entro 30 giorni dalla conoscenza della sentenza, la restituzione dei termini per poter impugnare la decisione o chiedere la rescissione del giudicato.

Ordine di carcerazione per madre di figli minori

Qualora l’ordine di esecuzione venga emanato nei confronti di una madre con figli minori il provvedimento stesso deve essere comunicato anche al Procuratore della Repubblica che opera presso il Tribunale dei Minorenni che ha la competenza nel luogo in cui deve essere eseguita la sentenza.

Modalità di esecuzione dell’ordine di carcerazione

Il comma 4 dell’articolo 656 c.p.p, per quanto riguarda  le modalità di esecuzione dell’ordine di carcerazione, rinvia all’art. 277 c.p.p. La norma, prevista per le misure cautelari, ma estensibile anche all’ordine di carcerazione, stabilisce che l’esecuzione debba avvenire nel rispetto della salvaguardia dei diritti della persona che vi è sottoposta. L’esercizio dei diritti della persona però non deve essere incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto.

Liberazione anticipata

Quando il PM deve emettere l’ordine di carcerazione deve prima effettuare dei controlli.

Qualora il PM rilevi che il soggetto nei cui confronti si deve eseguire l’ordine  di carcerazione, tranne che in casi particolari, computando le detrazioni di cui all’art. 54 Legge n. 354/1975 (che vengono applicate se il detenuto partecipi all’opera di rieducazione), debba ancora scontare una pena detentiva di 4, 5 e 6 anni nei casi e per i reati indicati nel comma 5 dell’art. 656 c.p.p, previa verifica dell’esistenza di periodi di custodia cautelare o di pena fungibile, trasmette gli atti al Magistrato di Sorveglianza. Quest’ultimo, in presenza di presupposti di legge, provvede con ordinanza alla liberazione anticipata del soggetto. Il PM può trasmettere gli atti al Magistrato di Sorveglianza per la decisione sulla libertà anticipata anche se il condannato si trova in stato di custodia cautelare in carcere.

Detenzione domiciliare: in quali casi?

Il PM, prima di emettere l’ordine di esecuzione può chiedere al Magistrato di Sorveglianza di disporre in via provvisoria, fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, la detenzione domiciliare se:

  • il condannato ha un’età pari o superiore a 70 anni e la pena residua da espiare è compresa tra i due e i 4 anni,
  • il condannato si trova agli arresti domiciliari per gravissimi motivi di salute.

Sospensione dell’esecuzione

Il PM, tranne che in casi particolari, se rileva che la pena detentiva da applicare al condannato, anche come residuo di una pena maggiore non supera i 3, 4 e 6 anni, nei casi specificati dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p, può sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione.  Se però il condannato si trova agli arresti domiciliari, in presenza dei presupposti specificati dal comma 10, il PM può chiedere al Tribunale di Sorveglianza di applicare una misura alternativa alla detenzione (articolo 47, 47 ter e 50 comma 1 legge n. 354/1975).

 

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giurista risponde

Reato di diffamazione e relativi elementi essenziali È offensiva l’espressione ‘pezzente’ proferita nel corso di un’udienza di un processo civile in presenza degli avvocati dell’offeso?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

Difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione quando non è ravvisabile indicatore alcuno circa l’idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, a incidere sulla reputazione del destinatario, da intendersi come patrimonio di stima, fiducia e credito accumulato nella società e nell’ambiente in cui quotidianamente vive. – Cass., sez. V, 25 giugno 2024, n. 25026.

Premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività dell’espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata, la portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, e, in caso di esclusione dell’offensività predetta può pronunziare sentenza di assoluzione dell’imputato; si rammenta che il reato di diffamazione attiene alla tutela del bene giuridico della reputazione intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile.

Il principio di offensività, di rango costituzionale, costituisce, dunque, il criterio interpretativo-applicativo per il giudice nella verifica della riconducibilità di un determinato comportamento al paradigma di una norma incriminatrice al fine di circoscrivere la punibilità ai casi in cui esso presenti concreta efficacia o potenzialità lesiva (così come precisato dalla Corte costituzionale con sent. 211/2022 e 225/2008). L’applicazione di tale principio, in tema di diffamazione, richiede che la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento; elemento non sussistente nel caso di specie, ove la parola “pezzente” risulta pronunciata isolatamente, in modo improvviso e occasionale e, pertanto, non dà adito ad alcun un effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita della persona offesa e sul riconoscimento della sua dignità nella realtà socio-culturale circostante.

Contributo in tema di “Reato di diffamazione ed elementi essenziali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

ammonimento del questore

Ammonimento del Questore Ammonimento del Questore: misura preventiva applicata in presenza di atti idonei a realizzare i reati di stalking, revenge porn e violenza 

Ammonimento del Questore: cos’è

L’ammonimento è una misura preventiva che viene essere adottata dal Questore. La misura ha l’obiettivo di tutelare la vittima dalle conseguenze derivanti dalla commissione di certi reati.

L’ammonimento entra in gioco infatti quando un soggetto è vittima di reati specifici:

  • atti persecutori o stalking (art. 612 bis c.p.);
  • violenza domestica (una o più condotte gravi di violenza fisica, sessuale, economica e psicologica commesse in presenza di minori all’interno della famiglia, del nucleo famigliare o tra soggetti legati da vincoli affettivi);
  • diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn).

In cosa consiste l’ammonimento?

Dal punto di vista pratico l’ammonimento si traduce in un’intimazione che il Questore rivolge al presunto autore delle condotte illecite. Con l’ammonimento il soggetto  viene intimato a non tenere più condotte violente, minacciose, moleste e intrusive della vita altrui. Il soggetto inoltre viene invitato e indirizzato presso centri specializzati presenti sul territorio per aiutarlo a comprendere il disvalore sociale e penale del suo comportamento.

Disciplina

La disciplina di riferimento per l’istituto dell’ammonimento del Questore è la legge n. 38/2009, che ha contenuto il decreto legge n. 11/2009. Essa ha convertito in legge il decreto legge n. 11/2009 recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto ai reati di violenza sessuale e atti persecutori.

L’articolo 8 del decreto n. 11/2009, dedicato all’ammonimento del Questore, stabilisce nello specifico che, fino a quando non è proposta querela per il reato di atti persecutori di cui all’articolo 612 bis del codice penale, la persona offesa (o chi ne ha interesse) può rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza esponendo i fatti e chiedendo al Questore di ammonire l’autore della condotta.

La richiesta deve essere suffragata da prove che dimostrino la natura illecita della condotta del soggetto agente.

Il Questore, una volta assunte le necessarie informazioni dagli organi investigativi, sentite le persone informate sui fatti o dopo aver messo a confronto vittima e accusato, se ritiene che l’istanza sia fondata, ammonisce oralmente il soggetto responsabile invitandolo a tenere una condotta più rispettosa delle norme di legge e redigendo apposito verbale. Una copia del verbale viene quindi rilasciata alla vittima che ha richiesto l’ammonimento e una al soggetto ammonito. In questa sede il Questore può anche valutare se è il caso di procedere con provvedimenti in materia di armi e munizioni eventualmente detenuti dal soggetto ammonito.

Reato di stalking: conseguenze dell’ammonimento

L’articolo 8 del decreto n. 11/2009 ai commi 3 e 4 ricollega all’ammonimento del Questore due conseguenze di rilievo:

  • se un soggetto che è già stato ammonito commette il reato di atti persecutori contemplato dall’articolo 612 bis c.p la pena applicata nei suoi confronti è aumentata;
  • quando un soggetto è già stato ammonito dal Questore per il reato di atti persecutori di quell’articolo 612 bis c.p si procede d’ufficio.

Vantaggi dell’ammonimento del Questore

L’ammonimento del Questore presenta tutta una serie di vantaggi importanti per le vittime dei reati per i quali può essere richiesto.

  • Si tratta prima di tutto di una misura preventiva finalizzata ad ammonire il soggetto e a dissuaderlo dal reiterare certe condotte. Il Questore infatti quando ammonisce il soggetto lo informa anche su quali saranno le conseguenze, anche di natura penale a cui andrà incontro, se dovesse persistere nel tenere certi comportamenti.
  • In genere per ottenere l’ammonimento non è necessario attendere molto tempo. In questo modo si offre alla vittima una tutela rapida.
  • Chi si rivolge al Questore per ottenere l’ammonimento non deve sostenere alcuna spesa.
  • Per la presentazione dell’istanza non occorre l’assistenza di un legale.
  • La segnalazione può essere presentata presso uno dei tanti Uffici della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri.
  • La presentazione della segnalazione non avvia un procedimento penale, perché si tratta di una misura nata per agire con gradualità per scongiurare l’escalation di certe condotte.

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giurista risponde

Competenza delitto di lesioni personali dopo la riforma Cartabia Delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta: chi è competente?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

 

Se la competenza per materia per il delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta, dopo le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, permanga in capo al tribunale ovvero sia stata attribuita dalla stessa norma al giudice di pace.

Appartiene al giudice di pace, dopo l’entrata in vigore delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia in ordine al delitto di lesione personale nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento. – Cass., Sez. Un., 28 marzo 2024, n. 12759.

Nel caso di specie, la Corte d’appello territoriale confermava la sentenza con cui il Tribunale, sul presupposto della sua competenza, aveva dichiarato la responsabilità dell’imputato per il delitto di cui all’art. 582 c.p., per aver cagionato lesioni personali alla persona offesa, giudicate guaribili in trenta giorni.

Investita del ricorso, la Quinta Sezione della Corte di cassazione ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto in ordine alla individuazione del giudice competente, relativamente al delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore ai venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, quando il fatto è perseguibile a querela, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Secondo un primo orientamento, il giudice di pace è competente per il delitto di lesioni personali, anche nel caso di malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, sempre che la perseguibilità sia a querela a norma dell’art. 582 c.p. attualmente in vigore.

A fondamento di questo indirizzo, una interpretazione estensiva, o “parzialmente analogica” dell’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 274/2000, coerente con la finalità deflattiva della Riforma e con la persistente vigenza del D.Lgs. 274/2000, istitutivo della competenza penale del giudice di pace.

Secondo un diverso orientamento, fondato sulla interpretazione letterale del combinato disposto del “nuovo” art. 582, comma 2, c.p. e dell’art. 4 D.Lgs. 274/2000, il giudice di pace non ha più alcuna competenza in materia di lesioni personali, poiché le ipotesi perseguibili a querela sono ora previste tutte nel primo comma dell’art. 582 c.p. e dall’art. 4, limite di ogni altro metodo ermeneutico, ivi compreso quello dell’interpretazione estensiva.

La Suprema Corte, dichiarato inammissibile il ricorso, ha ritenuto che nella interpretazione delle citate disposizioni occorra farsi guidare da una interpretazione letterale, limite insuperabile anche qualora si proceda a una interpretazione estensiva, ai sensi degli artt. 12 preleggi e 101, comma 2, Cost. Tuttavia, il rispetto della lettera della legge impone di esaminare la singola disposizione in modo sistematico, per individuare il preciso significato e l’ambito applicativo della stessa, ovvero considerando tutte le norme riferite alla disciplina dell’identica vicenda che si pongano tra loro in rapporti di reciproca interferenza, dal momento che le disposizioni normative non possono mai essere prese in considerazione isolatamente, dovendo sempre essere valutate come componenti di un “insieme” tendenzialmente unitario, in coordinamento con le altre riferite alla disciplina dell’identica vicenda. Per tale ragione, la Suprema Corte afferma che l’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, va letto in combinato disposto con l’art. 15, comma 1, L. 24 novembre 1999, secondo una interpretazione sistematica, che valorizza il dato testuale risultante dal combinato disposto delle due previsioni normative.

In questa prospettiva, è possibile ritenere che, tra i possibili significati attribuibili al dato testuale del combinato disposto delle due previsioni normative, rientra senz’altro anche quello secondo cui sono devoluti alla competenza del giudice di pace i delitti consumati o tentati di lesione personale, quando la procedibilità per gli stessi sia a querela e fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento.

*Contributo in tema di “Delitto di lesioni personali e competenza”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

perdono giudiziale

Perdono giudiziale Il perdono giudiziale è un istituto di diritto penale che riguarda i minori la cui disciplina è contenuta nell’art. 169 c.p.

Perdono giudiziale: cos’è

Il perdono giudiziale è un istituto di diritto penale riservato ai minorenni. Grazie al perdono giudiziale il minore evita il rinvio a giudizio o la pronuncia di condanna se il processo è già stato avviato nei suoi confronti.

Ratio del perdono giudiziale

L’istituto attua in questo modo il contenuto della disposizione dell’articolo 31 della Costituzione. Essa dispone nello specifico che la Repubblica Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.” 

Grazie infatti ai benefici previsti da questo istituto il minore non subisce lo stigma della colpevolezza e le conseguenze negative che possono derivare dall’applicazione di una pena detentiva o pecuniaria. Il processo penale minorile del resto si fonda su obiettivi diversi rispetto a quello ordinario. Il minore, in misura ancora maggiore rispetto all’adulto, deve essere rieducato e reinserito in un contesto sociale positivo.

Perdono giudiziale: come funziona

Per comprendere il funzionamento base del perdono giudiziale è necessario analizzare l’art. 169 c.p, che lo disciplina.

Articolo 169 c.p.: perdono giudiziale per i minori di anni 18

Il comma 1 della norma dispone che: 1.Se, per il reato commesso dal minore degli anni diciotto, la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a cinque euro, anche se congiunta a detta pena, il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio, quando, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’articolo 133, presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. 2. Qualora si proceda al giudizio, il giudice può, nella sentenza, per gli stessi motivi, astenersi dal pronunciare condanna.” 

La norma dispone in pratica che il giudice, nel disporre il perdono giudiziale, è tenuto a emettere un provvedimento irrevocabile con cui decide l’estinzione del reato, disponendo di non rinviare a giudizio il minore o astenendosi dal pronunciare la condanna, se il giudizio è stato intrapreso ed è giunto a sentenza.

Elementi di valutazione

Per la concessione del perdono giudiziale però occorre la sussistenza dei seguenti presupposti richiesti dalla norma, ossia:

  • che il reato sia stato commesso da un minore di età;
  • che per quel reato la legge stabilisca una pena restrittiva della liberà personale non inferiore alla durata di due anni o una pena pecuniaria non inferiore a 5 euro, anche congiunta alla precedente.

Un altro presupposto fondamentale che il giudice deve valutare per decidere di concedere o meno il perdono giudiziale sono le circostanze previste dall’articolo 133 c.p da cui desumere la gravità del reato. Tra queste rilevano soprattutto la condotta contemporanea e successiva al reato, i motivi che hanno spinto il minore a delinquere, la presenza di precedenti penali e giudiziari in generali, ma anche l’intensità del dolo e della colpa e la gravità del danno cagionato.Il giudice infatti può concedere il perdono giudiziale, se dalla valutazione di questi elementi presume che il minore non commetterà in futuro ulteriori reati.

Occorre però che il Giudice motivi la sua decisione, sia in caso di rigetto che di concessione della misura. Lo ha specificato nei seguenti termini la Cassazione nella sentenza n. 26025/2022 “perdono giudiziale e sospensione condizionale costituiscono istituti che comportano l’estinzione del reato… la finalità di recupero del minore, coessenziale alla stessa natura del procedimento minorile impone che ogni volta che, anche in corso di causa … possa prospettarsi la presenza dei presupposti applicativi del perdono giudiziale, sussiste in capo al giudice l’onere di esplicitare le ragioni sottese alla concessione o mancata concessione del beneficio.” 

Limiti applicativi

Nel concedere il perdono giudiziale il giudice si scontra inoltre con due limiti, previsti rispettivamente dai commi 3 e 4 dell’art. 169 c.p.

  1. Il primo limite è indicato dal comma 3 dell’ 169 c.p. L’istituto non può essere applicato nei casi previsti dal n. 1, primo capoverso dell’art. 164 c.p ossia se il minore è già stato condannato a pena detentiva per un delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione o se il minore è un delinquente o contravventore abituale o professionale.
  2. Il secondo limite invece prevede che il perdono giudiziale non possa essere concesso per più di una volta, salvo eccezioni particolari. 

Effetti e conseguenze eventuali

Il perdono giudiziale determina l’estinzione del reato, ma il minore, fino a 21 anni di età, resta iscritto nel casellario giudiziale. L’intervenuta sentenza di perdono giudiziale non impedisce in ogni caso alla vittima del reato di agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno subito a causa della condotta del minore.

 

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recidiva

Recidiva: il giudice deve motivare specificamente La Cassazione ricorda che in tema di recidiva è richiesta al giudice una specifica motivazione e in tal caso è escluso il sindacato di legittimità

Recidiva

In materia di recidiva è richiesta al giudice un specifica motivazione. Lo ha ricordato la seconda sezione penale nella sentenza n. 19125/2024 dichiarando inammissibile il ricorso di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di appello di Firenze, confermava la sentenza di primo grado che aveva ritenuto un uomo responsabile dei reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 5 comma 9 D.Lgs. n. 231/2007 (ora art. 493-ter cod. pen.) e 110- 482 cod. pen. aggravati da recidiva reiterata.

L’uomo mediante il proprio difensore adisce la Cassazione, lamentando violazione di legge penale in relazione al riconoscimento della recidiva, in quanto la Corte di appello si era limitata ad evidenziare l’esistenza di precedenti penali dell’imputato, specifici e vicini nel tempo, non spiegando in alcun modo per quali ragioni la condotta avrebbe dovuto essere ritenuta di un’offensività tale da dover ritenere la pericolosità del soggetto aumentata in raffronto con i suddetti precedenti penali.

Ricorso inammissibile

Per gli Ermellini il ricorso è inammissibile. Il giudice territoriale infatti ha fornito congrua ed esaustiva motivazione evidenziando che il numero e la specificità dei precedenti del ricorrente non apparivano “una ricaduta occasionale bensì un pervicace percorso criminale intrapreso dall’imputato nel lontano 1985”.

Trattasi, pertanto, di motivazione logica, sulla quale non è ammesso il sindacato di legittimità.

Per cui il ricorso è inammissibile e il ricorrente condannato anche al pagamento di 3mila euro a favore della Cassa delle ammende.

Allegati

giurista risponde

Millantato credito e traffico di influenze illecite Sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito e il reato di traffico di influenze illecite?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

Non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma 2, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della L. 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346bis c.p., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t), della L. 3/2019; le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, comma 2, c.p., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice. – Cass., Sez. Un., 15 maggio 2024, n. 19357.

Il caso da cui scaturisce il rinvio alle Sezioni Unite Penali è quello di un soggetto, detenuto in carcere, il quale convinceva un altro recluso a promettergli del denaro in cambio dell’intermediazione che il primo avrebbe esercitato su di un agente penitenziario, rimasto ignoto, per evitare che l’altro recluso fosse trasferito in altra struttura detentiva, nonostante tale trasferimento non fosse stato programmato dall’amministrazione penitenziaria. Nelle more del giudizio – nel quale inizialmente si procedeva per il delitto ex art. 319quater c.p. – interveniva la L. 3/2019 che introduceva il reato di cui all’art. 346bis c.p., per cui l’imputato veniva condannato dalla Corte d’Appello che riformulava la condanna di primo grado.

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite è relativo alla possibilità di ravvisare continuità normativa tra l’abrogata fattispecie di millantato credito (art. 346 c.p.) e la nuova fattispecie di traffico di influenze illecite (art. 346bis c.p.), con particolare riguardo alla punibilità del “venditore di fumo” (ovvero del soggetto che chieda ad un soggetto denaro o altre utilità in cambio della sua intermediazione presso un pubblico ufficiale, quanto tuttavia tale influenza non esista, configurandosi la stessa quale mera occasione per ingannare il privato).

La soluzione positiva si fondava su due ordini di considerazioni. In primo luogo la volontà del legislatore del 2019 sarebbe stata quella di conformarsi agli obblighi di criminalizzazione imposti dalle fonti sovranazionali e, pertanto, l’introduzione dell’art. 346bis c.p. dovrebbe “ampliare” lo spettro delle condotte punibili, certamente non restringerlo. In secondo luogo si sostiene che le condotte che l’art. 346, comma 2, c.p. riconduceva al “pretesto” di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare, coinciderebbero con le “relazioni (reali o) asserite” di cui all’art. 346bis c.p.

La soluzione negativa, invece, parte innanzitutto dalla considerazione che, innanzitutto, ci sarebbe diversità strutturale già nei beni tutelati tra il millantato credito di cui all’art. 346, comma 2 c.p. ed il nuovo 346bis c.p.. Infatti se nella prima norma assume una rilevanza centrale la tutela del patrimonio del compratore “circuito” dalla millanteria, la nuova disposizione è incentrata sull’anticipazione della tutela del buon andamento della p.a. che, nel caso del venditore di fumo, non risulterebbe affatto intaccata. A seguire la medesima giurisprudenza ha a più riprese osservato che non può farsi coincidere il “pretesto” del vecchio millantato credito con le “relazioni asserite” del traffico di influenze illecite. La prima espressione, infatti, designa un rapporto che l’intermediario sa inesistente e che viene utilizzato per raggirare il privato “compratore di fumo”; la seconda espressione delinea invece una serie di rapporti dell’intermediario i quali possano far aspirare il privato al favorevole esercizio del patrimonio pubblico, pure se tale risultato non si configuri come sicuro.

Le Sezioni Unite, investite della questione controversa in giurisprudenza, sposano la tesi della discontinuità tra le due fattispecie di reato, precisando quanto segue. Innanzitutto la differenza strutturale tra le due fattispecie emerge anche solo dalla considerazione che, mentre il millantato credito era reato monosoggettivo, il nuovo traffico di influenze illecite, ai sensi del comma 2, è reato necessariamente plurisoggettivo nel quale entrambe le parti vengono sanzionate se c’è la relazione con il pubblico ufficiale. Si riafferma inoltre che, per quanto concerne l’offensività delle condotte di cui all’art. 346bis c.p., ora il bene giuridico tutelato è certamente il solo buon andamento della pubblica amministrazione che, nel caso di un’influenza solo millantata, non sarebbe di certo offeso. Non possono essere dirimenti, in senso contrario, le pur valide obiezioni che valorizzano l’astratta volontà del legislatore di ampliare le ipotesi di reato punibili e non certo di restringerle: sul punto, infatti, per pacifico insegnamento giurisprudenziale si evidenzia che anche l’interpretazione sistematica non può comunque ignorare la formulazione ed il significato letterale delle norme di legge (cfr. Cass., Sez. Un., 19 maggio 1999, n. 11).

Per quanto concerne l’offesa al patrimonio del “compratore di fumo” – che la giurisprudenza prevalente vedeva offeso nel vecchio reato di millantato credito – la Corte si occupa anche della punibilità della condotta del “venditore di fumo” a titolo di truffa. La questione impone di valutare se tra il delitto di truffa e l’abrogata fattispecie di millantato credito (e, in particolare, delle condotte di cui al secondo comma) sussista un rapporto di specialità e, quindi, se possa ravvisarsi un fenomeno di abrogatio sine abolitione. Il rapporto di specialità ex art. 15 c.p., secondo le conclusioni sulle quali si è attestata la giurisprudenza (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2017, n. 20664), va investigato alla luce della comparazione della struttura astratta delle fattispecie, non essendo valorizzabili, per un deficit di legalità, i criteri di assorbimento e consunzione.

Nel caso in esame le Sezioni Unite evidenziano come, confrontando la struttura delle due fattispecie, tra esse non possa rinvenirsi un rapporto di specialità unilaterale ma, piuttosto, di specialità bilaterale poiché ognuna presenta elementi specializzanti rispetto all’altra: il pretesto di dover comprare la funzione nel millantato credito, l’ingiusto profitto e l’induzione in errore nella truffa). Tale rapporto di interferenza esclude che tra i due reati possa individuarsi una continuità temporale con “riespansione” della norma generale e, pertanto, la condotta del venditore di fumo sarà punibile purché nel processo sia stato contestato anche quest’ultimo reato e ne siano stati accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi.

(*Contributo in tema di “Millantato credito e traffico di influenze illecite”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)