niente tenuità del fatto

Niente tenuità del fatto per la responsabilità da reato degli enti L’istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto trova applicazione in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 (“Decreto 231”)?

La particolare tenuità del fatto

L’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto trova compiuta disciplina per le persone fisiche nell’art. 131-bis cod. pen. Tale disposizione normativa esclude la punibilità dei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni (o con pena pecuniaria sola o congiunta alla pena detentiva) quando, per le modalità della condotta o per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento non risulti abituale.

Responsabilità amministrativa da reato degli enti

Giova rilevare che le prescrizioni in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex Decreto 231, con riferimento all’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. (introdotto dal d.lgs. n. 28/2015), non prevedono un’esplicita regolamentazione normativa.

Nello specifico, l’art. 8 del Decreto 231 (rubricato: “Autonomia delle responsabilità dell’ente”) sancisce che: “La responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

La disciplina relativa all’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, nonostante, sia stata introdotta dopo il 2001, ossia nel 2015, l’articolo 8 del Decreto 231 non è stato soggetto a nessun intervento di aggiornamento.

Il primo intervento della Cassazione

È spettato alla Suprema Corte, pertanto, risolvere il quesito dell’applicabilità (o meno), nel processo contra societatem, della causa di non punibilità ex art 131-bis c.p.

Negli anni successivi all’introduzione nel Codice Penale dell’art. 131-bis, a opinione di molti giuristi, la Corte di Cassazione con la sentenza del 28 febbraio 2018, n. 9072 sembrava implicitamente avvallare la compatibilità tra l’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e il sistema di responsabilità amministrativa degli enti.

La Suprema Corte, infatti con la soprammenzionata sentenza, si limitava ad affermare  che: “In tema di responsabilità degli enti, in presenza di una sentenza di applicazione della particolare tenuità del fatto, nei confronti della persona fisica responsabile della commissione del reato rilevante ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio il reato fu commesso; accertamento di responsabilità che non può prescindere da una opportuna verifica della sussistenza in concreto del fatto reato, in quanto l’applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. non esclude la responsabilità dell’ente, in via astratta, ma la stessa deve essere accertata effettivamente in concreto; non potendosi utilizzare, allo scopo, automaticamente la decisione di applicazione della particolare tenuità del fatto, emessa nei confronti della persona fisica”.

La soluzione definitiva della Suprema Corte

La soluzione definitiva a tale quesito arriva con la recente sentenza della Corte di Cassazione del 10 ottobre 2024 n. 37237 che non lascia alcun margine di opinabilità in materia, approdando ad una chiusura netta della questione.

Nelle considerazioni in diritto, infatti, la stessa ha specificato che:

  • si deve richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (Cass. Pen., Sez. III, n. 1420/2020), secondo cui la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. non è applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente per i fatti commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai propri dirigenti o dai soggetti sottoposti alla loro direzione prevista dal d.lgs. n. 231/2001, in considerazione della differenza esistente tra i due tipi di responsabilità e della natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ponga in essere il reato rilevante ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 ”;
  • tale autonomia esclude che l’eventuale applicazione all’agente della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto impedisca di applicare all’ente la sanzione amministrativa, dovendo egualmente il giudice procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso”.

Esclusa la particolare tenuità del fatto

In conclusione, l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. non è applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente ex Decreto 231 per i fatti commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai soggetti di cui all’art. 5 dello stesso[1], in quanto, tale approdo giurisprudenziale trova ragione:

  • nella differenza esistente tra la responsabilità penale della persona fisica e responsabilità amministrativa da reato dell’ente, nonché
  • nella natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica.

[1] “L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).”

beneficio della non menzione

Beneficio della non menzione anche in Cassazione Il beneficio della non menzione può essere disposto dalla Cassazione senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto

Non menzione e giudizio di legittimità

Il beneficio della non menzione può essere direttamente disposto dalla Cassazione, sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito, senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto. Lo ha stabilito la seconda sezione penale nella sentenza n. 37164/2024 accogliendo sul punto il ricorso di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Napoli confermava la condanna emessa dal tribunale nei confronti di un imputato per i reati di cui agli art. 81, 10 e 640-ter e 81, 10 e 493-ter cod. pen.

L’uomo adiva il Palazzaccio dolendosi, tra le altre cose, della carenza di motivazione in merito alla richiesta di applicazione del beneficio della non menzione.

La decisione

Per la S.C. il motivo è fondato (sebbene il ricorso sia complessivamente infondato nel resto). La Corte d’appello infatti non ha offerto una specifica risposta all’ultimo motivo di gravame, con cui si invocava il beneficio di cui all’art. 175 c.p. e tale inequivoca lacuna motivazionale impone, limitatamente a questa sola statuizione, l’annullamento della sentenza impugnata.
L’apparato argomentativo speso dalla Corte territoriale in tema di sospensione condizionale della pena, fondato sulla valutazione dei medesimi elementi ex art. 133 c.p. che vengono necessariamente in rilievo anche per la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, “consente tuttavia di colmare la denunciata carenza, senza necessità di rinvio” aggiungono gli Ermellini.

“lI beneficio in questione può, infatti, essere direttamente disposto – dalla Cassazione – sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito ex art. 164 cod. pen. nei termini sopra accennati, senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto (cfr., tra le altre, Cass. n. 14885/2021).

Per cui, la S.C. annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al mancato riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna, che concede. E rigetta il ricorso nel resto.

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giurista risponde

Concorso anomalo e progressione criminosa Nell’applicazione dell’istituto del concorso anomalo, ex art. 116 c.p., in che rapporto si deve porre l’elemento psicologico del dolo con la prevedibilità della progressione criminosa dell’azione?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 116 c.p. (concorso anomalo) è soggetta a due limiti negativi e cioè che l’evento diverso non sia voluto neppure sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale e che l’evento più grave, concretamente realizzato, non sia conseguenza di fattori eccezionali, sopravvenuti, meramente occasionali e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base (Cass., sez. I, 20 giugno 2024, n. 24520).

Preliminarmente il Supremo Collegio, nel rispondere al quesito oggetto della presente sentenza ha ritenuto di specificare quelli che sono i limiti applicativi dell’art. 116 c.p. sotto il profilo dell’elemento soggettivo distinguendolo dalle ipotesi di concorsi di cui all’art. 110 c.p.

Ciò posto, premettendo che è oramai consolidata una concezione unitaria del concorso di presone nel reato – contrariamente a quanto avveniva con il Codice Zanardelli –, l’attività che integra gli estremi dell’art. 110 c.p. può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle fasi di: ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione collettiva della fattispecie di reato. Tale attività, peraltro, non necessita di un previo accordo diretto alla causazione dell’evento; infatti il concorso ben potrebbe estrinsecarsi in un intervento di carattere estemporaneo, sopravvenuto a sostegno dell’azione altrui ancora in corso quand’anche iniziata all’insaputa del correo (Cass., Sez. Un., 3 maggio 2001, n. 31).

Il concorso anomalo ex art. 116 c.p. si differenzia rispetto al concorso “pieno” – sopradescritto – e sussiste alla presenza di tre requisiti: l’adesione dell’agente ad un reato voluto in concorso con altri; la commissione da parte di altro concorrente di un reato diverso – eventualmente più grave –; un nesso causale, non solo materiale ma anche psicologico tra la condotta del compartecipe rispetto al reato voluto e l’evento diverso concretamente realizzato da altri. Pertanto è necessario che il concorrente non abbia previsto e voluto, nemmeno a titolo di dolo eventuale, il reato diverso, posto in essere dall’esecutore. Invero, nel caso in cui il soggetto non soltanto si sia rappresentato l’evento, ma l’abbia voluto – sia che tale volizione si estrinsechi sotto il profilo del dolo diretto che del dolo indiretto (in tutte le sue accezioni) – si ricadrà nell’alveo applicativo dell’art. 110 c.p. e, pertanto, si applicherà la disciplina ordinaria del concorso di persone nel reato. A tali tre requisiti si aggiunge poi un ulteriore aspetto che estrinseca il terzo requisito, ovvero, la prevedibilità della progressione criminosa dell’agire.

Su quest’ultimo, cruciale, punto la Corte ribadisce come sia assolutamente preponderante la prevedibilità dell’evento reato differente. Invero, il requisito della prevedibilità dell’evento posto in progressione criminosa, anche se non espressamente previsto nella disposizione normativa, è di fondamentale importanza. Questo, lo si si evince in forza di una interpretazione sistematica e teleologica delle norme fondanti la responsabilità penale e vive ormai una condizione di assoluta stabilità dopo la pronuncia della Corte cost. 42/1965. Pertanto è imprescindibile un “nesso psicologico” in termini di prevedibilità tra la condotta dell’agente compartecipe e l’evento diverso in concreto verificatosi.

Tale aspetto, peraltro, non può dirsi integrato dalla sola sussistenza di un rapporto di causalità materiale tra la condotta dell’agente e l’evento più grave, ma è necessario che sussista un rapporto di “causalità psichica”, nel senso che il reato diverso – e più grave – commesso dal compartecipe deve essere astrattamente rappresentabile nella psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto (Cass. 11 gennaio 2006, n. 744), il tutto senza, comunque, che l’agente debba avere effettivamente previsto e accettato il rischio della sua commissione, giacché, in tal caso – come affermato in precedenza –, sarebbe configurabile il dolo eventuale e quindi il concorso pieno ex art. 110 c.p.

La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello voluto, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso anomalo ex art. 116 nel caso in cui l’agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che la componente psichica del concorso anomalo ex art. 116 c.p. si collochi, in un’area compresa fra la mancata previsione di uno sviluppo in effetti imprevedibile (situazione nella quale la responsabilità resta esclusa) e l’intervenuta rappresentazione dell’eventualità che il diverso evento potesse verificarsi, anche in termini di mera possibilità o scarsa probabilità (situazione nella quale si realizza un’ordinaria fattispecie concorsuale su base dolosa). Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata ritenendo che il corrente avesse agito con dolo diretto e, pertanto, con il pieno intento di cooperare all’esecuzione del disegno criminoso nella sua forma più grave effettivamente verificatasi.

*Contributo in tema di “Concorso anomalo e progressione criminosa”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

cannabis light

Cannabis light: il ddl sicurezza la vieta Cannabis light: il ddl sicurezza non punisce la produzione agroindustriale, vuole contrastare il commercio delle inflorescenze e dei derivati

Cannabis light: vietata per motivi di sicurezza pubblica

Il ddl-sicurezza, in attesa dell’approvazione definitiva in Senato, modifica la disciplina sulla cannabis light. Il disegno interviene sulla legge n. 242/2016, che promuove la coltivazione e la filiera agroindustriale della canapa per contrastare la criminalità e le condotte pericolose per la sicurezza pubblica.

Le modifiche alla legge n. 242/2016, apportate dall’art. 18, comma 1, sono precedute infatti da un’importante premessa: “Al fine di evitare che l’assunzione di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa (Cannabis sativa L.) o contenenti tali infio­rescenze possa favorire, attraverso altera­zioni dello stato psicofisico del soggetto as­suntore, comportamenti che espongano a ri­schio la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la sicurezza stradale.”

Cannabis light: come cambiano gli artt. 1 e 2 della l. n. 242/2016

Le due norme su cui interviene il disegno di legge sono gli articoli 1 e 2 della legge n. 242/2016. Questo il tenore letterale che potrebbero assumere le disposizioni delle due norme, prestando attenzione soprattutto ai termini in grassetto.

Articolo 1 Legge n. 242/2016

  1. La presente legge reca norme per il sostegno e la promozione della coltivazione della filiera industriale della canapa (Cannabis sativa.)”
  2. Il sostegno e la promozione riguardano la coltura della canapa finalizzata:
  3. a) alla coltivazione e alla trasformazione;
  4. b) all’incentivazione della realizzazione di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali per gli usi consentiti dalla legge.

3 bis. Le disposizioni della presente legge non si applicano allimportazione, alla lavorazione, alla detenzione, alla cessione, alla distribuzione, al commercio, al trasporto, allinvio, alla spedizione, alla consegna, alla vendita al pubblico e al consumo di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, o contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati. Restano ferme le disposizioni del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.” 

Con queste novità in pratica il ddl specifica che le misure di sostegno e di promozione previste dalla legge stessa riguardano solo la filiera industriale e si rivolgono esclusivamente alla coltura della canapa con comprovate finalità alle attività previste dalla legge.

Tra le varie finalità di sostegno e promozione della canapa il ddl elimina l’impiego e il consumo dei semilavorati, finalizzando la realizzazione dei semilavorati solo agli usi consentiti dalla legge.

Il ddl chiarisce infine che la legge n. 242/2016 non si applica a quanto specifica nel nuovo comma 3 bis.

Articolo 2 Legge 242/2016

“Dalla canapa coltivata ai sensi del comma 1 (ossia senza autorizzazione per le varietà indicate nellarticolo 1) è possibile ottenere:

  1. g)  coltivazioni destinate al florovivaismo

3bis. Sono vietati limportazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, linvio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata ai sensi del comma 1 del presente articolo, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati. Si applicano le disposizioni sanzionatorie previste dal titolo VIII del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.” 

Con queste modifiche il ddl precisa che la coltivazione della canapa non necessita di autorizzazione se dalla stessa si ottengono prodotti destinati al florovivaismo professionale.

Nel nuovo comma 3 bis invece sancisce i divieti delle attività elencate relative alle infiorescenze della canapa coltivata anche in forma semilavorata, ecc.

Cannabis light: il divieto preoccupa le associazioni di categoria

Le associazioni di categoria si dicono preoccupate della modifica che rende illegali le infiorescenze della canapa e i suoi derivati. Si tratta di una misura che mette a rischio anche i settori collegati a questi prodotto, soprattutto quello alimentare e quello tessile. Molte imprese, gestite soprattutto da giovani imprenditori, tra cui molte donne, hanno investito energie e risorse in queste attività commerciale e in quelle collegate.

Dipartimento delle Politiche antidroga: chiarimenti

Il Dipartimento competente però non ha tardato a fornire importanti chiarimenti sulle misure del ddl relative alla cannabis light.

Il ddl non vuole criminalizzare la coltivazione e la filiera agro industriale della canapa. Esso mira a contrastare più che altro la produzione e la commercializzazione delle inflorescenze e dei suoi derivati per uso ricreativo praticata dai cannabis shop. A causa di queste attività infatti, nella società si è diffusa, a torto, l’idea della legalizzazione della cannabis light. Ciò che il decreto vuole contrastare quindi è solo l’uso improprio di queste sostanze e tutte quelle condotte degli assuntori che, in stato di alterazione psico fisica, possono mettere a rischio l’incolumità e la sicurezza pubblica.

 

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sequestro preventivo

Sequestro preventivo: le modalità esecutive spettano al PM La Cassazione chiarisce che compete al PM il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo

Sequestro preventivo e modalità esecutive

Spetta al pubblico ministero il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo e i provvedimenti con cui è esercitato tale potere sono impugnabili con la procedura dell’incidente di esecuzione. Lo ha chiarito la seconda sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 37168/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli, in funzione di Tribunale del riesame, confermava integralmente il decreto del Giudice per le indagini preliminari che aveva disposto il sequestro preventivo in via diretta, fino alla capienza di euro 2.767.538,20, e, per l’importo non rinvenuto, per equivalente, nei confronti di alcuni indagati per il reato di cui agli artt. 110 e 648-ter cod. pen.
La questione approda al Palazzaccio dove viene dedotta la «manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione tale da risultare apparente», in relazione alla ribadita sussistenza del periculum in mora. “La decisione dei giudici della cautela – a dire della difesa – deriverebbe da una lettura approssimativa degli atti, che non avrebbe tenuto conto del fatto che l’intera somma in contestazione era confluita nell’operazione di completamento dell’immobile”. Inoltre, viene censurato, “il nuovo percorso argomentativo esposto dal Tribunale, che avrebbe invece dovuto annullare li provvedimento genetico, privo di adeguata motivazione sul punto”.

La decisione

Per la S.C. però il ricorso è infondato.

In materia di cautela reale, l’art. 325 cod. proc. pen., ricordano i giudici, “consente il ricorso per cassazione soltanto per violazione di legge (nel cui ambito deve includersi anche la motivazione omessa o soltanto apparente). Non sono, dunque consentiti, i profili di censura diretti a contestare la tenuta logica dell’apparato argomentativo”.

Il primo motivo, sotto l’abito dell’omessa motivazione, in primo luogo, osservano dalla Cassazione, “introduce surrettiziamente una serie di censure incentrate sulla presunta erroneità delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento dell’ordinanza impugnata, spingendosi, anzi, a una certosina disamina dei singoli passaggi argomentativi (in tema di rapporti con i e l’associazione per delinquere, di complessivo importo conferito da questi ultimi, di sussidiarietà del vincolo), sollecitandone un’alternativa rilettura rispetto a quella già offerta dal Tribunale”.
Inoltre, “le questioni che attengono alle modalità di esecuzione del sequestro preventivo – quali quelle denunciate nel caso di specie – non possono essere fatte valere con una richiesta di riesame (né con una istanza di dissequestro)”.  “Considerato che spetta al pubblico ministero il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo e che i provvedimenti con cui è esercitato tale potere sono impugnabili con la procedura dell’incidente di esecuzione, si tratta, dunque, di questioni – concludono dal Palazzaccio – che devono essere portate all’attenzione del giudice competente con la suddetta distinta procedura non impugnatoria” (cfr. ex multis, Cass. n. 8283/2020). Per cui, il ricorso è rigettato.

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giurista risponde

Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali Nell’applicazione dell’istituto della legittima difesa putativa, ovvero dell’eccesso colposo di legittima difesa, i timori personali possono essere di per sé stessi sufficienti ad escludere la punibilità del soggetto agente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

L’accertamento della legittima difesa, reale o putativa o dell’eccesso colposo di questa, deve essere effettuato con un giudizio “ex ante” calato all’ interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali (Cass., sez. I, 26 giugno 2024, n. 25230).

Nell’affrontare il thema decidendum, il Supremo Collegio ha operato un pregevole lavoro di ricostruzione ermeneutica in ordine ai requisiti per la sussistenza della legittima difesa, differenziando le ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. come novellato dalla L. 26 aprile 2019, n. 36, da quello più generale della legittima difesa putativa di cui al combinato disposto degli artt. 52 e 59 c.p.

Più nello specifico, l’ipotesi dell’eccesso colposo della legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. ricorre nel caso in cui il superamento del limite della necessaria proporzione che deve esserci tra la difesa del bene giuridico minacciato e l’offesa è dipeso da errore determinato da colpa (Cass. 12 ottobre 2023, n. 41552). Sotto tale profilo, infatti, lo stato di grave turbamento che funge da presupposto, in alternativa alla minorata difesa ex art. 61, comma 5 c.p., per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dal novellato art. 55, comma 2 c.p., richiede che esso sia prodotto dalla situazione di pericolo in atto, rendendo, di conseguenza, irrilevanti stati d’animo che abbiano cause preesistenti o diverse ed è necessario un esame di tutti gli elementi della situazione per accertare se la concretezza e gravità del pericolo in atto possa avere ingenerato un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa (Cass. 3 dicembre 2020, n. 34345). Per l’effetto una condotta antecedente a quella delittuosa che fa sorgere dei meri timori personali non può essere idonea ad integrare il presupposto della norma.

Tale ipotesi differisce, peraltro, dalla legittima difesa putativa, di cui all’art. 59 c.p., perché il concetto di errore ha una portata ben più generale rispetto al turbamento. Invero, l’errore scusabile non è altro che una rappresentazione falsata della realtà che prescinde da un turbamento emotivo e potrebbe, astrattamente, ricomprenderlo se questo non integra il requisito di cui all’art. 55, comma 2 c.p.

In altri termini la rappresentazione falsata del pericolo, nel caso di cui all’art. 59 c.p. è ontologicamente incompatibile con l’ipotesi di un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa, perché nel caso di cui all’art. 55, comma 2 c.p. non è esigibile una valutazione sulla proporzione della reazione. Di converso l’errore, per dirsi scusabile, deve trovare un’adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Per cui, la capacità di razionale valutazione dell’agente è necessaria per l’applicazione dell’art. 59 c.p., mentre è in radice esclusa per l’applicazione dell’art. 55, comma 2 c.p., i quali peraltro si inseriscono in momenti della condotta che possono essere diversi.

Ciò posto la presente sentenza, prendendo le mosse (Cass. 21 marzo 2013, n. 13370), ha ritenuto di affermare che al fine di valutare l’eventuale sussistenza dell’eccesso colposo di legittima difesa devono essere valutate ex ante le specifiche e peculiari circostanze concrete dell’azione. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali.

Sul punto nonostante sia ampiamente condivisibile la ricostruzione ermeneutica testé riportata, in ordine ai c.d. “timori personali”, è d’uopo segnalare l’esistenza di un orientamento parzialmente differente, coevo alla novella normativa del 2019, il quale però a parare di chi scrive può dirsi superato. Detto orientamento, prendendo comunque le mosse dall’arcinota sentenza Cass. 21 marzo 2013, n. 13370, ha ritenuto che, a seguito della novella legislativa del 2019, “i timori personali” laddove possano essere riconducibili nella categoria del “grave turbamento” (di cui alla nuova formulazione dell’art. 55 c.p.) debbano essere necessariamente oggetto di valutazione da parte del giudice di merito ed in assenza di tale valutazione la sentenza deve essere annullata (Cass. 10 dicembre 2019, n. 49883).

Alla luce di quanto sopraesposto, nel caso di specie la Corte ritenendo di aderire al primo orientamento ha, altresì, ricordato che il riconoscimento o l’esclusione della legittima difesa, reale o putativa, e dell’eccesso colposo nella stessa – qualora gli elementi di prova siano stati puntualmente accertati e logicamente valutati dal giudice di merito – è un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità. In forza di ciò, non essendo stati riscontrati vizi procedurali nell’accertamento degli elementi di prova o motivazionali nel vaglio degli stessi, la Corte ha confermato la sentenza di condanna.

Contributo in tema di “Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia: la nozione di convivenza Maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p: tra imputato e vittima deve sussistere una relazione affettiva, l'amicizia non è sufficiente

Maltrattamenti in famiglia e convivenza

Il reato di maltrattamenti in famiglia contemplato dall’art. 572 c.p richiede per la sua configurazione il requisito della convivenza. Esso è soddisfatto in presenza della coabitazione tra soggetti legati da una relazione qualificata dalla comunanza materiale e spirituale di vita e da aspettative di solidarietà reciproca. Non è sufficiente la mera divisione degli spazi della abitazione comune ricollegabile a un mero rapporto di amicizia. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 37166/2024.

Convivenza assente: niente maltrattamenti in famiglia

La Corte ridetermina la pena inflitta a un imputato per la commissione di diversi reati, tra i quali quello di maltrattamenti verso familiari e conviventi contemplato dall’art. 572 c.p.

L’imputato ricorre in Cassazione e contesta la carenza di motivazione della sentenza in relazione al requisito della convivenza, in quanto presupposto necessario per la configurazione del reato di maltrattamenti.

No ai maltrattamenti se il rapporto è di mutuo soccorso

La Cassazione accoglie la doglianza dell’imputato con la quale contesta l’assenza del requisito della convivenza. Esso è infatti richiesto dall’art. 572 c.p, che punisce i maltrattamenti verso persone e familiari.

Nel caso di specie la Cassazione rileva l’esistenza di un mero “rapporto di mutuo soccorso” tra l’imputato e la persona offesa. La loro coabitazione era caratterizzata dall’accordo fondato sul contributo di entrambi alle spese comuni.

L’imputato ha dichiarato di “essersi preso cura di una persona fragile, incapace di determinarsi e che necessitava di essere stimolato e spronato e di essere aiutato durante la malattia: lo stesso imputato non prospetta una mera coabitazione, ma una condivisione di vita ben più ampia […] con condivisione di una comune esperienza lavorativa […], ulteriore manifestazione di condivisione di progetti futuri.”

La Corte Costituzionale in relazione al requisito della convivenza del reato di maltrattamenti ha avuto modo di precisare che si deve chiarire se tra imputato e persona offesa sussista una relazione in grado di considerare la persona offesa come parte della “famiglia” dell’imputato o se in alternativa un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nellabitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di convivenza.” 

Convivenza: coabitazione tra soggetti con comuni aspettative di vita

A questo proposito la Cassazione intende seguire l’interpretazione secondo cui: “ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., integra il requisito della convivenza soltanto la coabitazione tra individui legati da una relazione qualificata da comunanza materiale e spirituale di vita e da aspettative di reciproca solidarietà, non già la contingente condivisione di spazi abitativi, priva di connotati affettivi e solidali, dovuta a mera amicizia.”

I concetti di famiglia e convivenza devono essere interpretati in senso restrittivo. Gli stessi devono essere caratterizzati da una radicata e stabile relazione affettiva. In essa entrambe le parti devono nutrire reciproche aspettative di assistenza e mutua solidarietà. Il tutto deve essere fondato su un rapporto coniugale, di parentela o di condivisione stabile dell’abitazione comune, anche discontinua.

Nel caso di specie imputato e persona offesa erano semplici coinquilini, tra i quali non sussisteva alcun vincolo affettiva, ma fondato solo sulle necessitò comuni della vita quotidiana, che quindi non può essere qualificato come convivenza.

In difetto di questa condizione soggettiva richiesta dall’articolo 572 c.p la sentenza impugnata va annullata. Il reato di maltrattamenti infatti non si configura perché il fatto non sussiste.

 

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autovelox ed etilometro

Autovelox ed etilometro hanno presupposti diversi Per la Cassazione non può contestarsi la validità della rilevazione dell'etilometro in base alle regole previste per l'autovelox

Autovelox ed etilometro

Non si può contestare la validità della rilevazione effettuata con l’etilometro in base alle regole dettate in tema di autovelox, in quanto non applicabili. Questo, in sintesi, quanto emerge dalla sentenza n. 21040/2024 della quarta sezione penale della Cassazione.

La vicenda

A ricorrere al Palazzaccio è un uomo condannato per il reato di cui all’art. 186 co. 2, let. c), 2- bis, 2-sexies e 2-septies cod. strada. Il ricorrente contesta l’inidoneità dell’etilometro utilizzato, i margini di errore dello stesso e il fatto che l’esame strumentale non può costituire una prova legale.

Contesta, inoltre, violazione di legge in relazione alla sussistenza dei requisiti di cui al MD 196/90, l’esistenza di errori massimi tollerabili nel tipo di apparecchio utilizzato e la pena “severissima, prossima al massimo edittale” irrogata non tenendo conto della sua incensuratezza nè della condotta complessiva dello stesso, “inidonea a provocare rischi per l’incolumità di alcuno”. Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.

Ricorso inammissibile

Il Collegio tuttavia ritiene tutte le doglianze generiche e inammissibili e, per contro, la sentenza impugnata logica e congrua e immune da vizi di legittimità.

Intanto, “la Corte territoriale – anticipano gli Ermellini – ha ritenuto sufficientemente provata la responsabilità dell’imputato non soltanto in base agli esiti degli accertamenti strumentali (quindi il superamento del valore della soglia di 1,50 g/l, essendo stati riscontrati 2,09 g/l alla prima prova e 2,32 alla seconda), bensì anche per via della
convergenza indiziaria emersa in sede istruttoria, tra cui le manifestazioni esteriori, tipiche dello stato di alterazione da alcool, da parte dell’imputato al momento del fatto”. Ormai da tempo, e ben prima del proposto ricorso, la giurisprudenza, infatti, proseguono i giudici (cfr. ex multis, Sez. 4 n. 3201 del 12/12/2019; n. 33371 del 8/6/2023) ha “fugato ogni dubbio sul fatto che, per quanto riguarda l’etilometro, l’omologazione e le verifiche periodiche dello stesso sono espressamente previste dall’art. 379, commi 6, 7 e 8 del Regolamento esecutivo al Codice della Strada, approvato con d.P.R. 16 novembre 1992, n. 495 e ciò differenzia la disciplina in tema di etilometro rispetto a quella avente ad oggetto l’autovelox, colpita dalla declaratoria di incostituzionalità operata con la sentenza della Corte Costituzionale n. 113/2015”.
Pertanto, dovendo ritenersi che, anche nel caso del giudizio penale per guida in stato d’ebbrezza ex art. 186, co. 2, cod. strada, “nell’ambito del quale assuma rilievo la misurazione del livello di alcool nel sangue mediante etilometro, all’attribuzione dell’onere della prova in capo all’accusa circa l’omologazione e l’esecuzione delle verifiche periodiche sull’apparecchio utilizzato per l’alcoltest, fa riscontro un onere di allegazione da parte del soggetto accusato, avente ad oggetto la contestazione del buon funzionamento dell’apparecchio, che nel caso che ci occupa non è stato adempiuto”.
Peraltro, in tema di guida in stato di ebbrezza, proseguono dalla S.C., “l’esito positivo dell’alcoltest costituisce prova dello stato di ebbrezza (stante l’affidabilità di tale strumento in ragione dei controlli periodici rivolti a verificarne il perdurante funzionamento successivamente all’omologazione e alla taratura) con la conseguenza che è onere della difesa dell’imputato fornire la prova contraria a detto accertamento, dimostrando l’assenza o l’inattualità dei prescritti controlli, tramite l’escussione del dirigente del reparto addetto ai controlli o la produzione di copia del libretto metrologico dell’etilometro (Sez. 4, n. 31843/2023)”.
Anche sul punto della pena irrogata infine il ricorso è inammissibile, giacchè al contrario di quanto sostenuto dalla difesa, non è “prossima al massimo edittale” ma nella “media edittale prevista dall’art. 186, comma 2, cod. strada aggravato dalla circostanza di cui al co. 2-bis (che, nella specie, prevede il raddoppio delle sanzioni previste dal co. 2)”.

La decisione

Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro alla cassa delle ammende.

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giustizia riparativa

Giustizia riparativa e processo penale: regole alternative La Cassazione rammenta che l'oggetto e la finalità del percorso riparativo sono completamente diversi da quelli del processo penale, per cui non possono in entrambi operare gli stessi principi

Giustizia riparativa e processo penale

La giustizia riparativa non si fonda su principi mutuabili dal processo penale, in quanto è percorso alternativo a esso. Così la Cassazione con la sentenza n. 24343/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di appello di Milano, riformava parzialmente la sentenza del tribunale della stessa città con cui un imputato era stato condannato in ordine al reato ex art. 609 bis cod. pen. applicando le attenuanti generiche e rideterminando la pena finale, confermando altresì nel resto la sentenza.

Il ricorso

L’uomo, tramite il difensore di fiducia, proponeva ricorso per Cassazione deducendo violazione degli artt. 589 e 599 bis cod. proc. pen., avendo la corte deciso in maniera difforme rispetto a quanto stabilito in sede di intervenuto concordato. In quella sede si era chiesta l’applicazione della pena finale di anni 4 mesi 3 di reclusione con domanda altresì di accesso al programma di giustizia riparativa. Istanza tuttavia rigettata dala Corte di appello.

Inoltre, a dire della difesa, essendo stato condannato l’imputato per un reato cd. ostativo, “il denegato positivo svolgimento di un programma di giustizia riparativa prima della espiazione della pena in carcere gli avrebbe consentito di chiedere – alla luce del novellato art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario – l’applicazione di una misura alternativa, potendo chiedere così di scontare la pena fuori dell’istituto penitenziario una volta che la stessa risulterà inferiore a 4 anni”.

Giustizia riparativa e processo

Per la S.C., tuttavia, il ricorso è inammissibile. “Va premesso – affermano i giudici – che l’art. 129-bis cod. proc. pen., norma di portata generale, introdotto dall’art. 7 D. Igs. n. 150/2022, dispone che: ‘1. In ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, al Centro per la giustizia riparati va di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa”.
Inoltre, “nel caso di reati perseguiblli a querela soggetta a remissione e in seguito all’emissione dell’avviso di cui all’articolo 415-bis, il giudice, a richiesta dell’imputato, può disporre con ordinanza la sospensione del procedimento o del processo per lo svolgimento del programma di giustizia riparativa per un periodo non superiore a centottanta giorni”.
Il procedimento riparativo, tuttavia, continua la Corte richiamando la pregressa giurisprudenza (cfr. Cass. n. 6595/2023) “non è un procedimento giurisdizionale: il programma riparativo e le attività che gli sono propri appartengono non al procedimento/processo penale, quanto piuttosto all’ordine di un servizio pubblico di cura della relazione tra persone, non diversamente da altri servizi di cura relazionale ormai diffusi in diversi settori della sanità e del sociale. Ciò spiega le ragioni per le quali, all’interno del procedimento riparativo, operano regole di norma non mutuabili da quelle del processo penale, ed anzi, incompatibili con quelle del processo penale: volontarietà, equa considerazione degli interessi tra autore e vittima, consensualità, riservatezza, segretezza”.

La decisione

Ed invero, “proprio perché l’oggetto e la finalità del percorso riparativo sono completamente diversi da quelli del processo penale, non possono in entrambi operare gli stessi principi”. Motivo per cui, la domanda di ammissione al programma di giustizia ripartiva, chiariscono infine dalla S.C., “non può ritenersi parte integrante del patto di concordato, così che la decisone della corte di non sospendere il procedimento ‘a fronte di una richiesta di ammissione alla giustizia riparativa’ non integra alcuna violazione degli evocati artt. 589 e 599 bis cod. proc. pen.”.
Sulla base delle considerazioni svolte, pertanto, il ricorso è dichiarato inammissibile, con condanna al pagamento delle spese del procedimento e di tremila euro in favore della Cassa dele Ammende.

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Nis 2

NiS 2: cosa cambia con la nuova direttiva UE L’Italia ha recepito la Direttiva europea 2022/2555, relativa a misure per un livello comune elevato di cybersicurezza nell’Unione, la cosiddetta NIS 2 in vigore dal 16 ottobre 2024. Vediamo cosa cambia per la sicurezza informatica

NIS 2: il governo recepisce la direttiva

La NIS 2 è la nuova direttiva UE sulla cyber security, ossia l’insieme di tecnologie, processi e misure di protezione progettate per ridurre il rischio di attacchi informatici.

Il Governo in data 7 agosto 2024 ha approvato definitivamente lo schema del decreto legislativo, che ha recepito la NIS 2, la Direttiva europea (direttiva UE 2022/2555), relativa a misure per un livello comune elevato di cybersicurezza nell’Unione, con la quale si introducono le misure per un livello comune elevato di Cybersicurezza nell’Unione europea.

Il decreto legislativo n. 138/2024, di recepimento della direttiva UE è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’1 ottobre per entrare in vigore il 16 ottobre 2024.

L’Agenzia per la Cybesicurezza nazionale (ACN)

Come si evince dal testo, l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (ACN) assume un ruolo chiave nella supervisione dell’attuazione della Nis 2, con poteri di vigilanza nonché di previsione di sanzioni elevate in caso di inosservanza della normativa sulla cybersicurezza, con possibilità di disporre la misura dell’incapacità temporanea per i dirigenti.

Gli altri punti chiave della NIS 2

Nello specifico, la Direttiva stabilisce una serie di requisiti fondamentali che le organizzazioni devono soddisfare per garantire un elevato livello di sicurezza informatica e che includono: politiche di analisi dei rischi e di sicurezza informatica, nonchè la gestione degli incidenti.  

Obblighi per gli operatori manager e personale

La Direttiva NIS 2 stabilisce in primo luogo che gli operatori, organi di amministrazione e organi direttivi inclusi nel proprio  campo di applicazione dovranno adottare misure tecniche, operative e organizzative adeguate e proporzionate per gestire i rischi connessi alla sicurezza dei sistemi informatici e delle reti e saranno obbligati a notificare all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale,  senza indebito ritardo, eventuali incidenti che abbiano un impatto significativo sulla fornitura dei loro servizi.

A tal fine sono previsti corsi di formazione obbligatori ed essenziali a garantire l’acquisizione di conoscenze e competenze.

Notifiche degli incidenti al CSRT Italia e relative sanzioni

Gli operatori distinti in essenziali e importanti, in base alle loro competenze ed obblighi,  sono tenuti a notificare all’ACN, – che in Italia assume il nome di CSRT Italia – senza ritardo, e non appena ne vengono a conoscenza e comunque entro le 24 ore in via preliminare e non oltre le 72 ore in maniera dettagliata ,  dell’incidente informatico significativo.

Le amministrazioni centrali, regionali e locali, comprese le ASL e i comuni con più di 100 mila abitanti, sono coinvolti in prima linea nella risposta.

La Direttiva prevede diverse sanzioni severe in funzione del fatto che un operatore sia qualificato come essenziale o come importante.

Nel merito, scattano da parte dell’ACN, dopo la diffida:

  • per i soggetti essenziali, possono arrivare fino a 10 milioni di euro o al 2% del fatturato annuo globale;
  • per i soggetti importanti, fino a 7 milioni di euro o all’1,4% del fatturato annuo globale.

Viene introdotta anche la possibilità di incapacità temporanea per dirigenti che non rispettano le normative.

La Cultura come settore da proteggere

l’Italia, unica in Europa, ha inserito la Cultura – e in particolare i soggetti che svolgono attività di interesse culturale – tra i settori critici e strategici maggiormente da proteggere dal punto di vista della cybersecurity. Il controllo e l’attenzione da parte degli organi è tanto maggiore quanto più  lo sono i soggetti che gestiscono la cultura, operano in territori per i quali queste attività rappresentano un asset fondamentale, come ad esempio le città d’arte.

Basti pensare all’interruzione dell’erogazione online dei ticket per accedere al Colosseo, avvenuta lo scorso anno, a causa di un attacco cibernetico.

 

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