giurista risponde

Eccesso colposo di legittima difesa Quali sono i profili di intersecazione tra la fattispecie dell’eccesso colposo di legittima difesa, la provocazione e le concrete modalità operative del fatto illecito?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

La fattispecie dell’eccesso colposo ricorre qualora l’agente, minacciato da un pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto, abbia posto in essere la necessaria difesa del bene giuridico minacciato, ma, per errore determinato da colpa, abbia ecceduto rispetto alla necessaria proporzione tra difesa ed offesa. – Cass. I, 13 giugno 2023, n. 41552.

La fattispecie concreta posta al vaglio della Suprema Corte ha riguardato la configurabilità di un eccesso colposo di legittima difesa in luogo della fattispecie di tentato omicidio, reato per il quale il soggetto ricorrente è stato condannato sia in primo che in secondo grado, con rilevanti effetti sia sul piano qualificatorio che sanzionatorio.

Nello specifico, il caso storico ha riguardato un alterco intercorrente tra due condomini, sfociato poi per futili motivi nell’aggressione con arma da taglio dell’uno nei confronti dell’altro.

La difesa ha quindi eccepito i vizi di violazione di legge e difetto di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la stessa non teneva in considerazione la sussistenza o meno della causa di giustificazione della legittima difesa, ancorché nella forma dell’eccesso colposo, sulla scorte della relazione del consulente medico e della ricostruzione delle modalità esecutive degli atti lesivi.

Elemento collegato e prodromico all’azione reazionaria difensiva sarebbe inoltre stata la provocazione della persona offesa nei confronti dell’attuale condannato; secondo la difesa, i giudici di prime cure non avrebbero valorizzato i pregressi contrasti tra l’imputato e la persona offesa, contrassegnati anche da una violenta aggressione subita dall’imputato, elementi significativi del fatto che l’imputato, nell’occorso, avesse agito in uno stato d’ira, covato nel corso degli anni ed esploso in occasione di un ultimo, ed ennesimo, diverbio.

Il collegio adito della questione ha dichiarato inammissibile il ricorso, sulla scorta delle seguenti ragioni:

Relativamente alla sussistenza dell’attenuante della provocazione, la Corte ha richiamato le motivazioni della sentenza d’appello secondo cui la condotta dell’agente sarebbe stata preceduta da un acceso diverbio nel corso del quale ambedue i concorrenti si sarebbero rivolti reciproche accuse circa passati episodi, di tal che, l’esplosione della summenzionata ira, maturata nel corso del tempo, non sarebbe stata determinata da un fatto ingiusto altrui – come esplicitamente richiamato dalla norma codicistica relativa alle circostanze attenuanti – quanto piuttosto da un futile motivo.

Secondo giurisprudenza costante, infatti, il “fatto ingiusto altrui” ex art. 62, n. 2, c.p. deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale (così Cass. 2 dicembre 2013, n.47840).

Per ciò che concerne la configurabilità dell’eccesso colposo di legittima difesa, la Corte ha ricostruito l’istituto che ricorre quando l’agente, minacciato da un pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto, abbia posto in essere la necessaria difesa del bene giuridico minacciato, ma, per errore determinato da colpa, abbia ecceduto rispetto alla necessaria proporzione tra difesa ed offesa.

Da ciò ne consegue che i presupposti della fattispecie di cui all’art. 55 c.p. in relazione alla legittima difesa sono, da una parte, la sussistenza dei requisiti della causa di giustificazione e, dall’altra, il superamento solo colposo, e non volontario, del limite costituito dalla proporzione tra il bene giuridico minacciato dall’offesa altrui e quello leso dalla reazione difensiva.

L’accertamento compiuto in primo e secondo grado ha rilevato come la direzione dei colpi, frontali e non dal basso verso l’alto, fossero incompatibili con la ricostruzione offerta dall’imputato e con le modalità esecutive di un’azione difensiva; pertanto, ritenendo tali provvedimenti adeguatamente motivati, attendibili e scevri da qualsivoglia fallacia logico-giuridica, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. I, 24 settembre 1997, n. 8999;
Cass. pen., sez. I, 13 febbraio 2019, n. 9463
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Estorsione e danno patrimoniale La nozione di danno patrimoniale richiesta dal delitto di estorsione ricomprende anche la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico (cd. chance) determinata dal reato di turbata libertà degli incanti?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

Il patrimonio non è un insieme di beni materiali, ma un insieme di rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico, unificati dalla legge in considerazione dell’appartenenza al medesimo soggetto, per cui qualsiasi situazione possa incidere negativamente sull’assetto economico di un individuo, comprese la delusione di aspettative e chance future di arricchimento o di consolidamento dei propri interessi, è destinata a rientrare nel concetto di danno di cui all’art. 629 cod. pen. – Cass. VI, 11 luglio 2023, n. 41379.

A seguito di condanna in appello per i reati di turbata libertà degli incanti e di estorsione, la difesa ha proposto ricorso per Cassazione deducendo il difetto di motivazione nella parte in cui non veniva approfondito il requisito del danno, richiesto per il reato di cui all’art. 629, avendolo concretizzato in una perdita di chance e trascurando nel caso in esame che gli aggiudicatari provvisori non sarebbero stati titolari di un diritto patrimoniale sub condicione, come sostenuto dall’accusa e dal giudice.

Secondo la Corte adita, le doglianze avanzate devono essere sottoposte al vaglio delle Sezioni Unite del Supremo Consesso in ragione degli orientamenti contrastanti in tal senso, al fine di definire la nozione di perdita di chance e la possibilità che essa integri, oltre al reato di turbativa d’asta anche quello di estorsione.

La risoluzione del contrasto eliminerebbe fattori di imprevedibilità circa l’ambito applicativo delle due richiamate fattispecie di reato e ingiustificate, casuali, disparità di trattamento, contrastanti con il principio della certezza del diritto (o “legal certainty” o “sécurité juridique”), riaffermato reiteratamente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo quale valore fondamentale, benché non espressamente codificato, inteso innanzitutto come esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di affidamento del pubblico nella giustizia (Corte eur. dir. uomo, sez. II, 9 febbraio 2016).

Un orientamento ritiene infatti che il fine del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, elemento costitutivo del reato di estorsione, è del tutto estraneo al reato di cui all’art. 353 c.p., connotato, invece, dal dolo generico; ulteriormente, il reato di turbata libertà degli incanti si consuma nel momento e nel luogo in cui, con l’uso di uno dei mezzi previsti dalla legge, si è impedita o turbata la gara, senza che occorra né la produzione di un danno, né il conseguimento di un profitto.

Tuttavia, alcune pronunce hanno ricondotto il danno dell’estorsione nella lesione dell’autonomia negoziale, ossia nella libertà di regolamentare i propri interessi, idonee in astratto a dar luogo a problemi incidenti alla configurabilità del concorso dei reati in questione.

Una isolata pronuncia (Cass., sez. VI, 3 marzo 2004, n. 19607) ha escluso il concorso di reati facendo leva sulla natura pluri-offensiva del reato di cui all’art. 353 cod. pen., idonea a comprendere anche gli interessi sottesi all’art. 629 cod. pen., piuttosto che sul confronto degli elementi costitutivi dei due reati.

Secondo altre, invece, il danno del reato potrebbe consistere nella perdita di chance. Alcune, nell’affermare che il danno del delitto di estorsione possa individuarsi nella perdita dell’aspettativa del soggetto di conseguire vantaggi economici favorevoli, non aggiungono altro, al fine di descrivere meglio e il significato della categoria indicata, facendo quindi riferimento a qualsiasi chance.

Altre sentenze, invece, nel dare rilievo alla chance, precisano che deve trattarsi di una situazione connotata da una consistente probabilità di successo: definizione, questa, che evoca l’approdo cui sono pervenute la dottrina e la giurisprudenza civile riguardo a tale categoria.

Più nello specifico, si è affermato che la lesione di una legittima aspettativa e il danno patrimoniale conseguente sarebbe dovuto essere inteso come danno futuro, consistente non già nella perdita di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione da formularsi ex ante e da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale.

La Corte adita coglie inoltre l’occasione per approfondire il significato del termine chance, citando altresì la sentenza civile 24050/2023: l’etimologia della parola chance deriva infatti dall’espressione latina cadentia, che indica il cadere dei dadi e sta a significare la “buona probabilità di riuscita”, delineando due categorie per le quali occorre distinguere fra probabilità di riuscita (chance risarcibile) e mera possibilità di conseguire l’utilità sperata (chance irrisarcibile), dando quindi rilevanza alla chance intesa come una situazione teleologicamente orientata verso il conseguimento di un’utilità o di un vantaggio, caratterizzata da una possibilità di successo presumibilmente non priva di consistenza.

Alla luce del contrasto posto all’attenzione della Corte, questa ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, al fine di definire se nella nozione di danno patrimoniale di cui all’art. 629 c.p. possa rientrare anche la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico, con conseguenti ripercussioni sulla sussistenza o meno di un danno rilevante ai sensi dell’art. 629 c.p. e, quindi, sulla configurabilità del concorso del delitto di estorsione con quello di turbata libertà degli incanti, nell’ipotesi di allontanamento, con violenza o minaccia, di offerenti da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 27 aprile, 2016 n. 41433; Cass., sez. V, 16 febbraio, 2017 n. 18508
Difformi:      Cass., sez. VI, 3 marzo 2004, n. 19607
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Reati permanenti e particolare tenuità del fatto È applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati permanenti?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

In tema di reati permanenti, è preclusa l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finché la permanenza non sia cessata, in ragione della perdurante compressione del bene giuridico per effetto della condotta delittuosa. – Cass., sez. F, 31 agosto 2023, n. 37048.

Il caso sottoposto al vaglio di legittimità della Suprema Corte riguarda l’invasione di un terreno appartenente al demanio stradale di un Comune, reato previsto dal combinato disposto degli artt. 633 e 639bis del codice penale, commesso mediante la realizzazione di un muro di recinzione a chiusura dello stesso.

La difesa, impugnando la sentenza di grado precedente, ne lamenta la violazione di legge in relazione alla mancata applicazione dell’art. 131bis per avere la Corte d’Appello erroneamente negato l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto in ragione della natura permanente del reato e nonostante la particolare tenuità dell’offesa, atteso che l’invasione aveva avuto a oggetto una striscia di terreno di modesta estensione e inutilizzabile per altri fini.

L’art. 131bis prevede infatti l’esclusione della punibilità in occasione di offese di particolari tenuità, dettando ulteriori specificazioni per i casi in cui la stessa non sia considerabile tale; tra gli altri, qualora si proceda per reati che abbiano avuto ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

La sezione feriale della Corte di Cassazione ha aderito alle motivazioni della sentenza d’appello secondo cui il fatto di cui all’esame non potesse considerarsi di particolare tenuità avuto riguardo al considerevole arco di tempo durante il quale si sarebbe protratta l’occupazione ed il reiterato inadempimento dell’imputato nei confronti dell’intimazione di rilascio più volte intimato dal Comune.

Secondo infatti l’orientamento nettamente maggioritario della Corte di cassazione, il reato di invasione di terreni o edifici, di cui all’art. 633 cod. pen., ha natura permanente quando l’occupazione si protrae nel tempo, determinando un’immanente limitazione della facoltà di godimento che spetta al titolare del bene; permanenza che cessa soltanto con l’allontanamento dell’occupante o con la sentenza di condanna di primo grado.

Ulteriormente viene ribadito che, secondo consolidata giurisprudenza, in tema di reati permanenti, è preclusa l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finché la permanenza non sia cessata, in ragione della perdurante compressione del bene giuridico per effetto

della condotta delittuosa.

Pertanto, nel caso di specie, la mancata cessazione della permanenza dell’occupazione arbitraria avrebbe costituito una situazione tale da escludere un’offesa di particolare tenuità a causa del lungo arco di tempo di protrazione dell’occupazione del terreno, destinato a fini pubblici di circolazione, e dell’altresì reiterato inadempimento alle intimazioni.

Sulla scorta di tali motivazioni, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass pen., sez. II, 13 febbraio 2019, n. 16363
Difformi:      Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2021, n. 15029
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Gravità fattispecie penale e art. 34 D.Lgs. 274/2000 La gravità della fattispecie penale violata può orientare il giudice di pace nell’applicazione dell’art. 34, D.Lgs. 274/2000?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

La particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 34, D.Lgs. 274/2000 consegue all’accertamento in concreto dell’esiguità del danno o del pericolo derivanti dalla commissione del reato, dall’occasionalità della violazione e dal ridotto grado di colpevolezza dell’imputato rispetto all’interesse tutelato dalla norma violata.

La Cassazione precisa che i presupposti applicativi della predetta causa di non procedibilità vanno riscontrati in relazione al concreto dipanarsi dei fatti, prescindendo dalla natura e dalla gravità intrinseca della fattispecie in astratto considerata. – Cass. pen., sez. I, 12 ottobre 2023, n. 41544.

Il D.Lgs. 274/2000 disegna un sottosistema per gli illeciti penali di competenza del giudice di pace che si connota per la precipua finalità conciliativa, giustificativa degli istituti di semplificazione applicabili nel corso del procedimento.

La Consulta, nel riconoscere la legittimità costituzionale di una disciplina penale settoriale, ha più volte riconosciuto che al giudice di pace è istituzionalmente assegnato il compito di favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti (Corte cost. ord. 349/2009; ord. 27/2007).

La ratio conciliativa, in uno con l’esigenza deflattiva del contenzioso penale relativo ad una serie di violazioni ad alto tasso di diffusività, hanno spinto il legislatore a positivizzare una particolare causa di esclusione della procedibilità correlata alla particolare tenuità del fatto.

Ai sensi dell’art. 34, D.Lgs. 274/2000, infatti, il giudice può, durante le indagini preliminari, dichiarare con decreto d’archiviazione di non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, quando ovviamente non risulti un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. Se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono

Il legislatore fissa i parametri per considerare il fatto di particolare tenuità, rimettendo al giudice una valutazione, rispetto all’interesse tutelato, sull’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, sulla sua occasionalità e sul grado della colpevolezza, che devono essere tali da non giustificare l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto anche del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta a indagini o dell’imputato.

La causa di esclusione in parola è applicabile alle sole fattispecie di reato espressamente individuate dal D.Lgs. 274/2000, ritenute ex lege di limitata offensività.

Si tratta, dunque, di un istituto processuale inerente a fatti di reato tipici, antigiuridici, offensivi e colpevoli, che, in presenza dei presupposti, vengono espunti dal circuito penale per ragioni di opportunità procedimentale e di politica criminale. L’art. 34, difatti, attiene, per espressa previsione legislativa, alla procedibilità e all’esecuzione dell’azione penale.

La predetta causa di esclusione della procedibilità, prima facie, sembra ricalcare la causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131bis c.p., ma tra le due disposizioni non sussiste un rapporto di specialità tale da condurre all’applicazione di una sola delle due prescrizioni favorevoli al reo in presenza dei presupposti di entrambe le norme.

La giurisprudenza, infatti, nel dirimere il contrasto ingeneratosi sul rapporto tra le due fattispecie, ha ritenuto che anche nel procedimento penale davanti al giudice di pace possa applicarsi l’art. 131bis c.p. stante l’assenza di una indicazione normativa che conforti la tesi negativa ed in ragione della diversa funzione delle due prescrizioni, l’una a valenza processuale e l’altra di matrice sostanziale (Sez. Un. 53683/2017).

Un punto di incontro tra i due istituti, passibili di applicazione congiunta, risiede nel potere di valutazione rimesso al giudice. Affinché il giudice di pace proceda all’archiviazione della notizia di reato occorre che il fatto, comprensivo dell’offesa al bene giuridico protetto, sia valutato in concreto come fatto di particolare tenuità, occasionale e scarsamente lesivo dell’interesse della persona offesa, la quale gode di un diritto potestativo di opposizione preclude l’immediata definizione del procedimento.

La tenuità emerge dal grado di offensività della condotta in relazione alle conseguenze cagionate e dal grado di colpevolezza dell’agente del caso concreto, prescindendo da considerazioni relative al bene giuridico protetto. Ciò consente di dare una più ampia applicazione alla causa di esclusione della procedibilità in parola, contribuendo attivamente alla deflazione del contenzioso e alla conciliazione delle liti.

Nel caso di specie il giudice di pace territoriale, travalicando i margini di valutazione di cui all’art. 34, D.Lgs. 274/2000, ha ritenuto che l’alto valore del bene giuridico presidiato dalle norme incriminatrici in materia di immigrazione illegale ostasse all’applicazione della causa di improcedibilità.

La Cassazione, confermando che le valutazioni del giudice debbano effettuarsi in concreto, rifuggendo da sterili formalismi, ha chiarito che il bene tutelato dalla norma violata non rientra tra i presupposti ostativi alla tenuità del fatto di cui all’art. 34, D.Lgs. 274/2000.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. V, 7 maggio 2009, n. 34227
giurista risponde

Lesioni personali e competenza dopo la riforma Cartabia Come va individuata la competenza in materia di lesioni personali a seguito della Riforma Cartabia, che ha operato un ampliamento della cognizione del giudice di pace, in assenza di una disciplina transitoria?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

Per le lesioni personali guaribili in un intervallo di tempo compreso tra i venti ed i quaranta giorni sussiste la competenza per materia del giudice di pace, dovendo, il mancato coordinamento dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 150/2022 con l’art. 4, comma 1, lett. a), D. Lgs. 274/2000, essere risolto attraverso l’interpretazione estensiva di tale ultima disposizione, conformemente alla volontà del legislatore di ampliare la cognizione del giudice onorario con conseguente applicazione di una pena più favorevole al reo o deve permanere la competenza in capo al tribunale? Della questione sono state investite le Sezioni Unite. – Cass. pen., sez. V, ord. 19 ottobre 2023, n. 42858.

 

L’avvento della riforma Cartabia ha inciso sulla competenza per materia, ampliando gli ambiti della cognizione del giudice di pace per la necessità di snellire il carico dei tribunali e favorire soluzioni conciliative e più rapide per gli illeciti penali di minore allarme sociale aventi minore portata offensiva.

L’art. 582 c.p., nella versione vigente prima delle modifiche apportate col D.Lgs. 150/2022, non presentava problemi di coordinamento con l’art. 4, D.Lgs. 274/2000. Infatti l’art. 582, comma  2, c.p. rientrava nella competenza del giudice di pace, ad esclusione dei fatti commessi contro uno dei soggetti elencati dall’art. 577, comma 2, c.p. ovvero contro il convivente in ragione dell’esigenza di repressione della violenza di genere.

La gravità di alcuni episodi di violenza commessi i soggetti elencati al n. 1, comma 1 dell’art. 577 c.p. ha indotto la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità costituzionale della competenza per materia riservata al giudice di pace per tali fatti (Corte cost. 236/2018).

La riforma Cartabia ha inciso sul delitto di lesioni volontarie quanto al regime di procedibilità stabilendone la punibilità a querela come regola e facendo divenire la perseguibilità d’ufficio eccezionale, salvo che per i casi di cui all’art. 577, comma 1, n. 1 e comma 2, c.p. In particolare, la procedibilità a querela viene estesa alle c.d. lesioni lievi – malattia compresa tra 21 e 40 giorni, mentre restano procedibili d’ufficio le lesioni gravi – malattia superiore a 40 giorni) e le lesioni gravissime, di cui all’art. 583 c.p. È fatta, altresì, salva la procedibilità d’ufficio in tutte le ipotesi in cui è già prevista in presenza di concorrenti circostanze aggravanti. Si è reso necessario, però, comprendere come andasse coordinato il nuovo regime dell’art. 582 c.p. con l’art. 4, D.Lgs. 274/2000 per la ripartizione di competenza tra tribunale e giudice di pace.

In assenza di una disciplina transitoria si è reso necessario trovare una soluzione interpretativa che evitasse di disinnescare l’intento deflattivo della Riforma. Si è, pertanto, ritenuto che il delitto di lesioni personali, che hanno comportato una malattia della durata di giorni 21 e fino a 40, divenuto procedibile a querela debba considerarsi di competenza del giudice di pace e, dunque, punibile con le sole sanzioni previste dall’art. 52, D. Lgs. 274/2000.

Dalla competenza del giudice onorario discendono ulteriori conseguenze dal punto di vista sanzionatorio, che rivela un assetto più favorevole al reo dal momento che nel procedimento dinanzi al giudice di pace risultano insussistenti i presupposti per applicare misure precautelari e cautelari.

Tale orientamento è stato affermato sull’assunto che il rinvio al comma 2 dell’art. 582 c.p. da parte dell’art. 4, D. Lgs. 274/2000 fosse un “rinvio mobile”, che “collega la disposizione rinviante a quella richiamata non solo nella formulazione attuale al momento del rinvio, ma anche in quelle eventualmente succedutesi a seguito della sua modifica” (Sez. Un. 17615/2023).

Non è, tuttavia, mancato un opposto filone interpretativo secondo cui si esclude, sulla base dell’interpretazione letterale del combinato disposto del nuovo art. 582, comma 2, c.p. e dell’art. 4, D.Lgs. 274/2000, che al giudice di pace sia rimasta la competenza per alcuna delle ipotesi di lesioni personali perseguibili a querela, poiché queste si trovano ora nel comma 1, dell’art. 582 c.p. che è estraneo al rinvio.

L’accoglimento della tesi restrittiva della competenza del giudice di pace non trova ostacoli nella eventuale modifica in peius del trattamento sanzionatorio, dovendosi comunque applicare il precedente trattamento, più favorevole alle condotte consumate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 150/2022, che ha inciso sulla competenza in maniera irretroattiva.

Della questione sono state investite le Sezioni Unite.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. V, 13 aprile 2023, n. 15517;
Cass. pen., sez. V, 11 ottobre 2023, n. 41372
Difformi:      Cass. pen., sez. V, 6 ottobre 2023, n. 40719
giurista risponde

Aggravante ad effetto speciale ed aggravante comune La circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 628, comma 3, n. 3 quinquies c.p. può concorrere con l’aggravante comune di cui all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

In tema di concorso tra circostanze, l’aggravante di cui all’art. 628, comma 3, n. 3quinquies, c.p. non può concorrere con quella indicata all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p. atteso che la prima è legata al dato anagrafico obiettivo (il superamento dei sessantacinque anni di età) mentre la seconda attiene più genericamente a situazioni o condizioni anche personali tali da ostacolare la privata difesa; pertanto, onde evitare l’addebito plurimo di un accadimento circostanziale, occorrerà applicare la disposizione di cui all’art. 68 c.p. – Cass., sez. II, 27 gennaio 2023 n. 3496.

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte è stata investita della questione inerente alla possibilità di un duplice riconoscimento della circostanza aggravante ad effetto speciale di aver commesso il fatto nei confronti di persona ultrasessantacinquenne ex art. 628, comma 3, n. 3quinquies, c.p. e dell’aggravante ad effetto comune di aver profittato delle circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o la privata difesa di cui all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p. in capo al ricorrente condannato in primo ed in secondo grado per i delitti di rapina aggravata, lesioni gravi, furto pluriaggravato, furto con strappo, indebito utilizzo e falsificazione di strumenti di pagamento diversi dai contanti, tutte condotte avvinte dal vincolo della continuazione.

Avverso il provvedimento di secondo grado è stato proposto ricorso per vizio di motivazione e violazione della legge penale e processuale penale, avendo la Corte distrettuale rigettato immotivatamente la richiesta di disapplicazione dell’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 628, comma 3, n. 3quinquies c.p. ritenuta secondo l’argomentazione difensiva una mera duplicazione dell’aggravante comune di cui al n. 5 dell’art. 61, comma 1, c.p. in ragione della medesimezza della condotta contestata in concreto all’imputato.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato in quanto la medesima circostanza di fatto (l’età della vittima superiore a sessantacinque anni) ha determinato nel caso di specie una duplicazione di effetti ingravescenti: infatti, il giudice di prime cure, con argomenti poi confermati dalla Corte territoriale, ha ritenuto che la sopracitata condizione obiettiva della vittima integrasse gli estremi di entrambe le aggravanti contestate, determinato una ingravescenza della pena applicata in concreto rispetto al più mite trattamento sanzionatorio che sarebbe potuto derivare dall’assorbimento dell’una circostanza nell’altra ovvero rispetto al diverso esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze di segno diverso (venendo a cadere il divieto normativo).

Orbene, secondo la Suprema Corte, le due circostanze aggravanti non possono in concreto concorrere in quanto l’aggravante di cui all’art. 628, comma 3, n. 3quinquies, c.p. è legata al dato anagrafico obiettivo (il superamento di sessantacinque anni di età) mentre quella indicata all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p. attiene più genericamente a circostanze anche personali tali da ostacolare la privata difesa (nel caso di specie, apprezzata dai giudici limitatamente all’età senile ed alla conseguente debolezza fisica della persona offesa). Pertanto, si dovrà fare ricorso alla disciplina di cui all’art. 68 c.p. secondo la quale “salvo quanto disposto nell’art. 15 c.p., quando una circostanza aggravante comprende in sé un’altra circostanza aggravante, ovvero una circostanza attenuante comprende in sé altra circostanza attenuante, è valutata a carico o a favore del colpevole soltanto la circostanza aggravante o la circostanza attenuante, la quale importa, rispettivamente, il maggior aumento o la maggior diminuzione di pena” (nel caso di specie, dovrà trovare applicazione la sola circostanza aggravante di cui al comma terzo dell’art. 628 c.p. in quanto ad effetto speciale e dotata di un effetto sanzionatorio più grave).

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p., ritenuta assorbita nella circostanza aggravante ad effetto speciale contestata, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

giurista risponde

Presupposti aggravante odio etnico e razziale In presenza di quali presupposti si configura la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso (già prevista dall’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993 e oggi dall’art. 604ter, comma 2, c.p.) è configurabile non solo quando l’azione per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente. – Cass., sez. V, 26 gennaio 2023 n. 3417.

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza della circostanza aggravante di aver agito per finalità di odio etnico e razziale in capo al ricorrente, condannato per il delitto aggravato di diffamazione, per avere costui affisso un manifesto contenente una frase dalla portata asseritamente diffamatoria (“Kyenge torna in Congo”).

La Corte di Appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto l’imputato dall’imputazione di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, confermando nel resto la responsabilità penale per il delitto di cui all’art. 595 c.p. Avverso la pronuncia di secondo grado è stato proposto ricorso da parte dell’imputato deducendo sei motivi di doglianza: in particolare – per quanto di interesse in questa sede – con il primo motivo è stata denunciata l’erronea applicazione dell’art. 3, commi 1 e 6, D.L. 122/1993 convertito nella L. 205/1993 (Legge Mancino) in ragione della decisione contraddittoria per cui la Corte territoriale avrebbe escluso la responsabilità dell’imputato per il delitto di propaganda di idee fondate sull’odio razziale, ritenendo tuttavia sussistente l’aggravante di aver agito per finalità di odio etnico e razziale in relazione al delitto di diffamazione; con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 595 c.p., la carenza assoluta di prova e il difetto di motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità penale del ricorrente, posto che secondo l’argomentazione difensiva nell’espressione utilizzata non si ravviserebbero insulti, offese o altri elementi costitutivi del reato ma che si tratterebbe, invece, di un invito a tornare nel paese d’origine espresso nell’ambito di un dibattito politico contingente.

Quanto al primo motivo di censura, la Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha ritenuto che la conclusione assolutoria per l’imputazione di propaganda per motivi di discriminazione razziale non esclude che la condotta ascritta al ricorrente possa rapportarsi ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, configurandosi quindi l’aggravante contestata. Sul punto, i giudici di legittimità hanno richiamato il principio di diritto secondo cui la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio entico, razziale o religioso (già prevista dall’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993 e, oggi, dall’art. 604ter, comma 1, c.p. ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 21/2018) è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente (Cass. 18 novembre 2020, n. 307).

In merito al secondo motivo di doglianza, la Suprema Corte, nel richiamare la consolidata giurisprudenza di legittimità in materia di diffamazione, ha ritenuto corretta l’argomentazione con cui la Corte distrettuale ha conferito alla frase “Kyenge torna in Congo” una concreta portata diffamatoria, in quanto ha attribuito alla persona offesa l’indegnità a fare parte del consesso dei cittadini italiani, evocandone un’asserita inferiorità alla luce delle sue origini africane e al colore della pelle; i Giudici di Piazza Cavour hanno escluso, altresì, che tale condotta possa essere scriminata in quanto l’espressione utilizzata non contiene alcuna critica alle idee della persona offesa ma si è sostanziata nella sua denigrazione e, anzi, proprio in ragione della matrice razziale dell’espressione ha ritenuto il fatto aggravato ai sensi dell’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993.

In definitiva, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 18 novembre 2020, n. 307; Cass., sez. V, 2 novembre 2017, n. 7859
giurista risponde

Rissa tra gruppi e scriminante legittima difesa La scriminante della legittima difesa può applicarsi al delitto di rissa tra due gruppi contrapposti?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

In tema di rissa, non è configurabile la legittima difesa in uno scontro tra gruppi contrapposti, essendo i corissanti originariamente animati dall’intento aggressivo. Tale principio può essere derogato solo in situazioni eccezionali, ossia solo quando si determini, nell’ambito della contesa, una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata che si traduce in un’offesa diversa e più grave di quella accettata. Quest’ultima, atteggiandosi ad offesa nuova, autonoma ed ingiusta, consente il riconoscimento della scriminante in esame, laddove sia tale da porre una delle parti corissanti in posizione passiva. – Cass., sez. V, 26 gennaio 2023, n. 3462.

La causa di giustificazione della legittima difesa, prevista dall’art. 52 c.p., scrimina la condotta di chi abbia commesso un fatto di reato al fine di difendere un diritto proprio o altrui da un pericolo attuale di un’offesa ingiusta, a condizione che la difesa sia proporzionata all’offesa. Pertanto, la sua configurazione consente di rimuovere l’antigiuridicità insita nella condotta difensiva, rendendola così irrilevante sul piano penale: quel che, infatti, l’ordinamento reputa prevalente in una situazione di aggressione-reazione, è proprio l’interesse dell’aggredito a non patire un’offesa ingiusta.

Affinché la fattispecie scriminante in parola possa dirsi configurata è necessario, sul piano strutturale, il concorso di due requisiti: l’aggressione ingiusta e la reazione difensiva. La prima si traduce in un pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui derivante da una condotta umana, laddove invece la seconda deve essere intesa in termini di azione dettata dalla necessità di difendersi, in quanto il pericolo non può essere evitato se non reagendo contro l’aggressore.

Giova precisare che rientra nel fuoco della necessità non qualsiasi condotta, ma solo quella che non sia sostituibile con altra meno lesiva. In altri termini, la difesa del diritto non può risultare possibile se non tramite quella precisa reazione, non avendo l’agente alternative lecite o meno lesive.
Infine, si richiede che la difesa sia proporzionata all’offesa, nel senso che la prima non deve risultare arbitraria ed eccessiva rispetto alla seconda.

La ricostruzione generale della disciplina è necessaria per rispondere al quesito sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione, ossia se la legittima difesa possa applicarsi al delitto di rissa tra due gruppi rivali ed eventualmente a quali condizioni.

Ad avviso del Collegio, la risposta non può che essere di carattere negativo, alla luce di quella che è la struttura stessa del reato che qui rileva.

Osserva la Corte, infatti, che il delitto di rissa è ontologicamente connotato da uno scambio vicendevole di insulti e percosse, sicché è poco compatibile con tale assunto l’idea di una posizione che sia sin dall’origine di mera passività. Del resto, ove così non fosse, non si potrebbe neppure parlare di rissa, atteso che essa implica una partecipazione attiva allo scontro, realizzata mediante atti diretti sia ad offendere che a difendersi.

Pertanto, la Corte afferma che nel delitto in esame i corissanti sono ordinariamente animati dall’intento reciproco di offendersi e dunque accettano la situazione di pericolo nella quale volontariamente si pongono, con l’ovvia conseguenza che la loro difesa non può dirsi necessitata.

Tuttavia, proseguono i Giudici di legittimità, tale principio può essere derogato solo in situazioni eccezionali, ossia solo quando si registri una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata che si traduce in un’offesa diversa e più grave di quella accettata. Quest’ultima, dunque, si atteggia ad offesa nuova, autonoma ed ingiusta, tale da legittimare la configurazione della scriminante della legittima difesa.

Sottolinea la Corte, dunque, come il precedente orientamento secondo cui possa riconoscersi la legittima difesa in uno scontro tra gruppi contrapposti solo quando coloro che si difendono si pongano in una posizione passiva, limitandosi a parare i colpi o dandosi alla fuga, così da far venir meno l’intento aggressivo, debba essere letto sempre in relazione al configurarsi di una situazione imprevista sorta nell’ambito della contesa. Solo in un’ipotesi del genere, infatti, può dirsi recuperata la necessità della reazione all’interno della dinamica delittuosa, non essendo più gli agenti animati da alcun intento lesivo nei confronti degli altri corissanti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    ex multis: Cass., sez. V, 19 febbraio 2015, n. 32381;
Cass., sez. V, 29 novembre 2019, n. 15090
Difformi:      Cass., sez. V, 8 ottobre 2020, n. 33112
giurista risponde

Natura pubblicistica ente Al fine di individuare la natura pubblicistica di un ente deve farsi ricorso ad una concezione formalistica o sostanzialistica?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

Ai fini della individuazione della natura pubblica di un ente, ciò che rileva è la natura pubblica delle finalità perseguite con la specifica attività, rispetto alla quale la veste giuridica dell’ente può al più costituire un indice sintomatico non esclusivo. Deve pertanto essere avallata la concezione sostanziale e non formalistica, al pari di quanto accade nell’ambito del diritto amministrativo. – Cass., sez. V, 24 gennaio 2023, n. 3078.

La questione afferente alla definizione della natura pubblicistica o meno di un ente è propedeutica alla configurazione di talune fattispecie di reato previste dall’ordinamento, quale, a titolo esemplificativo, il delitto di turbativa d’asta di cui all’art. 353 c.p. Tale rilevanza può aversi tanto con riferimento all’individuazione del soggetto attivo o passivo del reato, quanto per quel che attiene ad altri elementi costitutivi della fattispecie: si pensi in questo senso ad una normativa di settore che può trovare applicazione solo se ricorre la natura pubblicistica dell’ente. Specularmente, dalla natura pubblica può ricavarsi altresì la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del singolo agente.

Il tema si intreccia inevitabilmente con il settore del diritto amministrativo, naturale sedes materiae, ragion per cui occorre comprendere se ed in che termini sia possibile una “contaminazione” tra istituti rilevanti per i due rami dell’ordinamento.

Interrogata sul punto, la Corte di Cassazione precisa preliminarmente che detta contaminazione è sì possibile, ma non in maniera automatica: essa infatti deve essere realizzata senza perdere di vista quella che è la finalità ultima dell’operazione ermeneutica, ossia la definizione dell’ambito applicativo della fattispecie penale. In questo senso, dunque, il ricorso alla normativa e alla giurisprudenza amministrativa non può avvenire sic et simpliciter, ma deve tener conto dell’esigenza di ricostruzione del reato.
Fatta tale premessa, alla luce di quali criteri occorre far riferimento per qualificare, sul piano penalistico, un ente come pubblico?

Per il diritto amministrativo, il carattere pubblicistico va individuato non in relazione alla qualità dei soggetti componenti l’ente, bensì alla natura degli atti posti in essere, sicché eventuali strutture adottate – associative o consortili – rilevano esclusivamente sul piano organizzativo.

Analogamente, la Corte di Cassazione, negli anni, ha affermato che ciò che rileva per dirimere il dubbio interpretativo in esame è la natura pubblica delle finalità perseguite dall’ente con la specifica attività.

In particolare, ha evidenziato come l’obbligatorietà del ricorso alla procedura ad evidenza pubblica sia indice sintomatico del carattere pubblicistico dell’attività svolta, soprattutto laddove si tratti di settori strategici e speciali, quali ad esempio quello dell’energia o dei servizi di informazione, motivo per cui i dipendenti di tali società rivestono la qualifica di incaricati di pubblico servizio.

Da ciò consegue, dunque, che ai fini dell’individuazione della natura pubblica di un ente rileva non la veste giuridica adottata – la quale, peraltro, se può costituire un indice sintomatico, certamente però non assume la stessa incidenza di altri dati, quali la disciplina applicata –, bensì la finalità perseguita tramite la propria attività.

Alla luce di tali argomentazioni, deve ritenersi quindi superato il precedente indirizzo ermeneutico che, a seguito della privatizzazione di molti enti pubblici, aveva escluso, sposando il criterio formalistico, la natura pubblica di tali società sulla base della sola veste giuridica. Ciò peraltro creava delle antinomie di non poco conto, in quanto se da un lato l’ente veniva considerato un soggetto di diritto privato, dall’altro però i suoi dipendenti ben potevano assumere la qualità di incaricati di pubblico servizio o di pubblici ufficiali.

L’evoluzione giurisprudenziale ha messo in evidenza l’inadeguatezza di tale approccio interpretativo, anche a fronte di una legislazione che non sempre consente di ricavare in maniera secca ed immediata la natura dell’ente. Per tali ragioni, si è affermato che allo scopo di individuare gli indici di riconoscimento dell’ente pubblico occorre far riferimento alla nozione di organismo pubblico, la quale avalla una lettura sostanzialistica, peraltro in piena conformità anche alle norme ed alla giurisprudenza di fonte europea.

Del resto, la concezione sostanzialistica è più coerente con la ratio delle norme penali, che è quella di evitare che attraverso l’impiego di particolari forme societarie per il perseguimento di interessi pubblici possano essere perpetrate condotte elusive dei sistemi di controllo e delle relative sanzioni, con ciò determinando un arretramento di tutela dell’interesse generale.

Posta così la questione, la Corte conclude affermando che anche un consorzio di enti pubblici locali, costituito per l’approvvigionamento di energia elettrica, sia un soggetto pubblico, come tale tenuto al rispetto della normativa in tema di gare ad evidenza pubblica.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    ex multis: Cass., sez. VI, 10 novembre 2015, n. 28299;
Cass., sez. VI, 12 novembre 2015, n. 6405;
Commissione c. Spagna; 15 maggio 2003, causa C-214/00
Difformi:      ex multis: Cass., sez. V, 5 aprile 2005, n. 38071;
Cass., sez. VI, 27 novembre 2012, n. 49759
giurista risponde

Furto in abitazione e presenza occasionale È escluso il reato di furto in abitazione, ex art. 624bis c.p., in caso di presenza meramente occasionale all’interno di un luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

La mera occasionalità della presenza all’interno del luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze è insufficiente a configurare la fattispecie di furto in abitazione ex art. 624bis c.p. – Cass., sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 3716.

Nel caso di specie il furto oggetto del ricorso aveva riguardato una caldaia a pellet posta all’interno del locale taverna sito al piano terra di una villetta sottoposta ad opera di ristrutturazione. La finalità per le quali l’agente si era introdotto nell’abitazione era quella di ristrutturare, su incarico del proprietario, l’immobile all’interno del quale si trovava il bene sottratto.

Le Sezioni Unite, già in precedenza chiamate a comporre il contrasto applicativo tra gli artt. 624 e 624bis c.p. avevano optato per una nozione molto rigorosa di privata dimora. Pertanto, ai fini della configurabilità del più grave reato previsto dall’art. 624bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale.

Alla stregua di tale rigorosa lettura, si è escluso che nella nozione rientrino, per esempio, i luoghi di lavoro, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa, mentre vi rientrano quelli adibiti «in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell’abitazione)», nonché i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le caratteristiche dell’abitazione.

Sono stati, così, evidenziati tre elementi necessari ai fini della sussistenza dell’ipotesi di reato in esame: a) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) la non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare (così le S.U. 31345/2017).

La giurisprudenza successiva ha sottolineato l’irrilevanza che il fatto sia commesso in un’abitazione disabitata quando siano in corso dei lavori di ristrutturazione. Quello che viene in rilievo è, infatti, il rapporto di stabilità che lega il luogo fisico con la vita privata del titolare.

La dimora, quindi, deve possedere una concreta connotazione che la possa ricondurre alla vita del proprietario (Cass., sez. IV, 1782/2018).

Inoltre, ai fini della configurazione del furto in abitazione, è necessario che sussista il nesso finalistico, e non un mero collegamento occasionale, tra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile.

L’art. 624bis c.p. così recita: «Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa».

L’espressione “mediante introduzione”, pertanto, deve essere letta nel senso che l’introduzione nell’edificio deve coincidere con il mezzo per commettere il reato. Non si tratta, infatti, della pura e semplice collocazione delle cose sottratte in determinati luoghi, uffici o stabilimenti, come diversamente avviene nelle circostanze aggravanti di cui all’art. 625, n. 6 e 7, c.p.

Deve sussistere un rapporto di strumentalità tra l’introduzione nell’edificio e l’azione predatoria posta in essere.

Viceversa, si avrà furto in abitazione quando l’introduzione nell’abitazione del soggetto passivo avvenga a seguito di consenso di quest’ultimo carpito con l’inganno (Cass., sez. V, 13582/2010), poiché la fattispecie incriminatrice dettata dall’art. 624bis richiama indubbiamente la sottostante condotta di violazione di domicilio, sanzionata dall’art. 614 c.p., norma che riguarda comportamenti di introduzione nell’altrui dimora, realizzati “con inganno” o “contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo”.

Nel caso concreto, la finalità per la quale l’agente si era introdotto nell’abitazione era quella di ristrutturare, su incarico del proprietario, l’immobile all’interno del quale si trovava il bene sottratto.

Per tali ragioni, la Suprema Corte di cassazione, con sent. 3716/2023, mancando il nesso finalistico necessario a configurare l’art. 624bis c.p., ha accolto parzialmente il ricorso proposto dal ricorrente e ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto e rinviato alla Corte di appello di Perugia anche per la verifica della sussistenza della condizione di procedibilità ed eventuale rideterminazione della pena.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. S.U. 22 giugno 2017, n. 31345; Cass., sez. IV, 16 gennaio 2018, n. 1782;
Cass., sez. V, 1° aprile 2014, n. 21293