casa famiglia

Casa famiglia per il figlio che usa troppo il cellulare Casa famiglia per il minore problematico che cresce in un ambiente conflittuale e fa un uso smodato dello smartphone

Casa famiglia per figlio che fa uso smodato del cellulare

Un ragazzo di 13 anni viene collocato in una casa famiglia per decisione del Tribunale per i minorenni competente. La vicenda ruota attorno a una situazione familiare estremamente delicata, caratterizzata da alta conflittualità tra i genitori, episodi di violenza domestica e comportamenti problematici del minore, come l’uso smodato del cellulare. I genitori ovviamente si oppongono alla decisione di primo grado e poi a quella della Corte di’Appello. La Cassazione però con l’ordinanza n.1832/2025 respinge il ricorso dimostrando anche di condividere le conclusioni del giudice di primo grado sull’importanza di una corretta educazione digitale.

Collocazione del minore in casa famiglia

La vicenda prende avvio da una richiesta del Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni di Salerno, che nell’aprile 2022 ha chiesto la decadenza della responsabilità genitoriale. La situazione familiare era critica: i genitori non riuscivano a gestire i conflitti, e il figlio mostrava comportamenti aggressivi e una forte dipendenza dai dispositivi elettronici, in particolare dal cellulare. I servizi sociali, intervenuti per monitorare la situazione, hanno rilevato ulteriori problemi, tra cui difficoltà scolastiche e scarsa capacità dei genitori di garantire un ambiente stabile.

Il Tribunale ha deciso di sospendere la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori, disponendo l’affidamento del ragazzo ai servizi sociali. Il minore è stato collocato in una casa famiglia, con il divieto assoluto di utilizzare dispositivi elettronici. Inoltre, i contatti con i genitori sono stati limitati e demandati a successivi accertamenti.

Entrambi i genitori hanno impugnato il provvedimento, presentando ricorso alla Corte d’Appello. La Corte d’Appello, tuttavia, ha respinto i ricorsi, confermando la validità della decisione del Tribunale.

Nomina tardiva del curatore e pregiudizio per il minore

I genitori hanno quindi fatto ricorso alla Corte di Cassazione, sollevando cinque motivi principali di impugnazione. Tra questi, hanno ribadito la presunta violazione del diritto del minore a essere rappresentato adeguatamente e l’assenza di un difensore per il figlio nel primo grado di giudizio. Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze, stabilendo che, pur in presenza di errori procedurali, non era stato arrecato un concreto pregiudizio al minore.

Secondo i giudici, la nomina tardiva del curatore speciale non aveva inciso negativamente sull’esito del processo. Infatti, il curatore nominato successivamente ha potuto partecipare attivamente al giudizio d’appello, rappresentando gli interessi del minore in modo autonomo e indipendente.

La Cassazione ha richiamato anche il principio secondo cui l’interesse superiore del minore deve prevalere su ogni altra considerazione. In situazioni di conflitto familiare e inadeguatezza genitoriale, è necessario intervenire prontamente per garantire un ambiente sereno al bambino. La collocazione in casa famiglia è stata ritenuta una misura adeguata, viste le difficoltà dei genitori di fornire un contesto stabile e protetto.

Inoltre, i giudici hanno sottolineato l’importanza di procedere con celerità in questi casi, evitando inutili ritardi che potrebbero aggravare il disagio del minore. Sebbene la nomina tardiva del curatore speciale rappresenti un errore procedurale, non ha reso nullo il processo, poiché il minore è stato adeguatamente rappresentato nelle fasi successive.

Educazione digitale: vietato l’uso dello smartphone

Un elemento centrale del caso è  luso eccessivo del cellulare da parte del ragazzo. Questo aspetto è emerso come un campanello d’allarme, evidenziando un problema diffuso tra i giovani. La dipendenza da dispositivi elettronici può avere conseguenze negative sullo sviluppo emotivo, sociale e scolastico dei ragazzi. In questo caso, il Tribunale ha scelto di vietare al minore l’utilizzo di smartphone e tablet, ritenendoli un fattore aggravante della sua situazione, già sufficientemente problematica.

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assegno divorzile

Assegno divorzile: quando si può chiedere la riduzione Assegno divorzile: la riduzione della misura non può essere accolta se il coniuge obbligato non prova il peggioramento delle sue condizioni

Assegno divorzile: riduzione respinta

Il Tribunale di Matera, con la sentenza n. 875 del 6 dicembre 2024, ha respinto la richiesta di riduzione dell’assegno divorzile avanzata da un ex coniuge. La domanda riduzione dell’assegno divorzile infatti può essere accolta solo in presenza di un effettivo peggioramento delle condizioni economiche del coniuge obbligato. Tale peggioramento però deve essere dimostrato in modo chiaro e documentato.

Domanda di riduzione dell’assegno di divorzio

Un pensionato ricorre in giudizio per chiedere la riduzione dell’assegno divorzile corrisposto all’ex moglie. L’uomo sostiene il peggioramento della sua situazione economica, a causa di una pensione insufficiente, finanziamenti da rimborsare e il pagamento dell’affitto. Per sopravvivere, ha iniziato a lavorare saltuariamente presso un fruttivendolo. Il ricorrente tuttavia dichiara di avere a disposizione solo poche centinaia di euro al mese.

L’ex moglie però contesta tali affermazioni. Ella sostiene che le difficoltà economiche del ricorrente sono in realtà conseguenza delle sue scelte personali. In ogni caso anche lei è gravata da un finanziamento mensile.

Riduzione assegno: serve prova peggioramento condizioni

Il Tribunale di Matera analizza dapprima la situazione patrimoniale di entrambe le parti e in decisione richiama i principi sanciti dalla giurisprudenza. La riduzione dell’assegno divorzile può avvenire solo se il richiedente dimostra un effettivo peggioramento delle proprie condizioni economiche, tale da richiedere una nuova valutazione del rapporto economico tra gli ex coniugi.

Nel caso specifico, però, il Tribunale ha rilevato che il ricorrente non ha subito un reale impoverimento. Dai documenti presentati, infatti, emerge che i suoi redditi mensili sono in realtà  superiori a quanto dichiarato. Il ricorrente, oltre alla pensione, percepisce ulteriori somme derivanti dal lavoro presso il fruttivendolo, pari a circa 1.200 euro mensili. L’uomo inoltre riceve un contributo dal Comune per coprire parte delle spese di affitto.

L’ex moglie, invece, dispone di una pensione netta di 614 euro al mese, ma deve rimborsare un finanziamento mensile di circa 168 euro. Alla luce di queste considerazioni, il tribunale ritiene ingiustificata la riduzione dell’assegno divorzile.

L’impegno lavorativo del pensionato migliora situazione

La sentenza sottolinea che l’impegno lavorativo del ricorrente, sebbene apprezzabile, non costituisce un obbligo giuridico. Vero però che i redditi derivanti dal lavoro contribuiscono a migliorare la sua situazione economica. Di conseguenza, l’assegno divorzile, stabilito in precedenza, resta adeguato a garantire l’equilibrio tra gli ex coniugi.

 

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avvocato del genitore

L’avvocato del genitore tutela anche i figli Nei procedimenti in materia di famiglia, l'avvocato del genitore tutela in automatico anche i figli

Procedimenti in materia di famiglia: difesa estesa

Il ruolo dell’avvocato del genitore, nell’ambito dei procedimenti in materia di famiglia, non si limita alla difesa del rappresentato. Il legale deve tutelare anche gli interessi del minore coinvolto. Lo afferma il Consiglio Nazionale Forense, in un recente caso disciplinare che si è concluso con l’emanazione della sentenza n. 291/2024.

Diritto di visita: omessa informazione legale controparte

Una avvocata viene sottoposta a un giudizio disciplinare per presunta violazione dell’articolo 46, comma 7, del Codice Deontologico Forense. Secondo l’accusa, la professionista avrebbe omesso di informare il legale della controparte del deposito di un ricorso giudiziale durante le trattative stragiudiziali avviate. La questione riguarda in particolare la regolamentazione del diritto di visita e l’assegno di mantenimento di un figlio minore.

L’avvocato di controparte sostiene che l’avvocata abbia omesso di comunicargli l’avvenuto deposito del ricorso prima di un incontro, avvenuto il 6 novembre 2017. L’incontro era finalizzato a trovare un accordo stragiudiziale, ma il ricorso era già stato depositato il 3 novembre 2017.

Obbligo di informazione della controparte

Per il Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) di Trento l’avvocata ha violato l’obbligo deontologico di informare il collega avversario dell’interruzione delle trattative e dell’inizio di un procedimento giudiziario. La ricorrente, a sua difesa, sostiene di aver preannunciato in realtà il deposito del ricorso. Le prove documentali e le testimonianze raccolte non hanno però confermato questa comunicazione con sufficiente chiarezza.

Per il CDD anche in caso di mancata interruzione formale delle trattative, il comportamento dell’avvocata è comunque contrario ai principi di colleganza e trasparenza richiesti dal Codice Deontologico. Considerata tuttavia la gravità ridotta della violazione, il CDD irroga la sanzione dell’avvertimento.

Procedimenti in materia di famiglia: ruolo dell’avvocato

Il caso mette in evidenza un principio fondamentale nei procedimenti familiari: lavvocato del genitore rappresenta anche, indirettamente, gli interessi del minore. La giurisprudenza sottolinea che il legale non deve limitarsi infatti a tutelare il diritto di difesa del cliente, ma deve agire per ridurre il conflitto tra le parti, proteggendo il benessere del minore.

Nel caso in questione, il deposito del ricorso senza una chiara comunicazione alla controparte ha alimentato il contenzioso, anziché contenerlo. L’avvocata, accettando di partecipare all’incontro del 6 novembre, ha implicitamente riconosciuto l’esistenza di trattative. Il ricorso già depositato tuttavia ha reso queste trattative solo apparenti.

Obbligo di trasparenza e comunicazione

L’articolo 46, comma 7, CDF impone all’avvocato di comunicare tempestivamente al collega avversario l’interruzione delle trattative stragiudiziali. Questo obbligo mira a garantire chiarezza nei rapporti professionali, evitando malintesi che possano compromettere il dialogo tra le parti.

Nel caso di specie, la mancanza di una comunicazione esplicita ha pregiudicato la fiducia tra i legali, con ripercussioni dirette sul procedimento. Il CDD ha sottolineato che l’avvocata avrebbe dovuto informare tempestivamente la controparte del deposito del ricorso, anche per garantire un quadro chiaro della situazione processuale.

L’interesse superiore dei minori

Nei procedimenti familiari, l’interesse superiore del minore deve prevalere su ogni altra considerazione. L’avvocato, in qualità di rappresentante legale di un genitore, assume un ruolo di responsabilità nei confronti del minore. La funzione del legale non si limita quindi a rappresentare il cliente, ma include un dovere di protezione nei confronti dei minori coinvolti.

Il CNF, dinnanzi al quale è giunta la questione disciplinare, ribadisce che l’avvocato deve adottare un approccio collaborativo e trasparente, mirato a ridurre il conflitto e a favorire soluzioni condivise. Questo principio assume un rilievo ancora maggiore nei casi di diritto di famiglia, dove le decisioni prese dai genitori e dai loro rappresentanti legali hanno un impatto diretto sul benessere dei figli.

 

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addebito separazione

Addebito separazione anche per una sola violenza Addebito separazione: la Cassazione ribadisce che è sufficiente un episodio violenza, perché viola gravemente i doveri coniugali

Addebito separazione: la violenza è grave e prevale

Quando un matrimonio entra in crisi, le cause alla base della separazione possono essere le più svariate. Tra queste, la violenza, anche limitata a un singolo episodio, può essere determinante per laddebito della separazione. La recente ordinanza n. 30721/2024 della Corte di Cassazione, in linea con precedenti pronunce, ha ribadito questo principio, sottolineando che i comportamenti violenti, per la loro gravità, possono prevalere su altre circostanze di conflittualità tra i coniugi.

Violenza: violazione grave dei doveri matrimoniali

La legge italiana prevede che il matrimonio imponga doveri reciproci, tra cui il rispetto e l’assistenza morale e materiale. La violenza fisica o psicologica rappresenta una violazione grave di questi obblighi, tale da poter giustificare l’addebito della separazione. Secondo la giurisprudenza, anche un singolo episodio di violenza è sufficiente, se la sua gravità è tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.

Addebito separazione: onere della prova

Chi richiede l’addebito della separazione per violenza deve però fornire due prove:

  • esistenza della violenza: deve dimostrare cioè che l’episodio o gli episodi contestati al coniuge siano realmente avvenuti;
  • nesso causale: deve provare che proprio la violenza abbia reso impossibile la prosecuzione del matrimonio.

La Corte di Cassazione ha chiarito che l’accertamento di un episodio di violenza, per la sua gravità, può bastare per l’addebito. Non è necessario dimostrare che l’episodio sia stato l’unico motivo della crisi matrimoniale, purché vi abbia contribuito in modo determinante.

Il caso affrontato dalla Cassazione ha riaffermato questi principi. Una donna aveva chiesto l’addebito della separazione al marito, accusandolo di violenze fisiche e psicologiche, anche durante la gravidanza. Tuttavia, sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello avevano respinto la richiesta. I giudici di merito hanno ritenuto insufficienti le prove e hanno osservato che i fatti denunciati risalivano a diversi anni prima della domanda di separazione.

Condotte violente: rilevano anche se datate

La Cassazione, investita del caso ha però accolto il ricorso della donna. Per gli Ermellini i giudici di merito hanno errato perché:

  • non hanno adeguatamente valutato l’autonoma sufficienza della violenza per l’addebito;
  • hanno escluso il nesso causale solo per il decorso del tempo tra gli episodi e la separazione, senza considerare l’impatto duraturo delle violenze.

Secondo la Cassazione, le condotte violente, anche se datate, non perdono la loro rilevanza se hanno contribuito alla crisi matrimoniale. Inoltre, l’onere probatorio per l’addebito, in caso di violenza, può essere mitigato. La gravità del comportamento violento giustifica un’attenzione particolare alla tutela della vittima. La necessità di dimostrare il nesso diretto tra la violenza e l’intollerabilità della convivenza è meno stringente.

Ammissione prove testimoniali e documentali

La Cassazione ha anche evidenziato l’importanza di ammettere prove testimoniali e documentali per accertare episodi di violenza. Nel caso analizzato, la donna aveva richiesto l’escussione di testimoni, tra cui il medico che aveva redatto un referto medico con prognosi di 20 giorni per lesioni subite. Tuttavia, tali richieste erano state rigettate dai giudici di merito, compromettendo l’accertamento dei fatti.

Con questa decisione la Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: la violenza, anche se limitata a un unico episodio, costituisce una violazione gravissima dei doveri matrimoniali. Questo comportamento può essere sufficiente per ottenere l’addebito della separazione. Occorre però dimostrare la sua gravità e il suo impatto sulla relazione coniugale.

 

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assegno di mantenimento

Assegno di mantenimento: rileva il dovere di assistenza materiale Assegno di mantenimento: se dovuto in caso di separazione non si può trascurare l’assistenza materiale prestata dal coniuge richiedente

Mantenimento e dovere di assistenza materiale

Nel determinare l’assegno di mantenimento occorre considerare anche il dovere di assistenza materiale. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 30119/2024, in cui sottolinea che il principio di assistenza materiale tutela il coniuge economicamente più debole e garantisce che le scelte prese durante il matrimonio, come la divisione dei ruoli e delle responsabilità, non penalizzino una parte in modo sproporzionato in caso di separazione.

Separazione e assegno di mantenimento per la moglie

Il caso, originato da una richiesta di separazione legale, vede il marito contestare l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento mensile di 300 euro stabilito in primo grado. L’uomo sottolinea l’autosufficienza economica della moglie, che ha sempre lavorato, e lamenta l’errata valutazione patrimoniale delle parti, nonché l’utilizzo di un criterio prognostico basato sulle aspettative pensionistiche future della controparte. La Corte d’Appello conferma la sentenza di primo grado, motivando la decisione con una valutazione complessiva delle condizioni economiche e reddituali delle parti e ribadendo il dovere di assistenza materiale tra coniugi.

Dovere di assistenza morale permane durante la separazione

Il ricorso del marito giunge infine in Cassazione. Gli Ermellini rigettano le istanze, sottolineando alcuni principi chiave. La Corte ribadisce in particolare che l’assegno di mantenimento conseguente alla separazione personale si basa sulla necessità di garantire al coniuge economicamente più debole un tenore di vita comparabile a quello goduto durante il matrimonio, nel rispetto del dovere di assistenza materiale, che permane anche durante la separazione.

L’art. 156 c.c disciplina l’assegno di mantenimento e stabilisce che esso non è legato alla solidarietà post-coniugale, tipica dei procedimenti di divorzio, ma a un vincolo coniugale ancora in essere. Il giudizio non può quindi prescindere dall’analisi del contributo materiale ed economico offerto da ciascun coniuge durante la vita matrimoniale.

Assistenza materiale: ruolo nella determinazione dell’assegno

L’aspetto cruciale evidenziato nel caso  di specie riguarda il ruolo dell’assistenza materiale fornita da un coniuge all’altro, sia in termini economici che di supporto concreto nella gestione familiare. La Corte chiarisce che questa assistenza è un elemento fondamentale da considerare per stabilire l’ammontare dell’assegno. Anche se entrambi i coniugi hanno capacità lavorative, la disparità patrimoniale e reddituale deve essere bilanciata per evitare ingiuste sperequazioni. Nel caso specifico, il marito ha evidenziato il basso tenore di vita mantenuto durante il matrimonio e l’assenza di contributo economico diretto della moglie al ménage familiare. La Corte però ha riconosciuto il diritto all’assegno sulla base di una disparità patrimoniale accertata e sul contributo non economico offerto dalla moglie.

 

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giurista risponde

Assegno divorzile e funzione perequativa-compensativa Il sacrificio della propria carriera da parte di un coniuge al fine di dedicare il proprio tempo alla famiglia è elemento rilevante nella quantificazione dell’assegno divorzile?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

L’assegno divorzile spetta all’ex coniuge non esclusivamente in funzione assistenziale bensì anche in funzione perequativa-compensativa proprio per le scelte operate dallo stesso in costanza di matrimonio. In queste sono ricompresi non solo il contributo offerto alla comunione familiare ma anche la rinuncia concordata a occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio e l’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge (Cass., sez. II, 26 agosto 2024, n. 23083).

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte dichiara infondati i motivi di ricorso miranti all’eliminazione dell’assegno divorzile riconosciuto dai giudici di merito nei confronti dell’ex coniuge. Sia il Tribunale di prime cure che la Corte d’Appello territorialmente competente avevano infatti dichiarato lo scioglimento di un matrimonio durato venticinque anni e confermato la spettanza dell’assegno divorzile posto a carico del ricorrente. Come provato in queste sedi, il coniuge beneficiario ha rinunciato a numerose occasioni di carriera per agevolare l’attività professionale del marito fino a sacrificarla definitivamente quando questa è diventata incompatibile con la crescita della famiglia, dedicandosi completamente a soddisfare i bisogni di quest’ultima.
La cessazione del matrimonio comporta il venir meno della condizione coniugale ma il sorgere di obblighi di carattere patrimoniale fondati sulla perdurante solidarietà postconiugale. Tra gli obblighi così identificati si staglia quello di corresponsione dell’assegno divorzile contenuto nell’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898.

All’esito di un percorso interpretativo inaugurato a metà degli anni ’70, le Sezioni Unite hanno definitivamente superato gli indirizzi volti a considerare nella funzione assistenziale l’unico parametro alla luce del quale valutare la spettanza e la consistenza dell’istituto in esame. La Cassazione ha, così, ricostruito la funzione dell’assegno divorzile assegnando rilevanza centrale ai principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo. La natura composita di tale funzione, insieme assistenziale e perequativo-compensativa, rappresenta una declinazione di tale principio di solidarietà volta al raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle eventuali aspettative professionali sacrificate (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Ciò avviene all’interno di un meccanismo di “profilazione economico-patrimoniale del coniuge” che si serve dei criteri delineati dall’art. 5 cit. Le Sezioni Unite precisano, in particolare, la necessità di provare l’incidenza causale tra il sacrificio delle aspettative di carriera serie e concrete e la condizione di disequilibrio dalla quale genera la spettanza dell’assegno divorzile.

La ricostruzione in questi termini del quadro normativo ed ermeneutico di riferimento permette alla Cassazione nella sentenza in commento, di ritenere soddisfatti i criteri sopra menzionati e fornita la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescite professionale in costanza di matrimonio e dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge, così come chiarito da Cass., Sez Un., 5 novembre 2021, n. 32198.

Contributo in tema di “Assegno divorzile e la funzione perequativa-compensativa”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

mantenimento figli maggiorenni

Mantenimento figli maggiorenni: dovuto anche se fuori casa Mantenimento figli maggiorenni: l'obbligo permane anche se sono fuori casa per motivi di studio, se il genitore si occupa dei loro bisogni

Mantenimento figli maggiorenni

Il mantenimento dei figli maggiorenni è un tema che continua a generare discussioni e controversie in ambito giuridico, soprattutto quando i figli vivono lontano dal domicilio familiare per motivi di studio o formazione. La recente ordinanza n. 30179/2024 della Corte di Cassazione, offre un’interessante panoramica sulla questione, precisando che l’allontanamento da casa dei figli maggiorenni per motivi di studio e formazione non fa venire meno l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori.

Genitori, figlie e obbligo di mantenimento

La controversia nasce dalla richiesta di un padre di essere esonerato dall’obbligo di versare alla ex moglie un assegno di mantenimento di 5.000 euro mensili destinato alle figlie. Il ricorrente sostiene che le figlie, ormai maggiorenni e residenti in altre città per motivi di studio, non convivono più con la madre. Questo elemento, secondo lui, farebbe venir meno il diritto di quest’ultima a ricevere l’assegno.

Il Tribunale di Napoli rigetta la richiesta, sostenendo che l’allontanamento delle figlie per motivi di studio non configura una cessazione della convivenza, ma solo una condizione di residenza temporanea fuori sede. Il padre inoltre non ha provato un’effettiva riduzione delle sue capacità reddituali.

Residenza stabile, non più temporanea

La Corte d’Appello, su reclamo del padre, invece accoglie la sua richiesta, ritenendo che le figlie abbiano ormai consolidato la loro posizione lavorativa e accademica nelle città in cui vivono, configurandosi in questo modo una residenza stabile e non più temporanea. Di conseguenza,  la madre non è più legittimata a richiedere l’assegno per conto delle figlie. Le stesse devono agire autonomamente per ottenere un eventuale contributo dal padre.

Per la Corte le figlie hanno raggiunto una sufficiente capacità lavorativa e, pur non essendo ancora pienamente autosufficienti, sono comunque in grado di proseguire il proprio percorso senza un vincolo diretto di coabitazione con la madre.

Allontanamento da casa: la convivenza non viene meno

La questione giunge fino alla Corte di Cassazione, dove vengono sollevate due questioni principali.

  1. La Corte d’Appello avrebbe pronunciato una decisione in contrasto con le richieste iniziali del padre, introducendo un tema nuovo, che è quello dell’indipendenza economica delle figlie, solo in sede di reclamo.
  2. Non è stata inoltre adeguatamente considerata la documentazione attestante il ritorno periodico delle figlie alla casa materna e la dipendenza economica dalle risorse anticipate dalla madre.

La Cassazione accoglie il secondo motivo, evidenziando che l’allontanamento delle figlie dalla casa materna per motivi di studio non implica automaticamente il venir meno della convivenza, soprattutto se la madre continua a rappresentare il punto di riferimento stabile per il loro sostentamento.

Obbligo oltre la coabitazione fisica

Un aspetto cruciale della sentenza è l’interpretazione del concetto di “convivenza” in relazione al mantenimento. La giurisprudenza più recente chiarisce che la convivenza non deve essere intesa come una mera permanenza fisica continua, ma come una relazione di sostegno materiale e morale. La Corte di Cassazione in questa decisione ribadisce che l’obbligo di mantenimento può sussistere anche se il figlio vive altrove per motivi di studio, a condizione che il genitore convivente sia ancora colui che si occupa materialmente delle sue necessità.

Questo principio si riflette anche nell’articolo 337-septies del codice civile, secondo il quale il contributo di mantenimento può essere versato al genitore con cui il figlio maggiorenne coabita, a meno che il giudice non stabilisca diversamente. È fondamentale che tale genitore continui a provvedere alle spese del figlio, anche in assenza di una coabitazione continuativa.

 

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affidamento figli

Affidamento figli: multa per la madre che ostacola il rapporto col padre Nell'affidamento dei figli se la madre tiene una condotta finalizzata a ostacolar il rapporto padre-figlio va sanzionata

Affidamento figli: madre sanzionabile art. 709 ter c.p.c.

Nel procedimenti per l’affidamento dei figli, va sanzionata la madre che tiene una condotta ostruzionistica e ostile solo per tenere lontano il figlio dal padre.

Lo ha stabilito la Cassazione nell’ordinanza n. 29690/2024, chiarendo il contenuto e l’applicazione degli articoli art. 709 ter c.p.c (confluito dopo la riforma Cartabia nell’art.  473-bis.39) e 614 bis c.p.c.

Ripristino della responsabilità genitoriale materna

Una madre presenta ricorso contro una decisione che ha decretato la sua decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti del figlio. Il provvedimento ha anche previsto  il collocamento del minore in una casa famiglia e la sospensione temporanea dei rapporti madre-figlio. I giudici del rinvio, dopo aver ascoltato il minore e condotto una nuova consulenza psicologica d’ufficio, hanno ristabilito la responsabilità genitoriale della donna limitatamente alla gestione ordinaria. Il minore è stato quindi collocato presso l’abitazione materna, ma sotto la supervisione dei servizi sociali per monitorarne lo sviluppo psicofisico.

Garantire la bigenitorialità nell’affidamento dei minori

Per l’autorità giudiziaria competente è fondamentale rispettare il principio di bigenitorialità per assicurare al minore una vita affettiva equilibrata con entrambe le figure genitoriali. Nel caso in questione, la constatazione di una violazione del diritto paterno alla genitorialità non implica automaticamente la revoca della responsabilità genitoriale della madre. Tuttavia, non si possono ignorare i risultati delle perizie e le dichiarazioni del minore. Il ragazzo, ormai tredicenne, percepisce separatamente la madre, che lotta contro le istituzioni per proteggerlo, e il padre, vissuto come un avversario che vuole allontanarlo dalla mamma. In questa situazione, il giovane appare ostile a qualsiasi intervento istituzionale e considera il padre un persecutore. Risulta quindi utile intraprendere un percorso terapeutico per aiutare il ragazzo a elaborare il dolore accumulato negli anni piuttosto che recuperare immediatamente il rapporto con il padre. Quest’ultimo deve avere pazienza e lavorare per ricostruire una relazione con il figlio nella speranza che col tempo questi comprenda gli sforzi compiuti.

Le autorità hanno preso le misure necessarie nei confronti della madre per prevenire ulteriori possibili danni al minore. L’affidamento ai servizi sociali è motivato invece dalla condotta ostruzionistica della donna verso tutte le decisioni adottate dal Tribunale dei minorenni e dalla sua incapacità di gestire adeguatamente la propria responsabilità genitoriale. La madre è stata infatti esortata a comprendere i danni causati dalla triangolazione emotiva cui è stato sottoposto il figlio e a incoraggiarlo a intraprendere un percorso psicoterapeutico per migliorare il suo benessere psicologico.

Condotta ostruzionistica della madre: sanzioni applicabili

Il padre ha contestato la decisione in Cassazione. La Corte d’appello non si è espressa sul suo diritto di visita e ha ignorato numerose violazioni dei diritti del minore. L’uomo  critica l’uso dei risultati dell’ascolto del figlio perché avvenuto sotto costrizione psicologica e si oppone al collocamento presso la madre a causa della sua personalità deviante. Inoltre, sostiene che la Corte non abbia, tra le altre cose, adottato misure sanzionatorie nei confronti della madre secondo quanto previsto dall’articolo 709 ter c.p.c., come una multa amministrativa pecuniaria.

Affidamento minori: sanzioni ex art. 709 ter c.p.c.

Secondo la Cassazione, se i primi cinque motivi del ricorso paterno sono infondati, non si può dire lo stesso riguardo alla richiesta di sanzioni applicabili alla madre a causa del suo comportamento. La Cassazione sottolinea che il motivo sollevato dal padre riguarda l’omessa applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 709 ter del codice di procedura civile (ora sostituito dall’articolo 473-bis.39 c.p.c.) e dell’articolo 614 bis c.p.c.

La Corte ricorda che l’articolo 709 ter c.p.c. prevedeva misure punitive per i genitori che ostacolavano gravemente l’affidamento o arrecavano danno al minore, tra cui:

  • ammonizione del genitore inadempiente;
  • risarcimento dei danni a favore del minore o dell’altro genitore;
  • sanzione pecuniaria da 75 a 5.000 euro.

Con la riforma del 2022, queste disposizioni sono state trasferite all’articolo 473-bis.39 c.p.c., ampliandone l’efficacia. L’articolo 614 bis c.p.c. invece consente al giudice di stabilire somme crescenti per ogni giorno di violazione con scopo coercitivo e preventivo (astreintes).

Nel caso specifico, il padre lamenta di come gli atteggiamenti ostativi della madre abbiano impedito rapporti tra lui e suo figlio. Sebbene la Corte d’Appello abbia riconosciuto il comportamento ostile della madre non ha però applicato né le sanzioni previste dal già citato art. 709 ter né quelle coercitive indirette dell’articolo 614 bis c.p.c.

Il padre aveva infatti richiesto sia sanzioni per impedimenti già avvenuti che per prevenirne di futuri. Secondo l’articolo 709 ter c.p.c., infatti:

  • il giudice può intervenire d’ufficio modificando provvedimenti vigenti;
  • sanzionando violazioni già accadute.

Tuttavia le astreintes dell’articolo 614bis c.p.c si applicano solo su istanza di parte in specifiche situazioni, ma nel presente giudizio tale richiesta non è stata valutata data l’assenza di sufficiente contestazione nel ricorso.

 

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matrimonio per prova

Matrimonio per prova: sì della Cassazione Il matrimonio per “prova” non produce un danno ingiusto meritevole di risarcimento del danno: lo afferma la Cassazione

Matrimonio per “prova”: no al danno ingiusto

La Cassazione ammette il matrimonio per “prova”. Lo stesso “non rappresenta il fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l’omessa comunicazione da parte di uno dei coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva”. Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza  n. 28390/2024.

Riserva mentale: matrimonio nullo per il diritto ecclesiastico

Una coppia di coniugi si scontra in Tribunale. La moglie, dopo sei mesi dalle nozze avvia una causa presso il Tribunale ecclesiastico per ottenere la nullità del matrimonio. La donna afferma di non aver mai creduto nella indissolubilità del legame matrimoniale. La stessa si è sposata “per prova”. Il Tribunale ecclesiastico dichiara nullo il matrimonio con sentenza. In seguito la donna avvia diversi procedimenti nei confronti del marito, compresi un procedimento penale e la separazione, opponendosi alla richiesta di dividere i beni in comunione e di divorziare.

Risarcimento del danno per il matrimonio per “prova”

Per tutte le ragioni suddette l’uomo agisce in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali provocati dalla condotta della moglie. Il Tribunale però respinge la domanda e condanna l’uomo per responsabilità aggravata. Questa decisione viene confermata anche in sede d’appello. La questione giunge infine in Cassazione.

Il matrimonio per prova non produce un danno ingiusto

La Cassazione nel rigettare il ricorso precisa che nel caso di specie manca un comportamento produttivo di un danno ingiusto o in grado di configurare una responsabilità pre-negoziale.

Il ricorrente denuncia, come produttiva di danno, la mancata comunicazione da parte dell’ex moglie, prima della celebrazione del matrimonio, della propria riserva mentale.

Controparte infatti ha affermato di essersi voluta sposare per “prova”. La stessa era incerta sulla possibilità della futura insorgenza di fatti capaci di rendere intollerabile la convivenza. Il Tribunale Ecclesiastico ha dichiarato nullo il matrimonio. In sede civile però la Corte di appello non ha accolto la domanda di riconoscimento della sentenza ecclesiastica. La stessa è contraria all’ordine pubblico “derivante dalla necessità di protezione dell’affidamento incolpevole del coniuge ignaro della riserva mentale, la quale è estranea al regime della nullità del matrimonio previsto dall’ordinamento civile.”

Ed è proprio l’assenza di una nullità rilevante per l’ordinamento civile a sgombrare il campo dalla responsabilità dell’ex moglie in malafede.

La presenza di un dubbio tale da spingere la donna a contrarre matrimonio per “prova” non genera una responsabilità risarcitoria a carico della stessa.

Ogni coniuge ha il diritto di separarsi e di divorziare

La Corte di legittimità ricorda che la SU n. 500/1999 hanno stabilito che “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione all’ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente.”

Alla luce di questo principio gli Ermellini ricordano che la libertà matrimoniale è un diritto della personalità sancito dall’articolo 12 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Nel vigente diritto di famiglia ogni coniuge ha il diritto, a prescindere dalla volontà o dalle colpe dell’altro, di separarsi e di divorziare. In questo modo attua un diritto individuale di libertà da ricondurre all’articolo 2 della Costituzione.

“(…) Affinché tale libertà non sia compromessa dall’incombenza di una  conseguenza come la responsabilità risarcitoria derivante dall’inottemperanza ad un dovere giuridico, la comunicazione in discorso, in quanto relativa alla sfera personale affettiva, può comportare esclusivamente un dovere morale o sociale. Alla luce della libertà della scelta matrimoniale non emergono, dalla mancata comunicazione dello stato d’animo di incertezza in questione, un interesse della controparte meritevole di tutela da parte dell’ordinamento con il riconoscimento e rimedio risarcitorio e, dunque, un danno ingiusto.”

 

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Fondo patrimoniale: vale per la famiglia nucleare Il Fondo patrimoniale deve soddisfare i bisogni della famiglia nucleare, è nullo l’atto  che non menziona la figlia della coppia beneficiaria

Fondo patrimoniale

Il fondo patrimoniale può essere costituito anche da un terzo. La sua costituzione però deve essere finalizzata a soddisfare i bisogni della famiglia nucleare. Nell’ipotesi in cui venga costituito per atto tra vivi, richiede l’accettazione dei coniugi per il suo perfezionamento. E’ quindi nullo per mancanza di causa l’atto pubblico con cui i genitori della ex convivente costituiscono un fondo patrimoniale che non menziona la figlia minore della donna e dell’ex convivente. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 27792/2024.

Costituzione di fondo patrimoniale da parte di terzi

I genitori di una giovane donna con atto pubblico costituiscono un fondo patrimoniale. In esso fanno confluire l’immobile di famiglia, di cui la figlia è proprietaria al 50%. L’ex compagno ricorre in giudizio per ottenere la dichiarazione di nullità dell’atto pubblico notarile con cui è stato costituito il fondo. Per l’uomo l’atto è nullo per illiceità della causa o del motivo o per mancanza del soggetto e dell’oggetto.

Il Tribunale però respinge la domanda, ma l’uomo non desiste e ricorre in appello.

La Corte dell’impugnazione questa volta accoglie le doglianze dell’ex compagno. In effetti il  tribunale ha respinto il ricorso perché ha ritenuto erroneamente che il fondo fosse stato costituito per fare fronte ai bisogni della famiglia. In realtà nell’atto costitutivo la figlia minore della coppia non è stata menzionata.

Fondo patrimoniale: famiglia nucleare non parentale

La decisione viene impugnata in sede di legittimità. Nella motivazione la Cassazione ricorda come l’accordo con cui si costituisce un fondo patrimoniale rientri tra le convenzioni matrimoniali e che i beni che lo stesso comprende siano vincolati a soddisfare i bisogni della famiglia. La SU 21.658/2009 ha però ulteriormente chiarito che il fondo patrimoniale non si riferisce alla famiglia c.d. parentale, ma alla famiglia nucleare, che comprende oltre che i coniugi anche i figli legittimi, naturali ed adottivi dei coniugi, minori e maggiorenni non autonomi patrimonialmente.” Il fondo patrimoniale può dunque costituirsi solo a beneficio di tutti i componenti della famiglia nucleare fondata sul matrimonio o sull’unione civile (ex art.1, comma 13, 1.76/2016) e i beneficiari godono di una semplice aspettativa di fatto ai proventi del fondo ed alla destinazione finale dei beni.”

Nullo se non soddisfa i bisogni della famiglia nucleare

Nel caso di specie la Corte d’appello ha accertato che nell’atto costituivo del fondo non era presente alcun riferimento alla figlia minore della coppia. Il fondo quindi non era stato costituito per fare fronte ai bisogni della famiglia nucleare. Le parti dell’atto costitutivo erano solo i genitori della donna e la stessa, ma questa opzione non è contemplata, perché non può essere costituito un fondo patrimoniale per soddisfare i bisogni di due distinte famiglie nucleari. L’unico nucleo dell’atto era quello costituito dai genitori della donna separata e dalla stessa. Per cui era privo di causa il conferimento nel fondo della quota di comproprietà che la donna aveva sulla casa coniugale, in comunione con l’ex convivente.

 

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