giurista risponde

Condominio consumatore Il condominio può considerarsi consumatore?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

L’art. 1, par. 1 e l’art. 2, lett. b) e c), della direttiva 93/2013 devono essere interpretati nel senso che una persona fisica, proprietaria di un’unità immobiliare in un edificio condominiale, debba essere considerata un «consumatore» qualora stipuli un contratto con un amministratore di condominio al fine della gestione e della manutenzione delle parti comuni anche in presenza di una determinazione legale di alcuni aspetti del rapporto.

Nel caso in cui il contratto con l’amministratore di condominio sia stipulato dall’assemblea dei condomini o dall’associazione dei proprietari, il singolo condòmino può essere considerato «consumatore» qualora possa essere qualificato come «parte» del contratto, sia una persona fisica e non utilizzi la propria unità immobiliare esclusivamente per scopi che rientrano nella sua attività professionale.

La legislazione di recepimento della direttiva – e la giurisprudenza nazionale che ne fa applicazione – può estendere l’applicazione delle norme a tutela dei consumatori anche oltre l’ambito stabilito nella direttiva stessa e, quindi, anche a soggetti giuridici, come i condominii, privi di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti. – Corte Giust. UE, sez. VIII, 27 ottobre 2022, C-485/21.

La Corte di Giustizia, nella decisione in rassegna, ha in primo luogo chiarito che la circostanza che una parte delle attività di gestione e manutenzione delle parti comuni dell’immobile in condominio e le spese annuali percepite a tale titolo da detto amministratore di condominio derivino dalla necessità di rispettare requisiti specifici in materia di sicurezza e di pianificazione territoriale, previsti dalla legislazione nazionale applicabile, non è idonea a sottrarre tali attività dal campo di applicazione dell’art. 2, lett. c), della direttiva 93/2013 e, di conseguenza, il contratto di cui al punto 12 della presente sentenza dal campo di applicazione di questa direttiva.

Si precisa al riguardo che se è vero che, ai sensi dell’art. 1, par. 2, della direttiva 93/2013, quando siffatte disposizioni legislative sono imperative, le clausole contrattuali che le riproducono siano escluse dall’ambito di applicazione di tale direttiva, è altrettanto vero che la validità di altre clausole, contenute nel medesimo contratto e non coperte dalle suddette disposizioni, possa essere valutata dal giudice nazionale alla luce di detta direttiva (v., in tal senso, sent. 21 dicembre 2021, Trapeza Peiraios, C-243/20, EU:C:2021:1045, punto 39 e giurisprudenza ivi citata).

Il giudice europeo aggiunge che nell’ipotesi in cui un contratto relativo alla gestione e alla manutenzione delle parti comuni di un immobile in condominio sia stipulato tra l’amministratore di condominio e l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di tale immobile, il proprietario di un appartamento facente parte di detto immobile è considerato un «consumatore», ai sensi dell’art. 2, lett. b), della direttiva 93/2013, purché tale proprietario, innanzitutto, possa essere qualificato come «parte» di detto contratto; inoltre, sia una persona fisica e, infine, non utilizzi tale appartamento esclusivamente per scopi che rientrano nella sua attività professionale. A quest’ultimo proposito, si precisa che non può essere esclusa dal campo di intervento della nozione di «consumatore» la fattispecie in cui una persona fisica utilizzi l’appartamento che costituisce il suo domicilio personale anche a fini professionali, come nell’ambito di un telelavoro subordinato o dell’esercizio di una libera professione.

Diversamente, quando tale proprietario di appartamento non può essere qualificato come «parte» di detto contratto, e poiché l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di un immobile non è, per definizione, una «persona fisica», ai sensi di tale art. 2, lett. b) e, pertanto, non può essere qualificata come «consumatore» ai sensi di tale disposizione, tale contratto è sottratto all’ambito di applicazione della direttiva 93/13 (v., per analogia, sent. 2 aprile 2020, Condominio di Milano, via Meda, C-329/19, EU:C:2020:263, punto 29).

La Corte, infine, ribadisce che l’art. 1, par. 1, e l’art. 2, lett. b), di tale direttiva non ostano a una giurisprudenza nazionale che interpreti la normativa di recepimento di detta direttiva nel diritto interno in modo che le norme a tutela dei consumatori che essa contiene siano applicabili anche a un contratto concluso da un soggetto giuridico, quale un condominio privo di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, anche se un simile soggetto giuridico non rientra nell’ambito di applicazione della medesima direttiva (v., in tal senso, sent. 2 aprile 2020, Condominio di Milano, via Meda, C-329/19, EU:C:2020:263, punti 18 e 38).

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Mutuo fondiario oltre il limite Quali sono le conseguenze in caso di mutuo fondiario concesso oltre il limite di finanziabilità?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità di cui all’art. 38, comma 2, del D.Lgs. 385/1993, non è elemento essenziale del contenuto del contratto, non trattandosi di norma determinativa del contenuto del contratto o posta a presidio della validità dello stesso, ma di un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto del contratto; non integra norma imperativa la disposizione – qual è quella con la quale il legislatore ha demandato all’Autorità di vigilanza sul sistema bancario di fissare il limite di finanziabilità nell’ambito della «vigilanza prudenziale» (cfr. artt. 51 ss. e 53 TUB) – la cui violazione, se posta a fondamento della nullità (e del travolgimento) del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), potrebbe condurrebbe al risultato di pregiudicare proprio l’interesse che la norma intendeva proteggere, che è quello alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito.

Qualora i contraenti abbiano inteso stipulare un mutuo fondiario corrispondente al modello legale (finanziamento a medio o lungo termine concesso da una banca garantito da ipoteca di primo grado su immobili), essendo la loro volontà comune in tal senso incontestata (o, quando contestata, accertata dal giudice di merito), non è consentito al giudice riqualificare d’ufficio il contratto, al fine di neutralizzarne gli effetti legali propri del tipo o sottotipo negoziale validamente prescelto dai contraenti per ricondurlo al tipo generale di appartenenza (mutuo ordinario) o a tipi contrattuali diversi, pure in presenza di una contestazione della validità sotto il profilo del superamento del limite di finanziabilità, la quale implicitamente postula la corretta qualificazione del contratto in termini di mutuo fondiario. – Cass. Sez. Un. 16 novembre 2022, n. 33719.

Sul quesito iniziale, prima dell’intervento delle sezioni unite, si confrontavano due orientamenti contrastanti.

Un primo indirizzo giurisprudenziale ha escluso che la previsione del limite di finanziabilità di cui all’art. 38, comma 2, TUB costituisca una ipotesi rientrante nell’ambito applicativo dell’art. 117 TUB il cui comma 8 stabilisce che: «la Banca d’Italia può prescrivere che determinati contratti, individuati attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi, abbiano un contenuto tipico determinato. I contratti difformi sono nulli. Resta ferma la responsabilità della banca o dell’intermediario finanziario per la violazione delle prescrizioni della Banca d’Italia».

Tale ricostruzione è stata criticata da un secondo orientamento (Cass. 17352/2017, 19016/2017, 6586, 11201, 13286 e 29745/2018, 10788/2022) che ha ritenuto che la prescrizione del limite massimo di finanziabilità da parte della Banca d’Italia «si inserisce in ogni caso tra gli elementi essenziali perché un contratto di mutuo possa dirsi fondiario». Si è in particolare rilevato che la fissazione di un limite di finanziabilità non è confinabile nell’area del comportamento della contrattazione tra banca e cliente. Né è correlabile alla fase attuativa. Trattandosi di regole di condotta, se è indubbio che l’art. 38, comma 2, TUB incide su di un contegno della banca, è altrettanto innegabile che la soglia stabilita per il finanziamento ha la funzione di regolare il quantum della prestazione creditizia, per modo da incidere direttamente sulla fattispecie. Si è inoltre opinato che in caso di sconfinamento del limite di finanziabilità, è configurabile la «nullità dell’intero contratto fondiario», non essendo le sanzioni amministrative irrogabili alla banca adeguate a tutelare l’interesse sotteso alla norma violata, né potendosi ravvisare una ipotesi di nullità parziale, riguardante cioè il mutuo fondiario e la corrispondente iscrizione ipotecaria solo per la eccedenza rispetto ai limiti di legge.

Si è infine osservato che l’unica modalità di recupero del contratto nullo è quella della conversione in un contratto diverso (art. 1424 c.c.); circostanza questa non rilevabile d’ufficio dal giudice, ma su istanza di parte.

Anche l’ordinanza interlocutoria 4117/2022 della Prima Sezione Civile della Cassazione ha suggerito, come percorso alternativo alla nullità, la riqualificazione del contratto alla stregua di un mutuo ipotecario ordinario, prescindendo dal nomen iuris adoperato dalle parti e sterilizzandolo delle tutele speciali previste dalla legge, in favore del mutuante, per i finanziamenti fondiari.

Le Sezioni Unite, nella decisione in esame, conformemente a quanto osservato nell’ordinanza interlocutoria, hanno affermato che la nullità è predicabile per violazione di norme di fattispecie o di struttura negoziale solo se immediatamente percepibile dal testo contrattuale, senza laboriose indagini rimesse a valutazioni tecniche opinabili compiute ex post da esperti del settore, come sono invece quelle compiute dai periti cui sia demandato il compito di stimare il bene, ai fini del giudizio sul rispetto del limite di finanziabilità. Il rischio, viene puntualizzato nella sentenza in esame, è quello di minare la sicurezza dei traffici e di esporre il contratto in corso a intollerabili incertezze derivanti da eventi successivi – che non dovrebbero interferire con la questione, che è formale prima che sostanziale, della validità del contratto stesso – dipendenti dai comportamenti delle parti nella fase esecutiva (come l’inadempimento o l’insolvenza del mutuatario), tali da innescare la crisi del rapporto negoziale con l’esigenza di verificare ex post l’osservanza del limite di finanziabilità. Nessuna delle parti potrebbe fare affidamento sulla stabilità e sulla validità ab origine del contratto stipulato, essendo ben possibile che il valore immobiliare, sia pure oggetto di iniziale perizia estimativa, sia stato inconsapevolmente sopravvalutato. Viene posta inoltre l’attenzione sul fatto che il legislatore è intervenuto più volte con disposizioni che hanno previsto espressamente nuove ipotesi di nullità negoziale per violazione di specifiche norme di settore, anche nel TUB (art. 117), proprio per la difficoltà di considerare imperative le singole norme prescrittive o per evitare incertezze interpretative al riguardo. Nella specie, il silenzio del legislatore sulle conseguenze dell’esondazione del finanziamento rispetto al valore dell’immobile e alla garanzia prestata non è irrilevante. Come rilevato anche dal Procuratore Generale «l’assenza di un’esplicita previsione legislativa di invalidità del mutuo esondante, pertanto, costituisce un elemento che unitamente [ad altri], milita a favore dell’esclusione di una voluntas legis tendente a sanzionare con l’invalidità un finanziamento bancario con garanzia insufficiente». Tanto più che il mutuatario nessun pregiudizio risente dalla stipulazione di un mutuo esondante, essendo l’adeguatezza della garanzia reale posta a esclusiva tutela del finanziatore. Neppure la tutela della par condicio creditorum potrebbe dirsi affidata al rimedio della invalidità-nullità del contratto, essendo pacifico che gli atti negoziali pregiudizievoli nei confronti dei terzi (per abusiva erogazione del credito o in frode ai creditori) non sono illeciti né nulli, ferma restando la tutela risarcitoria nei casi di colpevole concorso dell’ente mutuante nel dissesto del cliente finanziato (Cass. 20576/2010; 23158/2014; 11695/2018, 18610 e 24725/2021, 15844/2022); eventualità ipotizzabile anche nel caso di dolosa o colposa concessione di finanziamento ultra-soglia che sia stata causa determinante di conseguenze dannose per il soggetto finanziato o i terzi.

Esclusa, a conclusione di ampia e articolata motivazione, la sanzione della nullità del contratto di mutuo fondiario, rimanendo la questione delle conseguenze disciplinari nei confronti dell’istituto di credito, cui sia imputabile il superamento del limite di finanziabilità, rilevante sul diverso piano del rapporto con l’autorità di vigilanza, viene enunciato il seguente principio di diritto: «in tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità di cui all’art. 38, comma 2, del D.Lgs. 385/1993, non è elemento essenziale del contenuto del contratto, non trattandosi di norma determinativa del contenuto del contratto o posta a presidio della validità dello stesso, ma di un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto del contratto; non integra norma imperativa la disposizione – qual è quella con la quale il legislatore ha demandato all’Autorità di vigilanza sul sistema bancario di fissare il limite di finanziabilità nell’ambito della «vigilanza prudenziale» (cfr. artt. 51 ss. e 53 TUB) – la cui violazione, se posta a fondamento della nullità (e del travolgimento) del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), potrebbe condurrebbe al risultato di pregiudicare proprio l’interesse che la norma intendeva proteggere, che è quello alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito».

Tornando alla fattispecie, viene esclusa la riqualificazione d’ufficio del contratto come ordinario mutuo ipotecario, risolvendosi in una impropria correzione o manipolazione del regolamento di interessi validamente convenuto tra le parti, al fine di privarlo in concreto dei relativi effetti legali. Da qui il secondo principio di diritto: «qualora i contraenti abbiano inteso stipulare un mutuo fondiario corrispondente al modello legale (finanziamento a medio o lungo termine concesso da una banca garantito da ipoteca di primo grado su immobili), essendo la loro volontà comune in tal senso incontestata (o, quando contestata, accertata dal giudice di merito), non è consentito al giudice riqualificare d’ufficio il contratto, al fine di neutralizzarne gli effetti legali propri del tipo o sottotipo negoziale validamente prescelto dai contraenti per ricondurlo al tipo generale di appartenenza (mutuo ordinario) o a tipi contrattuali diversi, pure in presenza di una contestazione della validità sotto il profilo del superamento del limite di finanziabilità, la quale implicitamente postula la corretta qualificazione del contratto in termini di mutuo fondiario».

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Vincolo prezzo edilizia convenzionata Il vincolo del prezzo massimo di cessione di immobili in edilizia convenzionata è opponibile anche alle alienazioni successive alla prima?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In materia di edilizia residenziale pubblica, a seguito degli interventi legislativi di cui al D.L. 70/2011, art. 5, comma 3bis, introdotto in sede di conversione dalla L. 106/2011, e al D.L. 119/2018, art. 25undecies introdotto in sede di conversione dalla L. 136/2018, il vincolo del prezzo massimo di cessione degli immobili permane fino a quando lo stesso non venga eliminato con la procedura di affrancazione di cui alla L. 448/1998, art. 31, comma 49bis. Tale vincolo sussiste, in virtù della sostanziale equiparazione disposta dal L. 662/1996, art. 3, comma 63, e dalla L. 448/1998, art. 31, comma 46, sia per le convenzioni di cui all’art. 35 della L. 865/1971 (c.d. convenzioni PEEP) sia per quelle di cui alla L. 10/1977, artt. 7 e 8 (c.d. convenzioni Bucalossi), poi trasferiti, senza significative modifiche, nel D.P.R. 380/2001, artt. 17 e 18.

La procedura di affrancazione finalizzata all’eliminazione del vincolo di prezzo per i successivi acquirenti degli immobili di edilizia residenziale pubblica, che D.L. 119/2018, art. 25undecies, ha esteso in favore di tutti gli interessati, è consentita, secondo la previsione del comma 2 della citata disposizione, anche in relazione agli atti di cessione avvenuti anteriormente alla data di entrata in vigore del D.L. 70/2011, art. 5, comma 3bis, (13 luglio 2011); e la pendenza della procedura di rimozione dei vincoli determina la limitazione degli effetti dei relativi contratti di trasferimento degli immobili nei termini di cui alla L. 448/1998, art. 31, comma 49quater. – Cass. Sez. Un. 6 luglio 2022, n. 21348.

Nella pronuncia in esame le Sezioni Unite hanno sciolto un contrasto relativo all’efficacia del vincolo massimo di cessione nell’ambito delle varie convenzioni stipulate per l’edilizia popolare.

Secondo la decisione, la previsione di cui all’art. 35, comma 15 e 19, L. 865/1971, relativa al divieto temporaneo, a pena di nullità, di alienazione di alloggi costruiti su aree comprese nei piani per l’edilizia economica e popolare (P.E.E.P.) e cedute in proprietà ai comuni, costituisce una prescrizione di ordine pubblico generale dettata dal legislatore per prevenire l’eventualità che le agevolazioni concesse nel quadro di una politica abitativa di interesse sociale possano trasformarsi in un inammissibile strumento di speculazione; il comune – pertanto – non ha il potere di introdurre deroghe al divieto di alienazione, indipendentemente dalla qualità di contraente di una convenzione stipulata con la società cooperativa acquirente dell’area su cui è stato costruito l’alloggio, ovvero dalla circostanza che per la costruzione degli alloggi siano stati o meno concessi contributi pubblici. Si determina, quindi, con riferimento alle convezioni “P.E.E.P.” (in genere realizzato mediate la costituzione di un diritto di superficie), un vincolo sul prezzo che va oltre il primo rapporto di alienazione e che può essere opposto, efficacemente, anche nei confronti dei successivi acquirenti.

In tale prospettiva, il problema della vendita degli alloggi di edilizia convenzionata soggetti al vincolo sulla determinazione del prezzo viene risolto tenendo conto del carattere imperativo della relativa disciplina normativa, seppur mediata da convenzioni tra il Comune e il concessionario: con la conseguenza che l’eventuale violazione dei parametri legali sul prezzo di cessione cagiona la nullità della clausola ex art. 1418 c.c. e la sostituzione mediante inserzione automatica del corrispettivo imposto dalla legge (artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.) . In altri termini, qualora il proprietario di un immobile costruito in regime di edilizia residenziale convenzionata sulla base di una convenzione con il comune abbia stipulato un contratto per la cessione dell’immobile a un prezzo superiore a quello massimo indicato nella convenzione, il predetto prezzo può essere adeguato, ex art. 1339 c.c., a quello stabilito nella convenzione stessa.

Per quanto precede, e posto che la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi in materia di edilizia convenzionata è determinata sulla base di un dato normativo – che ha, a sua volta, istituito la relativa convenzione con il Comune – sono considerati compresi nella previsione dell’art. 1339 c.c., alla quale si collega quella dell’art. 1419, comma 2, c.c., i casi di difformità di una clausola negoziale da una norma imperativa, la quale peraltro non importa la nullità del contratto quando tale clausola sia sostituita di diritto da norme imperative.

Con riferimento, invece, all’edilizia popolare viene precisato che in seguito all’entrata in vigore (in data 19 febbraio 1994) del nuovo testo dell’art. 20, L. 179/1992, come sostituito dall’art. 3, L. 85/1994, è stata – di fatto – liberalizzata la cessione degli alloggi di edilizia agevolata una volta decorso il termine di cinque anni dalla loro assegnazione o dal loro acquisto, a nulla rilevando che l’assegnazione dell’alloggio risalga a epoca anteriore all’entrata in vigore della l. n. 179/1992, né la presenza, in provvedimenti amministrativi o negli strumenti convenzionali, di clausole contrastanti con tale regime di libera alienabilità post-quinquennale.

Conseguenza di tale situazione è che chi ha comprato un alloggio di edilizia residenziale convenzionata a prezzo di mercato ha diritto alla restituzione della differenza tra quanto versato e quanto invece dovuto in base ai vincoli stabiliti dalla convenzione originaria di assegnazione del diritto di superficie. Tale limitazione, nella più recente giurisprudenza, non riguarda solo il primo acquirente, in quanto il vincolo del prezzo massimo di cessione di immobili realizzati nell’ambito dell’edilizia economica e popolare ai sensi dell’art. 35, L. 865/1971 non spiega efficacia limitata al primo trasferimento, o in ordine a quello intervenuto tra il costruttore e il primo avente causa, ma segue l’immobile, a titolo di onere reale, in tutti i successivi passaggi di proprietà.

Secondo una parte della giurisprudenza, per contro, le convenzioni poc’anzi richiamate erano disciplinate da diverse finalità e regole, nel senso che le convenzioni previste sia dall’art. 35, L. 865/1971, sia dagli artt. 7 e 8, L. 10/1977, pur concorrenza a costituire l’edilizia abitativa convenzionata, non sono soggette dalla medesima disciplina, posto che all’edilizia convenzionata disciplinata dalla prima delle menzionate norme va applicata la medesima disciplina speciale e non quella contenuta nell’art. 8, L. 10/1977. Per le prime, in particolare, il vincolo sul prezzo era opponibile anche ai successivi acquirenti, salva la procedura di affrancazione, mentre nella seconda tipologia di convenzioni tale limite sussisterebbe solo nei confronti della prima alienazione.

Nella pronuncia in esame, a chiarimento della complessa situazione creatasi in forza della stratificazione normativa, la Suprema Corte sancisce che alla base delle due tipologie di convenzioni vi è la necessità di offrire una abitazione a prezzi contenuti, evitando speculazioni nelle fasi successive. Per questo, pur se differentemente disciplinate, le due tipologie in commento seguono la medesima finalità sociale, con conseguente applicazione del limite del prezzo di vendita, da ritenersi valido e opponibile a tutte le alienazioni successive, salva la procedura di affrancazione.

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Clausola di garanzia autonoma consumatore È da considerarsi vessatoria la clausola di garanzia autonoma nel caso in cui il garante sia un consumatore? Quali sono le conseguenze in caso di risposta affermativa?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del codice del consumo trova applicazione anche ai contratti atipici e ciò, quanto alla previsione dell’art. 36, comma 1, anche là dove la clausola accertata come abusiva esprima il profilo di atipicità del contratto. In relazione al contratto atipico di garanzia a prima richiesta e senza eccezioni, l’accertamento dell’eventuale posizione di consumatore del garante deve avvenire con riferimento a esso e non sulla base del contratto garantito e nel caso di riconoscimento al garante della posizione di consumatore è applicabile a sua tutela la disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del codice del consumo e in particolare la previsione dell’art. 33, lett. t) e ciò, quanto alla clausola di limitazione della proponibilità di eccezioni, sia con riferimento alle limitazioni inerenti a eventuali eccezioni relative allo stesso contratto di garanzia, sia con riferimento all’esclusione della proponibilità di eccezioni relative all’inadempimento del rapporto garantito da parte del debitore garantito. In quest’ultimo caso, ove la clausola venga riconosciuta abusiva, il contratto conserverà validità ai sensi del comma 1 del citato art. 36 e il garante potrà opporre dette eccezioni. – Cass. III, ord. 18 febbraio 2022, n. 5423.

La giurisprudenza interna ed eurounitaria si è chiesta, in modo particolare, se possa essere considerato consumatore un fideiussore non professionista che garantisca un’operazione negoziale (ad esempio un mutuo) strumentale alla professione del garantito.

La risposta è stata affermativa in quanto si è rilevato che la sola presenza della garanzia non è idonea a colmare l’asimmetria contrattuale sussistente tra il beneficiario del credito e il professionista (la banca) concedente, quest’ultimo titolare di un potere negoziale tale da poter predisporre unilateralmente le condizioni del contratto, sul cui contenuto la controparte non può incidere (Corte di Giustizia UE, VI, ord. 19 novembre 2015, C-74/15, Cass. 16 gennaio 2020, n. 742); Suprema Corte (18 febbraio 2022, n. 5423).

Il principio, con riferimento a una garanzia autonoma, è stato successivamente ribadito dalla Suprema Corte, nella decisione in rassegna. Nella circostanza la Cassazione ha altresì stabilito che nel caso di riconoscimento al garante della posizione di consumatore è applicabile a sua tutela la disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del Codice del Consumo e in particolare la previsione dell’art. 33, lett. t). Secondo la pronuncia tale disposizione si applica sia alla clausola di limitazione della proponibilità di eccezioni, sia con riferimento alle limitazioni inerenti a eventuali eccezioni relative allo stesso contratto di garanzia, sia con riferimento all’esclusione della proponibilità di eccezioni relative all’inadempimento del rapporto garantito da parte del debitore garantito. In tal caso, ove la clausola venga riconosciuta abusiva, e quindi espunta, il contratto conserverà validità ai sensi dell’art. 36, co. 1, cod. cons. e il garante, conseguentemente, potrà opporre dette eccezioni.

Per la Suprema Corte, inoltre, l’eliminazione per abusività della clausola “a prima richiesta e senza eccezioni” fa sì venir meno la funzione contrattuale che ne esprime l’atipicità, ma ciò non esclude la vincolatività del contratto di garanzia fra le parti. Il contratto, quindi, pur con diversa struttura, è comunque in grado di esprimere una funzione regolatrice dell’assetto di interessi, data la possibilità del garante di opporre le eccezioni relative al rapporto garantito che la clausola “a prima richiesta” impediva di opporre.

Questa soluzione, tuttavia, ha attirato diverse critiche. Si è infatti ben rilevato (Pagliantini) che con l’espunzione della clausola a prima richiesta viene travolta la stessa funzione contrattuale atipica dell’operazione: essa, infatti, non costituisce un contenuto secondario del contratto de quo, ma la causa dello stesso. La decisione ha, in sostanza, determinato un vero e proprio divorzio tra contratto autonomo di garanzia e consumatore.

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Giudizio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c. Quali sono i criteri per il giudizio di meritevolezza ex art.1322, comma 2, c.c.? È immeritevole La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra valuta domestica e straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322 , comma 2, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà.

La clausola inserita in un contratto di Leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone vari in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica e una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del D.Lgs. 58/1998. – Cass. Sez.Un. 23 febbraio 2023, n. 5657.

 

Le Sezioni Unite in questa recentissima sentenza, chiamate a valutare la validità di una clausola di indicizzazione in un contratto di leasing, hanno svolto delle rilevanti considerazioni con riferimento alla meritevolezza di un contratto e al potere giudiziale di intervento nel riequilibrare un negozio iniquo.

In primis hanno ricordato come la Cassazione in passato avesse già stabilito che il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., non coincide col giudizio di liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa. In particolare, secondo la Relazione al Codice civile la meritevolezza è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta che dir si voglia (ex aliis, Sez.Un. 17 febbraio 2017, nn. 4222, 4223 e 4224; sez. III 28 aprile 2017, n. 10506). Il risultato del contratto può dirsi immeritevole solo quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume o all’ordine pubblico (così la Relazione al Codice, §603, II capoverso). La pronuncia aggiunge che tale principio, se pur anteriore alla promulgazione della Carta costituzionale, è stato da questa ripreso e consacrato negli artt. 2, secondo periodo; 4, comma 2, e 41, comma 2, Cost.

Ne deriva, per la sentenza, che un contratto, dunque, non può dirsi “immeritevole” sol perché poco conveniente per una delle parti. L’ordinamento, infatti, garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato, non quello che, libero e informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici.

Da tali considerazioni, le Sezioni Unite rilevano che affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i princìpi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.

 

Viene, quindi, illustrata dal massimo organo della nomofilachia, una interessante casistica giurisprudenziale su contratti o patti contrattuali ritenuti immeritevoli, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., che pur formalmente rispettosi della legge, avevano per scopo o per effetto di:

 

  1. a) attribuire a una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l’altra ( 22950/2015; 19559/2015);
  2. b) porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra ( 4222/2017; 3080/2013; 12454/2009; 1898/2000; 9975/1995);
  3. c) costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti ( 14343/2009).

 

In un altro passaggio della pronuncia, le Sezioni Unite hanno sostanzialmente escluso che nel giudizio di meritevolezza possa avere rilievo l’equilibrio economico delle prestazioni.

Il caso di specie riguardava un contratto di leasing che conteneva una clausola di indicizzazione dei canoni, ancorata a due parametri: il Libor CHF (trimestrale) e il cambio franchi svizzeri-euro.

La variazione dei suddetti parametri non incideva sul canone concordato dalle due società, ma determinavano i guadagni e le perdite di ciascuna delle due parti del contratto.

La Corte d’appello ha ritenuto che tale clausola di indicizzazione fosse “immeritevole” perché le contrapposte obbligazioni delle parti erano “squilibrate”; e le ha ritenute squilibrate perché la misura della variazione del saggio degli interessi non era simmetrica: una pari variazione del rapporto di cambio tra il franco svizzero e l’euro avrebbe infatti comportato variazioni diverse del saggio di interessi, a seconda che la variazione fosse stata a favore del concedente o dell’utilizzatore.

La Corte d’appello, quindi, secondo le Sezioni Unite ha mostrato implicitamente – ma inequivocamente – di ritenere che: a) il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni; b) ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità. Ambedue queste affermazioni sono tuttavia considerate erronee, per più ragioni.

Diverse le obiezioni delle Sezioni unite a queste conclusioni.

In primo luogo – si rileva – che il diritto dei contratti non impone l’assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali. Si ricorda, al riguardo, che la libertà negoziale è principio cardine del nostro ordinamento e del diritto dei contratti. L’ordinamento garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Se il soggetto abilitato all’esercizio del credito ha il dovere di rispettare le regole del gioco e comportarsi in buona fede, nondimeno ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, con ampiezza di motivazioni, sez. I 21 gennaio 2020, n. 1184; nello stesso senso, sez. III, ord. 14 ottobre 2021, n. 28022). Non è dunque lo iato tra prestazione e controprestazione che può rendere un contratto “immeritevole” di tutela ex art. 1322 c.c., se quella differenza sia stata in piena libertà e autonomia compresa e accettata.

In secondo luogo, si afferma che lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Chi ha fatto un cattivo affare, pertanto, non può pretendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle prestazioni”. Segue quindi un passaggio di grande rilievo che sembra rispondere all’ampio potere di intervento giudiziale, a mezzo della clausola di buona fede, riconosciuto, invece dalla Corte costituzionale con sent. 27 gennaio 2023, n. 8. Per le Sezioni Unite, infatti: l’intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale (così, ex multis, sez. VI, ord. 25 novembre 2021, n. 36740).

In terzo luogo, ancora, si obietta che lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni (così la pronuncia) circa la “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”.

In quarto luogo si afferma che, anche ad ammettere che il calcolo del conguaglio degli interessi, per come previsto dal contratto oggetto del contenzioso, fosse più vantaggioso per il concedente rispetto all’utilizzatore, questa circostanza non basta di per sé a rendere “immeritevole” ex art. 1322 c.c. Si potrà discutere se questa clausola sia valida ex art. 1341 c.c.; oppure se sia frutto dell’approfittamento d’uno stato di bisogno; o ancora se non sia stata adeguatamente illustrata in sede precontrattuale: ma nel primo caso soccorrerà il rimedio della nullità; nel secondo quello della rescissione; nel terzo quello dell’annullamento del contratto per errore o del risarcimento del danno.

In conclusione, le Sezioni Unite in modo alquanto perentorio affermano che il giudizio di “immeritevolezza” di cui è menzione nell’art.1322 c.c. non può mai trasformarsi in una viamagica porta di Ishtar» nella sentenza) attraverso la quale veicolare un inammissibile intervento del giudice sulla convenienza dell’affare.

Ancora, in riferimento al giudizio di validità o meritevolezza di un patto contrattuale le Sezioni Unite chiariscono che non potrebbe mai limitarsi all’esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa, diversamente da quanto compiuto dalla Corte. In questo modo, per la pronuncia in esame, la decisione impugnata ha violato il millenario principio per cui soltanto cum nulla subest causa, constare non potest obligatio.

Si aggiunge che il giudizio de quo non può essere formulato in astratto ed ex ante, limitandosi a considerare il solo contenuto oggettivo dei patti contrattuali, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando – beninteso, iuxta alligata et probata partium – lo scopo perseguito dalle parti.

Passando al tema del derivato implicito nel leasing, il Supremo Collegio premette come in merito a questa tematica non possa configurarsi, nella sostanza, un contrasto di giurisprudenza di legittimità. Che la clausola indicizzata — la quale faccia dipendere gli interessi dovuti dall’utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme a un indice monetario (come nella specie) – non possa ritenersi uno strumento derivato, tantomeno implicito, è stato stabilito dalle decisioni 4569/2021 e 26358/2021 e viene ribadito anche nella pronuncia qui annotata. Difatti, la causa nulla ha in comune con quella dei derivati elencati dalla legge; difettano poi gli elementi essenziali che accomunano la maggior parte degli strumenti finanziari derivati tipici. Rientrano nella categoria degli “strumenti finanziari collegati alla valuta” soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull’andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d’una prestazione rinviando a un indice monetario, comunque determinato (Cass. 19226/2009). Discostandosi dalla posizione di parte della dottrina sul punto, le Sezioni Unite ritengono che non meriti dignità concettuale il derivato implicito per esso intendendosi un patto dotato di autonomia causale ma aggiunto o accessorio ad altro negozio. Viene precisato dalle Sezioni Unite che il contratto di leasing ha ovviamente sempre una funzione (anche) di finanziamento, e un finanziamento può legittimamente essere concesso in valuta nazionale od in valuta estera. Un finanziamento in valuta estera ha lo scopo di evitare i rischi connessi alla svalutazione della moneta nazionale (e cioè il rischio della svalutazione per il creditore, e il rischio della rivalutazione per il debitore). Un finanziamento (non importa se in forma di mutuo o di leasing) il cui importo è parametrato a un rapporto di cambio è un debito di valore e non di valuta.

Nella specie, si tratta di una normale clausola-valore, attraverso la quale le parti individuano il criterio al quale commisurare la prestazione del debitore. In questa direzione: 1) l’aleatorietà del contratto non è che un effetto naturale della clausola-valore; 2) la previsione che eventuali conguagli a favore dell’una o dell’altra parte fossero regolati a parte e non incidessero sul valore della rata non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti sulla qualificazione del contratto.

Concludono le Sezioni Unite evidenziando che la clausola di rischio cambio non snatura la causa del contratto di leasing. Per qualificare un contratto il giudice deve avere riguardo all’intento negoziale delle parti, non al risultato economico di esso, e tanto meno alla sua convenienza per una delle parti. Il contratto non muta natura e causa soltanto perché uno dei suoi elementi presenti un’occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico. Viene precisato che un contratto può dirsi atipico soltanto quando il rapporto per come disciplinato dalle parti diventi «del tutto estraneo al tipo normativo, perché trae le proprie ragioni di essere dall’adeguamento degli strumenti giuridici alle mutevoli esigenze della vita sociale e dei rapporti economici» (v. Cass. 3645/1969; Cass. 116/1974; Cass. 982/2002; Cass. 11096/2004). Da ultimo, viene rammentato che le prestazioni atipiche poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico. Ragion per cui la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti non è, di per sé, sufficiente a concludere che quel contratto, mercé la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa o natura e sia diventato atipico.

In conclusione, la clausola di indicizzazione quale quella in esame viene ritenuta lecita e non può costituire, da sola, la violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario. In ogni caso, l’eventuale violazione di questi doveri di correttezza nella fase delle trattative non potrebbe condurre a una dichiarazione di immeritevolezza del contratto. Al più, potrebbe configurarsi l’annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo), oppure una responsabilità precontrattuale o ancora il risarcimento del danno. Il giudizio sulla meritevolezza serve difatti a stabilire se il contratto possa produrre effetti. Il contratto immeritevole è improduttivo di effetti mentre il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno. Viene conseguentemente cassata dalle Sezioni Unite la decisione impugnata con rinvio della causa alla Corte territoriale per provvedere, in diversa composizione, sulla base dei due principi di diritto sopra richiamati.

giurista risponde

Occupazione senza titolo e danno da perdita subita Nel caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il danno da perdita subita sofferto dal proprietario è in re ipsa o va provato, quale danno conseguenza?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta.

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato.

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto a un prezzo più conveniente di quello di mercato. – Cass. Sez. Un. 15 novembre 2022, nn. 33645 -33659.

L’occupazione illegittima di un immobile altrui, realizzata da un privato o da un PA, offre al proprietario leso una doppia tutela del diritto di proprietà, sia sul piano reale che su quello risarcitorio.

Con riferimento al primo viene in rilievo, evidentemente, l’azione di rivendicazione, coniata dall’art. 948 c.c., oltre alla tutela possessoria; con riferimento al secondo, invece, entra in funzione il meccanismo della responsabilità aquiliana, delineato dall’art. 2043 c.c.

Né è posto in dubbio che le due forme di tutela, pur differenziandosi, operino in sinergia assicurando al proprietario usurpato una protezione piena, integrata e completa.

Il dibattitto concerne, piuttosto, l’individuazione del danno ristorabile in sede risarcitoria per mezzo della tutela aquiliana.

Ci si domanda, infatti, quale sia il danno risarcibile in caso di occupazione abusiva dell’immobile altrui, interrogandosi non solo sull’esistenza ma anche sulla consistenza del pregiudizio subito dal proprietario occupato.

Per un primo filone ermeneutico il danno risarcibile sarebbe sempre e solo il danno-conseguenza patito dal proprietario, comprensivo sia della perdita subita che del mancato guadagno, a norma degli artt. 2056 e 1223 c.c. Spetterebbe, quindi, al proprietario-danneggiato-attore dimostrare l’entità del pregiudizio economico riportato in conseguenza della violazione del proprio diritto dominicale perché il giudice possa accogliere la domanda proposta e liquidare il risarcimento del danno dovuto dall’usurpatore-danneggiante.

Si tratta, in particolare, della tesi c.d. causale del danno che mantiene salda la dicotomia tipica della responsabilità aquiliana fondata sia sulla causalità materiale, da cui origina il danno-evento, che su quella giuridica, rivelatrice del danno-conseguenza.

Per una seconda opzione esegetica, invece, la violazione del diritto di proprietà porterebbe alla luce un danno in re ipsa, quantificabile a prescindere dalla prova concreta fornita dal proprietario danneggiato se solo si considera la natura fruttifera del bene in proprietà.

L’immobile oggetto del diritto dominicale è suscettibile, infatti, non solo di essere trasferito a titolo oneroso, quale estrinsecazione del potere di disposizione riconosciuto al proprietario, ma anche di essere concesso in godimento a terzi, attraverso un contratto di locazione o di comodato, rivelando il profilo dinamico del potere di godimento spettante altresì al proprietario, ai sensi dell’art. 832 c.c. Seguendo tale prospettiva, dunque, la sussistenza del diritto al risarcimento ben può essere determinata dal giudice sulla base di elementi presuntivi, facendo riferimento al c.d. danno figurativo, con riguardo al valore locativo del cespite abusivamente occupato.

Nell’ipotesi di occupazione abusiva, in definitiva, il danno patito dal proprietario è presuntivamente correlato alla fruttuosità dell’immobile, ossia al canone di locazione di mercato di un immobile analogo.

Trattandosi di una presumptio hominis, iuris tantum, la quantificazione del danno parametrata al valore locativo ben può essere superata, peraltro, da allegazioni e dimostrazioni specifiche provenienti o dall’attore danneggiante, che fornisca la prova concreta di un maggior danno, o dal convenuto danneggiato, che dimostri come nel caso di specie il proprietario abbia subito un minor danno o non abbia patito alcun danno.

Si tratta, d’altronde, di un indirizzo avallato anche dal giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato 897/2017 e 3428/2019) che, con un analogo percorso motivazionale, raffronta il danno da occupazione sine titulo al valore locativo di mercato del bene, discorrendo apertamente di danno in re ipsa.

Questa seconda ricostruzione ammicca, invero, alla teoria normativa del danno, di origine tedesca, secondo cui l’oggetto del danno coincide con il contenuto del diritto violato: il danno è in re ipsa, quindi, perché immanente appunto alla violazione del diritto.

Tale tesi si espone, tuttavia, alla facile obiezione di estromettere del tutto il danno-conseguenza per arrestare l’illecito aquiliano al mero danno-evento, attribuendo all’obbligo risarcitorio una funzione sanzionatoria che normalmente le è priva sì da far temere per l’introduzione di un danno punitivo extra legem.

L’evidenza del contrasto interpretativo ha portato, da ultimo, il giudice della nomofilachia a rimettere la questione alle Sezioni Unite, per mezzo di ben due ordinanze interlocutorie (Cass., sez. III, 17 gennaio 2022, n. 1162 e Cass., sez. II, 8 febbraio 2022, n. 3946).

Le sentenze della Cass. Sez. Un. 15 novembre 2022, nn. 33645 e 33659 risolvono la questione con una motivazione ricca, completa e sistematica che ripercorre lucidamente le due tesi proposte e ricostruisce il quadro generale della tutela reale e aquiliana del diritto di proprietà.

Dopo aver distinto le regole di proprietà (property rules) dalle regole di responsabilità (liability rules), orientate le une al futuro e le altre al passato, la Corte ribadisce con forza che l’azione risarcitoria non può coincidere con quella di rivendicazione, dovendosi modellare sulla struttura propria della fattispecie descritta dall’art. 2043 c.c. In aggiunta alla violazione del diritto di proprietà – id est il danno-evento – deve verificarsi, dunque, l’esistenza dell’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile, ossia il danno-conseguenza.

Ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica, quale acquisizione risalente della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 576 e Cass. Sez. Un. 11 novembre 2008, n. 26972), confermando che «se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria».

In tale prospettiva, la tesi del danno in re ipsa, una volta depurata dall’antesignano storico di matrice tedesca, non rinnega, invero, il danno-conseguenza, bensì si limita a introdurre un alleggerimento del carico probatorio gravante sul proprietario danneggiato per mezzo del meccanismo generale delle presunzioni tracciato dagli artt. 2727 e ss. c.c.

Si intende individuare, in tal modo, un punto di mediazione fra la teoria normativa del danno e quella della teoria causale, salvaguardando la distinzione tra la tutela reale e quella risarcitoria che l’ordinamento appresta al diritto di proprietà.

La teoria del danno in re ipsa non esautora, infatti, il requisito necessario del danno-conseguenza, accorciando la responsabilità civile al presupposto del solo danno-evento con l’esito di parificarla, in definitiva, alla tutela reale, ma si limita a intervenire sul piano probatorio-processuale, senza intaccare in alcun modo la struttura della fattispecie aquiliana.

In tal senso, allora, le Sezioni Unite suggeriscono di sostituire alla locuzione “danno in re ipsa” quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato.

Un’esplicita indicazione normativa in favore della liquidazione presuntiva del danno patrimoniale subito dal proprietario proviene, invero, dalla stessa legislazione in materia di espropriazione per pubblica utilità (D.P.R. 327/2001). La determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite), costituisce, infatti, una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione.

Ebbene, qual è il danno presunto o il danno normale in caso di occupazione abusiva di un immobile altrui? Il valore locativo di mercato del bene. Tale parametro di liquidazione ben può essere allegato specificamente dal proprietario-danneggiato; del pari, in assenza di una prova precisa, assurge presuntivamente a metro di misura per il giudice, chiamato a svolgere una valutazione equitativa del danno-conseguenza a norma dell’art. 1226 c.c., fermo restando la possibilità per entrambe le parti del giudizio di fornire una prova concreta, volta a ottenere una liquidazione in melius o in peius del danno concretamente risarcibile nel caso di specie.

giurista risponde

Legittimazione impugnazione annullamento lottizzazione Il promissario acquirente di un terreno interessato da un piano di lottizzazione può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento di annullamento in autotutela del piano di lottizzazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

La posizione di promissario acquirente non è idonea a fondare la legittimazione a ricorrere ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell’area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso. – Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768.

Il Consiglio di Stato ha ribadito il principio per cui non può ritenersi legittimato ad impugnare il provvedimento con il quale un Comune ha annullato in autotutela un piano di lottizzazione, il promissario acquirente del terreno interessato dal medesimo piano di lottizzazione, ove questi, nonostante la stipula del contratto preliminare di compravendita dell’area, non abbia acquisito la effettiva e materiale disponibilità del terreno stesso, circostanza che generalmente si verifica in caso di preliminare cd. ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto della consegna dell’immobile.

Nel caso in cui sia mancata l’acquisizione del possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, infatti, non si è radicata alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto.

Al fine di chiarire in maniera più specifica la reale situazione ricoperta dal promissario acquirente si richiama, inoltre, un passaggio di una precedente pronuncia in cui si afferma che: “Rispetto agli interessi pretensivi, il potere di conformazione e di autorizzazione edilizia investe in via diretta ed esclusiva il proprietario della res, in capo al quale l’interesse si appunta, mentre il vincolo obbligatorio che si instaura tra il promittente venditore ed il promissario acquirente fa sì che le modalità di esercizio del potere riverberino, sulla posizione del secondo, effetti solo indiretti relegando la posizione di quest’ultimo, nell’ambito della relazione pubblicistica, a quella di titolare di un mero interesse di fatto. Tali effetti indiretti rilevano invece sul piano civilistico dell’esatto adempimento e quindi nell’ambito della relazione contrattuale, giammai in seno alla relazione procedimentale dove il proprietario resta l’interlocutore esclusivo della vicenda dinamica del potere”.

Ne discende che rispetto a tutti gli interventi edilizi via via autorizzati sulle unità immobiliari promesse in vendita, il promissario acquirente è privo di una situazione giuridica soggettiva idonea a differenziarne la posizione e quindi a radicare la legittimazione, non potendosi ritenere idoneo a tale scopo il mero vincolo obbligatorio che ha ad oggetto la prestazione (del consenso richiesto per il perfezionamento del contratto) e non l’esercizio di un potere.

In conclusione, la posizione di promissario acquirente è estranea alle vicende relative ai titoli edilizi sugli immobili oggetto del contratto preliminare, potendosi, al più, in sede civile, far valere quelle vicende al solo scopo di definire i rapporti giuridici sorti tra le parti contrattuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 14 ottobre 2019, n. 6961; Id., 12 aprile 2011, n. 2275
giurista risponde

Mancata impugnazione graduatoria finale La mancata impugnazione della graduatoria finale determina l’improcedibilità del ricorso proposto avverso il precedente atto immediatamente lesivo?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

In tema di concorsi pubblici, è improcedibile, per sopravvenuta carenza d’interesse, il ricorso proposto contro un atto immediatamente lesivo (nella specie, l’elenco dei candidati ammessi alla prova orale), ove l’impugnazione non sia poi estesa alla graduatoria finale. – Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2022, n. 2119.

Il TAR ha ricordato che in tema di illegittimità derivata in seguito ad annullamento di un atto presupposto, occorre operare una distinzione fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto meramente viziante.

Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto conseguenziale anche quando quest’ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l’atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata ma resta efficace ove non ritualmente impugnato (Cons. Stato, sez. V, 13 novembre 2015, n. 5188). Per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi: a) il primo, dato dall’appartenenza, sia dell’atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale; b) il secondo, individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi; pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo (Consi. Stato, sez. V, 10 aprile 2018, n. 2168)”.

Con specifico riferimento alle procedure concorsuali, è stato – ulteriormente – affermato che: “l’omessa impugnazione della graduatoria finale del concorso comporta la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del giudizio, poiché l’eventuale accoglimento della domanda di annullamento dell’esclusione dalla prova orale non può incidere sulla citata graduatoria, una volta che questa sia divenuta inoppugnabile (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 12 novembre 2020, n. 6959; sez. V, 11 agosto 2010, n. 5618, e 10 maggio 2010, n. 2766)”.

In base alle comuni regole di diligenza, anche processuale, occorre quindi accertarsi della eventuale conclusione del concorso e dell’approvazione della relativa graduatoria.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2020, n. 112;
Cons. Stato, sez. V, 10 aprile 2018, n. 2168; Id., 13 novembre 2015, n. 5188
giurista risponde

Azione di ripetizione in sede di ottemperanza È esperibile l’azione di ripetizione in sede di ottemperanza di una sentenza di rigetto di annullamento di provvedimento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Sebbene dall’accertata legittimità del provvedimento discenda l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, ciò non può avvenire con la richiesta di ottemperanza alla sentenza che si è limitata a respingere il ricorso della parte privata volto all’annullamento del provvedimento di decadenza dagli incentivi, non essendo possibile, in tale sede, una modifica o estensione del comando giudiziale. – Cons. Stato, sez. II, 25 marzo 2022, n. 2219.

Il Consiglio di Stato ha chiarito che la riconosciuta legittimità del provvedimento di decadenza dagli incentivi corrisposti dal G.S.E. – Gestore dei Servizi Energetici S.p.A, ai sensi del D.M. 28 luglio 2005 (“Criteri per l’incentivazione della produzione di energia elettrica mediante conversione fotovoltaica della fonte solare”), pur giustificando l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, non consente di agire a tal fine con l’azione di ottemperanza.

Nel caso di specie, il G.S.E. aveva proposto ricorso avverso la decisione che aveva ritenuto inammissibile l’ottemperanza della sentenza con cui era stato respinto il ricorso per l’annullamento del provvedimento di decadenza dalle tariffe incentivanti.

Tale decisione viene confermata dal Consiglio di Stato in considerazione della circostanza che nella sentenza di cui si chiedeva l’ottemperanza non vi era stata alcuna statuizione sull’obbligo di restituzione degli incentivi corrisposti. Il dispositivo della sentenza, infatti, stabiliva la mera reiezione del ricorso per l’annullamento, in coerenza con la motivazione esaminata, alla luce del petitum e dei motivi di ricorso, sulla base della riconosciuta legittimità delle ragioni poste alla base del provvedimento.

Né nel dispositivo né nella motivazione il giudice ha esaminato il diverso, anche se connesso, profilo dell’obbligo di restituzione delle tariffe, profilo che, di conseguenza, è estraneo al contenuto precettivo e di mera reiezione della sentenza della cui ottemperanza si discute.

I Giuridici ribadiscono, inoltre, che secondo l’univoco orientamento giurisprudenziale, sono le statuizioni preordinate ad una pronuncia di accoglimento a far nascere per l’Amministrazione destinataria un obbligo di ottemperanza, che può dirsi adempiuto solo se vengono posti in essere atti completamente satisfattivi rispetto a quelle statuizioni. Viceversa, le pronunce di rigetto lasciano invariato l’assetto giuridico dei rapporti precedente alla radicazione del giudizio, rimanendo indifferente che la sentenza di rigetto sia stata pronunciata in primo grado ovvero in appello, con una sentenza di riforma della pronuncia di accoglimento emessa dal primo giudice.

Il principio giurisprudenziale sopra richiamato è stato quindi ritenuto applicabile anche al caso di specie in quanto la reiezione del ricorso di annullamento non ha mutato il quadro giuridico preesistente, contrassegnato dalla validità e dall’efficacia dei provvedimenti di decadenza.

Se è vero che dall’accertata legittimità del provvedimento discende, in capo al G.S.E., l’obbligo di recupero delle somme indebitamente corrisposte, si deve, tuttavia, osservare che ciò non può avvenire con la richiesta di ottemperanza alla sentenza che si è limitata a respingere il ricorso della parte privata volto all’annullamento del provvedimento di decadenza dagli incentivi, non essendo possibile, in quella sede, una modifica o estensione del comando giudiziale.

La fonte costitutiva dell’obbligo per le società di restituire le somme ricevute non è la sentenza, ma il provvedimento di decadenza che, peraltro, non reca la determinazione del quantum da restituire, limitandosi a dichiarare la decadenza dal diritto e a rinviare ulteriori atti per le modalità di esecuzione.

Le richieste di restituzione con l’indicazione degli importi dovuti sono state comunicate solo successivamente, in parte prima e in parte dopo la pubblicazione della sentenza della cui ottemperanza si discute.

Quanto sopra conferma che il credito (e il correlativo debito) restitutorio, pur trovando fondamento nel provvedimento impugnato, è rimasto estraneo al perimetro del giudizio di cognizione.

Non è stata, infine, ritenuta applicabile al caso di specie la giurisprudenza richiamata a sostegno della tesi dell’esperibilità dell’azione di ripetizione per la prima volta in sede di ottemperanza (segnatamente, la sentenza della V sezione del 20 marzo 2012, n. 1570).

Nel precedente richiamato, infatti, la ripetizione è stata disposta in sede di ottemperanza in quanto rinveniva il proprio fondamento nella sentenza da ottemperare che imponeva al Comune la presa d’atto della nullità degli atti negoziali compiuti e il ripristino dello stato della procedura nella fase antecedente la violazione con il recupero del pacchetto azionario ceduto.

L’esame per la prima volta in sede di ottemperanza del rapporto obbligatorio scaturente dal provvedimento oggetto del giudizio di cognizione non si giustifica nemmeno richiamando la struttura a formazione progressiva del giudicato amministrativo.

La formazione progressiva del giudicato rende possibile statuizioni di carattere integrativo, volte a delineare la portata dispositiva e conformativa della sentenza da eseguire (così Cons. Stato, Ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11; Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7378), ma non consente di ampliare con la condanna della parte privata una pronuncia di mero accertamento della legittimità del provvedimento impugnato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2013, n. 2724;
26 marzo 2013, n. 1675; 8 febbraio 2013, n. 719
giurista risponde

Cessazione del contendere e carenza di interesse Qual è la differenza tra cessazione della materia del contendere e sopravvenuta carenza di interesse?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

La cessazione della materia del contendere definisce il giudizio nel merito e consegue alla integrale soddisfazione dell’interesse sostanziale, fatto valere in giudizio, da parte dell’Amministrazione con un provvedimento posto in essere spontaneamente.

La dichiarazione di improcedibilità della domanda per sopravvenuta carenza di interesse presuppone, invece, il verificarsi di una situazione di fatto o di diritto, del tutto nuova rispetto a quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della pronuncia del giudice. – Cons. Stato, sez. III, 28 marzo 2022, n. 2247.

I Giudici del Consiglio di Stato si sono soffermati sulla distinzione tra i due tipi di decisione che sottendono distinte valutazioni da parte del giudice.

Si afferma al riguardo che la pronuncia di cessazione della materia del contendere definisce il giudizio nel merito e consegue alla integrale soddisfazione dell’interesse sostanziale, fatto valere in giudizio, da parte dell’Amministrazione con un provvedimento posto in essere spontaneamente e non in esecuzione di un ordine giudiziale.

La cessazione della materia del contendere opera, infatti, quando si determina una successiva attività amministrativa integralmente satisfattiva dell’interesse azionato.

È, quindi, decisivo che la situazione sopravvenuta soddisfi in modo pieno ed irretrattabile il diritto o l’interesse legittimo esercitato, così da non residuare alcuna utilità alla pronuncia di merito.

Dalla dichiarazione di cessazione della materia del contendere, inoltre, deriva una condanna alle spese nei confronti dell’Amministrazione, in applicazione del principio della soccombenza virtuale.

Da quanto detto ne deriva che la decisione che dichiara la cessazione della materia del contendere nel giudizio amministrativo è caratterizzata dal contenuto di accertamento nel merito della pretesa avanzata e dalla piena soddisfazione eventualmente arrecata ad opera delle successive determinazioni assunte dalla Pubblica amministrazione; tale decisione non ha pertanto valenza meramente processuale, ma contiene l’accertamento relativo al rapporto amministrativo controverso e alla pretesa sostanziale vantata dall’interessato.

La dichiarazione di improcedibilità della domanda per sopravvenuta carenza di interesse presuppone, invece, il verificarsi di una situazione di fatto o di diritto, del tutto nuova rispetto a quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della pronuncia del giudice.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3767; Id., 20 novembre 2017, n. 5343; Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2016, n. 1332