giurista risponde

Peculato e truffa aggravata: differenze Quale elemento differenzia il delitto di peculato da quello di truffa aggravata?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

A differenziare le due figure criminose è il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso quale diretta conseguenza dell’inganno; il peculato presuppone il legittimo possesso per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri. – Cass. VI, 4 agosto 2023, n. 34517. 

Nella fattispecie al vaglio della Sesta Sezione, l’imputato aveva indotto in errore curatore e giudice delegato che, secondo la prevista procedura, avevano compiuto in favore dell’agente l’atto di disposizione patrimoniale consistente nella liquidazione dei crediti relativamente simulati insinuati al fallimento.

La Corte d’Appello aveva riconosciuto la sussistenza, nel caso di specie, degli elementi necessari alla realizzazione della fattispecie di cui agli artt. 48 e 314 c.p., e non invece di truffa aggravata, in ragione della qualifica di pubblico ufficiale del giudice delegato e del curatore fallimentare, così come della loro disponibilità del bene oggetto di appropriazione, aderendo all’orientamento di legittimità in base al quale la responsabilità dell’autore mediato ex art. 48 c.p. si configura anche in relazione ai reati c.d. propri, in cui la qualifica del soggetto attivo è presupposto o elemento costitutivo della fattispecie criminosa; alla luce di tale ricostruzione, invero, risponde di peculato anche l’estraneo che, traendo in inganno il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, si appropri per tramite di questi di una cosa dagli stessi posseduta per ragioni del loro ufficio (Cass. 1 gennaio 1996, n. 4411).

La Suprema Corte, dopo aver ricostruito l’acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale in ordine alla applicabilità della fattispecie induttiva ex art. 48 c.p. al reato di peculato, conclude affermando di non condividere quanto affermato dai giudici del merito.

La Corte d’Appello, invero, aveva aderito al diffuso orientamento giurisprudenziale, secondo cui è configurabile il delitto di peculato, anche a norma dell’art. 48 c..p, quando il denaro o l’altra cosa mobile è nella disponibilità giuridica concorrente di più pubblici ufficiali, ed uno di essi se ne appropria inducendo in errore gli altri, pure se questi ultimi siano i soggetti competenti ad emettere l’atto finale del procedimento; questo principio deriva dal fatto che nelle cd. “procedure complesse”, come ad esempio le ordinarie procedure di spesa pubblica, la disponibilità giuridica del bene – che costituisce, in alternativa al possesso, il presupposto della condotta rilevante a norma dell’art. 314 c.p. – è frazionata dall’ordinamento giuridico tra più organi, e, quindi, tra più persone fisiche. Secondo tale indirizzo interpretativo, il frazionamento non può ritenersi escludere la configurabilità del delitto di peculato, poiché l’art. 314 c.p. indica come presupposto della condotta illecita «il possesso o comunque la disponibilità» del bene, ma non anche l’esclusività di tale possesso o di tale disponibilità», cosicché il pubblico agente che “co-detiene” la disponibilità giuridica della cosa mobile, anche quando induce in errore gli altri pubblici ufficiali con concorrenza competente sulla stessa, al fine di appropriarsene, abusa comunque della propria già esistente disponibilità in ordine al bene (Cass., 1 febbraio 2018, n. 10762).

Secondo la Cassazione, il principio di diritto ora espresso non pertiene alla fattispecie oggetto del procedimento in esame, in cui il soggetto agente consegue il bene soltanto per la condotta decettiva posta in essere nei confronti degli organi del fallimento. Al soggetto agente, in questo caso, non può ascriversi alcun compossesso giuridico dei beni del fallimento, né diretto né mediato.

A supporto di quanto affermato, la Corte richiama l’orientamento giurisprudenziale a mente del quale è configurabile il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 9, c.p., e non quello di peculato, quando l’atto che in concreto produce l’effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata„ nella quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l’agente infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi. La differenza di fondo fra i due illeciti risiede nel fatto che nel delitto di peculato il possesso e la disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un antecedente della condotta incriminata, mentre nella truffa l’impossessamento della cosa è l’effetto della condotta illecita. È al rapporto tra possesso, da un lato, ed artifizi e raggiri, dall’altro, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata (Cass. 4 aprile 2014, n. 31243).

A differenziare le due figure criminose, pertanto, non rileva tanto la precedenza cronologica o la contestualità della frode rispetto alla condotta appropriativa, bensì il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale diretta conseguenza di esso, il che significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o della res a vantaggio personale dell’agente; il peculato presuppone il legittimo possesso (disponibilità materiale o giuridica), per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri, condotta quest’ultima che, anche se eventualmente caratterizzata da aspetti di fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 314 c.p., fatte salve le ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti.

La Suprema Corte conclude sottolineando che il principio affermato dall’orientamento da essa patrocinato, con riferimento alla qualità pubblicistica del soggetto agente, a maggior ragione, trova applicazione quando questi, come nel caso esaminato, è estraneo alla funzione pubblicistica e solo con la frode entra in possesso del bene altrui, di cui ha la disponibilità il pubblico ufficiale in ragione del suo ufficio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 2 marzo 2021, n. 40595; Cass., sez. VI, 4 aprile 2014, n. 31243
Difformi:      Cass. pen., sez.VI, 15 aprile 2013, n. 39039
giurista risponde

Diffamazione a mezzo stampa e detenzione In quali casi è giustificata l’applicazione della pena detentiva al reato di diffamazione a mezzo stampa?

Quesito con risposta a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi

 

In relazione al delitto di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ai fini dell’applicazione della pena detentiva, il giudice dovrà valutare se la condotta rientra nella nozione di eccezionale gravità del fatto che, in base a quanto disposto dalla sentenza della Corte costituzionale 150/2021, ricorre nel caso di diffusione di discorsi d’odio e di campagne di disinformazione. – Cass. V, 26 luglio 2023, n. 32603.

La decisione in commento analizza preliminarmente il rapporto tra diritto di cronaca e reato di diffamazione per poi soffermarsi sulla questione relativa al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di cui all’art. 595 c.p., commesso a mezzo stampa.

La Suprema Corte, in primis, sottolinea che il diritto di cronaca, che può comportare qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica della verità del fatto narrato e della bontà della fonte per esigenze di velocità, presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione, e, pertanto, non ricorre quando si offre il resoconto di fatti distanti nel tempo, in relazione ai quali è legittimo pretendere un’ attenta verifica di tutte le fonti disponibili.

Tale principio di diritto comporta che, laddove il giornalista dia conto di vicende giudiziarie, su di esso incombe l’obbligo di accertare e rappresentare compiutamente lo sviluppo degli esiti processuali delle stesse.

La Quinta Sezione, in secondo luogo, esprimendosi in merito alla tematica del trattamento sanzionatorio previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa, ribadisce quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sent. 150/2021.

In particolare, ripercorrendo quanto statuito dalla Consulta, la Cassazione evidenzia che l’applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, è subordinata alla verifica della “eccezionale gravità” della condotta che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, si individua nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi d’odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima, compiute nella consapevolezza della dimostrabile ed oggettiva falsità dei fatti ad essa addebitati.

Nella citata sentenza, la Corte Costituzionale, da un lato, aveva affermato l’illegittimità della pena cumulativa, detentiva e pecuniaria, prevista per reprimere i fatti di diffamazione, chiarendo entro quali limiti è invece legittima la previsione della pena alternativa e, dall’altro, – tenendo presente il quadro del confronto tra il diritto alla libertà di espressione dei giornalisti nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica e la reputazione del singolo, diritto inviolabile suscettibile di essere gravemente compromesso da aggressioni illegittime compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità che impattino sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica dei soggetto aggredito – non ha escluso in assoluto l’applicazione della sanzione detentiva, ma a condizione che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica.

Tali cautele si identificano nell’enucleazione di due categorie di casi nei quali le offese recate alla vittima possano qualificarsi come di “eccezionale gravità”, sicché la tutela del soggetto passivo della diffamazione acquisti una preminenza tale da rendere costituzionalmente e convenzionalmente compatibile la condanna al carcere per il reato di cui all’art. 595 c.p.

La prima categoria, ispirata alla giurisprudenza della Corte EDU, identifica come meritevoli della pena detentiva i discorsi d’odio e quelli che istighino alla violenza, quando veicolanti o veicolati da messaggi diffamatori; la seconda categoria è ricondotta alle ipotesi che attengono alle «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi», le quali, qualora l’attività di informazione conduca a trasmettere informazioni di tal fatta, finiscono col rappresentare esse stesse un pericolo per la democrazia.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 25 giugno 2021, n. 28340; Corte cost. 12 luglio 2021, n. 150
esimente putativa

Esimente putativa L’esimente putativa, o scriminante putativa, opera quando un soggetto compie un reato nella convinzione che ricorra una causa di giustificazione

Esimente putativa e cause di giustificazione

L’esimente putativa, disciplinata dal quarto comma dell’art. 59 del codice penale, ricorre quando la persona che commette un fatto che integra reato ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena.

In tal caso, dispone la norma, le suddette circostanze sono sempre valutate a favore di lui.

Ciò significa che l’esimente – cioè una causa di giustificazione – opera anche se in realtà non ricorre nel caso concreto, se il soggetto che agisce sia convinto della sua sussistenza.

Esclusione della punibilità: le scriminanti previste dal codice penale

Per comprendere meglio il funzionamento dell’esimente putativa, detta anche scriminante putativa, occorre chiarire quali sono le scriminanti previste dal codice penale.

Le scriminanti sono, in sostanza, cause di liceità della condotta. In altre parole, la commissione di un fatto che, normalmente, integrerebbe reato, non è considerata antigiuridica – e quindi non è punibile – quando sia accompagnata da determinate circostanze, individuate dagli artt. 50 e segg. del codice penale.

Consenso dell’avente diritto, legittima difesa e stato di necessità

Tra le cause di giustificazione previste dalla normativa rileva innanzitutto il consenso dell’avente diritto, ipotesi prevista dall’art. 50 c.p., che al riguardo dispone che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne (si pensi al consenso necessario in ambito medico, ad esempio per una donazione di sangue, o al consenso immanente alla partecipazione ad attività sportive che prevedano contatto fisico).

L’art. 51 prevede invece le scriminanti dell’esercizio di un diritto (ad esempio, il diritto di cronaca, che può escludere reati come la diffamazione) o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità.

Escludono la punibilità del soggetto agente anche la legittima difesa (art. 52 c.p., secondo cui non è punibile “chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”) e lo stato di necessità, previsto come esimente dall’art. 54 (“non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”).

Infine, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, nei casi previsti dall’art. 53 c.p.

Scriminante putativa ex art. 59 c.p. ed errore determinato da colpa

Ebbene, l’esimente putativa opera quando, pur non ricorrendo alcuna delle cause di giustificazione come quelle sopra indicate, il soggetto agente sia convinto che invece sussista una circostanza che escluda l’antigiuridicità – e quindi la punibilità – dell’azione che sta compiendo.

Tale erronea convinzione esclude il dolo, cioè non è possibile ritenere che il soggetto abbia avuto l’intenzione di compiere un reato. Ovviamente, perché la condotta sia giustificata occorre che ricorrano gli altri elementi previsti dalle norme che individuano le scriminanti. Ad esempio, nel caso in cui il soggetto ritenga di agire per legittima difesa, occorre l’attualità del pericolo di un’offesa ingiusta e la convinzione che vi sia necessità di difendere un diritto proprio o altrui (è il classico caso di chi reagisce perché ritiene di essere vittima di una rapina quando la minaccia, pur frutto di gioco o messinscena, sia talmente realistica da trarre ragionevolmente in inganno).

Va precisato, però, che l’art. 59 comma 4 prevede anche che “se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. In altre parole, se la valutazione del soggetto agente deriva da un suo errore determinato da colpa (ad esempio, una reazione di fronte a una pistola giocattolo facilmente riconoscibile), egli potrà essere punito a titolo di colpa.

giurista risponde

Stalking: indici sintomatici ansia o timore Quali sono gli indici sintomatici della sussistenza in concreto dello stato d’ansia o di timore di cui all’art. 612bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 612bis c.p. la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante e, più in generale, può essere desunta da elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata. Viceversa, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto – tra i quali lo stato d’ansia provocatole dall’ imputato o il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente. – Cass. pen., sez. V, 13 dicembre 2022, n. 47135.

La Suprema Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in ordine all’accertamento probatorio che deve essere effettuato in relazione alla sussistenza dello stato d’ansia o di paura richiesto ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 612bis c.p.

Com’è noto, l’art. 612bis c.p. prevede tre precisi elementi costitutivi: la condotta tipica del reo, la reiterazione di tale condotta e l’insorgere di un particolare stato d’animo di ansia e di paura nei confronti della vittima. La condotta, quindi, oltre che essere reiterata deve creare un determinato disagio psichico, uno stato di tensione nervosa grave e perdurante, tale da incidere sugli atti di vita quotidiana. La norma però non indica con esattezza i contorni e le dimensioni del prospettato disagio psichico, ed è proprio in questa prospettiva di analisi che si inserisce la pronuncia in esame. Invero, richiamando i precedenti giurisprudenziali in materia, il Supremo Consesso conferma che la prova del predetto stato d’ansia o di paura possa essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante. La sussistenza dei predetti elementi costitutivi della fattispecie in esame può essere desunta, altresì, da ulteriori elementi sintomatici, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

Viceversa, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, tra i quali lo stato d’ansia provocatole dal soggetto agente o il fondato timore per la propria incolumità o per quella dei congiunti, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla stessa condotta.

In ogni caso, come già in precedenza affermato, qualora uno degli eventi previsti dall’art. 612bis c.p. sia identificato nello stato di ansia, la prova di esso può essere argomentata dal giudice anche sulla base di massime di esperienza, non essendo all’uopo necessaria la documentazione medica, nè che la vittima declini con esattezza lo stato emotivo che la caratterizza in dipendenza dell’attività persecutoria subita.

Nel caso di specie, dunque, il Giudice di legittimità mette in rilievo una serie di elementi diretti ad integrare la configurabilità degli eventi alternativi del reato, fornendo all’interprete un utile decalogo per valutare, caso per caso e in concreto, l’integrazione del delitto in esame: il ripetersi ossessivo delle molestie da parte dell’imputata in danno dell’ex coniuge e della sua attuale compagna, il coinvolgimento nelle stesse delle figlie minori, il numero ed il tenore dei contatti telefonici molesti e dei messaggi tramite Whatsapp inviati alle vittime, le incursioni in casa delle vittime improvvise e destabilizzanti, le reiterate aggressioni fisiche ai danni delle persone offese, nonché il mutamento di vita delle vittime del reato, concretizzatosi nel cambiamento di due domicili dell’ex coniuge.

Pare evidente, dunque, come l’accertamento in concreto della prova dello stato d’ansia o di timore della vittima imponga all’interprete una complessa quanto articolata valutazione di tutti gli elementi che in concreto vengono in rilievo, a conferma di come la fattispecie delittuosa in esame tuteli non solo la libertà morale della persona, ma, anche, la tranquillità della stessa, la “serenità psicologica”, quella che autorevole dottrina definisce “la pace giuridica individuale”.

Pertanto, ai fini della configurabilità del reato in esame, è sufficiente la prova di almeno uno dei plurimi eventi alternativi contemplati dalla disposizione incriminatrice, tali da determinare il mutamento, non necessariamente radicale o definitivo, delle abitudini di vita della vittima. Nel caso di specie, ad esempio, all’ imputata era stata lasciata la casa di abitazione coniugale proprio per tentare di arginare le sue condotte persecutorie nei confronti dell’ex marito e della nuova compagna, con conseguente mutamento di domicilio da parte dell’ex-coniuge.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen. 24135/2012; Cass. pen. 17795/2017; Cass. pen. 57704/2017;
Cass. pen. 17552/2021; Cass. pen. 8307/2021
Difformi:      non constano precedenti rilevanti

 

giurista risponde

Condotta ex art. 615-ter c.p. In cosa si concretizza la condotta tipica di cui all’art. 615ter c.p.? Quali sono gli indici sintomatici di riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

La condotta tipica del delitto di cui all’art. 615ter c.p. si concretizza nell’ accesso o nel mantenimento all’interno del sistema informatico posti in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema. – Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 47323.

Ai fini del riconoscimento della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis c.p., non è sufficiente che il fatto sia occasionale, ma è necessario che l’offesa, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma primo, sia ritenuta di particolare tenuità e il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile. – Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2022, n. 47323

La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su diverse questioni di particolare rilevanza, sia sostanziale che processuale, fornisce delle soluzioni interpretative in linea di continuità con i precedenti giurisprudenziali consolidatisi in materia.

Nel pronunciarsi sulla prima questione, la Corte di Cassazione richiama il “diritto vivente”, che considera integrato il delitto di cui all’art. 615ter c.p. in presenza di una condotta concretizzatasi nell’ accesso o nel mantenimento all’interno del sistema informatico da parte di un soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema, ovvero ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle per le quali l’accesso è consentito. La Corte, inoltre, sottolinea come, per l’integrazione del reato in esame, non abbiano rilevanza gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso al sistema informatico. Sul punto, tuttavia, deve rilevarsi come le Sezioni Unite nel 2017 avevano ritenuto rilevante, ai fini dell’integrazione della fattispecie in oggetto, anche la finalità perseguita in concreto dal soggetto agente che, in quell’occasione, pur non avendo violato le prescrizioni formali impartite dal titolare di un servizio informatico protetto, aveva posto in essere l’accesso per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli era stata attribuita.

Altro rilievo che la Suprema Corte adita mette in evidenza è quello inerente alla qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del soggetto attivo che non è sufficiente, ai fini dell’integrazione dell’aggravante di cui al comma 1, risultando necessario che il fatto sia commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione, di modo che la qualità soggettiva dell’agente abbia quanto meno agevolato la realizzazione del reato.

Con specifico riferimento al caso di specie, infatti, l’imputato, in qualità di appuntato dei Carabinieri, sia era abusivamente introdotto nel sistema informatico della banca dati S.D.I. (Sistema D’Indagine istituito presso il C.E.D. del Ministero dell’Interno), proprio in violazione dei doveri inerenti la funzione e contro la volontà di chi aveva il diritto di escluderlo, per effettuare delle interrogazioni non autorizzate e per finalità non istituzionali. Dalle modalità attuative poste in essere dal ricorrente in concreto, la Corte deduce, altresì, la sussistenza “in re ipsa” della volontà della condotta e dell’evento in capo al soggetto agente, in assenza di qualsivoglia elemento che consenta di ritenere l’accesso allo S.D.I. motivato dalla necessità di soddisfare esigenze di ordine pubblico o di sicurezza pubblica ovvero di prevenzione e repressione della criminalità.

La seconda questione affrontata dalla Suprema Corte riguarda l’individuazione degli indici sintomatici cui il Giudice deve riferirsi per ritenere integrata la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. Sul punto, il Supremo Consesso ribadisce come non sia sufficiente che il fatto sia occasionale, ritenendo, invece, necessario che l’offesa, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, risulti di particolare tenuità alla luce dei parametri di cui all’art. 133, comma primo, c.p.. In tale prospettiva, pertanto, il giudice è tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il mero richiamo a generiche clausole di stile. Il giudizio sulla tenuità dell’offesa, dunque, dev’essere effettuato, con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma 1, c.p., senza che ciò comporti una mera elencazione degli stessi, attraverso forme di automatismo valutativo che, viceversa, si pongono in palese contrasto con il principio di legalità sostanziale su cui si regge l’intero sistema penale.

Ed invero, la causa di non punibilità, di cui all’art. 131bis c.p., trova applicazione in presenza di fatti che, pur essendo tipici, antigiuridici e colpevoli manifestino un’offensività di scarso valore, da renderli immeritevoli di sanzione. La prospettiva che viene in rilievo è quella della proporzionalità, dell’adeguatezza e dell’extrema ratio della sanzione penale che attribuisce al giudice il potere di qualificare, in ragione della predetta valutazione, come irrilevanti fatti di minima gravità, secondo l’antico brocardo “De minimis non curat praetor”.

Pertanto, come già affermato in un precedente arresto dello stesso Giudice di legittimità, l’art. 131bis, c.p., costituisce un limite negativo alla punibilità del fatto stesso, la prova della cui ricorrenza è demandata all’imputato che, com’è noto, è tenuto ad allegare la sussistenza dei relativi presupposti mediante l’indicazione di elementi specifici. Onere che, nel caso di specie, non era stato assolto dall’imputato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., S.U., 4694/2011; Cass. pen. 50782/2019; Cass. pen. 18180/2018
Difformi:      Cass. pen., S.U., 41210/2017
giurista risponde

Abuso d’ufficio e violazione precetti urbanistici La violazione di fonti sub-primarie attuative di specifici precetti di legge, quali gli strumenti urbanistici, può rilevare ai fini della integrazione del reato di abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 cod. pen., anche a seguito della riforma attuata con il D.L. 76/2020?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Il problema della fonte normativa che deve avere il rango di legge a seguito della riformulazione del reato di abuso di ufficio è stato affrontato nel senso di confermare la rilevanza della violazione degli strumenti urbanistici di fonte subprimaria, richiamati dalla legge, perché operano quali presupposti di fatto della norma di legge violata. Secondo questa elaborazione giurisprudenziale, i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità all’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica. – Cass. IV, 8 novembre 2022, n. 46669.

La Suprema Corte è chiamata a delineare l’ambito applicativo oggettivo della fattispecie di cui all’art. 323 cod. pen., che funge da norma di chiusura dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e che ha subito una modifica in senso restrittivo per effetto del recente D.L. 76/2020, convertito dalla L. 120/2020.

In particolare, prima della riforma l’elemento oggettivo del reato di abuso d’ufficio era costituito dalla violazione di norme di legge o di regolamento, mediante la quale l’agente intenzionalmente procurava a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecava ad altri un danno ingiusto.

Per effetto della riforma del 2020, la fattispecie non contempla più la violazione delle norme regolamentari ai fini dell’integrazione del reato, bensì esclusivamente “l’inosservanza di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Pertanto, risultano espunte dal perimetro di rilevanza penale le violazioni di atti aventi natura regolamentare e le violazioni di norme di rango legislativo che non dettino specifiche regole di condotta ovvero che dettino regole in relazione alle quali residuino spazi di discrezionalità per la pubblica amministrazione, con conseguente abolitio criminis parziale con riguardo alle suddette condotte (art. 2, comma 2, cod. pen.). Nell’ipotesi in cui sia intervenuta sentenza di condanna irrevocabile, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., è prevista la revoca della sentenza da parte del Giudice dell’esecuzione, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, e l’adozione dei provvedimenti conseguenti volti a disporre la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna.

Nonostante il rigore lessicale del testo risultante dalla riforma, volta a restringere l’ambito oggettivo della fattispecie di reato, la giurisprudenza in alcune pronunce ha inteso in senso ampliativo la nozione di violazione di legge, comprendendovi l’ipotesi di inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), che sarebbe dotato di precettività nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.

Nella stessa direzione, un orientamento della giurisprudenza formatosi immediatamente dopo l’entrata in vigore della riforma ha tentato di ricondurre alla nozione di violazione di legge lo sviamento di potere, che costituisce un vizio di legittimità collegato necessariamente all’esercizio di un’attività discrezionale e che, dunque, dovrebbe collocarsi al di fuori del perimetro della fattispecie, stando al tenore letterale della norma. Lo sviamento di potere, che consiste nel potere esercitato per un fine diverso da quello stabilito dalla legge e, dunque, per uno scopo egoistico o comunque estraneo ai fini che la pubblica amministrazione è chiamata a perseguire, secondo tale orientamento, si pone al di fuori dello schema della legalità e determina la lesione dell’interesse tutelato dalla norma che incrimina l’abuso d’ufficio. La violazione di legge rilevante ai fini dell’integrazione dell’art. 323 cod. pen. riguarda, difatti, non soltanto la condotta del pubblico ufficiale che contrasta con le norme di legge che disciplinano l’esercizio del potere, ma anche le condotte dirette a realizzare un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito, realizzando una violazione dello schema normativo che legittima l’attribuzione.

Nella medesima prospettiva anti-formalistica, in cui si colloca la pronuncia in esame, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto integrati gli estremi dell’abuso d’ufficio anche a fronte di violazioni di fonti subprimarie attuative di specifici precetti di legge e, in alcuni casi, anche nell’ipotesi di violazioni di norme regolamentari che si risolvano nella specificazione tecnica di un precetto comportamentale già compiutamente definito nella norma primaria, a condizione che quest’ultima risulti conforme ai canoni della tipicità e della tassatività.

La Suprema Corte ha affermato, difatti, come non possa ritenersi dirimente il carattere formale del tipo di norma violata ogni volta che questa costituisca, quanto al contenuto, diretta applicazione di un precetto legislativo dal quale non residuino margini di discrezionalità e risulti, dunque, riconducibile a un’attività vincolata, interamente disciplinata dalla norma di fonte primaria.

Alla luce delle presenti considerazioni, la Sezione IV della Suprema Corte ha fornito risposta positiva al quesito, confermando la rilevanza della violazione degli strumenti urbanistici di fonte subprimaria richiamati dalla legge, in quanto operano come presupposti di fatto della norma di legge violata (così anche Cass. 8 marzo 2022, n. 13148).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen. 33240/2021; Cass. pen. 13148/2022
Difformi:      Cass. pen. 28402/2022
giurista risponde

Sanzione accessoria revoca patente: è automatica? Può ritenersi costituzionalmente legittima l’automatica applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, prevista dal comma 8 dell’art. 213 Cds, in caso di circolazione del custode con un’autovettura oggetto di sequestro?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

La sanzione accessoria della revoca della patente del custode che abbia posto in circolazione il veicolo sequestrato, a lui affidato, non può essere automatica conseguenza accessoria della sanzione principale, dovendo consentirsi all’autorità amministrativa preposta di valutare le complessive circostanze del caso concreto, affinché tale sanzione non risulti essere sproporzionata rispetto al fatto di cui all’art. 213, comma 8, cod. strada. – Corte Cost. 9 dicembre 2022, n. 246. 

La Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della disposizione del comma 8 dell’art. 213 del Codice della Strada, nella parte in cui prevede un automatismo nell’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida a fronte della circolazione del custode con un veicolo sottoposto alla misura del sequestro.

In particolare, la Corte è chiamata a valutare se l’introduzione del suddetto automatismo rientri nella discrezionalità del legislatore ovvero se si ponga in contrasto con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza della risposta sanzionatoria.

La Consulta, dopo aver ripercorso l’evoluzione normativa della norma oggetto del sindacato di costituzionalità, che ha visto notevolmente inasprire il relativo trattamento sanzionatorio per effetto del decreto sicurezza del 2018 (D.L. n. 113), in ragione della sostituzione della sanzione accessoria della sospensione del titolo abilitativo alla guida da uno a tre mesi con quella della revoca della patente, ha ribadito come il principio di necessaria proporzionalità della sanzione alla condotta illecita trovi applicazione anche con riguardo al trattamento sanzionatorio di natura amministrativa.

Il principio di proporzionalità delle sanzioni amministrative deriva dal combinato disposto tra l’art. 3 Cost. e le norme costituzionali poste a tutela dei diritti compressi dalla sanzione nel caso concreto.

A tal proposito, la giurisprudenza costituzionale, in diverse occasioni, ha evidenziato come un indifferenziato automatismo sanzionatorio costituisca un possibile indice di disparità di trattamento e di irragionevolezza intrinseca.

La discrezionalità del legislatore risulta legittimamente esercitata e sfugge al sindacato di costituzionalità, costituendo espressione di scelte di politica sanzionatoria, nell’ipotesi in cui introduca una sanzione accessoria, in aggiunta a quella principale, nel complessivo trattamento sanzionatorio dell’illecito amministrativo. La sanzione della revoca della patente, inoltre, si caratterizza per una spiccata funzione deterrente, data la notevole carica di afflittività, e consente di contrastare comportamenti pericolosi al fine di garantire la sicurezza della circolazione stradale.

Risulta censurabile, tuttavia, la scelta del legislatore di applicare la suddetta sanzione accessoria in via indifferenziata, a fronte di qualsiasi condotta di messa in circolazione di un veicolo assoggettato al vincolo del sequestro per effetto di una precedente violazione del codice della strada, mediante la previsione di un indifferenziato automatismo della revoca della patente di guida, che si aggiunge alla sanzione pecuniaria principale, prescindendo dalla gravità del fatto concreto.

La sanzione accessoria che caratterizzava l’originaria formulazione dell’art. 213 è consistita per lungo tempo nella sospensione della patente di guida, che si caratterizzava per un’intrinseca flessibilità quanto alla durata, in quanto compresa tra un minimo di un mese e un massimo di tre mesi, e consentiva la graduazione della risposta sanzionatoria in relazione alle circostanze del caso e alla gravità della condotta.

La sanzione della revoca della patente, introdotta con la riforma del 2018, non presenta la medesima flessibilità, bensì impone all’autorità amministrativa competente un automatismo nella relativa applicazione, prescindendo da ogni valutazione del caso concreto. Si tratta, inoltre, di una sanzione notevolmente più gravosa della precedente, in quanto il destinatario risulta inabilitato alla guida per lungo tempo, potendo richiedere nuovamente la patente soltanto dopo due anni, con conseguente possibile compromissione di esigenze lavorative, personali e sociali, potendo anche incidere sull’esercizio di diritti fondamentali.

La Corte Costituzionale, pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 8 dell’art. 213 del codice della strada, per violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo del difetto di necessaria proporzionalità della sanzione amministrativa, nella parte in cui prevede l’automatica applicazione della sanzione accessoria della revoca della patente, precludendo all’autorità competente, il prefetto, di considerare la gravità della violazione dei doveri di custodia nel caso specifico, nonché le ripercussioni della misura in questione sugli aspetti essenziali della vita dell’individuo. L’automatismo, per effetto della declaratoria di incostituzionalità parziale della disposizione, è sostituito, dunque, con la possibilità di applicare la sanzione della revoca della patente ove si riveli misura proporzionata al caso concreto, a seguito della valutazione dell’autorità amministrativa.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 22/2018; Corte Cost. 99/2020; Corte Cost. 24/2020
giurista risponde

Trattamento sanzionatorio rapina impropria È costituzionalmente legittimo, l’art. 628, comma 2, c.p. nella parte in cui equipara il trattamento sanzionatorio della rapina impropria nelle due ipotesi in cui la violenza e la minaccia vengono utilizzate al fine del possesso ed al fine dell’impunità?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione. — Corte Cost. 20 dicembre 2022, n. 260.

Nel caso di specie il soggetto agente, a seguito del tentativo di impossessarsi di alcune confezioni di generi alimentari sottraendole dai banchi di un supermercato, adoperava violenza e minaccia ai danni dell’addetto alla vigilanza allo scopo di darsi alla fuga.

Il giudice rimettente denunciava l’irragionevolezza, al metro dell’art. 3 Cost., dell’equiparazione del trattamento sanzionatorio disposta dall’art. 628, comma 2, c.p. tra le due fattispecie di rapina c.d. impropria, cioè tra l’ipotesi in cui l’autore del reato adoperi violenza o minaccia, immediatamente dopo la sottrazione della cosa, per assicurarne a sé o ad altri il possesso e quella in cui tenga la medesima condotta al solo scopo di procurare a sé o ad altri l’impunità. Nel primo caso, infatti, il soggetto agente perseguirebbe uno scopo illecito, ossi l’impossessamento del bene mobile altrui, mentre nel secondo il fine della fuga o dell’impunità sarebbe da considerarsi del tutto lecito.

L’ordinanza di rimessione trae le mosse da una precedente questione di legittimità costituzionale e dichiarata non fondata da Corte cost. 31 luglio 2020, n. 190 attinente la legittimità dell’equiparazione del trattamento sanzionatorio delle ipotesi di rapina propria ed impropria.

La Corte costituzionale, con la pronuncia in commento, richiama le osservazioni già allora enucleate, evidenziando come il tratto qualificante del delitto di rapina sia l’impiego di «una condotta violenta o minacciosa nel medesimo contesto – di tempo e di luogo – di una aggressione patrimoniale», giacché «la combinazione di tali elementi comporta non irragionevolmente un trattamento sanzionatorio diverso rispetto a quello che sarebbe applicabile in base al cumulo delle figure componenti».

Tale connotazione caratterizza, secondo la pronuncia in commento, non solo il rapporto tra rapina propria ed impropria, e quindi il comma 1 ed il comma 2 dell’art. 628 c.p., ma accomuna anche le due ipotesi interne allo stesso comma 2, giustificando tanto nel primo quanto nel secondo caso la medesima cornice edittale.

In ambo le fattispecie, infatti, l’elemento fondante la pari risposta sanzionatoria è il requisito della immediatezza tra l’aggressione al patrimonio e l’aggressione alla persona.

Tale immediatezza, del resto, distingue anche il tratto unificante delle condotte appena richiamate ed alla base del reato complesso di rapina, dall’aggravante del nesso teleologico di cui all’art. 61, comma 1, n. 2), c.p., per la quale non è richiesta una specifica relazione di contestualità tra il reato posto in essere e quello realizzato al fine dell’impunità.

La Corte costituzionale nella sua argomentazione afferma poi l’irrilevanza del richiamo, operato dal giudice rimettente, all’art. 336 c.p. che nel punire la violenza e la minaccia ad un pubblico ufficiale, al comma 2 prevede un aumento di pena nel caso in cui la condotta del comma 1 sia volta a costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto del proprio ufficio. In tal caso l’illiceità dello scopo della condotta giustifica un aumento della cornice edittale.

Tuttavia, tale raffronto non appare dirimete in quanto, mentre la rapina si configura quale reato complesso di danno, l’art. 336 c.p. si struttura come reato complesso di pericolo, non essendo necessaria per la sua integrazione il compimento dell’atto d’ufficio.

Infine, appare parimenti errato il richiamo all’«anelito di libertà» che animerebbe la rapina impropria a dolo di impunità, rendendola meno grave di quella a dolo di possesso. Bisogna, infatti, distinguere il concetto di «impunità» dalla diversa nozione di «libertà». Quest’ultima è sì incomprimibile ma solo qualora il soggetto non si renda autore di fatti illeciti. In tal caso la stessa si trasformerebbe in impunità nel momento in cui a seguito della commissione dei medesimi egli tenti di sottrarsi alla propria responsabilità. Che la libertà possa essere legittimamente lesa dinnanzi alla commissione di fatti delittuosi è, del resto, confermata dalla giurisprudenza che esclude la scriminante della legittima difesa in favore di chi, trattenuto dal personale del supermercato, usa violenza o minaccia.

Non può, dunque, il sentimento dell’impunità giustificare un minor trattamento sanzionatorio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 190/2020
giurista risponde

Bancarotta distrattiva per fatti già puniti: violazione del ne bis in idem? Integra violazione del ne bis in idem la contestazione del reato di bancarotta distrattiva per fatti già puniti, con sentenza divenuta irrevocabile, a titolo di truffa aggravata?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Nel caso di sentenza irrevocabile di condanna per il delitto di truffa aggravata non integra violazione del ne bis in idem una successiva condanna per il reato di bancarotta distrattiva essendo le due condotte strutturalmente diverse e non essendo integrato il concetto di «stesso fatto» di cui all’art. 649 c.p.p. – Cass. IV, 21 dicembre 2022 n. 48360.

Nel caso di specie ad un imprenditore veniva contestato il delitto di bancarotta a seguito della distrazione della somma di 200.000 euro ottenuta, con artifizi e raggiri, a titolo di caparra per l’alienazione di un immobile di cui la società non era proprietaria, fatto per il quale già era stato condannato per il reato di truffa aggravata.

Con l’unico motivo, il ricorrente deduceva violazione di legge e vizio di motivazione quanto al principio del ne bis in idem, che, regolamentato all’art. 649 c.p.p., vieta che si possa essere puniti più volte per lo stesso fatto.

Secondo una prima tesi il concetto di «fatto» di cui al richiamato articolo andrebbe inteso in senso giuridico, con la possibilità, dunque, di subire una seconda condanna qualora i fatti oggetto della prima venissero diversamente qualificati in un differente titolo di reato.

Tuttavia, la giurisprudenza ormai maggioritaria, attribuisce al fatto un’accezione materiale, facendo riferimento alla condotta concretamente posta in essere a prescindere dalla qualifica giuridica che alla stessa può essere data. Si afferma, infatti, che altrimenti il divieto di cui all’art. 649 c.p.p. potrebbe essere facilmente eluso attraverso una diversa qualifica giuridica dello stesso fatto.

Particolare è l’ambito applicativo del divieto in esame nel caso di concorso formale di reati, in cui, cioè, il soggetto agente integra con un’unica condotta più fattispecie illecite.

In tal caso si è posto il problema della compatibilità tra il divieto del ne bis in idem e l’istituto del concorso formale di reati il quale, punendo più volte la stessa condotta, sembra porsi ontologicamente in conflitto con il primo.

Tale problema, come affermato da Corte cost. 21 luglio 2016, n. 200, è in realtà solo apparente.

Quando si discute della possibilità di procedere ad una seconda contestazione nei confronti di colui già destinatario di una pronuncia di condanna per un reato posto in essere con la medesima condotta, il concetto di «stesso fatto», di cui all’art. 649 c.p.p., dovrà essere inteso relativamente alla triade condotta-nesso causale-evento. Ciò posto, qualora la seconda contestazione inerirà, ad esempio, un evento diverso da quello oggetto della fattispecie già accertata con giudicato, il divieto del ne bis in idem dovrà ritenersi rispettato.

In applicazione di tali principi al caso oggetto della pronuncia in commento la Cassazione ha proceduto mediante una verifica sostanziale dei rapporti di interferenza tra le due fattispecie.

Al soggetto già condannato per il reato di truffa aggravata, a seguito dell’acquisizione di una somma a titolo di caparra confirmatoria da parte del ricorrente, quale legale rappresentante della società successivamente fallita, mediante la stipula di un contratto preliminare di vendita di un immobile di cui la società non era proprietaria, veniva ora contestato il reato di bancarotta distrattiva per aver prelevato e destinato a fini extrasociali tali risorse, in violazione della garanzia patrimoniale generica.

Nella fattispecie in disamina, pertanto, diversa è la condotta: la truffa consiste nell’induzione in errore determinante l’atto dispositivo e, la bancarotta per distrazione, nella destinazione della medesima somma per fini extrasociali; diverso è il danno del reato di truffa (determinato dall’entità dell’indebita prestazione erogata a seguito di artifizi e raggiri) rispetto al pregiudizio aggiuntivo della condotta distrattiva per i creditori, oltre al nocumento dell’affidabilità dei terzi.

Siffatti principi sono stati più volte riaffermati dalla Cassazione, che ha ribadito come il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti (nella specie mediante truffe), atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima, ed altresì che i beni provenienti da reato, fino a quando non siano individuati e separati dagli altri facenti parte di un determinato patrimonio, non possono considerarsi ad esso estranei.

Nel caso in esame, dunque, essendo diversa la stessa condotta dei due reati il disposto di cui all’art. 649 c.p.p. non può ritenersi violato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., S.U., 34655/2005; Cass. pen. 27594/2019
giurista risponde

Sfruttamento dei lavoratori e confisca del profitto In base a quali parametri si valuta l’applicazione della confisca del profitto derivante dal delitto di cui all’art. 603bis del Codice Penale in tema di illecito sfruttamento dei lavoratori?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il reato di sfruttamento dei lavoratori costituisce un cd. “reato contratto” (e non “in contratto”), trattandosi di un rapporto di lavoro intrinsecamente illecito (come tale nullo e non semplicemente annullabile), con la conseguenza che, nella specie, deve trovare applicazione il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui dal profitto confiscabile non si possono detrarre i costi derivanti dal rapporto di lavoro illecito. – Cass. pen., sez. IV, 16 novembre 2022, n. 43470.

Il delitto di cui all’art. 603bis cod. pen. punisce le condotte, distorsive del mercato del lavoro, di reclutamento e intermediazione, le quali, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, sono caratterizzate dallo sfruttamento di questi ultimi anche mediante violenza o minaccia.

Avendo come obiettivo politico-criminale la repressione del fenomeno del “caporalato”, la norma colpisce il “reclutamento”, ossia il complesso delle operazioni con le quali si provvede alla selezione di manodopera lavorativa. Il reclutatore sanzionato, id est il caporale, svolge un’attività di vera e propria intermediazione fra i prestatori d’opera e il datore di lavoro. A connotare la condotta criminosa è l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, scegliendo per la raccolta dei prodotti agricoli nelle campagne sia immigrati talvolta irregolari sia cittadini con difficoltà economiche.

Sono molteplici gli indici presuntivi dello sfruttamento fissati dalla disposizione: sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o sproporzionato rispetto a quantità e qualità del lavoro svolto; reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, riposo settimanale e ferie; inosservanza della normativa in materia di sicurezza e igiene; sottoposizione del lavoratore a condizioni particolarmente degradanti e metodi di sorveglianza.

Costituiscono, inoltre, aggravanti: il reclutamento di un numero di lavoratori superiore a tre; l’età non lavorativa dei soggetti; l’esposizione dei lavoratori a grave pericolo.

Si evince dai tratti qualificanti della fattispecie delittuosa che si tratta di un “reato contratto” in cui il “pactum sceleris” è penalmente stigmatizzato: il disvalore è concentrato sulla conclusione del contratto. Non può, dunque, rientrare nella categoria dei “reati in contratto” in cui la legge sanziona non il fatto dell’accordo, bensì il comportamento violento o fraudolento, tenuto dal reo durante la stipulazione del contratto.

Con riferimento al profitto del reato, occorre innanzitutto chiarire che esso va inteso quale “vantaggio di natura economica”, “beneficio aggiunto di natura patrimoniale, “utile conseguito dall’autore del reato in seguito alla commissione del reato”.

Per consolidata giurisprudenza, la confisca del profitto, la quale risponde a esigenze di giustizia e di prevenzione generale e speciale, può essere applicata in base al criterio discretivo della pertinenzialità al reato del profitto stesso e non, invece, secondo parametri valutativi di tipo aziendalistico.

I giudici di legittimità hanno tracciato una distinzione marcata fra profitto conseguente a un “reato contratto” e quello derivante da un “reato in contratto”.

Nel caso del profitto afferente a un “reato contratto”, qual è l’art. 603bis cod. pen., “si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca”.

Nella diversa ipotesi del profitto del “reato in contratto”, si è stabilito invece che “è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, adita con ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame, ha annullato tale provvedimento con cui il profitto confiscabile del reato di cui all’art. 603bis cod. pen. è stato calcolato tenendo conto della nozione aziendalistica di profitto netto. Il giudice del riesame, dall’importo complessivo dei vantaggi economico-patrimoniali derivanti dal delitto commesso da un imprenditore agricolo ha, infatti, detratto l’importo totale dei presunti costi sostenuti per la retribuzione dei lavoratori assunti illecitamente.

Sicché, il Tribunale del riesame dovrà attenersi ai principi di diritto indicati dai giudici di legittimità nella determinazione del profitto confiscabile: “il profitto derivante dall’illecito sfruttamento dei lavoratori è conseguenza immediata e diretta del reato ed è, pertanto, interamente assoggettabile a confisca, indipendentemente dai costi sostenuti per la consumazione del reato, per definizione estranei alla nozione (penalistica e non aziendalistica) di profitto che qui rileva”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988; Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008, n. 26654; Cass. pen., S.U., 24 maggio 2004, n. 29951; Cass. pen., S.U., 25 ottobre 2005, n. 41936