auto ferma

Auto ferma: va sempre assicurata Auto ferma: il decreto n. 184/2023 prevede l'obbligo assicurativo anche per le auto non circolanti all'interno di aree private

Auto ferma e obbligo di assicurazione

L’auto ferma deve essere comunque assicurata. Non rilevano ai fini dell’obbligo assicurativo le caratteristiche del veicolo, il terreno sul quale viene utilizzato o il fatto che sia in movimento o fermo.

A stabilirlo è il nuovo comma 1 bis dell’art. 122 del Codice delle Assicurazioni private, come modificato dal decreto legislativo n. 184 del 22 novembre 2023. Esso completa la formulazione del nuovo comma 1 dell’art. 122, che così dispone: “Sono  soggetti  all’obbligo  di  assicurazione  per  la responsabilità civile verso i terzi prevista dall’articolo 2054  del codice civile i veicoli di cui all’articolo 1, comma 1, lettera rrr), qualora utilizzati conformemente alla funzione del veicolo in  quanto mezzo di trasporto al momento dellincidente.”

Questo obbligo, in base al nuovo comma 1 ter si applica anche ai “veicoli utilizzati esclusivamente in zone  il cui accesso è soggetto a restrizioni. Resta valida, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui al comma 1, la stipula, da parte di soggetti pubblici o  privati, di polizze che coprono il rischio di una pluralità di veicoli secondo la prassi contrattuale in uso, quando utilizzati per le attività proprie di tali  soggetti, sempre che i veicoli siano analiticamente individuati nelle polizze.”

Recepimento direttiva 2021/2018

Il decreto apparso in GU nel novembre 2023 ha recepito la Direttiva UE 2021/2018 del Parlamento e del Consiglio Europeo e che reca modifiche alla Direttiva 2009/103/CE sull’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione degli autoveicoli e sul controllo dell’obbligo di questa responsabilità.

Obbligo assicurativo: casi di esonero

Il nuovo articolo 122 del Codice delle Assicurazioni stabilisce in quali casi e per quali veicoli non è obbligatorio assicurare il veicolo.

Le deroghe si riferiscono in particolare:

  • ai veicoli formalmente ritirati dalla circolazione;
  • ai veicoli che non possono essere utilizzati in virtù di un divieto permanente o temporaneo perché lo ha stabilito una misura adottata dall’autorità competente nel rispetto della normativa in vigore;
  • ai veicoli che non sono idonei all’uso come mezzo di trasporto;
  • ai veicoli il cui utilizzo è stato sospeso su richiesta dei soggetti indicati dal comma 3 dell’ 122 del Codice delle Assicurazioni (proprietario, usufruttuario, acquirente con patto di riservato dominio e locatario in caso di locazione finanziaria).

Auto ferma: sanzioni per chi non la assicura

A coloro che trasgrediscono il suddetto obbligo assicurativo anche in caso di veicolo fermo   si applicano le seguenti sanzioni:

  • 866,00 euro, importo che beneficio di uno sconto se si paga entro il termine di 5 giorni dalla notifica;
  • da un minimo di 866,00 a 3.464,00 euro se il mezzo è una macchina agricola. 

Obbligo assicurativo veicoli fermi: da quando è in vigore

In base all’art. 4 del decreto legislativo n. 184/2023 le disposizioni in esso contenute sono in vigore dal 23 dicembre 2023. Il decreto Milleproroghe n. 215 del 30 dicembre 2023 ha stabilito una proroga per quanto riguarda l’obbligo assicurativo che riguarda le sole macchine agricole. Per loro infatti l’assicurazione è obbligatoria anche se sono ferme e stazionano in un’area privata dal 1° luglio 2024.

Problemi applicativi

Le novità introdotte dal decreto e previste per tutelare le vittime di incidenti stradali, non hanno vita facile a causa di alcuni problemi applicativi.

Prima di tutto le compagnia assicurative non  offrono polizze per assicurare veicoli fermi, m che non circolano o che vengono utilizzati all’interno di certe auto private. Alcune macchine agricole infatti, destinate ad attività specifiche all’interno di aree circoscritte e non circolanti, non hanno neppure l’obbligo della targa per cui non possono essere assicurate. Sarebbe necessaria una maggiore precisione dei termini impiegati nella normativa per un’applicazione più chiara delle regole.

 

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L’assoluzione penale non esclude il risarcimento La Cassazione conferma la linea rigorosa: l’assoluzione nel giudizio penale non esclude il risarcimento del danno in ambito civile

Responsabilità penale, civile e risarcitoria

La Cassazione, con la sentenza del 19 settembre 2024 n. 25200, si è pronunziata sulla vicenda di un ragazzo deceduto per folgorazione a causa di un lampione della rete pubblica che presentava dei fili scoperti su cui si era appoggiato per andare a recuperare un pallone da calcio.

Al di là della triste vicenda, si pone il problema non solo della responsabilità penale, ma anche di quella civile e risarcitoria ex art. 2051 cod. civ.  da ripartire tra diversi responsabili (Comune/direttore dell’ufficio tecnico; direttore dei lavori della ditta esecutrice dell’impianto; ditta incaricata della manutenzione) e del rapporto tra responsabilità civile e penale.

Assoluzione penale

In relazione a tali fatti, sul fronte penale per omicidio colposo, vi sono stati tre procedimenti: uno nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune, un altro nei confronti del direttore dei lavori titolare della ditta esecutrice dell’impianto di illuminazione che serviva il piazzale ed un terzo nei confronti della ditta con cui il Comune aveva stipulato una convenzione avente ad oggetto la manutenzione degli impianti di illuminazione siti sul territorio comunale. I primi due procedimenti si concludevano con pronuncia assolutoria, mentre il terzo per condanna per omicidio colposo.

Responsabilità ex art. 2051 c.c.

Sul fronte civile, invece, la questione principale riguarda l’individuazione della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. del Comune, anche in relazione all’eventuale giudicato penale di assoluzione.

Giova rilevare che è ammissibile intentare un giudizio civile anche in caso di sentenza di assoluzione in materia penale: l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni, a sentenza di condanna. Ciò anche in considerazione del diverso atteggiarsi sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale, in ambito civile.

Invero, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione “perché il fatto non sussiste” implica che nessuno degli elementi integrativi della fattispecie criminosa sia stato provato e, entro questi limiti, esplica efficacia di giudicato nel giudizio civile, sempre che la parte nei cui confronti l’imputato intende farla valere si sia costituita, quale parte civile, nel processo penale.

Nel caso di specie, nel processo penale il Comune, citato come responsabile civile, era chiamato a rispondere del fatto penalmente illecito contestato al funzionario, mentre nel processo civile il Comune è stato chiamato a rispondere per il fatto proprio in relazione alla custodia di un bene di proprietà comunale.

La colpa dei singoli dipendenti del Comune è irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest’ultimo, la quale è pressoché obiettiva e prescinde dalle condotte negligenti dei singoli.

Inoltre, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.

Esclusione della responsabilità

Quanto alla responsabilità civile del Comune, la responsabilità del custode può essere esclusa:

  1. dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo;
  2. dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo, caratterizzate, rispettivamente la prima dalla colpa ex 1227 cod. civ. (bastando la colpa del leso) o la seconda dalle oggettive imprevedibilità e non prevedibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

Nesso causale tra cosa in custodia ed evento

Ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., il Comune è custode dell’immobile e dei suoi impianti fissi e come tale responsabile oggettivamente.

Ai fini della configurabilità di responsabilità, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.

Responsabilità del custode: confermata la linea rigorosa

La sentenza si inserisce nel solco della giurisprudenza consolidata in materia di responsabilità da cose in custodia, confermando l’orientamento rigoroso nei confronti degli enti pubblici.

La decisione sottolinea l’importanza della manutenzione degli impianti pubblici e la necessità per i Comuni di adottare misure preventive adeguate. Il fatto che il lampione fosse privo di corpo illuminante e in condizioni fatiscenti evidenzia una grave carenza nella manutenzione, che ha portato alla tragica conseguenza.

In conclusione, la sentenza non solo sancisce che è ammissibile, nonostante una sentenza di assoluzione in ambito penale,  essere condannati al risarcimento dei danni in ambito civile ma questa decisione della Cassazione rafforza la posizione dei cittadini nei confronti degli enti pubblici, imponendo a questi ultimi un elevato standard di diligenza nella gestione e manutenzione dei beni di loro proprietà.

terzo trasportato

Terzo trasportato: va risarcito se il conducente è ubriaco Il terzo trasportato da un conducente ubriaco va risarcito se vittima di sinistro, il suo concorso di colpa va valutato caso per caso

Terzo trasportato e diritto al risarcimento

Il terzo trasportato da un conducente in stato di ebbrezza se rimane coinvolto in un sinistro stradale non ha sempre colpa a titolo di concorso (art. 1227 c.c). In questi casi non si può escludere il diritto del terzo al risarcimento del danno. Spetta al giudice di merito, per quantificare il danno, accertare caso per caso, l’eventuale concorso di colpa della vittima. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 24920/2024.

Lesioni da sinistro stradale e risarcimento del danno

Un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo, resta vittima di un sinistro stradale e riporta lesioni personali. Per i danni subiti il terzo chiede il risarcimento al vettore e all’assicurazione del veicolo.

Terzo trasportato responsabile al 50%

Il Tribunale la Corte d’appello ritengono che il trasportato sia responsabile al 50%, ai sensi dell’art. 1227 c.c. Lo stesso ha infatti accettato di farsi trasportare da un conducente in evidente stato di ebrezza.

Parte soccombente ricorre in Cassazione lamentando la mancata dimostrazione dello stato di ebrezza del conducente, così come la mancata dimostrazione della percepibilità di detta condizione.

La colpa del terzo trasportato va valutata nel singolo caso

La Cassazione richiama dapprima alcuni importanti principi in materia di RCA sanciti dalla Direttiva 2009/103 e poi una sentenza della Corte di Giustizia UE. Conclusa l’analisi di questi testi gli Ermellini affermano due importanti principi di diritto ai fini del decidere.

  • Il primo afferma che: l‘art. 1227, comma primo, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale ed astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente. Una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, § 3 della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, “qualsiasi disposizione di legge (…) che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol”. Spetterà dunque al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore”.
  • Il secondo invece sancisce che “l’accertamento della esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.”.

 

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responsabilità medica

Responsabilità medica: azione diretta anche per le vecchie polizze Azione diretta contro l’assicurazione: può essere esercitata dal danneggiato anche in relazione alle vecchie polizze 

Azione diretta contro le compagnie dal 16 marzo 2024

Responsabilità medica: l’azione diretta contro la Compagnia di assicurazione del medico o della struttura sanitaria  è possibile dal 16 marzo 2024, ossia dalla data di entrata in vigore del DM n. 232/2023, anche se la polizza assicurativa è stata stipulata in data anteriore.

Lo hanno affermato di recente due giudici di merito: il Tribunale di Cagliari nell’ordinanza n. 15464/ 2024 e il Tribunale di Milano in due ordinanze, una del 26 agosto 2024, in commento, e una del 10 settembre 2024.

Azione diretta operativa: occorre adeguare le polizze?

Nell’ordinanza del 26 agosto 2024 il Tribunale di Milano precisa che l’art. 12 della legge n. 24/2017 dedicato all’azione diretta del danneggiato al comma 6 recita che: “Le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 6 dell’articolo 10 con il quale sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie.”

Esso prevede quindi, in sostanza, che l’azione diretta del danneggiato, in caso di responsabilità sanitaria, sia possibile a partire dalla data di entrata in vigore del decreto, senza disporre altre prescrizioni. Esso in effetti si limita a stabilire i requisiti minimi delle polizze assicurative delle strutture sanitarie, socio sanitarie e degli esercenti le professioni sanitarie, ma non richiede l’adeguamento delle condizioni contrattuali delle polizze assicurative.

Letteralmente quindi la norma nulla dispone in ordine alle eccezioni opponibili in sede di merito in relazione alle polizze sanitarie che non rispettano i requisiti minimi stabiliti dal DM n. 232/2023.

Eccezioni opponibili: vanno valutate caso per caso

Il Tribunale di Milano si occupa del tema dell’opponibilità delle eccezioni solo in via incidentale. Si tratta in effetti di una materia delicata, da valutare caso per caso nell’ambito del giudizio di merito.  Questa situazione sembra dare vita a una separazione temporale dell’azione diretta, che è applicabile sempre e immediatamente rispetto alle eccezioni opponibili, da valutare singolarmente ogni volta.

In relazione ai giudizi successivi al 16 marzo 2024, si potrebbe quindi creare una situazione particolare caratterizzata dal libero avvio dell’azione diretta nei confronti di tutte le compagnie, senza che rilevi la conformità delle polizze allo schema di legge e quindi senza limiti per i contratti stipulati prima del decreto.

 

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parcheggi strisce bianche

Parcheggi strisce bianche: non sono obbligatori nei centri storici Parcheggi strisce bianche gratuiti: non devono essere istituiti obbligatoriamente dai Comuni in certe aree tutelate e di valore

Parcheggi strisce bianche: non c’è l’obbligo in certe aree

I parcheggi a strisce bianche gratuiti non sono obbligatori all’interno delle aree urbane di carattere storico, artistico o ambientale, comprese le aree circostanti? Su questa domanda di non poco rilievo, soprattutto nei periodi di maggiori afflusso turistico, è intervenuta di recente la Corte di Cassazione.

Gli Ermellini sul punto sono piuttosto chiari, anche perché la Cassazione in diverse occasioni ha già avuto modo di precisare che il DM dei LL.PP n. 1444/1968 suddivide il territorio, per finalità urbanistiche, per aree omogenee. In materia di parcheggi, l’articolo 7 del Codice della Strada stabilisce che spetta ai Comuni il potere di stabilire in quali aree è possibile istituire i parcheggi strisce bianche gratuiti e i parcheggi  a pagamento con strisce azzurre. Per cui se l’area in cui il conducente deve parcheggiare presenta un particolare valore storico o ambientale, il Comune è libero di non prevedere spazi per la sosta gratuita delimitati dalle strisce bianche all’interno di quelle aree e anche nelle zone circostanti se parti integrati degli agglomerati urbani. Questo quanto emerge dall’ordinanza n. 20293/2024.

Parcheggi strisce bianche in proporzione a quelli a pagamento

Una conducente si oppone a tre verbali di accertamento. Il Comune le ha contestato tre violazioni   relative alla mancata esposizione del ticket per la sosta del veicolo a pagamento e con limite orario. La donna fa presente che nelle zone limitrofe al centro della città in cui aveva l’esigenza di recarsi, gli spazi di libera sosta gratuita erano molto limitati. Il Comune ha infatti adottato una delibera, che viola l’articolo 7 del Codice della strada, che impone la presenza di stalli liberi e gratuiti nelle arre in cui sono presenti quelli a pagamento o comunque nelle aree limitrofe.

L’opponente chiede quindi al giudice di disapplicare l’atto comunale perché illegittimo e annullare le sanzioni applicate nei suoi confronti. Il Giudice però rigetta l’opposizione e la donna appella la decisione di fronte al Tribunale. Il Tribunale accoglie l’appello e annulla i verbali, disapplicando la delibera comunale. Il Comune a questo punto ricorre in Cassazione.

Il Comune non è obbligato a prevedere parcheggi gratuiti ovunque

L’ente ricorrente solleva due motivi di doglianza, tra i quali merita particolare attenzione il primo. In esso l’Ente fa presente che l’articolo 7 del Codice della Strada al comma 8 esonera i Comuni dall’obbligo di riservare stalli gratuiti nelle stesse zone o in quelle limitrofe in cui sono presenti quelli a pagamento all’interno delle aree “A” di cui all’articolo 2 del DM dei LL.PP n. 1444/1968.

Si tratta in particolare di “parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di  particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree  circostanti, che possono considerarsi parte  integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi” il Comune non ha lobbligo di prevedere stalli liberi in proporzione a quelli a pagamento. Il Tribunale nell’accogliere le istante della conducente non ha considerato che i verbali erano stati elevati perché l’opponente aveva parcheggiato all’interno di aree ricadenti nella suddetta zona A.

Nessun obbligo di parcheggio a strisce bianche nei centri storici

La Cassazione accoglie quindi il ricorso del Comune ritenendo che “l’inclusione dell’area nella zona A del D.M. 2 aprile 1968 o la sua qualificazione in termini di area urbana di particolare valore storico o di particolare pregio ambientale, costituiscono condizioni alternative per esonerare l’Amministrazione dall’obbligo di predisporre aree di parcheggio libero.” Il cittadino quindi non può pretendere che all’interno di certe aree, com un centro storico, vi siano spazi gratuiti per il parcheggio del proprio mezzo. Meglio cercare un parcheggio a pagamento e sostenerne il costo, piuttosto che fare causa e pagare ancora di più.

 

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rifiuto ricovero

Rifiuto ricovero: il medico è libero se ha informato la paziente Il rifiuto al ricovero della paziente libera il medico da responsabilità se la informa adeguatamente sulle sue condizioni e sui rischi

Rifiuto ricovero e responsabilità medica

Il rifiuto al ricovero della paziente che poi muore, di regola, libera i sanitari da eventuali responsabilità, solo se gli stessi la hanno informata sulle sue reali condizioni di salute e sui rischi. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 21362/2024.

Concorso di colpa della paziente

Una donna si reca al Pronto Soccorso e viene sottoposta ad alcuni esami. I medici però non le  diagnosticano un’ischemia cerebrale. La patologia viene individuata in ritardo in un altro ospedale dopo una Tac. La struttura a cui la donna si è rivolta inizialmente e sicuramente responsabile. I giudici di merito però ritengono che il rifiuto della paziente al ricovero comporti a suo carico un concorso di colpa. La Corte d’appello infatti riduce il risarcimento del danno quantificato in primo grado.

Rifiuto al ricovero non accertato

I familiari della de cuius impugnano la sentenza d’appello  e contestano il concorso di colpa attribuito all’estinta. I congiunti della vittima ritengono errata la decisione di merito per l’erronea applicazione dell’articolo 1227 c.c. La norma stabilisce infatti la diminuzione del risarcimento se il fatto colposo concorre a cagionare il danno. Nel caso di specie però non sussisterebbe un fatto colposo del creditore causante danno, in quanto la …. non ha posto in essere alcun fatto colposo perché non ha firmato alcun rifiuto di ricovero”.

Nonostante ciò la Corte rigetta il motivo d’appello, affermando che “Il rifiuto del ricovero è sicuramente un fatto idoneo a configurare un concorso colposo della vittima”, dando per scontato l’accertamento della sua esistenza.”

I consulenti comunque hanno concluso che, anche in presenza del rifiuto al ricovero, la corretta terapia anticoagulante sarebbe stata somministrata solo con due giorni di anticipo. Il danno oramai si era prodotto e tale danno deve imputarsi ai medici.

Motivazione apparente e concorso di colpa

La Cassazione si pronuncia sul ricorso principale accogliendo il secondo e terzo motivo, tra loro  collegati.

Con il secondo motivo i ricorrenti contestano la motivazione apparente della sentenza nel capo che ripartisce la responsabilità tra medico e paziente. Con il terzo invece denunciano l’omessa decisione sul concorso di colpa della vittima nella misura del 50%. Una percentuale così alta è del tutto irragionevole, visto che il medico è stato ritenuto responsabile al 100%.

Mancata informazione sulle condizioni e sui rischi

Gli Ermellini ripercorrono gli atti di causa e rilevano come il secondo motivo in relazione al terzo siano fondati e quindi meritino di essere accolti.

I consulenti tecnici d’ufficio hanno evidenziato che se la paziente non avesse rifiutato il ricovero …….la diagnostica radiologica positiva del ….. sarebbe stata anticipata di due giorni con la possibilità di anticipare la protezione con gli anticoagulanti e di contenere e, ancorché con poco verosimile efficacia, gli insulti embolici … nei due emisferi.”

I familiari però, già in sede di appello, avevano contestato che “il rifiuto del ricovero ospedaliero non vi sarebbe stato, che comunque “né la … né i di lei famigliari che l’accompagnavano furono edotti – in modo conveniente – del reale quadro clinico della paziente e della conseguente necessità di disporre l’immediato ricovero” (che “gli stessi medici del Pronto Soccorso avrebbero dovuto loro stessi disporre”), e che dalla ricostruzione del fatto sarebbe emersa la responsabilità esclusiva del Ca.Sa. che avrebbe “palesemente” disatteso “le prescrizioni e i dettami dei “protocolli medici”. 

Da motivare la percentuale di colpa attribuita alla vittima

Dai rilievi sollevati dagli odierni ricorrenti però, compresa l’assenza di informazioni sul quadro clinico della de cuius, la corte d’appello non si è occupata. Essa si è limitata ad attribuire la colpa alla vittima nella misura del 50% senza motivare. La stessa si è limitata ad affermare che Il rifiuto di ricovero ospedaliero è sicuramente un fatto idoneo a configurare un concorso colposo della vittima dato che, in ambiente ospedaliero, il paziente – che può essere seguito da una equipe di medici – è molto più tutelato per cui è normale pensare che il danno procurato dall’errore terapeutico del ….. avrebbe potuto essere attenuato”. 

La fondatezza di questo secondo motivo conduce alla fondatezza e all’accoglimento del terzo. La Corte avrebbe dovuto motivare con argomenti più chiari e specifici la misura percentuale della colpa attribuita alla vittima.

 

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consenso informato

Consenso informato: non è voce autonoma di danno Consenso informato, per la Cassazione non è voce autonoma di danno se  il paziente avvia solo l’azione per il risarcimento del danno alla salute  

Consenso informato: obbligo accessorio inadempiuto

La violazione del consenso informato non rappresenta una voce autonoma di danno se il paziente promuove un’azione solo per ottenere il risarcimento del danno alla salute derivante da un intervento chirurgico invasivo di cui non era stato informato preventivamente. La richiesta del consenso è un obbligo accessorio, che nel caso di specie non è stato adempiuto, ma che è stato valutato per determinare l’inadempimento del medico. Lo ha chiarito l’ordinanza della Cassazione n. 17703/2024

Consenso non richiesto per la variazione dell’intervento

Un paziente si rivolge a un medico per l’asportazione di un nodulo al torace. Le parti concordano l’intervento in endoscopia. Il medico però, dopo aver aperto la gabbia toracica del paziente, asporta il nodulo e richiede un esame istologico immediato. Per togliere il nodulo il medico procede all’asportazione dell’intero lobo del polmone sinistro. Dall’esame del nodulo emerge però un’origine non tumorale.

Il paziente ricorre nei confronti del medico e dell’azienda ospedaliera. Costui ritiene di essere stato sottoposto a un intervento chirurgico inutile, devastante esteticamente e con conseguenze fisiche permanenti. Lo stesso ha rilevato infatti una ridotta capacità polmonare e la conseguente difficoltà a svolgere una normale attività lavorativa, fisica e sociale.

Voce di danno assorbita

Il Tribunale accoglie le domande del paziente, ritenendo violato il principio del consenso informato. L’ autorità giudiziaria riconosce all’attore un’invalidità del 12% e condanna l’ospedale e il medico a risarcire più di 28.000 euro.

La Corte d’appello rigetta il gravame principale del soggetto danneggiato e quello incidentale del medico e dell’azienda ospedaliera, confermando in parte la decisione di primo grado.

In relazione alla domanda di risarcimento dei danni per violazione del consenso informato la Corte d’appello ritiene che la domanda del danneggiato sia stata avanzata per ottenere il risarcimento del danno alla salute derivante dall’intervento chirurgico, per effetto della sua errata  esecuzione. La questione del consenso informato di conseguenza deve ritenersi assorbita.

Consenso informato: voce autonoma di danno

Il paziente ricorre quindi in Cassazione, contestando nel quarto motivo del ricorso il mancato riconoscimento del risarcimento del danno per violazione del consenso informato. Per il ricorrente la violazione rappresenta una voce autonoma di danno, mentre la Corte d’appello ha escluso tale conclusione ritenendola assorbita dalla richiesta risarcitoria per l’errata esecuzione dell’intervento.

Il ricorrente fa presente di aver prestato il proprio consenso all’intervento in endoscopia sottoscrivendo un modulo generico. Lo stesso però, una volta in sala operatoria, è stato sottoposto, senza essere preventivamente consultato e senza una condizione di reale necessità, ad un intervento chirurgico con apertura del torace e asportazione di un lobo polmonare, con conseguente formazione di una vistosa cicatrice su tutto il torace

Ribadisce quindi il diritto al risarcimento del danno da lesione del diritto all’autodeterminazione.

Diritto all’autodeterminazione: manca l’azione specifica

La Corte di Cassazione conferma la decisione della Corte d’appello sul risarcimento del danno per violazione del diritto informato . Il ricorrente non ha mai introdotto un’azione autonoma finalizzata all’accertamento del proprio diritto di autodeterminazione. Il paziente ha proposto solo un’azione finalizzata al risarcimento del danno alla salute riportata in conseguenza dell’intervento chirurgico invasivo e nel quale si inseriva un obbligo accessorio rimasto inadempiuto. L’inadeguata informazione preoperatoria non dà diritto ad un’autonoma posta risarcitoria. La stessa è stata presa in considerazione per valutare l’inadempimento del medico e le conseguenze sulla salute del paziente.

 

Per approfondire leggi anche “Responsabilità medica: la legge Gelli- Bianco

responsabilità medica

Responsabilità medica: la legge Gelli-Bianco Responsabilità del medico e della struttura sanitaria nella legge Gelli-Bianco: differenze, termini di prescrizione e onere della prova per il paziente

La legge sulla responsabilità per danno da colpa medica

Responsabilità medica: la legge n. 24 del 2017, più nota come legge Gelli-Bianco, rappresenta il provvedimento normativo di riferimento in materia.

Con tale legge sono state introdotte importanti novità che hanno contribuito a delimitare in modo più chiaro i confini della responsabilità sanitaria del medico e della struttura presso cui opera, in caso di danni provocati al paziente.

Imperizia e responsabilità penale del medico nella l. 24/2017

Una prima importante novità apportata dalla legge Gelli-Bianco è stata quella di prevedere una causa di esclusione della punibilità del medico in ambito penalistico.

Il provvedimento, infatti, ha introdotto, nel secondo comma dell’art. 590-sexies del codice penale (relativo alla responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), la previsione secondo cui è esonerato da responsabilità medica il sanitario che abbia causato l’evento dannoso per il paziente a causa di imperizia, se risulta che lo stesso si sia attenuto alle linee guida sanitarie e alle buone pratiche, ove queste risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

Di contro, rimane penalmente responsabile il medico che abbia agito con negligenza o imprudenza.

A conferma di quanto sopra si è successivamente espressa anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza Cass. SS.UU. n. 8770 del 2018.

Responsabilità sanitaria nella legge Gelli-Bianco

Anche sul piano civilistico, la Legge Gelli-Bianco si è rivelata importante per definire i contorni della responsabilità sanitaria, introducendo una disciplina che favorisce, in sostanza, la richiesta di risarcimento del danno da parte del paziente nei confronti della struttura anziché del medico.

Al riguardo, è opportuno distinguere le varie ipotesi.

Responsabilità contrattuale

Innanzitutto, quando il sanitario opera nell’ambito di una struttura pubblica o privata, la responsabilità medica è considerata di natura contrattuale, in virtù del c.d. contratto di spedalità tra il paziente e la struttura stessa.

In caso di danno da responsabilità medica, quindi, il paziente potrà agire per il risarcimento direttamente nei confronti della struttura.

È vero che rimane possibile, in linea teorica, agire anche contro il medico, ma l’inquadramento normativo della responsabilità di quest’ultimo rende, in concreto, difficilmente percorribile questa strada.

Responsabilità extracontrattuale

Infatti, la responsabilità del medico dipendente di una struttura (o che operi per essa in ambito intramurario, collaborando con partita Iva) è considerata di natura extracontrattuale.

Prescrizione e onere della prova

Per il paziente, quindi, si presenta più agevole richiedere il risarcimento direttamente alla clinica, dal momento che la natura contrattuale del rapporto che egli ha instaurato con essa (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) comporta che il termine di prescrizione dell’azione sia decennale e che l’onere della prova per il danneggiato sia limitato all’esistenza di tale rapporto, sussistendo una presunzione di colpa in capo alla struttura ex art. 1218 c.c.

Un’eventuale richiesta di risarcimento verso il medico ex art. 2043 c.c. (sulla base, quindi, di una responsabilità extracontrattuale o aquiliana, come previsto dall’art. 7 della legge 24/2017), invece, deve rispettare un termine di prescrizione di soli cinque anni e risulta molto più gravosa per il paziente in ordine alla prova, poiché quest’ultimo avrebbe l’onere di dimostrare non solo il danno, ma anche il fatto illecito, il nesso di causalità tra evento e danno e l’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) che ha accompagnato la condotta del sanitario.

Azione diretta del paziente contro l’assicurazione

A corollario di quanto sopra, va anche ricordato che il paziente, a norma della Legge Gelli-Bianco, ha azione diretta anche nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria, come meglio specificato dal recente Decreto interministeriale n. 232 del 15 dicembre 2023, in vigore dal 16  marzo 2024.

Inoltre, è opportuno evidenziare che la struttura sanitaria ha diritto all’azione di rivalsa nei confronti del medico che abbia agito con dolo o colpa grave e che quest’ultimo può essere destinatario dell’azione per responsabilità amministrativa da parte della Corte dei Conti.

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L’obbligo di assicurazione professionale per il medico

Infine, rimane da considerare il caos in cui il medico operi al di fuori di una struttura sanitaria, e quindi in qualità di libero professionista. In tal caso sussiste un rapporto contrattuale tra lui ed il paziente e proprio per tale motivo egli è tenuto, per legge, a sottoscrivere una polizza assicurativa per eventuali danni arrecati nell’ambito della propria attività professionale.

pedone distratto

Pedone distratto: va risarcito se cade in un tombino Il pedone distratto va comunque risarcito se la sua condotta non è abnorme, tanto più se il Comune non segnala che il tombino è scoperto

Risarcimento danni pedone

Il pedone distratto, se cade in un tombino posto su una via pubblica, deve essere risarcito. Solo se la disattenzione del pedone è abnorme e sia quindi la causa esclusiva della caduta e del danno che ne consegue il diritto al risarcimento è escluso. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 19078-2024.

Pedone distratto cade in un tombino

La vicenda ha inizio con la caduta di una donna in un tombino presente ai margini di una strada comunale, sulla banchina, coperto di rami e foglie.

Il tribunale riconosce alla donna un risarcimento del danno di Euro 39.153,00.

Il Comune soccombente appella la decisione, ma il giudice dell’impugnazione la rigetta. La questione viene portata quindi all’attenzione della Corte di Cassazione.

Distrazione non rileva se non è causa esclusiva della caduta

La Cassazione rigetta ancora una volta il ricorso del Comune. Il pedone distratto infatti ha diritto al risarcimento se la sua condotta non è abnorme. Come affermato da precedente Cassazione sulla responsabilità dell’ente per le cose in custodia “può influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell’art. 1227 c.c.” 

Natura pubblica della strada: obbligo di custodia del Comune

La Cassazione rileva inoltre che nei precedenti gradi di giudizio i giudici di merito hanno accertato che la strada aveva carattere comunale o comunque ad uso pubblico e che la strada interponderale era aperta all’uso pubblico. L’ente quindi doveva provvedere alla custodia del bene. Lo stesso sarebbe dovuto intervenire affinché il tombino presente sulla banchina non restasse scoperto o segnalare quantomeno l’assenza di copertura dello stesso. Corretta quindi la condanna dell’Ente a rispondere dei danni per cose in custodia in base all’articolo 2051 c.c.

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autovelox laguna

Anche l’autovelox della Laguna va tarato La Cassazione conferma che anche gli apparecchi per misurare la velocità dei mezzi in Laguna veneta devono essere tarati

Autovelox Laguna

Anche l’autovelox della Laguna va tarato, come tutti gli apparecchi per misurare la velocità dei mezzi. Così la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 20492-2024.

La vicenda

Nella vicenda, il titolare di una ditta individuale aveva proposto opposizione innanzi al Giudice di Pace di Venezia avverso l’ordinanza-ingiunzione emessa dalla polizia municipale con cui gli era stato ingiunto il pagamento di oltre 300 euro per aver superato il limite massimo di velocità con il proprio motoscafo appartenente alla propria ditta.

Il Gdp rigettava l’opposizione confermando l’ordinanza ingiunzione, ritenendo non necessario sottoporre il sistema alle operazioni di omologazione e taratura previste dal codice della strada, non sussistendo i requisiti per applicare in via analogica li codice della strada all’ambito della navigazione.
La sentenza veniva impugnata da innanzi al Tribunale di Venezia, li quale accoglieva l’opposizione e annullava in toto l’ordinanza-ingiunzione sostenendo che l’amministrazione comunale avesse totalmente omesso di produrre in giudizio la documentazione attestante l’avvenuta omologazione, tantomeno le periodiche verifiche di funzionalità e taratura della strumentazione nel sistema (tutor) installato dal Comune di Venezia.

Il tribunale richiamava inoltre la sentenza n. 113/2015 della Corte Costituzionale che aveva dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 45, comma 6, del d.lgs. n. 285 del 1992 nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura”.
Il comune impugnava la sentenza innanzi alla Cassazione.

La decisione

Per gli Ermellini, tuttavia, le doglianze del comune sono infondate.

Giova, innanzitutto, precisare che “la circolazione nelle acque del Comune di Venezia, ed in genere della laguna veneta, è disciplinata dal Regolamento per li Coordinamento della navigazione locale nella Laguna Veneta (adottato ai sensi dell’art. 11, comma 3, D. Lgs. n. 422 del 1997) che, all’art. 67 («Dispositivi di monitoraggio»: norma inserita all’interno del Titolo V dedicato al Sistema di rilevazione), con riferimento (anche) ai dispositivi di monitoraggio del traffico installati dalle autorità competenti (comma 2) prescrive l’obbligo che gli apparati di rilevamento impiegati siano «debitamente omologati» (comma 3)”.

Per cui, “tale esplicito riferimento normativo all’obbligatorietà dell’omologazione è in linea con il più generale principio di garanzia in materia di accertamenti rimessi a mezzi tecnici di rilevamento automatico: l’omologazione, infatti, consiste in una procedura che – pur essendo amministrativa – ha anche natura necessariamente tecnica; tale specifica connotazione risulta finalizzata a garantire la perfetta funzionalità e la precisione dello strumento elettronico da utilizzare per l’attività di accertamento da parte del pubblico ufficiale legittimato: requisito, questo, che costituisce l’indispensabile condizione
per la legittimità dell’accertamento stesso (Cass. Sez. 2, n. 10505 del 18.04.2024)”.

Spetta, infine, “all’amministrazione la prova positiva dell’iniziale omologazione (e dell’eventuale periodica taratura dello strumento: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6579 del 2023; Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 32369 del 13/12/2018), non essendo necessario che di detto adempimento ne dia conto il verbale di contestazione”.
In definitiva, il ricorso è rigettato.

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