autovelox ed etilometro

Autovelox ed etilometro hanno presupposti diversi Per la Cassazione non può contestarsi la validità della rilevazione dell'etilometro in base alle regole previste per l'autovelox

Autovelox ed etilometro

Non si può contestare la validità della rilevazione effettuata con l’etilometro in base alle regole dettate in tema di autovelox, in quanto non applicabili. Questo, in sintesi, quanto emerge dalla sentenza n. 21040/2024 della quarta sezione penale della Cassazione.

La vicenda

A ricorrere al Palazzaccio è un uomo condannato per il reato di cui all’art. 186 co. 2, let. c), 2- bis, 2-sexies e 2-septies cod. strada. Il ricorrente contesta l’inidoneità dell’etilometro utilizzato, i margini di errore dello stesso e il fatto che l’esame strumentale non può costituire una prova legale.

Contesta, inoltre, violazione di legge in relazione alla sussistenza dei requisiti di cui al MD 196/90, l’esistenza di errori massimi tollerabili nel tipo di apparecchio utilizzato e la pena “severissima, prossima al massimo edittale” irrogata non tenendo conto della sua incensuratezza nè della condotta complessiva dello stesso, “inidonea a provocare rischi per l’incolumità di alcuno”. Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.

Ricorso inammissibile

Il Collegio tuttavia ritiene tutte le doglianze generiche e inammissibili e, per contro, la sentenza impugnata logica e congrua e immune da vizi di legittimità.

Intanto, “la Corte territoriale – anticipano gli Ermellini – ha ritenuto sufficientemente provata la responsabilità dell’imputato non soltanto in base agli esiti degli accertamenti strumentali (quindi il superamento del valore della soglia di 1,50 g/l, essendo stati riscontrati 2,09 g/l alla prima prova e 2,32 alla seconda), bensì anche per via della
convergenza indiziaria emersa in sede istruttoria, tra cui le manifestazioni esteriori, tipiche dello stato di alterazione da alcool, da parte dell’imputato al momento del fatto”. Ormai da tempo, e ben prima del proposto ricorso, la giurisprudenza, infatti, proseguono i giudici (cfr. ex multis, Sez. 4 n. 3201 del 12/12/2019; n. 33371 del 8/6/2023) ha “fugato ogni dubbio sul fatto che, per quanto riguarda l’etilometro, l’omologazione e le verifiche periodiche dello stesso sono espressamente previste dall’art. 379, commi 6, 7 e 8 del Regolamento esecutivo al Codice della Strada, approvato con d.P.R. 16 novembre 1992, n. 495 e ciò differenzia la disciplina in tema di etilometro rispetto a quella avente ad oggetto l’autovelox, colpita dalla declaratoria di incostituzionalità operata con la sentenza della Corte Costituzionale n. 113/2015”.
Pertanto, dovendo ritenersi che, anche nel caso del giudizio penale per guida in stato d’ebbrezza ex art. 186, co. 2, cod. strada, “nell’ambito del quale assuma rilievo la misurazione del livello di alcool nel sangue mediante etilometro, all’attribuzione dell’onere della prova in capo all’accusa circa l’omologazione e l’esecuzione delle verifiche periodiche sull’apparecchio utilizzato per l’alcoltest, fa riscontro un onere di allegazione da parte del soggetto accusato, avente ad oggetto la contestazione del buon funzionamento dell’apparecchio, che nel caso che ci occupa non è stato adempiuto”.
Peraltro, in tema di guida in stato di ebbrezza, proseguono dalla S.C., “l’esito positivo dell’alcoltest costituisce prova dello stato di ebbrezza (stante l’affidabilità di tale strumento in ragione dei controlli periodici rivolti a verificarne il perdurante funzionamento successivamente all’omologazione e alla taratura) con la conseguenza che è onere della difesa dell’imputato fornire la prova contraria a detto accertamento, dimostrando l’assenza o l’inattualità dei prescritti controlli, tramite l’escussione del dirigente del reparto addetto ai controlli o la produzione di copia del libretto metrologico dell’etilometro (Sez. 4, n. 31843/2023)”.
Anche sul punto della pena irrogata infine il ricorso è inammissibile, giacchè al contrario di quanto sostenuto dalla difesa, non è “prossima al massimo edittale” ma nella “media edittale prevista dall’art. 186, comma 2, cod. strada aggravato dalla circostanza di cui al co. 2-bis (che, nella specie, prevede il raddoppio delle sanzioni previste dal co. 2)”.

La decisione

Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro alla cassa delle ammende.

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giustizia riparativa

Giustizia riparativa e processo penale: regole alternative La Cassazione rammenta che l'oggetto e la finalità del percorso riparativo sono completamente diversi da quelli del processo penale, per cui non possono in entrambi operare gli stessi principi

Giustizia riparativa e processo penale

La giustizia riparativa non si fonda su principi mutuabili dal processo penale, in quanto è percorso alternativo a esso. Così la Cassazione con la sentenza n. 24343/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di appello di Milano, riformava parzialmente la sentenza del tribunale della stessa città con cui un imputato era stato condannato in ordine al reato ex art. 609 bis cod. pen. applicando le attenuanti generiche e rideterminando la pena finale, confermando altresì nel resto la sentenza.

Il ricorso

L’uomo, tramite il difensore di fiducia, proponeva ricorso per Cassazione deducendo violazione degli artt. 589 e 599 bis cod. proc. pen., avendo la corte deciso in maniera difforme rispetto a quanto stabilito in sede di intervenuto concordato. In quella sede si era chiesta l’applicazione della pena finale di anni 4 mesi 3 di reclusione con domanda altresì di accesso al programma di giustizia riparativa. Istanza tuttavia rigettata dala Corte di appello.

Inoltre, a dire della difesa, essendo stato condannato l’imputato per un reato cd. ostativo, “il denegato positivo svolgimento di un programma di giustizia riparativa prima della espiazione della pena in carcere gli avrebbe consentito di chiedere – alla luce del novellato art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario – l’applicazione di una misura alternativa, potendo chiedere così di scontare la pena fuori dell’istituto penitenziario una volta che la stessa risulterà inferiore a 4 anni”.

Giustizia riparativa e processo

Per la S.C., tuttavia, il ricorso è inammissibile. “Va premesso – affermano i giudici – che l’art. 129-bis cod. proc. pen., norma di portata generale, introdotto dall’art. 7 D. Igs. n. 150/2022, dispone che: ‘1. In ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, al Centro per la giustizia riparati va di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa”.
Inoltre, “nel caso di reati perseguiblli a querela soggetta a remissione e in seguito all’emissione dell’avviso di cui all’articolo 415-bis, il giudice, a richiesta dell’imputato, può disporre con ordinanza la sospensione del procedimento o del processo per lo svolgimento del programma di giustizia riparativa per un periodo non superiore a centottanta giorni”.
Il procedimento riparativo, tuttavia, continua la Corte richiamando la pregressa giurisprudenza (cfr. Cass. n. 6595/2023) “non è un procedimento giurisdizionale: il programma riparativo e le attività che gli sono propri appartengono non al procedimento/processo penale, quanto piuttosto all’ordine di un servizio pubblico di cura della relazione tra persone, non diversamente da altri servizi di cura relazionale ormai diffusi in diversi settori della sanità e del sociale. Ciò spiega le ragioni per le quali, all’interno del procedimento riparativo, operano regole di norma non mutuabili da quelle del processo penale, ed anzi, incompatibili con quelle del processo penale: volontarietà, equa considerazione degli interessi tra autore e vittima, consensualità, riservatezza, segretezza”.

La decisione

Ed invero, “proprio perché l’oggetto e la finalità del percorso riparativo sono completamente diversi da quelli del processo penale, non possono in entrambi operare gli stessi principi”. Motivo per cui, la domanda di ammissione al programma di giustizia ripartiva, chiariscono infine dalla S.C., “non può ritenersi parte integrante del patto di concordato, così che la decisone della corte di non sospendere il procedimento ‘a fronte di una richiesta di ammissione alla giustizia riparativa’ non integra alcuna violazione degli evocati artt. 589 e 599 bis cod. proc. pen.”.
Sulla base delle considerazioni svolte, pertanto, il ricorso è dichiarato inammissibile, con condanna al pagamento delle spese del procedimento e di tremila euro in favore della Cassa dele Ammende.

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Nis 2

NiS 2: cosa cambia con la nuova direttiva UE L’Italia ha recepito la Direttiva europea 2022/2555, relativa a misure per un livello comune elevato di cybersicurezza nell’Unione, la cosiddetta NIS 2 in vigore dal 16 ottobre 2024. Vediamo cosa cambia per la sicurezza informatica

NIS 2: il governo recepisce la direttiva

La NIS 2 è la nuova direttiva UE sulla cyber security, ossia l’insieme di tecnologie, processi e misure di protezione progettate per ridurre il rischio di attacchi informatici.

Il Governo in data 7 agosto 2024 ha approvato definitivamente lo schema del decreto legislativo, che ha recepito la NIS 2, la Direttiva europea (direttiva UE 2022/2555), relativa a misure per un livello comune elevato di cybersicurezza nell’Unione, con la quale si introducono le misure per un livello comune elevato di Cybersicurezza nell’Unione europea.

Il decreto legislativo n. 138/2024, di recepimento della direttiva UE è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’1 ottobre per entrare in vigore il 16 ottobre 2024.

L’Agenzia per la Cybesicurezza nazionale (ACN)

Come si evince dal testo, l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (ACN) assume un ruolo chiave nella supervisione dell’attuazione della Nis 2, con poteri di vigilanza nonché di previsione di sanzioni elevate in caso di inosservanza della normativa sulla cybersicurezza, con possibilità di disporre la misura dell’incapacità temporanea per i dirigenti.

Gli altri punti chiave della NIS 2

Nello specifico, la Direttiva stabilisce una serie di requisiti fondamentali che le organizzazioni devono soddisfare per garantire un elevato livello di sicurezza informatica e che includono: politiche di analisi dei rischi e di sicurezza informatica, nonchè la gestione degli incidenti.  

Obblighi per gli operatori manager e personale

La Direttiva NIS 2 stabilisce in primo luogo che gli operatori, organi di amministrazione e organi direttivi inclusi nel proprio  campo di applicazione dovranno adottare misure tecniche, operative e organizzative adeguate e proporzionate per gestire i rischi connessi alla sicurezza dei sistemi informatici e delle reti e saranno obbligati a notificare all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale,  senza indebito ritardo, eventuali incidenti che abbiano un impatto significativo sulla fornitura dei loro servizi.

A tal fine sono previsti corsi di formazione obbligatori ed essenziali a garantire l’acquisizione di conoscenze e competenze.

Notifiche degli incidenti al CSRT Italia e relative sanzioni

Gli operatori distinti in essenziali e importanti, in base alle loro competenze ed obblighi,  sono tenuti a notificare all’ACN, – che in Italia assume il nome di CSRT Italia – senza ritardo, e non appena ne vengono a conoscenza e comunque entro le 24 ore in via preliminare e non oltre le 72 ore in maniera dettagliata ,  dell’incidente informatico significativo.

Le amministrazioni centrali, regionali e locali, comprese le ASL e i comuni con più di 100 mila abitanti, sono coinvolti in prima linea nella risposta.

La Direttiva prevede diverse sanzioni severe in funzione del fatto che un operatore sia qualificato come essenziale o come importante.

Nel merito, scattano da parte dell’ACN, dopo la diffida:

  • per i soggetti essenziali, possono arrivare fino a 10 milioni di euro o al 2% del fatturato annuo globale;
  • per i soggetti importanti, fino a 7 milioni di euro o all’1,4% del fatturato annuo globale.

Viene introdotta anche la possibilità di incapacità temporanea per dirigenti che non rispettano le normative.

La Cultura come settore da proteggere

l’Italia, unica in Europa, ha inserito la Cultura – e in particolare i soggetti che svolgono attività di interesse culturale – tra i settori critici e strategici maggiormente da proteggere dal punto di vista della cybersecurity. Il controllo e l’attenzione da parte degli organi è tanto maggiore quanto più  lo sono i soggetti che gestiscono la cultura, operano in territori per i quali queste attività rappresentano un asset fondamentale, come ad esempio le città d’arte.

Basti pensare all’interruzione dell’erogazione online dei ticket per accedere al Colosseo, avvenuta lo scorso anno, a causa di un attacco cibernetico.

 

Leggi anche Cybersicurezza e reati informatici: legge in vigore dal 17 luglio

resistenza a pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale: solo con violenza o minaccia reali La Cassazione chiarisce che, ai fini della configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale, in ossequio al principio di offensività, la violenza o la minaccia devono essere reali

Reato di resistenza a pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato la violenza o la minaccia devono essere reali e idonee a coartare o ostacolare l’agire del pu. Questo, in estrema sintesi quando affermato dalla sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 18583/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Campobasso ricorre per Cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Campobasso che ha assolto una donna dal reato di cui all’art. 37 cod. pen perché il fatto non sussiste. Il pg deduce l’erronea interpretazione della norma penale avendo li tribunale ritenuto necessario, ai fini della configurabilità del reato, che la condotta penale produca come risultato quello di opporsi concretamente ed efficacemente all’atto che il pubblico ufficiale sta compiendo. Aggiunge, inoltre, che il Tribunale ha considerato la condotta dell’imputata con riferimento al rifiuto di seguire i pubblici ufficiali, mentre la contestazione riguardava le minacce rivolte dalla donna agli operanti. Rileva, infine, l’irrilevanza dello stato di agitazione sulla imputabilità della donna.

La decisione

Per gli Ermellini, però, il ricorso è inammissibile in quanto deduce un motivo versato in fatto e privo di un confronto critico con la sentenza impugnata, che, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, ha assolto l’imputata, reputando l’inidoneità delle espressioni dalla stessa pronunciate ad impedire o ostacolare il compimento dell’atto d’ufficio e l’insussistenza dell’elemento psicologico.

Conclusioni che secondo il collegio si fondano “su una interpretazione della norma incriminatrice coerente con il principio di offensività, dovendosi, al riguardo, ribadire che, ai fini della configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale, pur essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un ostacolo al compimento degli atti indicati (così, da ultimo, Sez. 6, n. 5459 del 08/01/2020), è, tuttavia, necessario che la violenza o la minaccia siano reali e connotino in termini di effettività causale la loro idoneità a coartare o ad ostacolare l’agire del pubblico ufficiale, in ragione del dolo specifico che deve sorreggere il comportamento del soggetto agente (Sez. 6, n. 45868 del 15/05/2012)”.
Parimenti corretta, conclude la S.C., dichiarando inammissibile il ricorso, è “la valutazione relativa alla insussistenza dell’elemento psicologico del reato, in considerazione della diversa finalità sottesa alla condotta tenuta dell’imputato”.

guida in stato di ebbrezza

Guida in stato di ebbrezza: no a sospensione patente per 2 anni La Cassazione ribadisce che il reato di guida in stato di ebbrezza non determina l'automatica sospensione della patente per due anni

Reato di guida in stato di ebbrezza

La guida in stato di ebbrezza non determina l’automatica sospensione della patente per due anni. Questo quanto si ricava dalla sentenza n. 22041/2024 della quarta sezione penale della Cassazione.

La vicenda

Nella vicenda, il G.I.P. del Tribunale di Gela applicava sull’accordo delle parti la pena di un mese e dieci giorni di arresto oltre a 800 euro di ammenda, sostituiti con lavoro di pubblica utilità a un imputato per il reato di cui all’art. 186, commi 2, lett. b) e 2-sexies, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, per avere condotto un’autovettura, di proprietà altrui, in stato di ebbrezza alcolica determinato dall’uso di sostanze alcoliche, con valori di tasso alcolemico rilevati di 1,60 g/l e 1,26 g/l, in fascia oraria compresa tra le ore 22.00 e le ore 07.00.
Il G.I.P. ha, altresì, applicato all’imputato la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo di due anni, sospendendone l’efficacia sino all’esito dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità.

Il ricorso

Avverso tale sentenza l’uomo proponeva ricorso per cassazione, lamentando inosservanza ed erronea applicazione di legge processuale con riferimento alla durata della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, irrogata senza tener conto di quanto convenuto dalle parti ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.
Queste ultime, infatti, si erano accordate per l’applicazione della sospensione della patente di guida per un anno, mentre, invece, essa era stata poi disposta per un periodo doppio, in tal maniera ledendo la norma dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., sotto il profilo della ricorrenza di un difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza.
Con la seconda censura, il ricorrente eccepiva inosservanza ed erronea applicazione di legge processuale con riferimento al disposto raddoppio della durata della sanzione amministrativa accessoria applicata, a suo dire non effettuabile nel caso di specie, considerato che il veicolo condotto dall’imputato non sarebbe appartenuto a terze persone – come invece ritenuto dal giudice di merito – e che la possibilità di estendere la durata della sospensione della patente di guida a due anni, in conseguenza del raddoppio, riguarderebbe la sola ipotesi prevista dall’art. 186, comma 2 lett. c), cod. strada, e non già, invece, il contestato reato di cui all’art. 186, comma 2 lett. b), cod. strada.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato e la sentenza impugnata va annullata “limitatamente alla durata della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, rinviando sul punto al Tribunale di Gela”.
Deve, infatti, essere osservato, con valenza assorbente rispetto a ogni ulteriore profilo di censura dedotto, come le parti si fossero accordate per l’applicazione della pena, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., in ordine al reato di cui all’art. 186, comma 2lett. b), cod. strada.

Con riferimento a tale fattispecie, pertanto, scrivono dalla S.C. “il G.I.P. del Tribunale di Gela ha disposto la conseguente applicazione della pena in modo palesemente distonico ed erroneo, invece, al momento della determinazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, il decidente ha fatto riferimento alla diversa, e più grave, ipotesi disciplinata dall’art. 186, comma 2 lett. c), cod. strada, espressamente prevedendo l’applicazione all’imputato della sospensione della patente di guida per due anni, e cioè in una misura corrispondente al minimo previsto dall’indicata norma, poi raddoppiato nella sua durata in ragione del fatto che «il veicolo condotto dall’imputato si apparteneva a terzi soggetti»”.

 

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occupazione arbitraria di immobile

Occupazione arbitraria di immobile altrui: il nuovo reato Occupazione arbitraria di immobile destinato al domicilio altrui: punito con il carcere fino a 7 anni il nuovo reato del decreto sicurezza

Occupazione arbitraria di immobile altrui e Ddl Sicurezza

Occupazione arbitraria di immobile destinato al domicilio altrui: in arrivo un nuovo reato. La Camera il 18 settembre 2024 ha approvato con 162 voti a favore, 91 contro e 3 astenuti il DDL Sicurezza A.C. 1660-A. Il testo, ora all’esame del Senato, si compone di 38 articoli e introduce diversi nuovi reati, tra i quali quello di occupazione arbitraria di immobili (o delle relative pertinenze) destinati a domicilio altrui.

Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui

Il reato, contemplato dal nuovo art. 634 bis c.p, è completato dal nuovo art. 321 bis c.p.p, che prevede una procedura rapida per reintegrare il titolare nel possesso dell’immobile.

Il primo comma del nuovo articolo 634 bis c.p punisce con la pena della reclusione da 2 fino a un massimo di 7 anni:

  • chi occupa l’immobile destinato al domicilio altrui con violenza o minaccia;
  • chi impedisce il rientro nell’immobile al proprietario o a chi lo detiene in modo legittimo;
  • chi si appropria di un immobile altrui con artifizi o raggiri;
  • chi cede ad altri l’immobile occupato.

Il secondo comma della norma prevede la stessa pena per chi, fuori dai casi di concorso:

  • si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile;
  • riceve o corrisponde del denaro o altre utilità per l’

Il comma tre dispone la non punibilità dell’occupante che collabori nell’accertare i fatti e rispetti volontariamente l’ordine di rilascio dell’immobile.

Il quarto comma invece dispone la punibilità del reato previa querela della persona offesa. Qualora il reato venga commesso ai danni di una persona incapace per età o infermità di mente, il reato è perseguibile d’ufficio.

Procedura di rilascio dell’immobile

Il legislatore introduce una procedura rapida per reintegrare il titolare nel possesso dell’immobile attraverso l’introduzione del nuovo articolo 321 bis c.p.p.

Previa richiesta del pubblico ministero, il giudice competente,  con decreto motivato, ordina il rilascio dell’immobile o delle pertinenze. Se l’immobile oggetto di occupazione abusiva è l’unica abitazione del denunciante, la procedura per il rilascio coattivo può essere eseguita dalla Polizia giudiziaria, dopo che il PM l’abbia autorizzata e il giudice convalidata.

Gli ufficiali della P.G che ricevono la denuncia di occupazione abusiva, effettuano quindi i primi accertamenti per verificare l’arbitrarietà dell’occupazione. A questo fine si recano direttamente presso l’immobile e ordinano all’occupante di rilasciarlo immediatamente, reintegrando il titolare denunciante nel possesso.

Qualora l’occupante non rilasci l’immobile spontaneamente, neghi l’accesso, faccia resistenza o si rifiuti di consentire l’accesso, la P.G procede in modo coattivo dopo essere stata autorizzata dal PM.

L’attività svolta viene infatti verbalizzata e il verbale viene trasmesso entro 48 ore al PM. Se il PM non dispone la restituzione dell’immobile chiede al giudice la convalida e l’emissione di un decreto, che disponga la reintegrazione nel possesso del titolare entro 48 ore dal ricevimento del verbale.

La reintegrazione nel possesso perde efficacia se non sono rispettati i suddetti due termini di 48 ore o se il giudice non emette l’ordinanza di convalida entro 10 giorni dalla ricezione della richiesta. Copia dell’ordinanza e del decreto vanno notificati immediatamente all’occupante.

Leggi anche: Decreto Sicurezza 2024: cosa prevede

affidamento in prova

Affidamento in prova anche all’estero La Cassazione chiarisce che tra le prescrizioni imposte dall'art. 47 ord. pen. non vi è una preclusione allo svolgimento di attività lavorativa all'estero

Affidamento in prova

Non può essere negato l’affidamento in prova se l’attività lavorativa comporta il suo svolgimento all’estero. Così la prima sezione penale della Cassazione con sentenza n.34727/2024 giacchè fra le prescrizioni imposte dall’art. 47 ordi. pen. non vi è una preclusione assoluta allo svolgimento di attività lavorativa all’estero.

La vicenda

La vicenda prende le mosse dall’ordinanza con cui il Tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto l’istanza con la quale un condannato aveva richiesto l’ammissione alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale in relazione alla pena di un anno e dieci mesi di reclusione relativa a sentenza di condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta commesso nel 2006. L’uomo, per mezzo del proprio difensore adisce il Palazzaccio, eccependo la nullità dell’ordinanza e del decreto contenente la descrizione delle prescrizioni imposte per violazione di legge e omessa motivazione sull’istanza di pernottamento in Svizzera a ragione dell’attività lavorativa ivi prestata, come da documentazione allegata alla domanda originaria. Benchè richiamata, la produzione documentale, infatti, a suo dire, non ha formato oggetto di disamina e motivazione alcuna. Eccepisce inoltre la nullità del provvedimento per
violazione di legge in relazione agli artt. 47 ord. pen. e 27, comma terzo, Cost. in quanto, nonostante la dimostrazione dello svolgimento di attività lavorativa presso due distinti datori di lavoro all’estero dai quali traeva il proprio
sostentamento, i giudici di merito hanno disposto prescrizioni, fra le quali il divieto di allontanarsi dalla Regione Veneto, compiere viaggi notturni e all’estero, incompatibili con le documentate attività.

Nessuna preclusione assoluta all’attività all’estero

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato. Intanto, premettono “che è ammissibile il ricorso che sia limitato alla contestazione della legittimità delle prescrizioni imposte con l’ammissione alla misura alternativa. Va, infatti assicurata continuità all’orientamento secondo cui «le prescrizioni imposte all’atto dell’affidamento in prova al servizio sociale non hanno una loro autonomia concettuale, ma fanno parte del giudizio prognostico che deve esprimere il tribunale di sorveglianza in ordine alla sussistenza delle condizioni per l’ammissione del condannato ala misura alternativa, le cui finalità rieducative e di prevenzione della recidiva, possono essere perseguite anche attraverso le prescrizioni stesse”. Ne consegue che “non viola il principio di tassatività delle impugnazioni la proposizione di ricorso limitata alla sola contestazione della legittimità delle prescrizioni imposte” (cfr. Sez. 1, n. 2026/1998).

Il ricorso coglie, inoltre, ragionano i giudici, un primo profilo di criticità dell’ordinanza impugnata relativamente all’omessa motivazione su un punto caratterizzante della richiesta di misura alternativa. In effetti, risulta dalla documentazione agli atti che il ricorrente, nell’ambito del procedimento di interesse, ha chiesto la concessione dell’autorizzazione a lavorare in Svizzera ovvero l’imposizione di prescrizioni compatibili con lo svolgimento di tale attività.

Tuttavia, “a fronte di tale istanza, il Tribunale di sorveglianza ha omesso ogni motivazione, nonostante fra le prescrizioni imposte ai sensi dell’art. 47 ord. pen. non vi sia, in assoluto, alcuna preclusione allo svolgimento di attività lavorativa all’estero”. Per cuii, il tribunale ha stabilito prescrizioni incompatibili con lo svolgimento di quella attività lavorativa trascurando totalmente le ragioni che hanno determinato l’ammissione alla misura e, ancora una volta, omettendo ogni motivazione.
La pronuncia, dunque, “contrasta con l’orientamento di questa Corte secondo cui «in tema di affidamento in prova al servizio sociale, sono illegittime le prescrizioni attuative del programma trattamentale che impongano generiche ed indiscriminate limitazioni all’attività lavorativa esercitabile dall’affidato, senza alcun vaglio preliminare che le correli al giudizio prognostico formulato nei confronti dello stesso, trattandosi di prescrizioni incompatibili con la finalità rieducativa della misura alternativa alla detenzione, collegata alla previsione di cui all’art. 27, comma 3, Cost.» (cfr. Sez. 1, n. 1257/2018).

La decisione

Da quanto esposto discende l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Milano che provvederà a colmare le lacune motivazionali alla luce degli enunciati principi di diritto.

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giurista risponde

Furto di energia elettrica e circostanza aggravante In caso di furto di energia elettrica, la natura della circostanza aggravante dell’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a un pubblico servizio, di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p., ai fini di formularne la contestazione, ha natura auto-evidente o valutativa?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

 

Nel caso di furto di energia elettrica, stante la natura valutativa e non auto-evidente della circostanza ex art. 625, comma 1, n. 7, c.p., essa deve essere esplicitamente contestata al fine di permettere all’imputato di esercitare efficacemente il proprio diritto di difesa. – Cass., sez. V, 14 giugno 2024, n. 23918.

Rispetto alle modalità con le quali deve essere contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p. dell’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a un pubblico servizio sussiste un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Per una prima impostazione interpretativa, dato che l’aggravante è di natura auto-evidente in quanto l’energia elettrica, su cui ricade la condotta di sottrazione, è, di per sé, un bene funzionalmente destinato al pubblico servizi, sarebbe legittima la contestazione posta in essere senza una specifica ed espressa formulazione che la menzioni.

Altro orientamento, invece, siccome ritiene che l’aggravante predetta abbia natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli svelte del legislatore, non considera legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza l’aggravante configurata solo dal fatto che i beni oggetto di sottrazione siano destinati al pubblico servizio.

Rammentate le indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite “Sorge del 2019 (n. 24906) secondo cui “la contestazione in fatto non dà luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive”, diversamente dai casi in cui, per le aggravanti, la previsione normativa include componenti valutative, ossia modalità della condotta integrative dell’ipotesi aggravata solo in presenza di particolari connotazioni qualitative e quantitative, i Giudici di legittimità propendono per il secondo orientamento.

In particolare, pur considerando indubbia la rilevanza pubblicistica di un bene come l’energia, la Suprema Corte ha ritenuto che ciò che rileva ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui al n. 7 dell’art. 625 c.p. è la concreta destinazione (piuttosto che la natura) del bene a un pubblico servizio, elemento che non può essere considerato alla stregua di un connotato intrinseco e auto-evidente data la pluralità di destinazioni che il bene-energia può avere e che, dunque, richiede una valutazione da parte dell’interprete, anche riguardo a norme extra-penali, in continua evoluzione.

A conferma di tale interpretazione vi sarebbe la lettera stessa dell’art. 625 c.p. che prevede, al suo interno, la compresenza di due diverse ipotesi di aggravanti, quelle previste dal n. 7 e dal n. 7bis (relativa alla commissione del fatto su componenti metalliche o altro materiale sottratto a infrastrutture destinate all’erogazione), legate tra loro da un rapporto di specialità.

Ritenuta la natura valutativa della circostanza, risulta necessario che il capo di imputazione sia formulato anche con specifico riferimento a una serie di elementi descrittivi e qualificativi relativi alla circostanza aggravante dell’essere il bene sottratto destinato a pubblico servizio così da rendere pienamente esercitabili i diritti di difesa dell’imputato. Necessità che deriva anche dal livello di tutela preteso a riguardo dall’art. 6, par. 3, lett. a) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che individua, tra i canoni dell’equo processo, come elemento prodromico ai fini della difesa il rendere in concreto edotto l’imputato della prospettazione accusatoria formulata a suo carico in tutte le sue componenti.

Contributo in tema di “Furto di energia elettrica”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

violenza sessuale

La violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) Le forme di violenza sessuale previste dal legislatore traggono origine dalla riforma epocale avvenuta con la legge n. 66/1996

Il reato di violenza sessuale

L’art. 609bis, sotto la generica rubrica «violenza sessuale», prevede e punisce come reato:

  • il fatto di chi, con violenza o minaccia, o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali; il fatto di chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • il fatto di chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali, traendo in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

In forza di tale previsione è possibile distinguere due tipi di violenza sessuale: una violenza sessuale posta in essere mediante azione diretta (violenza, minaccia, abuso di autorità) sulla persona offesa; e una violenza sessuale posta in essere mediante induzione (comma 2).

Il problema della responsabilità per omissione

Occorre ricordare, quanto alla possibilità di rispondere di violenza sessuale per omissione, che la giurisprudenza ha giustamente affermato che il genitore esercente la potestà sui figli minori, come tale investito, a norma dell’art. 147 c.c., di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell’integrità psico-fisica dei medesimi, risponde, a titolo di causalità omissiva di cui all’art. 40 cpv. c.p., degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli allorquando sussistano le condizioni rappresentate:

a) dalla conoscenza o conoscibilità dell’evento;

b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul «garante»;

c) dalla possibilità oggettiva di impedire l’evento (in tal senso, Cass. 30-1-2008, n. 4730). Si è, per converso, escluso che sussista tale obbligo di garanzia a carico dei nonni (Cass. 27-9-2011, n. 34900).

Violenza sessuale mediante azione diretta: soggetto attivo e passivo

Il comma 1 dell’art. 609bis prevede il fatto di chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali.

Soggetto attivo del reato può essere «chiunque»: si tratta, pertanto, di un reato comune, ed in particolare, di un reato ad esecuzione personale, in quanto l’autore principale è sempre il soggetto che compie l’atto sessuale con la vittima; nel caso in cui la violenza, minaccia od abuso di autorità siano opera di un terzo sarà configurabile un concorso di persona nel reato (artt. 110 e ss. c.p.).

In ordine al soggetto passivo, il legislatore non opera alcuna restrizione, né di sesso, né di altra natura: può trattarsi di qualunque essere umano, uomo o donna.

Nell’ambito dei soggetti tutelati, rientrano anche:

  • il coniuge: il concetto di violenza sessuale, come già quello di violenza carnale, non è, infatti, suscettibile di connotazioni diverse tra estranei o nei rapporti tra coniugi, godendo, senza alcun dubbio, anche il coniuge del diritto (insopprimibile ed inviolabile) di disporre liberamente del proprio corpo a fini sessuali. Ed in tal senso si è espressa, in modo constante la giurisprudenza della Cassazione, sostenendo, fra l’altro che, in tema di violenza sessuale, l’esistenza di un rapporto di «coniugio» non esclude, di per sé, la configurabilità del reato, dovendo ritenersi, alla luce di quanto stabilito dall’art. 143 c.c. in materia di diritti e doveri dei coniugi, che non sussista un diritto assoluto del coniuge al compimento di atti sessuali come mero sfogo dell’istinto sessuale anche contro la volontà dell’altro coniuge, tanto più in un contesto di sopraffazioni, infedeltà e violenze, ponendosi queste in contrapposizione rispetto ai sentimenti di rispetto, affiatamento e vicendevole aiuto e solidarietà fra le cui espressioni deve ricomprendersi anche il rapporto sessuale (Cass. 8-10-2007, n. 36962). E ciò anche quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali;
  • il soggetto dedito alla prostituzione: le condizioni e le qualità personali della persona offesa non legittimano la riconduzione del fatto all’ipotesi di minore gravità, in quanto il diritto al rispetto della libertà sessuale trova eguale riconoscimento nei confronti di chiunque, a prescindere dal motivo e dal numero dei rapporti usualmente intrattenuti (Cass. 18-1-2017, n. 2469).

Soggetto passivo può essere unicamente un essere umano vivente: ne consegue che:

  • la cd. necrofilia (sfogo di libidine commesso con cadaveri) esula dall’ambito dell’art. 609bis, e può assumere rilievo penale unicamente nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 410 c.p. (vilipendio di cadavere);
  • i rapporti sessuali con animali esulano, a loro volta, dall’ambito dell’art. 609bis e possono assumere rilievo penale unicamente nell’ambito delle fattispecie previste dagli artt. 638 (uccisione o danneggiamento di animali altrui) e 544ter c.p. (maltrattamento di animali).

L’elemento oggettivo: violenza, minaccia od abuso

Sotto il profilo oggettivo assumono rilievo la violenza, minaccia od abuso di autorità poste in essere per costringere la vittima al compimento di un atto sessuale non voluto.

La violenza consiste nell’esercizio di una qualsiasi forza fisica, anche se non spinta al massimo della brutalità ed irresistibilità, diretta a vincere la resistenza opposta della vittima. Ed infatti integra il requisito oggettivo della condotta violenta non solo quella che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da realizzare un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, così venendosi a superare la contraria volontà del soggetto passivo (Cass. 14-7-2010, n. 27273). In altri termini la condotta vietata consiste sia nella violenza fisica in senso stretto, sia nella intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinataria, o comunque prevenendone la manifestazione di dissenso.

La minaccia, a sua volta, consiste nel manifestato proposito di arrecare un danno alla vittima, ad altre persone o alle cose, al fine di coartare la volontà della vittima e farle accettare l’atto voluto di mira dall’agente.

Rientra nella nozione di minaccia impiegata dall’art. 609bis c.p. anche la prospettazione, da parte del soggetto agente, di esercitare un diritto quando essa sia finalizzata al conseguimento dell’ulteriore vantaggio di tipo sessuale, non giuridicamente tutelato, ottenendosi per tale via un profitto ingiusto e contra ius.

Come visto l’abuso di autorità costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609bis c.p. Ad avviso della Cassazione, esso presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Cass. Sez. Un. 1-10-2020, n. 27326). Naturalmente, perché possa parlarsi di abuso di autorità, occorre che l’atto sessuale non sia stato voluto dalla vittima ma che l’abusante abbia approfittato della propria condizione di superiorità per indurre la persona offesa a subire. In altri termini l’abuso di autorità deve determinare una vera e propria costrizione al compimento degli atti sessuali.

Si pone anche il problema di stabilire se la relazione di dipendenza tra il soggetto agente e la vittima debba essere attuale (sussistente, cioè, al momento dell’atto sessuale), o possa essere anche cessata, purché si protragga il timore riverenziale provocato dalla stessa relazione: se, tuttavia, si ha riguardo agli elementi che costituiscono la fattispecie oggetto di incriminazione, ed alla ratio della stessa che va individuata nel possibile timore riverenziale che può ingenerarsi nella vittima, risulta chiaro che la relazione di dipendenza non attuale non assumerà alcun rilievo, soltanto se essa sia venuta meno anche di fatto, se, cioè, il soggetto agente non conserva alcun potere concreto sulla vittima.

Per quanto riguarda il problema della necessità, o meno, che la relazione di dipendenza che origina l’abuso intercorra tra l’autore del fatto e la vittima, si impone il rilievo che ben potrà, in concreto, l’abuso essere posto in essere per favorire il compimento di un atto sessuale tra la vittima ed un terzo: rileva, pertanto, non soltanto la relazione diretta (quella intercorrente tra il soggetto agente e la persona offesa), ma anche quella indiretta (sussistendo, in tal caso, una ipotesi di concorso di persone nel reato, tra il soggetto che abusa della propria autorità, ed il terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla vittima).

È opportuno precisare che, qualora l’abuso sia rivolto in danno di persona sottoposta a limitazioni della libertà personale, si versa nell’ipotesi aggravata di cui all’art. 609ter, comma 1, n. 4).

Sia la violenza, sia la minaccia, sia l’abuso di autorità devono essere tali da poter concretamente coartare la volontà della persona offesa.

In particolare, la violenza e la minaccia devono essere poste in essere con connotati che ne esteriorizzino la gravità e la serietà. L’idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima nei reati di violenza sessuale vanno esaminate non secondo criteri astratti aprioristici, ma tenendosi conto, in concreto, di ogni circostanza oggettiva (di tempo, di luogo) e soggettiva (personalità del soggetto attivo e della vittima); sicché anche una semplice minaccia o intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, può esser sufficiente ad integrare, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase della condotta tipica dei reati in esame, gli estremi della violenza.

L’atto sessuale

Il concetto di «atto sessuale» costituisce una delle più importanti innovazioni apportate dalla nuova normativa.

La precedente disciplina era incentrata sulla distinzione tra:

  • congiunzione carnale, che si ha ogni qualvolta avvenga una qualsiasi compenetrazione, anche abnorme, tra organi genitali, ovvero tra un organo genitale ed un altro organo: la nozione ricomprendeva sia il coito anale che quello orale;
  • atti di libidine violenti, che si concretizzano in ogni forma di contatto corporeo (pur non inerente agli organi genitali, o a parti nude del corpo), diversa della penetrazione, che, per le modalità con cui si svolge, costituisca inequivoca manifestazione di ebbrezza sessuale.

Proprio in virtù di tale distinzione, ai fini della qualificazione giuridica dei fatti di volta in volta oggetto di indagine, assumeva in passato decisivo rilievo l’accertamento della qualità dell’atto compiuto (e cioè il quantum di penetrazione, la completa congiunzione carnale, o l’atto idoneo a procurare una diversa soddisfazione sessuale): ciò giustificava odiose indagini (ed odiose domande, poste da taluni difensori con spregio assoluto di ogni etica professionale, e più ancora morale), che costringevano le vittime a raccontare (e ricordare) la sequenza di oltraggiose infamie subìte; il processo si risolveva, spesso, in un ulteriore supplizio per la vittima, tratta al cospetto di imputati talora arroganti e sprezzanti (le cronache processuali sono piene di simili episodi).

Avuto riguardo alla diversa oggettività giuridica del reato di violenza sessuale (che, nella nuova configurazione, offende la libertà individuale della vittima), oltre che all’esigenza di toglier rilievo a distinzioni atte ad offendere ulteriormente la dignità della vittima, il legislatore ha incentrato il disvalore della nuova fattispecie nel compimento di un atto sessuale non voluto dalla vittima.

Il concetto di atto sessuale, definibile come ogni condotta che si concretizza nella manifestazione esteriore di un istinto sessuale ricomprende, pertanto, sia la congiunzione carnale (ed, in particolare, ogni forma, anche abnorme, di coito) sia gli atti di libidine, e, quindi, oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest’ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale.

La fattispecie criminosa di violenza sessuale è integrata, pur in assenza di un contatto fisico diretto con la vittima, quando gli «atti sessuali», quali definiti dall’art. 609bis c.p., coinvolgano oggettivamente la corporeità sessuale della persona offesa e siano finalizzati ed idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale, nella prospettiva del reo di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale. In giurisprudenza si è giunti ad affermare che, in tema di reati contro la libertà sessuale, gli atti sessuali «non convenzionali» possono essere ritenuti leciti nella misura in cui si svolgano in base ad un consenso dei partecipanti che deve protrarsi per tutta la durata degli stessi (Cass. 26-11-2021, n. 43611). Quanto al bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata, allorquando, in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della vittima (Cass. 23-10-2019, n. 43423).

In conclusione, dunque, ed alla luce anche della più recente giurisprudenza, possiamo affermare che devono includersi nella nozione di atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene e che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica; tra questi vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica: la prevalenza dell’aspetto oggettivo e non di quello soggettivo, come avveniva in precedenza per gli atti di libidine, discende dalla differente collocazione e dal diverso bene giuridico protetto dai reati introdotti dalla L. 15-2-1996, n. 66 rispetto a quelli in precedenza contemplati dal codice del 1930.

Non è richiesto, per la sussistenza del reato, che gli atti sessuali siano compiuti dall’autore della violenza: come ha precisato la giurisprudenza, infatti, la condotta vietata dall’art. 609bis comprende, se connotata da costrizione, sia ogni forma di congiunzione carnale tra autore del reato e soggetto passivo, sia qualsiasi atto che offende in modo diretto ed univoco la libertà sessuale della vittima (requisito oggettivo), attraverso l’eccitazione dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del suo istinto sessuale (requisito soggettivo); di conseguenza, il delitto di violenza sessuale è configurabile non solo nei casi in cui avvenga un contatto fisico diretto tra soggetto attivo e soggetto passivo, ma anche quando il soggetto attivo, al fine del soddisfacimento del proprio piacere sessuale, costringa due soggetti diversi, da considerare entrambi soggetti passivi, a compiere o subire atti sessuali solo tra loro.

Il dissenso della persona offesa

È opportuno ricordare che il dissenso della persona offesa al compimento dell’atto sessuale è elemento costitutivo del reato di cui all’art. 609bis (al pari di quelli dianzi indicati). Ciò significa che il consenso del partner non assume il ruolo di elemento scriminante ex art. 50 c.p. ma esclude la tipicità del fatto. In altre parole l’atto sessuale con persona consenziente fa si che il soggetto agente non compia una violenza sessuale scriminata, ma tenga una condotta diversa da quella tipica.

Al riguardo, la giurisprudenza ha ricordato che il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609bis c.p. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga meno in itinere a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso (in tal senso, Cass. 21-1-2008, n. 4532).

Ad avviso della Cassazione, in tema di violenza sessuale, la sussistenza del consenso all’atto, che esclude, come detto, la configurabilità del reato, deve essere verificata in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass. 4-3-2022, n. 7873). Si è, altresì, affermato che l’assunzione, da parte della persona offesa, di sostanze alcoliche o stupefacenti in quantità tali da comportare l’assoluta incapacità di esprimere il proprio consenso, rende configurabile, nei suoi confronti, il delitto di violenza sessuale per costrizione, di cui all’art. 609bis, comma 1, c.p. e non quello di violenza sessuale per induzione di cui all’art. 609bis, comma 2, c.p. (Cass. 4-3-2022, n. 7873).

L’elemento soggettivo

Sotto il profilo soggettivo è richiesto il dolo generico caratterizzato dalla volontà dell’atto sessuale, con la coscienza di tutti gli elementi essenziali del fatto.

Tra questi, come si è detto, rientra (oltre che la violenza sessuale, la minaccia, l’abuso di autorità) il dissenso della persona offesa: ne consegue che l’erroneo convincimento che il partner sia consenziente, integrando gli estremi dell’errore sul fatto che costituisce reato, ex art. 47, comma 1, esclude la punibilità dell’agente in quanto esclude il dolo necessario. Ciò vale anche nell’ipotesi in cui l’errore sul consenso della persona offesa sia determinato da colpa, in quanto il reato di cui all’art. 609bis non è previsto dalla legge come delitto colposo.

Qualora, invece, il soggetto agente ignori l’esistenza del consenso del partner e, dunque, creda per errore di compiere una violenza sessuale, trova applicazione l’art. 49, comma 1, c.p. (cd. reato putativo) in forza del quale è esclusa la punibilità per il reato erroneamente ritenuto esistente, fermo restando la punibilità per un diverso reato (ad esempio, violenza o minaccia) del quale concorrano gli elementi costitutivi (art. 49, comma 3).

In giurisprudenza si afferma che, in tema di violenza sessuale, costituendo il dissenso della persona offesa un elemento costitutivo, sia pure implicito, della fattispecie, necessario perché sussista la condotta tipica, l’errore su di esso rileva come errore di fatto, sicché incombe sull’imputato l’onere di fornire la prova del relativo assunto (Cass. 31-1-2022, n. 33326).

Consumazione e tentativo

Ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 609bis è sufficiente il compimento dell’atto sessuale come prima inteso, risultando priva di rilievo l’eventuale concupiscenza (emissio seminis) o soddisfazione che può derivarne.

Nessun dubbio può nutrirsi sulla configurabilità del tentativo: è opportuno tener presente, però, che, a seguito dell’unificazione, nel più ampio concetto di atto sessuale, della violenza carnale e degli atti di libidine violenti, sarà configurabile il tentativo in presenza di atti che, pur diretti all’atto sessuale, non si concretizzino in alcun approccio fisico, pur se sia stata già posta in essere la violenza, la minaccia o l’abuso di autorità.

In tal senso, in giurisprudenza si afferma che è configurabile il tentativo del reato previsto dall’art. 609bis c.p. in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l’agente non ne ha raggiunto le zone genitali o erogene ovvero non ha provocato un contatto tra le proprie parti intime e la vittima (Cass. 24-3-2022, n. 10626). Si è ritenuto il tentativo, altresì, nella condotta di colui che, all’esplicito rifiuto di consumare un rapporto sessuale, reitera più volte la richiesta ponendo in essere violenze o minacce che, sebbene non comportino una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, siano comunque chiaramente finalizzate a vincerne la resistenza (Cass. 14-10-2015, n. 41214). In sintesi, ai fini dell’integrazione del tentativo di reati a sfondo sessuale sono necessarie, sul piano soggettivo, l’intenzione dell’agente di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e, sul piano oggettivo, l’idoneità della condotta a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale, anche, eventualmente, ma non necessariamente, attraverso contatti fisici, sia pure di tipo superficiale e-o fugace, non indirizzati verso zone cd. erogene (Cass. 1-6-2011, n. 21840).

La violenza sessuale presunta

Il comma 2 dell’art. 609bis disciplina due fattispecie di violenza sessuale mediante induzione (o, come talvolta è chiamata nella prassi, violenza sessuale presunta), poste in essere (non secondo generici e non definiti comportamenti idonei a suggestionare la volontà della vittima, bensì) secondo modalità specificamente descritte e che sono:

  • l’abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • l’aver tratto in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

In entrambe le figure la persona offesa consente all’atto sessuale, ma il suo consenso è viziato dall’inganno o dall’abuso che il soggetto agente compie giovandosi dello stato di inferiorità fisica o psichica della stessa persona offesa: in esse, quindi, il consenso si configura quale elemento strutturale della fattispecie criminosa, e non può essere conseguentemente valutato quale circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62, n. 5) (concorso del fatto doloso della persona offesa).

Esaminiamo le due forme di induzione:

a) L’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima

La prima delle due forme di induzione fa riferimento, con formulazione generica, ad una strumentalizzazione di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, da qualunque causa siano esse state cagionate, anche se si tratta di causa indipendente dal fatto del colpevole, purché le stesse siano sussistenti al momento dell’atto sessuale: non sussisterà alcun reato nel caso di «intervalla insaniae», in cui cioè la persona offesa, pur fisicamente o psichicamente inferma, abbia riacquistato per intero il pieno possesso delle proprie capacità fisiche e psichiche, prestando validamente il proprio consenso all’atto sessuale nel corso di un «lucido intervallo».

In giurisprudenza si afferma che tra le condizioni di inferiorità psichica rilevanti a norma dell’art. 609bis, comma 2, n. 1), c.p. rientrano tutte quelle che siano tali da determinare una posizione vulnerabile della vittima, indipendentemente dall’esistenza di patologie mentali, comprese quelle determinate da credenze esoteriche in grado di suggestionare la persona offesa, delle quali l’agente approfitti spingendo o convincendo quest’ultima ad aderire ad atti sessuali che, diversamente, non avrebbe compiuto (Cass. 11-11-2020, n. 31512). Quanto all’induzione, in particolare, si è affermato che essa si realizza anche quando, con un’opera di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge, istiga o convince la persona che si trova in stato di inferiorità ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (Cass. 3-6-2010, n. 20766).

Questo speciale stato non deve, tuttavia, assumere rilievo soltanto sotto un profilo astratto, ma va posto in necessario raffronto con la situazione di fatto concretamente esistente al momento dell’atto sessuale, con riferimento sia al contesto esterno nel quale i fatti sono inseriti (per accertare l’eventuale esistenza di modifiche intervenute nel tempo, che abbiano causato una positiva evoluzione della personalità della vittima, eliminando la condizione di inferiorità psichica), sia alla persona del soggetto agente (onde accertare se quest’ultimo abbia, o meno, avuto consapevolezza dell’esistenza di una condizione di menomata resistenza della vittima).

In un esaustivo pronunciamento in materia, in sintesi, la Cassazione ha avuto modo di affermare che per la sussistenza del reato di cui all’art. 609bis, comma 2, n. 1), c.p., è necessario accertare che:

1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto;

2) il consenso dell’atto sia viziato da tale condizione;

3) il vizio sia riscontrato caso per caso e non presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona, quando non sia tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento, se necessario, fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi;

4) il consenso sia frutto dell’induzione;

5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato;

6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedano (Cass. 23-11-2018, n. 52835).

Tra i casi di inferiorità fisiopsichica ben possono rientrare, secondo una consolidata giurisprudenza che la dottrina recente ritiene ancor oggi valida:

  • lo stato di tossicodipendenza, in quanto il soggetto, pur di procurarsi gli stupefacenti, è disposto a qualsiasi azione, anche cedere il proprio corpo (Cass. 6173/1999);
  • l’assunzione di psicofarmaci (cosiddetti tranquillanti), quando da esso derivi una sospensione della attenzione e dei poteri di controllo che renda il soggetto medesimo incapace di normale resistenza all’azione del colpevole ed a quest’ultimo consenta di commettere violenza carnale (Cass. 624/1996);
  • l’assunzione di una quantità di bevande alcoliche tale da determinare un evidente indebolimento psichico di cui era pienamente consapevole il soggetto attivo per essere stato presente all’assunzione delle bevande stesse (Cass. 39800/2016).

b) L’inganno mediante sostituzione di persona

La fattispecie di cui al n. 2) dell’art. 609bis fa riferimento al caso, tradizionalmente discusso in dottrina, in cui il soggetto agente, attraverso l’impiego di mezzi fraudolenti, si sostituisca alla persona in relazione alla quale soltanto la vittima avrebbe prestato il consenso all’atto sessuale (si pensi al caso di chi, avvalendosi dell’oscurità, approfitti di una donna sostituendosi al di lei marito).

Si ritiene (AMBROSINI) che la «sostituzione di persona» di cui parla la norma è quella tipica prevista dall’art. 494; ne consegue che integra la fattispecie in esame l’attribuirsi falsamente la qualità di «medico» per compiere atti lascivi su una donna.

Elemento soggettivo

Vale quanto detto per il comma 1 dell’art. 609bis. Va solo precisato che per le ipotesi in esame il soggetto deve essere consapevole della particolare condizione della vittima (per il n. 1) o deve volere l’inganno (per il n. 2).

Pena ed istituti processuali per le due figure di violenza sessuale

Per effetto dei correttivi al sistema sanzionatorio, dovuti alla L. 19-7-2019, n. 69 (cd. «Codice rosso»), la pena è la reclusione da sei a dodici anni (ante riforma era la reclusione da cinque a dieci anni), pena diminuita in misura non eccedente i due terzi nei casi di minore gravità. L’arresto in flagranza è obbligatorio (facoltativo nelle ipotesi di minore gravità), ed il fermo consentito. Si procede a querela della persona offesa (d’ufficio nei casi previsti dall’art. 609septies, comma 4, nonché in presenza delle aggravanti di cui agli artt. 270bis.1, comma 1 e 416bis.1, comma 1 c.p.) e la competenza spetta al Tribunale collegiale.

L’attenuante di cui all’art. 609bis, comma 3

La circostanza attenuante prevista nel comma 3 dell’art. 609bis consente, nei casi di minore gravità, una riduzione della pena da applicare, nella misura massima di due terzi.

Si tratta di una circostanza attenuante:

  • speciale (in quanto prevista solo per i reati in oggetto);
  • oggettiva (concernendo casi di minore gravità, da individuare avendo riguardo alla natura, l’oggetto, la specie, i mezzi, il tempo, il luogo ed ogni altra modalità dell’azione, od anche la gravità del danno: essa, come tale, ai sensi dell’art. 118 c.p., in caso di concorso di persona nel reato, risulterà applicabile a tutti i concorrenti per il solo fatto di sussistere);
  • obbligatoria (sussistendo i presupposti per la sua concessione, il giudice dovrà necessariamente operare la diminuzione di pena, conservando ampia discrezionalità soltanto in ordine alla quantificazione della diminuzione, da un terzo a due terzi);
  • ad effetto speciale (ex art. 63, comma 3, c.p.), comportando una diminuzione di pena in misura superiore ad un terzo della pena base;
  • ad efficacia comune (operando la diminuzione rispetto alla pena base);
  • compatibile con il tentativo (art. 56 c.p.): in proposito, si è affermato in giurisprudenza che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità nel tentativo di violenza sessuale, non si deve tenere conto dell’azione effettivamente compiuta dall’agente, ma di quella che lo stesso aveva intenzione di porre in essere e che non è stata realizzata per cause indipendenti dalla sua volontà (Cass. 18-4-2017, n. 18793).

Il vero problema che pone l’attenuante in esame è quello di dare un contenuto concreto all’espressione «minore gravità» usata dal legislatore e, quindi, di individuare parametri oggettivi cui ancorare la maggiore o minore gravità del fatto.

In concreto, ed alla luce dell’esperienza dottrinaria e giurisprudenziale maturata con riguardo ad analoghe figure, può ritenersi che ai fini della concessione dell’attenuante per i «casi di minore gravità» dovrà considerarsi il nocumento che il reato, ove consumato, avrebbe cagionato alla persona offesa, in rapporto all’oggetto materiale del reato stesso, ed al grado di compressione dell’altrui libertà personale (sessuale) che avrebbe caratterizzato il reato consumato, senza aver riguardo all’effetto conseguente al mero fatto materiale del tentativo; ricorrono, quindi, gli estremi per l’applicazione dell’attenuante in esame in tutti quei casi in cui, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà personale (sessuale) della vittima sia stata compressa in maniera meno grave (ad esempio, l’atto sessuale compiuto fruendo dell’iniziale consenso del partner nonostante la successiva ed immotivata revoca del consenso stesso).

Più volte chiamata ad esprimersi in merito al senso da attribuire alla locuzione «minore gravità», la Cassazione ha avuto modo di affermare quanto segue: il riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità del fatto non è impedito dalla commissione di una pluralità di episodi illeciti in danno di diverse persone offese, la cui libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave (Cass. 20-6-2016, n. 25434); la mancanza di contatto fisico tra l’autore del reato e la vittima non è determinante ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di minore gravità (Cass. 2-5-2013, n. 19033); non può essere concessa nell’ipotesi di reato di violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609octies c.p., in quanto trattasi di attenuante specifica prevista soltanto per la violenza sessuale individuale ed essendo peraltro incompatibile logicamente con la maggiore gravità di una violenza sessuale di gruppo (Cass. 15-11-2007, n. 42111); ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante della «minore gravità» non rileva la semplice assenza di un rapporto sessuale con penetrazione, in quanto è necessario valutare il fatto nella sua complessità (Cass. 6-3-2009, n. 10085); l’attenuante di cui all’art. 609bis, ultimo comma, c.p. non può essere di per sé esclusa per la sussistenza di una o più circostanze aggravanti, occorrendo in tal caso valutare se queste ultime, in relazione al bene giuridico tutelato, incidano sui parametri che rilevano ai fini dell’accertamento della minore gravità del fatto, costituiti dal grado di compressione della libertà sessuale subito dalla vittima e dalla consistenza del danno arrecatole (Cass. 19-2-2020, n. 6502); in tema di violenza sessuale, non è di ostacolo al riconoscimento della circostanza attenuante speciale del fatto di minore gravità di cui all’art. 609bis, comma 3, c.p., il fatto che il reato sia commesso da un docente, all’interno di un istituto scolastico, in danno di allievi, posto che l’abuso di autorità è già stato considerato dal legislatore come elemento integrativo della fattispecie incriminatrice, nonché ai fini della procedibilità d’ufficio del reato (Cass. 30-5-2023, n. 35303); in tema di violenza sessuale, il riconoscimento dell’attenuante della minore gravità, nel caso di più fatti in continuazione ai danni della medesima persona offesa minorenne, richiede che ogni singolo fatto sia inquadrato in una valutazione globale, posto che anche un fatto, ritenuto di modesta gravità se valutato singolarmente, può, ove replicato, comportare un aggravamento di intensità della lesione del bene giuridico così da comportare l’esclusione dell’attenuante speciale (Cass. 24-11-2022, n. 9308); in tema di reati sessuali, non ricorre l’attenuante della minore gravità del fatto, di cui all’art. 609bis, comma 3, c.p., nel caso in cui la violenza sessuale sia perpetrata dal genitore ai danni del proprio figlio, trattandosi di condotta che, profanando gravemente la sfera sessuale della vittima, determina uno sviamento dalla funzione di accudimento e protezione propria della figura genitoriale (Cass. 17-12-2021, n. 23078); in tema di violenza sessuale, anche in caso di solo sopravvenuto dissenso della vittima al rapporto sessuale è legittimo il diniego della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, quando, per i mezzi, le modalità esecutive della condotta, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, e le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, si realizzi una significativa compromissione della libertà sessuale (Cass. 22-1-2020, n. 16440).

La violenza sessuale aggravata (artt. 609ter e duodecies)

L’art. 609ter (oggetto di numerosi correttivi succedutisi nel tempo) prevede, nei suoi due commi, una serie di circostanze aggravanti.

In particolare il comma 1, dispone che la pena stabilita dall’art. 609bis è aumentata di un terzo se i fatti ivi previsti sono commessi:

  • nei confronti di persona della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il tutore;
  • con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa.

Ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’arma, è necessario che il reo sia palesemente armato, ma non che l’arma sia addirittura impugnata per minacciare, essendo sufficiente che essa sia portata in modo da poter intimidire (Cass. 26-2-2021, n. 7754). Quanto all’uso di sostanze narcotiche, si verifica quando lo stato di incoscienza della vittima sia stato provocato mediante la somministrazione di farmaci anestetici allo scopo di consentire all’agente di porre in essere la condotta vietata;

  • da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricati di pubblico servizio;
  • su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale;

Tale circostanza include anche le ipotesi nelle quali lo stato del soggetto passivo non discenda da un potere pubblicistico ed abbia natura illecita, comprensiva del sequestro di persona.

  • nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto;
  • all’interno o nelle immediate vicinanze di istituto d’istruzione o di formazione frequentato dalla persona offesa;
  • nei confronti di donna in stato di gravidanza;
  • nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza.

Sussiste «relazione affettiva» quando il soggetto attivo possieda o abbia posseduto determinate qualità soggettive che, indipendentemente sia dalla convivenza con la vittima, sia dalla stabilità e/o durata della «relazione», facilitino il delitto consentendo all’agente lo sfruttamento del rapporto di fiducia della vittima nei suoi confronti e l’accesso violento o abusivo nella sfera più intima di quest’ultima;

  • se il reato è commesso da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività.

Sia questa aggravante, che la successiva, introdotte dal D.Lgs. 4-3-2014, n. 39, costituiscono la traduzione normativa di taluni dei precetti contenuti nell’art. 9 della direttiva 2011/93/ UE, sostitutiva della decisione quadro 2004/68/ GAI, nel quale gli Stati destinatari si impegnano ad adottare le misure necessarie affinché possano essere considerate figure circostanziali dei delitti oggetto della direttiva il fatto che «[…] d) il reato è stato commesso nel contesto di un’organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24-10-2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata; […] g) il reato è stato commesso ricorrendo a violenze gravi o ha causato al minore un pregiudizio grave»;

  • se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

La figura prevede due distinte ipotesi, di cui solo la seconda prende in considerazione l’età della vittima, limitandosi la prima a considerare le «violenze gravi», a prescindere dal fatto che la vittima del reato sia maggiorenne o minorenne;

  • se dal fatto deriva pericolo di vita per il minore.

Tale configurazione aggravata rientra fra le novità disciplinari dovute alla L. 23-12-2021, n. 238 (nota come Legge europea 2019-2020). Nello specifico, la modifica appare volta a recare attuazione a quanto previsto nell’art. 9, lett. f) della Direttiva 2011/93/UE, il quale dispone che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché sia considerata quale aggravante, con riferimento ai reati sessuali su minori (specificamente indicati negli artt. da 3 a 7 della direttiva stessa) la circostanza per la quale «l’autore del reato, deliberatamente o per negligenza, ha messo in pericolo la vita del minore».

Ai sensi del comma 2 della medesima previsione, la pena stabilita dall’art. 609bis è aumentata della metà se i fatti ivi previsti sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici. La pena è raddoppiata se i fatti di cui all’art. 609bis sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci.

Si evidenzia che l’aggravante in commento è stata oggetto di numerosi correttivi, il più recente dei quali operato dalla L. 19-7-2019, n. 69, cd. «Codice rosso». La prima delle modifiche effettuate si traduce in un correttivo di coordinamento rispetto all’incremento sanzionatorio della fattispecie di riferimento (la violenza sessuale, ex art. 609bis, la cui risposta sanzionatoria, come visto, è stata elevata, passando dalla reclusione da cinque a dieci anni alla reclusione da sei a dodici anni). Di qui l’esigenza di richiamare direttamente la figura-base e prevederne un aumento di pena. Inoltre, attraverso le coordinate innovazioni concernenti la prima e la quinta di tali previsioni, si è, poi, disposto che la violenza sessuale commessa dall’ascendente, dal genitore anche adottivo o dal tutore sia sempre aggravata, a prescindere dall’età della vittima (prima del correttivo era aggravata solo la violenza commessa da questi soggetti in danno di minorenne, per tal via ritenendo di apprestare una maggior tutela nell’ambito delle relazioni familiari, spesso sede di turpi episodi criminosi del genere tipizzato dalla norma). Si è, infine, provveduto ad una rimodulazione delle aggravanti quando la violenza sessuale sia commessa in danno di minore. Si prevede, infatti, un aumento di pena progressivamente maggiore, quanto meno elevata sia l’età della vittima (un terzo della pena-base della violenza sessuale per gli infradiciottenni, la metà per gli infraquattordicenni ed il doppio per coloro che non abbiano compiuto i dieci anni). Prima del correttivo, si prevedeva esclusivamente una aggravante per il fatto commesso in danno di minore di anni dieci.

Per effetto, infine, dell’art. 609duodecies (introdotto dal decreto del 2014 di cui si è appena detto) la violenza sessuale, ma anche le fattispecie di reato di cui agli artt. 609quater, quinquies, octies ed undecies, sono aggravate (con incremento di pena non eccedente la metà) se commesse con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche (per tal via disincentivando l’impiego della telematica quale strumento di approccio alle vittime).

Si è affermato in giurisprudenza che, in tema di reati sessuali, è configurabile l’aggravante dell’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di acceso alle reti telematiche, di cui all’art. 609duodecies c.p., nel caso in cui l’agente ponga in essere una qualsiasi azione volta a rendere maggiormente difficoltosa la propria identificazione, eludendo le normali modalità di riconoscimento (Cass. 23-11-2022, n. 44453).

 

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ordine carcerazione

Ordine di carcerazione: cos’è e come funziona L’ordine di carcerazione è il provvedimento con cui il PM dispone la carcerazione di un soggetto condannato, ma non detenuto 

Ordine di carcerazione: definizione

L’ordine di carcerazione è un provvedimento di competenza del Pubblico Ministero. L’articolo 656 c.p.p al comma 1 dispone infatti che quando una sentenza di condanna deve essere eseguita il PM emette un ordine di esecuzione con cui dispone la carcerazione del condannato, se non ancora detenuto. Qualora il condannato si trovi già in stato di detenzione l’ordine di esecuzione viene comunicato al Ministero della Giustizia e notificato all’interessato.

Contenuto dell’ordine di carcerazione

Il comma 3 dell’articolo 656 c.p.p stabilisce il contenuto dell’ordine di carcerazione, che deve essere notificato sia al condannato che al suo difensore. Il provvedimento deve contenere in particolare i seguenti dati:

  • le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e qualsiasi altra informazione utile a identificarla;
  • l’imputazione;
  • il dispositivo del provvedimento di condanna e le disposizioni necessarie a darvi esecuzione;
  • l’avviso al condannato che ha il diritto di accedere ai programmi di giustizia riparativa;
  • l’avviso al condannato (se il processo si è svolto in sua assenza) del diritto di chiedere, entro 30 giorni dalla conoscenza della sentenza, la restituzione dei termini per poter impugnare la decisione o chiedere la rescissione del giudicato.

Ordine di carcerazione per madre di figli minori

Qualora l’ordine di esecuzione venga emanato nei confronti di una madre con figli minori il provvedimento stesso deve essere comunicato anche al Procuratore della Repubblica che opera presso il Tribunale dei Minorenni che ha la competenza nel luogo in cui deve essere eseguita la sentenza.

Modalità di esecuzione dell’ordine di carcerazione

Il comma 4 dell’articolo 656 c.p.p, per quanto riguarda  le modalità di esecuzione dell’ordine di carcerazione, rinvia all’art. 277 c.p.p. La norma, prevista per le misure cautelari, ma estensibile anche all’ordine di carcerazione, stabilisce che l’esecuzione debba avvenire nel rispetto della salvaguardia dei diritti della persona che vi è sottoposta. L’esercizio dei diritti della persona però non deve essere incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto.

Liberazione anticipata

Quando il PM deve emettere l’ordine di carcerazione deve prima effettuare dei controlli.

Qualora il PM rilevi che il soggetto nei cui confronti si deve eseguire l’ordine  di carcerazione, tranne che in casi particolari, computando le detrazioni di cui all’art. 54 Legge n. 354/1975 (che vengono applicate se il detenuto partecipi all’opera di rieducazione), debba ancora scontare una pena detentiva di 4, 5 e 6 anni nei casi e per i reati indicati nel comma 5 dell’art. 656 c.p.p, previa verifica dell’esistenza di periodi di custodia cautelare o di pena fungibile, trasmette gli atti al Magistrato di Sorveglianza. Quest’ultimo, in presenza di presupposti di legge, provvede con ordinanza alla liberazione anticipata del soggetto. Il PM può trasmettere gli atti al Magistrato di Sorveglianza per la decisione sulla libertà anticipata anche se il condannato si trova in stato di custodia cautelare in carcere.

Detenzione domiciliare: in quali casi?

Il PM, prima di emettere l’ordine di esecuzione può chiedere al Magistrato di Sorveglianza di disporre in via provvisoria, fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, la detenzione domiciliare se:

  • il condannato ha un’età pari o superiore a 70 anni e la pena residua da espiare è compresa tra i due e i 4 anni,
  • il condannato si trova agli arresti domiciliari per gravissimi motivi di salute.

Sospensione dell’esecuzione

Il PM, tranne che in casi particolari, se rileva che la pena detentiva da applicare al condannato, anche come residuo di una pena maggiore non supera i 3, 4 e 6 anni, nei casi specificati dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p, può sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione.  Se però il condannato si trova agli arresti domiciliari, in presenza dei presupposti specificati dal comma 10, il PM può chiedere al Tribunale di Sorveglianza di applicare una misura alternativa alla detenzione (articolo 47, 47 ter e 50 comma 1 legge n. 354/1975).

 

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