permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti: troppo breve il termine per il reclamo La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il termine di 24 ore per il reclamo contro i permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti

Con la sentenza n. 78/2025, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo il termine di 24 ore previsto per la proposizione del reclamo da parte del detenuto contro il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza nega un permesso, anche nei casi di grave emergenza familiare, come il pericolo imminente di vita di un familiare o convivente.

Il giudizio di legittimità è scaturito da una questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, che ha espresso dubbi circa la compatibilità di tale termine con l’art. 24 della Costituzione, che tutela il diritto di difesa.

Il caso concreto esaminato dalla Corte

Nel procedimento oggetto della pronuncia, un detenuto aveva chiesto un permesso per visitare la sorella affetta da tumore. Il Magistrato di sorveglianza aveva respinto la richiesta e il detenuto aveva presentato reclamo lo stesso giorno della notifica del provvedimento, riservandosi però di motivarlo successivamente.

Solo dopo aver ottenuto la documentazione medica acquisita d’ufficio dal Magistrato, il difensore del detenuto aveva potuto reiterare il reclamo, corredandolo dei motivi. Tuttavia, il termine previsto dall’art. 30-bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975) per impugnare il diniego è di sole 24 ore.

Tutela effettiva del diritto di difesa

La Corte costituzionale ha accolto i dubbi di legittimità, osservando che il termine di 24 ore non consente al detenuto né di ottenere adeguata assistenza legale né di accedere alla documentazione necessaria per motivare il reclamo in modo efficace.

Richiamando un precedente orientamento (sentenza n. 113/2020, relativa ai permessi premio), la Corte ha stabilito che il termine debba essere elevato a 15 giorni, in analogia con quanto previsto dall’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario per altri reclami.

Il legislatore può intervenire

Pur fissando in via provvisoria un termine di 15 giorni, la Corte ha sottolineato che resta ferma la facoltà del legislatore di stabilire un termine diverso, purché questo rispetti il diritto alla difesa e sia coerente con la natura urgente del provvedimento.

caso fortuito e rimessione

Caso fortuito e rimessione in termini: la Cassazione chiarisce La Corte di Cassazione definisce i requisiti del caso fortuito ai fini della rimessione in termini nel processo penale

Caso fortuito e rimessione in termini

Con la sentenza n. 18618/2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato il tema della rimessione in termini per il ricorso per cassazione, specificando i presupposti giuridici che danno rilievo al caso fortuito nel processo penale.

Il fatto processuale

Nel caso di specie, il difensore dell’imputato aveva presentato istanza di rimessione in termini, adducendo il verificarsi di un evento eccezionale che aveva impedito il rispetto del termine per l’impugnazione. Il legale invocava il caso fortuito, chiedendo alla Corte di riconoscerne la sussistenza e di ritenere ammissibile il ricorso presentato oltre il termine ordinario.

La definizione di caso fortuito secondo la Cassazione

La Suprema Corte, richiamando la propria giurisprudenza consolidata, ha ribadito che il caso fortuito si configura come:

“un’accidentalità che opera come causa non conoscibile, ineliminabile con l’uso delle comuni prudenza e diligenza”.

Per essere rilevante ai fini della rimessione in termini, l’evento deve dunque:

  • essere imprevisto e imprevedibile;

  • avere carattere eccezionale e atipico;

  • manifestarsi in modo improvviso;

  • impedire oggettivamente all’agente di conformare tempestivamente la propria condotta alla situazione determinatasi.

Il principio affermato

In applicazione di tali criteri, la Corte ha rigettato la richiesta di rimessione in termini, ritenendo che l’evento dedotto dal difensore non fosse inquadrabile come caso fortuito in senso tecnico-giuridico. La decisione valorizza il profilo dell’esigibilità del comportamento diligente, sottolineando che il caso fortuito deve determinare un impedimento insormontabile e non semplicemente una difficoltà organizzativa o una negligenza, anche se minima.

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41-bis

41-bis 41 bis: cos'è, normativa di riferimento, a chi si applica e per quali reati, restrizioni, durata e proroga, compatibilità con la Costituzione

Cos’è il 41-bis

Il regime carcerario del 41-bis dell’ordinamento penitenziario italiano rappresenta una delle misure più rigorose previste dal sistema penale, comunemente noto come “carcere duro”. È uno strumento straordinario, introdotto per contrastare le organizzazioni criminali di tipo mafioso e terroristico, volto a interrompere i legami tra detenuti e contesti esterni di criminalità organizzata.

L’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), modificato nel corso degli anni da vari interventi legislativi, prevede la possibilità per il Ministro della giustizia di sospendere in tutto o in parte l’applicazione delle regole ordinarie del trattamento penitenziario nei confronti di detenuti per reati di particolare gravità, al fine di impedire contatti con l’esterno che possano agevolare attività criminali.

Tale sospensione avviene mediante un provvedimento motivato del Ministro.

Normativa vigente

L’attuale formulazione dell’art. 41-bis, stabilisce al comma 2 che quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, il Ministro della giustizia può sospendere in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluni reati, l’applicazione delle regole del trattamento penitenziario previste dalla presente legge e consentire restrizioni specifiche in deroga ai principi generali.

Le modifiche più rilevanti sono state introdotte con:

  • Legge n. 663/1986;
  • Legge n. 279/2002 (legge di sistema sul carcere duro);
  • Successivi interventi fino alla legge n. 94/2009, che ha ulteriormente inasprito il regime, rendendolo permanente e prorogabile.

A chi si applica il regime del 41-bis

Il regime differenziato si applica ai detenuti imputati o condannati per reati di particolare allarme sociale, come:

  • Associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.);
  • Terrorismo internazionale o interno (artt. 270-bis e seguenti c.p.);
  • Traffico di stupefacenti aggravato;
  • Sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.);
  • Associazione finalizzata al traffico illecito di armi o esseri umani;
  • Strage, omicidio aggravato, o attentato per finalità eversive o terroristiche.

La misura è adottata se sussiste il pericolo concreto che il soggetto, anche dalla detenzione, possa mantenere legami con l’organizzazione criminale di riferimento o esercitare il controllo sul territorio.

Quali restrizioni prevede il 41-bis

Il regime 41-bis prevede una serie di limitazioni molto severe, tra cui:

  • isolamento dal resto della popolazione carceraria;
  • limitazione e controllo dei colloqui con i familiari, esclusivamente attraverso vetri divisori e in presenza di agenti;
  • controllo della corrispondenza scritta e monitoraggio delle conversazioni telefoniche;
  • censura dei pacchi e limitazioni sugli oggetti ricevibili;
  • riduzione dell’ora d’aria e delle attività comuni, spesso a piccoli gruppi selezionati;
  • divieto di interazioni non autorizzate con altri detenuti.

Tutte queste restrizioni mirano a impedire che il detenuto possa comunicare ordini o informazioni all’esterno, mantenendo viva la rete criminale.

Durata e proroga del 41-bis

La sospensione del regime ordinario è disposta per una durata massima iniziale di 4 anni, prorogabile di due anni in due anni, qualora persistano le condizioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica. Ogni proroga deve essere motivatamente disposta e soggetta a verifica giudiziaria, attraverso ricorso davanti al Tribunale di Sorveglianza competente.

Critiche e compatibilità costituzionale

Il 41-bis è stato più volte oggetto di esame costituzionale e critiche da parte di organismi internazionali, come il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) e l’ONU, per presunte violazioni dei diritti umani. Tuttavia, la Corte costituzionale italiana ha ribadito la legittimità della misura, purché le limitazioni siano proporzionate e motivabili in funzione della sicurezza.

In particolare, la Consulta ha evidenziato che non si tratta di una forma di “pena aggiuntiva”, ma di una misura di gestione penitenziaria eccezionale, volta a prevenire il crimine e tutelare la collettività (Corte Cost., sent. n. 376/1997 e n. 190/2010).

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spese straordinarie

Reato non pagare le spese straordinarie per i figli Il mancato pagamento delle spese straordinarie per i figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare

Violazione obblighi di assistenza familiare

Il mancato pagamento delle spese straordinarie per i figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570-bis c.p.). La norma incriminatrice non si limita infatti all’assegno, ma include tutti gli “obblighi di natura economica in materia di affido dei figli”. Questo comprende sia le spese per i bisogni ordinari dei figli, ma prevedibili e ricorrenti, che quelle imprevedibili e rilevanti, ma indispensabili per il loro interesse. Queste spese, come l’assegno, sono fondamentali per il mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, garantendo il loro benessere. L’inadempimento quindi, se provato, è penalmente rilevante. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza  n. 19715/2025.

Violazione degli obblighi di assistenza familiare

Un uomo viene condannato alla pena della reclusione di due anni per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 bis c.p. L’imputato non ha infatti adempiuto all’obbligo di corrispondere alla ex moglie l’assegno per il mantenimento dei figli e il 50% delle spese straordinarie.

Mancato pagamento delle spese straordinarie 

Nell’impugnare la sentenza l’imputato con il terzo motivo eccepisce la nullità della sentenza per violazione della legge penale. A suo dire il mancato pagamento delle spese straordinarie non integra il reato di cui è stato ritenuto responsabile. L’articolo 570 bis c.p. non si riferirebbe infatti alla violazione degli obblighi economici diversi da quelli relativi alla separazione dei coniugi e all’affido condiviso dei figli.

Spese straordinarie: principi civilistici

La Cassazione annulla senza rinvio la sentenza perché il reato è prescritto e respinge il terzo motivo relativo alle spese straordinarie. Questo il ragionamento della Corte.

Nel caso specifico, l’imputato è stato chiamato a rispondere del mancato pagamento delle spese straordinarie, pattuite al 50% con i provvedimenti di separazione e divorzio. Trattasi nello specifico di importi significativi, in gran parte legati a spese mediche, sanitarie o scolastiche.

Per la difesa il mancato versamento queste spese non costituisce reato, specialmente nel periodo in cui l’assegno di mantenimento e quello divorzile sono stati regolarmente corrisposti. Questa argomentazione difensiva però per gli Ermellini non è fondata.

Spese straordinarie imprevedibili e imponderabili

La Cassazione ricorda che la giurisprudenza civile ha sottolineato l’importanza delle spese straordinarie, dato che la normativa positiva non le definisce in modo esplicito. La giurisprudenza di legittimità ha inquadrato in particolare le spese straordinarie nel contesto del concorso negli oneri relativi all’educazione, istruzione e mantenimento della prole.

La stessa ha stabilito in particolare che le spese “straordinarie” sono quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità, non rientrano nell’ordinaria gestione della vita dei figli. L’inclusione forfettaria di queste spese nell’assegno di mantenimento potrebbe, infatti, violare i principi di proporzionalità e adeguatezza del mantenimento, a discapito della prole (Cassazione n. 1562/2020).

Ai fini giuridici, è stata operata infatti una distinzione tra:

  • esborsi per bisogni ordinari che consistono nelle spese certe e prevedibili, che integrano l’assegno di mantenimento e sono azionabili in base al titolo originario (es. sentenza), con un calcolo puramente aritmetico;
  • spese imprevedibili e rilevanti che sono invece quelle che, per il loro ammontare e per l’imprevedibilità, richiedono un’autonoma azione di accertamento, rispettando l’adeguatezza alle esigenze del figlio e la proporzionalità del contributo del genitore (Cassazione n. 379/2021).

La Cassazione ricorda inoltre che il genitore collocatario non è obbligato a concordare preventivamente ogni spesa straordinaria, ma solo le “decisioni di maggiore interesse” (art. 337-ter c.c.). Negli altri casi, l’altro genitore è tenuto al rimborso, salvo validi motivi di dissenso (Cassazione n. 15240/2018).

Mancato pagamento spese straordinarie reato

Questi principi civilistici sulle spese straordinarie risultano applicabili anche in sede penale. Pertanto, il reato di cui all’art. 570-bis c.p. è integrato anche dal mancato pagamento delle spese straordinarie, sia quelle certe e prevedibili che integrano l’assegno, sia quelle imprevedibili ma indispensabili per l’interesse dei figli, purché previste da un titolo giudiziario o da un accordo tra i coniugi. L’art. 570-bis c.p. fa riferimento del resto non solo all’assegno, ma in generale agli obblighi di natura economica in materia di affido dei figli, nei quali rientrano anche le spese straordinarie, essenziali per garantire il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli come previsto dall’art. 147 c.c.

 

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permessi premio

Permessi premio: la guida Permessi premio: cosa sono, a cosa servono, chi può chiederli, come funzionano, come fare domanda, concessione, limiti e condizioni

Permessi premio: misure per rieducare detenuto

I permessi premio sono una delle più importanti misure di trattamento penitenziario premiale previste dall’ordinamento italiano, introdotti per incentivare la rieducazione del detenuto e favorire il suo graduale reinserimento nella società, in linea con quanto stabilito dall’art. 27 della Costituzione.

I permessi premio rappresentano infatti uno strumento centrale nel sistema penitenziario italiano, volto a realizzare il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena. La loro concessione però, come vedremo, non è automatica, ma subordinata a criteri rigorosi, che richiedono un percorso concreto di responsabilizzazione del detenuto. Per ottenere un permesso è essenziale dimostrare affidabilità, impegno nel trattamento e volontà di reinserimento sociale.

Cosa sono i permessi premio

I permessi premio sono disciplinati dall’art. 30-ter della legge sull’ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354) e consistono nella possibilità per il detenuto di uscire temporaneamente dal carcere per un massimo di 45 giorni all’anno, anche frazionabili, per fare rientro in famiglia, partecipare a eventi significativi o riprendere contatti con il tessuto sociale esterno.

Non si tratta di un diritto automatico, ma di un beneficio che può essere concesso in base a specifici requisiti oggettivi e soggettivi.

A cosa servono i permessi premio

I permessi premio hanno una funzione rieducativa, risocializzante e progressiva, finalizzata a:

  • favorire i legami familiari e affettivi del detenuto;
  • stimolare comportamenti responsabili e collaborativi durante l’esecuzione della pena;
  • valutare in concreto l’idoneità del condannato a vivere in libertà senza recidive;
  • preparare il detenuto alla liberazione anticipata o al passaggio a misure alternative.

Chi può ottenere i permessi premio

I permessi premio non sono concessi a tutti i detenuti indistintamente, ma solo a chi:

  1. è stato condannato all’arresto o alla reclusione per un periodo non superiore a 4 anni anche se congiunta alla pena dell’arresto;
  2. è stato condannato alla pena della reclusione per un periodo duperiuore ai 4 anni , dopo aver espiati almeno 1/4 della pena;
  3. è stato condannato alla pena della reclusione per particolari reati (art. 4 bis commi 1, 1 ter e 1 quater) dopo aver espiato almeno metà della pena e comunque di non oltre 10 anni;
  4. è stato condannato all’ergastolo ma ha già espiato 10 anni;
  5. ha tenuto una condotta regolare e collaborativa nel periodo di detenzione;
  6. partecipa attivamente al percorso trattamentale, mostrando progressi in ambito lavorativo, scolastico o relazionale;
  7. non presenta pericolosità sociale attuale, valutata anche in relazione al tipo di reato commesso;
  8. partecipa al programma di giustizi riparativa.

In presenza di condanne per reati ostativi di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (es. mafia, terrorismo, reati sessuali gravi), il permesso premio può essere concesso solo se il detenuto ha collaborato concretamente con la giustizia.

Chi decide sulla concessione del permesso

La decisione spetta al Magistrato di sorveglianza, su proposta dell’Equipe trattamentale dell’istituto penitenziario, che valuta:

  • le relazioni comportamentali del detenuto;
  • le attività trattamentali seguite (lavoro, formazione, ecc.);
  • gli elementi di pericolosità attuale o futura;
  • l’esistenza di un programma specifico per il permesso (es. visita a familiari, partecipazione a un evento importante, colloqui di lavoro).

Il parere dell’Equipe non è vincolante, ma è elemento rilevante per la decisione finale.

Come funziona un permesso premio

Il permesso premio può essere concesso per una durata massima di 15 giorni consecutivi per volta, entro il limite annuale di 45 giorni complessivi.

Durante il permesso, il detenuto:

  • non è sottoposto a vigilanza diretta, ma deve attenersi scrupolosamente agli obblighi imposti;
  • deve ritornare in istituto alla scadenza del periodo autorizzato, pena la denuncia per evasione;
  • può essere soggetto a controlli esterni da parte delle forze dell’ordine o del personale del carcere.

La concessione del permesso è revocabile in caso di violazione delle condizioni o di comportamenti inappropriati durante il periodo fuori dall’istituto.

Come si fa domanda per il permesso premio

La richiesta può essere presentata direttamente dal detenuto o tramite il proprio difensore. La procedura prevede:

  1. la presentazione di un’istanza scritta motivata, rivolta al Magistrato di sorveglianza;
  2. l’invio della relazione aggiornata dell’Equipe trattamentale;
  3. la presentazione di documentazione che giustifichi il motivo del permesso (inviti, certificati, lettere familiari, ecc.);
  4. l’indicazione di eventuali garanzie esterne (disponibilità alloggio, presenza di familiari, ecc.).

Il magistrato valuta la richiesta e può concedere o rigettare il permesso con provvedimento motivato, eventualmente dopo un’udienza.

Limiti e condizioni

Tra i principali limiti dei permessi premio:

  • reati ostativi: come già detto, richiedono collaborazione con la giustizia per poter accedere al beneficio;
  • rischi di fuga o recidiva: il magistrato valuta attentamente ogni elemento che possa far ritenere il soggetto inaffidabile;
  • assenza di percorso trattamentale: la mancata partecipazione alle attività del carcere è elemento ostativo.

L’obiettivo è garantire che il beneficio sia parte integrante del percorso rieducativo, non un semplice privilegio.

 

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giurista risponde

Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente La condotta provocatoria antecedente al fatto tenuta dalla persona offesa rileva ai fini del consenso e della non sussistenza del reato di violenza sessuale?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di violenza sessuale, il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere al momento del fatto, ma anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale e antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass., sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2381).

Oggetto di scrutinio da parte della Suprema Corte nella sentenza in commento è la rilevanza del comportamento della persona offesa, antecedente al fatto, ai fini della sussistenza del consenso al momento dell’atto sessuale tale da escludere il reato di cui all’art. 609bis c.p.

La Corte di Appello, in totale riforma della sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale, ha assolto l’imputato dal delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609bis c.p. con formula perché il fatto non sussiste, ritenendo sussistere ragionevoli dubbi sul fatto che l’imputato abbia imposto alla parte offesa un approccio sessuale violento, in ragione del presunto consenso da questa prestato. Avverso la pronuncia di secondo grado è stato proposto ricorso in Cassazione da parte del Procuratore Generale e della costituita parte civile. In particolare, il Procuratore Generale ha presentato due motivi di doglianza con i quali ha lamentato rispettivamente con il primo motivo la violazione di legge e vizio di motivazione per mancato ottemperamento degli standard logici e normativi concernenti la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, atteso che l’esito assolutorio a cui è giunta la sentenza d’appello è frutto di una visione parziale e atomistica del compendio istruttorio; con il secondo motivo è stata, invece, denunciata la violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning migliorativo. La parte civile, altresì, ha dedotto con un unico motivo violazione di legge e vizio di motivazione, nonché travisamento del fatto e della prova, considerato che secondo le prospettazioni della accusa privata la sentenza gravata ha proposto una ricostruzione dei fatti e una valutazione delle risultanze processuali in radicale contrasto con il compendio probatorio raccolto in sede dibattimentale, non valorizzando elementi di prova conducenti inequivocabilmente verso una pronuncia di condanna dell’imputato, ponendo, altresì, in dubbio il presunto libero consenso all’atto sessuale espresso dalla persona offesa ritenuto sussistente dai giudici d’appello.

La Suprema Corte, sebbene la difesa dell’imputato abbia chiesto con memoria la dichiarazione di inammissibilità o comunque il rigetto dei due ricorsi, ha ritenuto questi fondati per i motivi di seguito sintetizzati.

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso in ragione della violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning della sentenza di primo grado in senso favorevole all’imputato, posto che la Corte distrettuale non ha adeguatamente enucleato un percorso argomentativo dotato di maggiore persuasività.

Secondariamente, per quanto di maggiore interesse in questa sede, i giudici di legittimità hanno riconfermato il consolidato principio di diritto enucleato in massime precedenti secondo il quale il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere ma deve anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale antecedente condotta provocatoria da parte della persona offesa: anche quando il fatto sia preceduto da effusioni o da provocazioni, tale condotta non può mai implicare una presunzione di consenso agli atti sessuali posti in essere successivamente (Cass. 4 marzo 2022, n. 7873). Pertanto, il momento che deve essere preso in considerazione, ai fini del reato di violenza sessuale, è quello del compimento dell’atto sessuale, in relazione al quale va verificata la sussistenza del consenso dell’atto stesso, non rilevando, nemmeno sul piano causale, il comportamento provocatorio antecedente della vittima. La presenza del consenso non può essere dedotta da circostanze esterne al perimetro del fatto (quale l’essersi la persona offesa fatta riaccompagnare a casa) ovvero desunto dai costumi sessuali della stessa e deve perdurare per tutto il rapporto senza soluzione di continuità (Cass. 5 aprile 2019, n. 15010); la revoca dello stesso intervenuta in itinere può desumersi da fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà.

Nel caso di specie, non è stato possibile desumersi il consenso ad un rapporto sessuale completo dalla pregressa presenza di effusioni tra l’imputato e la persona offesa, la quale si è allontanata sotto la pioggia pur di lasciare l’abitazione dell’imputato.

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata per violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo giudizio da svolgersi secondo i criteri indicati.

 

(*Contributo in tema di “Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

recidiva semplice

Recidiva semplice: la Consulta limita aumento automatico pena Stop all’aumento automatico della pena per recidiva semplice. La Consulta dichiara incostituzionale l’art. 63 co. 3 c.p. in caso di concorso con attenuanti

Recidiva: l’intervento della Consulta

Con la sentenza n. 74 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 63, comma 3, del codice penale, nella parte in cui consente l’aumento obbligatorio di un terzo della pena in presenza di recidiva semplice e di un’altra circostanza aggravante autonoma o a effetto speciale.

Automatismo irragionevole

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tribunale di Firenze, in un procedimento per minaccia aggravata commessa con armi, dove all’imputato era stata contestata anche la recidiva semplice ai sensi dell’art. 99, primo comma, c.p. In base alla norma censurata, la pena – già aumentata per l’aggravante a effetto speciale – avrebbe dovuto essere automaticamente incrementata di un terzo per effetto della recidiva.

La Consulta ha invece affermato che tale automatismo viola il principio di ragionevolezza e proporzionalità sancito dall’articolo 3 della Costituzione, evidenziando come l’aumento obbligatorio della pena, previsto per la recidiva semplice, risulti più gravoso rispetto alla disciplina più favorevole applicabile nei casi di recidiva aggravata o qualificata, che consente al giudice di aumentare la pena solo fino alla metà e in via facoltativa.

Le motivazioni della Corte costituzionale

Pur riconoscendo l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale e nella determinazione delle pene, la Corte ha ribadito che le norme sanzionatorie devono comunque essere sottoposte al controllo di legittimità costituzionale, specialmente quando incidono sulla libertà personale.

Secondo la Corte, la disciplina censurata determinava un trattamento sanzionatorio sproporzionato e non coerente con il disvalore effettivo della condotta. In particolare, si veniva a creare una irragionevole disparità: mentre in presenza di recidiva aggravata il giudice può decidere se aumentare la pena, nel caso di recidiva semplice tale aumento era obbligatorio, anche se la condotta non era più grave.

sospensione condizionale della pena

Sospensione condizionale della pena: ok anche con un precedente La Cassazione stabilisce che la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche quando l'imputato risulta gravato da un solo precedente penale

Sospensione condizionale della pena

Con la sentenza n. 19426/2025, depositata il 27 maggio 2025, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio di equilibrio tra repressione e rieducazione, stabilendo che la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche quando l’imputato risulta gravato da un solo precedente penale iscritto nel casellario giudiziale.

Il caso concreto

Nel caso di specie, l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309 e aveva chiesto la concessione del beneficio della sospensione condizionale, previsto dal codice penale quando la pena inflitta non supera i due anni di reclusione.

Tuttavia, il giudice di merito aveva rigettato la richiesta, sostenendo che l’imputato non poteva beneficiarne in quanto già gravato da precedenti penali. 

Il principio sancito dalla Cassazione

La S.C. osserva che dal certificato del Casellario giudiziale allegato al ricorso e presente nel fascicolo processuale emerge, come evidenziato dal ricorrente, una sola condanna, per reato della stesa indole, a pena sospesa in astratto non ostativa alla concessione una seconda volta del beneficio in oggetto (quattro mesi di reclusione ed euro 600,00 di multa).

Secondo la Cassazione, infatti, la mera esistenza di un precedente penale non esclude automaticamente la possibilità di ottenere la sospensione condizionale della pena, salvo che ricorrano circostanze che rendano inconciliabile la concessione del beneficio con la finalità rieducativa della pena.

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straniero detenuto

Espulsione straniero detenuto: la misura è amministrativa La Corte costituzionale chiarisce che l’espulsione dello straniero detenuto ha natura amministrativa e non trattamentale, escludendo automatismi e tutelando i soggetti vulnerabili

Espulsione straniero detenuto

Espulsione straniero detenuto: con la sentenza n. 73 del 2025, la Corte costituzionale ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Palermo, confermando la natura amministrativa dell’espulsione disposta nei confronti di cittadini stranieri irregolari in stato di detenzione. La norma oggetto del giudizio è l’art. 16, comma 5, del D.lgs. n. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione).

Espulsione anticipata non è alternativa alla detenzione

La Consulta ha chiarito che l’espulsione applicata durante l’esecuzione della pena – nei confronti di stranieri irregolari con pena residua inferiore a due anni per reati non gravi – non costituisce una misura trattamentale, né può essere assimilata alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario.

Si tratta, piuttosto, di un provvedimento amministrativo che anticipa l’espulsione già prevista a causa dell’irregolarità del soggiorno e che, comunque, sarebbe intervenuta al termine della pena detentiva.

Valutazione individuale e garanzie contro automatismi

La Corte ha escluso qualsiasi automatismo nell’applicazione di tale misura, sottolineando che il magistrato di sorveglianza è tenuto a valutare caso per caso, operando un bilanciamento tra l’interesse pubblico all’espulsione e le condizioni personali e familiari del soggetto. Restano salvi, in ogni caso, i divieti di espulsione previsti per situazioni di vulnerabilità oggettiva o soggettiva, ai sensi dell’art. 19 del D.lgs. 286/1998, cui rinvia espressamente anche l’art. 16, comma 9, dello stesso testo unico.

giurista risponde

Diritto di critica e diffamazione Il diritto di critica di cui all’art. 21 Cost. può comportare l’applicazione dell’istituto della scriminante di cui all’art. 51 c.p. in relazione al delitto di diffamazione qualora, fatto riferimento ad un fatto preciso, non ci si attenga al criterio di verità?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 51 c.p. quale scriminate in relazione al delitto di diffamazione è soggetta al rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva; pertanto, i fatti narrati debbono essere veri o apparire ragionevolmente come tali al soggetto agente (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2352 (Diritto di critica e diffamazione).

La sentenza impugnata, nel ricondurre la condotta dell’imputato nella sfera applicativa dell’esercizio del diritto di libera espressione del pensiero ex art. 51 c.p., ha dato continuità al più che costante orientamento del Supremo Collegio secondo cui, pur essendo sussistenti gli elementi oggettivi del diffamazione, le condotte che rappresentano esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, qualora le stesse non si risolvano in uno strumento di avvilimento della dignità delle persone o in un mezzo per perseguire altre finalità illecite, risultano essere scriminate ai sensi dell’art. 51 c.p.

Tale orientamento, inizialmente era applicato alla categoria dei giornalisti, ove però si faceva un diverso bilanciamento tra interessi costituzionalmente garantiti, essendo tale categoria assolutamente peculiare. Invero, più che il “diritto di critica”, veniva invocato il diverso “diritto di cronaca”. Tuttavia, la lettura del diritto di critica, con il mutare anche del contesto sociale è andato via via espandendosi, tale espansione ha portato il Supremo Collegio, anche recentemente ad affermare che il diritto di critica si esplica nella formulazione di un giudizio di valore ed è tutelato direttamente dall’art. 21 Cost. non solo con riferimento ai giornalisti o a chi fa informazione professionalmente, essendo riservato a ciascun individuo uti civis (ex multis Cass., sez. V, 20 marzo 2019, n. 32829).

Tuttavia, com’è noto, ogni diritto ha delle modalità a mezzo delle quali può essere esplicato oltre le quali non può debordare poiché va a confliggere con altri diritti costituzionalmente garantiti. Diversamente si sarebbe davanti a quello che in dottrina viene definito “diritto tiranno” che, come ricordato dalla Consulta con la Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, non esiste né potrebbe esistere nell’Ordinamento. Invero, nella predetta sentenza si legge: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sent. 264/2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.” Nel caso di specie il “diritto di critica” garantito dall’art. 21 Cost. trova il proprio contraltare nel “diritto all’onore ed alla reputazione” come corollario dell’art. 2 Cost. In applicazione di questo bilanciamento il Supremo Collegio ha ritenuto che, in tema di diffamazione, il diritto di critica può essere evocato quale scriminate ex art. 51 c.p.; purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva. Pertanto, non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nell’invettiva gratuita, salvo che l’offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico.

In particolare, il requisito della continenza ha una duplice connotazione: continenza sostanziale che attiene alla natura dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione; continenza formale concernente il modo con cui il racconto sul fatto è reso, ovvero il giudizio critico è esternato. Tale requisito necessita di una forma espositiva corretta che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione, pur non essendo lo stesso incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti. Al tempo stesso, per delimitare il perimetro applicativo della scriminante, risulta imprescindibile contestualizzare le espressioni rectius valutarle in relazione al contesto spazio/temporale e dialettico nel quale sono state profferite, così da verificare il requisito di pertinenza. Debbono quindi essere valutati sia la diversità dei contesti, sia la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è rivolta. Invero, determinati ruoli possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che, nonostante le doglianze difensive sulla non verità del fatto, fossero stati rispettati tutti i requisiti per il corretto estrinsecarsi del “diritto di critica” tra cui quello di verità, di conseguenza la condotta delittuosa risulta scriminata ex art. 51 c.p.. Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata mandando assolto l’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Diritto di critica e diffamazione”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)