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Responsabilità del proprietario del fondo per danni cagionati da escavazioni La responsabilità del proprietario per i danni cagionati da escavazioni od opere realizzate nel sottosuolo ha natura colposa, ex art. 840 c.c. o carattere oggettivo, ai sensi dell’art. 2053 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini

 

La responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazioni, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo ma richiede una condotta colposa. Ne deriva che, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere, di regola, l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera. Ciò salvo che non risulti accertato che il proprietario committente, avendo – in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro. In tale ultimo caso la responsabilità dell’appaltatore verso il terzo danneggiato può aggiungersi a quella del proprietario ma non sostituirla o eliminarla (Cass., sez. II, 2 febbraio 2024, n. 3092).

La sentenza in commento risolve il problema dei rapporti tra l’art. 840 c.c. e l’art. 2053 c.c., tracciando la linea di confine tra l’intervento della responsabilità a titolo colposo del proprietario o la sua qualificazione in termini di responsabilità oggettiva.

L’art. 840 c.c. – nel riconoscere la facoltà del proprietario di realizzare escavazioni od opere nell’ambito di tutta l’estensione della proprietà e, dunque, anche nel sottosuolo – postula l’accertamento della condotta colposa del proprietario in ipotesi di evento dannoso.

L’art. 2053 c.c., secondo un criterio di imputazione oggettivo, attribuisce la responsabilità al proprietario per i danni cagionati dalla rovina di un edificio o di una costruzione, salva la prova dell’assenza di difetti di manutenzione o di vizi di costruzione (così anche Cass. 21 febbraio 2023, n. 5368).

Nella fattispecie in esame, i proprietari di un immobile danneggiato dal crollo di un muro di contenimento sotterraneo (c.d. diaframma), costruito nell’ambito dei lavori di ristrutturazione del fondo adiacente, formulavano domanda risarcitoria tanto nei confronti della ditta appaltatrice dell’opera quanto nei riguardi, in via oggettiva ai sensi dell’art. 2053 c.c., della società proprietaria del fondo danneggiante. Tale ultima domanda giudiziale si basava sul presupposto che la caduta dell’opera sotterranea integrasse la nozione di rovina di edificio, di cui alla citata norma, essendo il diaframma un’opera non provvisionale ma definitiva, la cui distruzione qualificava in termini oggettivi la responsabilità del proprietario.

Nei primi due gradi di giudizio, veniva esclusa la responsabilità della società proprietaria del fondo danneggiante ai sensi dell’art. 2053 c.c., oltre che la responsabilità del progettista dell’opera e della direzione dei lavori per ragioni probatorie.

I danni causati durante l’esecuzione dell’opera sotterranea venivano imputati, nella specie, alla sola responsabilità della ditta appaltatrice, con esclusione di un accertamento della condotta colposa del proprietario committente ex art. 840 c.c., trattandosi di lavori di opere nel sottosuolo della proprietà.

Con ricorso in Cassazione, i proprietari del fondo danneggiato hanno lamentato, tra le altre, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2053 c.c. per mancata osservanza, nel giudizio di merito, del regime di responsabilità speciale previsto dalla citata norma.

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha precisato che l’applicazione della disciplina per responsabilità colposa del proprietario ex art. 840 c.c. si applica tanto alle ipotesi di danno derivante da mera escavazione del sottosuolo quanto a quelle di realizzazione di opere sotterranee, in un’ottica di uniformità di trattamento postulato dalla norma.

Entrambe le attività sono espressione dell’esercizio di facoltà proprietarie, che incontrano il solo limite dell’impossibilità di causare danni al vicino. Se, nell’esercizio di tali facoltà, si producono danni ai vicini, in violazione del disposto di cui all’art. 840 c.c., il proprietario è obbligato al risarcimento del danno, anche in via solidale con l’impresa appaltatrice dei lavori, ove sia provata la sua ingerenza nei lavori medesimi.

Se, invece, l’evento lesivo è frutto della rovina di un edificio o di una costruzione, preesistenti o successivi all’attività di escavazione o al compimento di opere nel sottosuolo, il proprietario risponderà in via oggettiva del danno, ai sensi dell’art. 2053 c.c., prescindendo dall’eventuale condotta colposa.

La Corte ha affidato ad un momento temporale – il crollo dell’opera sotterranea durante o dopo la sua costruzione – e, dunque, all’esercizio in atto delle facoltà proprietarie il discrimen per l’applicazione dei due diversi criteri di imputazione della responsabilità del proprietario (così anche Cass. 17 ottobre 2006, n. 22226).

Nel caso di specie, il diaframma di contenimento sotterraneo, costruito per evitare movimentazione di terreno durante l’attività di ristrutturazione, si configura come un’opera, se non provvisionale, priva di autonomia funzionale. Correttamente, pertanto, il Giudice di merito ha fatto applicazione del criterio di imputazione soggettivo di cui all’art. 840 c.c. – e non di quello oggettivo di cui all’art. 2053 c.c. – e del correlato principio per cui la responsabilità del proprietario-committente esige l’accertamento, non configurato nella specie, della condotta di ingerenza colposa nei lavori appaltati.

Contributo in tema di “Responsabilità del proprietario del fondo”, a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

sospeso l'avvocato

Sospeso l’avvocato che si appropria del denaro del cliente La Cassazione conferma la sospensione dalla professione per due anni nei confronti dell'avvocato che si appropria delle somme del cliente

Illecito permanente avvocato

Sospeso l’avvocato che si appropria delle somme del cliente: l’illecito, ribadiscono le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 26374/2024, confermando la sospensione dalla professione per due anni, ha natura permanente.

La vicenda

Nella vicenda, alcuni soggetti segnalavano al competente Ordine professionale di essersi rivolti all’avvocato in questione per essere assistiti nella controversia avente ad oggetto il risarcimento del danno da essi sofferto in conseguenza della morte del rispettivo figlio e fratello in un sinistro stradale.

L’avvocato aveva incassato per conto loro la somma versata dalla compagnia assicuratrice tacendo la circostanza e intascando il denaro.

Veniva avviato procedimento disciplinare che si concludeva con l’irrogazione all’incolpato della sanzione della sospensione per due anni. La decisione veniva impugnata innanzi al CNF il quale rigettava il gravame.

L’avvocato impugnava quindi la decisione innanzi alla Cassazione con un ricorso fondato su un unico motivo.

Il ricorso

Nell’illustrazione del motivo, l’avvocato sosteneva che l’illecito disciplinare era stato commesso nel 2011, per cui esso era soggetto alle previsioni del codice deontologico vigente ratione temporis, le cui previsioni erano più favorevoli per l’incolpato rispetto alle corrispondenti previsioni del codice deontologico vigente al momento della decisione.

In particolare, il ricorrente sosteneva che “rispetto alla contestazione di violazione del dovere di corretta gestione del denaro del cliente, il codice deontologico attuale è più sfavorevole del precedente perché questo prevede la sospensione fino a tre anni, mentre quello non prevedeva espressamente una sanzione predeterminata”. Inoltre, che, “rispetto alla contestazione di violazione del dovere di informare il cliente, il codice deontologico attuale è più sfavorevole del precedente sia per le medesime ragioni appena indicate, sia perché qualifica quello di informazione come ‘dovere’, invece che come ‘obbligo'”.

La decisione

Per gli Ermellini, però, il ricorso è manifestamente infondato per due indipendenti ragioni.
La prima ragione è l’erroneità del presupposto di diritto da cui muove il ricorrente: ovvero che, avendo egli commesso il contestato illecito nel 2011, è a tale momento che occorre fare riferimento per individuare la disciplina applicabile ratione temporis.

La censura, osservano infatti dal Palazzaccio, “non tiene conto del fatto che una delle condotte ascritte a titolo di illecito disciplinare all’odierno ricorrente (non restituire il denaro incassato per conto dei clienti) è un illecito permanente”.

Come già stabilito dalla giurisprudenza precedente, aggiungono i giudici, “l’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che si appropria di una somma di denaro destinata a un suo cliente ha natura permanente e la sua consumazione si protrae, in mancanza di restituzione, fino alla decisione disciplinare di primo grado” (così Cass. SS.UU. n. 23239/2022). Di conseguenza, la disciplina applicabile andava individuata in base al momento di cessazione della permanenza, non in base al momento di inizio della stessa.
La seconda ragione di infondatezza del ricorso, concludono dalla S.C. rigettando in toto le doglianze dell’avvocato, “è che il codice deontologico del 1997 puniva la violazione degli obblighi in tema di informazione del cliente e gestione del denaro altrui senza fissare la misura o il tipo della sanzione (art. 41 cod. deont. del 1997)”. Dunque, “in modo meno favorevole rispetto al codice deontologico del 2014, del quale pertanto correttamente fu fatta applicazione nel caso di specie, ai sensi dell’art. 65 d.lgs. 247/12”.

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coerede risponde dei debiti

Coerede risponde dei debiti solo per la sua quota Per la Cassazione, il coerede deve rispondere pro quota dei debiti del cuius in presenza di altri eredi o di un litisconsorzio

Coerede: risponde pro quota dei debiti del defunto

Il coerede deve rispondere dei debiti ereditari pro-quota o come litisconsorte in presenza di altri coeredi. Se però questa qualità sopravviene durante il processo introdotto nei confronti del de cuius tra i coeredi si realizza un litisconsorzio necessario. Deve quindi applicarsi l’art. 754 c.c, che prevede che ogni coerede risponda dei debiti nei limiti della propria quota ereditaria. Questo in sintesi il principio sancito dalla Cassazione nella sentenza n. 26833/2024.

Decreto ingiuntivo e pagamento pro quota a carico degli eredi

Una S.p.a chiede e ottiene un decreto ingiuntivo per ottenere il pagamento pro-quota a carico degli eredi del debitore di 139.697,07 euro oltre interessi. La somma è dovuta a titolo di anticipazione su crediti in conto corrente per obbligazioni contratte dalla fallita S.n.c, dal suo amministratore e dal suo fideiussore.

Opposizione al decreto: coerede con beneficio di inventario

Gli eredi si oppongono al decreto, dichiarando di aver accettato l’eredità con beneficio di inventario. La S.p.a però, nel costituirsi in giudizio, chiede il rigetto delle opposizioni ed eccepisce che l’accettazione è intervenuta tardivamente, perché gli eredi erano già nel possesso dei beni. In ogni caso, anche qualora l’accettazione con beneficio sia intervenuta tempestivamente, gli eredi sono ormai decaduti dal beneficio. Gli stessi infatti non hanno iniziato la procedura nel termine dei tre mesi dal decesso, come previsto dalla legge.

Succede poi che nel corso del giudizio un altro debitore viene a mancare. Gli eredi portano avanti la causa con atto di costituzione volontaria, ma uno degli eredi rinuncia alla propria quota.

Il Tribunale istruisce la causa, accoglie in parte le opposizioni, revoca il decreto ingiuntivo opposto e condanna gli opponenti al pagamento della somma di 94.718,41 euro e della somma di euro 37.029,96 per sconto delle cambiali presentate. Gli eredi di uno dei debitori devono considerarsi accettanti l’eredità con beneficio di inventario perché non decaduti dallo stesso.

Appello: mancata notifica a tutti gli eredi

La società appella la decisione sollevando tre motivi di doglianza, ma gli eredi eccepiscono che l’appello non è stato notificato a tutti gli eredi dei debitori. La sentenza quindi deve considerarsi passata in giudicato nei confronti di questi eredi e l’effetto favorevole della limitazione di responsabilità derivante dal beneficio di inventario deve estendersi agli altri eredi. La corte d’appello però rigetta l’impugnazione e conferma integralmente la sentenza di primo grado.

Litisconsorzio necessario anche se ogni erede risponde pro quota

La società soccombente contesta la decisione della corte d’appello ricorrendo in Cassazione. La società con il primo motivo di impugnazione denuncia la violazione degli articoli 102 e 331 c.p.c per error in procedendo. La sentenza inoltre è nulla per omessa integrazione del contraddittorio e falsa applicazione dell’articolo 752 c.c. La Corte ha infatti escluso una situazione di litisconsorzio necessario, richiamando il principio secondo il quale ogni erede è tenuto a soddisfare i debiti ereditari pro quota anche se l’oggetto del contendere è rappresentato dall’accertamento della circostanza relativa alla qualità di erede puro e semplice o beneficiato. Dopo il decesso si è creata una situazione di litisconsorzio necessario. La corte d’appello però ha negato questa condizione in virtù del principio per il quale ogni erede risponde dei debiti pro quota, anche se l’oggetto del contendere è rappresentato dalla necessità di accertare le qualità di eredi puri e semplici (per aver proceduto tardivamente all’accettazione o per essere decaduti dal beneficio) o beneficiati.

Coerede obbligato pro quota

La Cassazione accoglie il primo motivo perché fondato. Assorbiti tutti gli altri.

Gli Ermellini precisano che il coerede convenuto in giudizio per il pagamento di un debito ereditario deve eccepire la propria qualità di obbligato pro-quota in presenza di altri coeredi. Qualora tale qualità sopravvenga nel corso di un processo introdotto in origine nei confronti del de cuius, tra i coeredi si instaura un litisconsorzio necessario processuale. Va quindi applicata la regola di quell’articolo 754 c.c. secondo la quale ciascuno degli eredi risponde nei confronti del creditore nei limiti della propria quota ereditaria. Nel caso di specie la morte di uno dei debitori si è verificata in corso di causa. Tale evento interruttivo ha determinato la trasmissione della legittimazione processuale attiva e passiva agli eredi, che si sono trovati in una posizione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali. In fase di appello doveva  essere ordinata d’ufficio l’integrazione del contraddittorio nei confronti di chi non si era costituito nel giudizio di gravame a differenza degli altri eredi.

 

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bannati dai social

Bannati dai social? In arrivo l’Appeals Center Europe I bannati dai social come Facebook, Tik Tok e YouTube da dicembre potranno rivolgersi all’Appeals Center Europe

Per i bannati dai social arriva il Centro Europeo per le controversie

I bannati dai social potranno rivolgersi all’Appeals Center Europe, il Centro Europeo per le controversie. Questo organo di controllo dei social media, che sarà operativo da dicembre 2024, ha ricevuto l’ok per essere certificato come piattaforma dell’Unione Europea per la gestione dei reclami.

Il Centro dovrà esaminare le decisioni delle piattaforme e verificare la loro conformità alle politiche interne dei social e il rispetto contestuale dei diritti umani. All’inizio il Centro si occuperà di monitorare le dispute interne all’Unione Europea che riguarderanno You Tube, Facebook  e Tik Tok. Con il tempo però c’è l’intenzione di ampliare le competenze di questo organismo.  Il tutto in base a quanto previsto dal Digital Service Act, contenuto nel Regolamento Europeo 2022/2065.

Primo step: gestione interna dei reclami

L’utente bannato, infatti, ai sensi dell’articolo 20 del Regolamento UE, in prima battuta, può opporsi ad esempio al provvedimento di espulsione dalla piattaforma social, presentando un reclamo alla stessa. L’articolo 20 del Digital Service Act prevede infatti che i fornitori di piattaforme online forniscano ai destinatari del servizio, comprese le persone o gli enti che hanno presentato una segnalazione, per un periodo di almeno sei mesi dalla decisione di cui al presente paragrafo, l‘accesso a un sistema interno di gestione dei reclami efficace, che consenta loro di presentare per via elettronica e gratuitamente reclami contro la decisione presa dal fornitore della piattaforma online all’atto del ricevimento di una segnalazione o contro le seguenti decisioni adottate dal fornitore della piattaforma online.” 

Reclamo respinto: organismo extragiudiziale di risoluzione delle controversie

Il reclamo, una volta inoltrato, può essere accolto o respinto. In questo secondo caso l’utente ha un’altra possibilità per contestare la decisione. L’articolo 21 del Regolamento UE 2022/2065 prevede infatti che coloro che abbiano presentato segnalazioni e che siano stati destinatari delle decisioni assunte dal sistema interno di gestione dei reclami della piattaforma, possano rivolgersi a un organismo di risoluzione extragiudiziale delle controversie.

In questo modo l’utente può appellare la decisione che ha respinto il reclamo davanti a un organismo certificato.

La piattaforma potrà rifiutarsi di adire l’organismo se la controversia è già stata risolta.

L’utente però ha ancora una carta da giocarsi se in sede stragiudiziale il suo reclamo non viene preso in considerazione o respinto. Il comma 3 dell’art. 21 del regolamento prevede infatti che resta impregiudicato il diritto del destinatario del servizio in questione di avviare, in qualsiasi fase, procedimenti per contestare tali decisioni da parte dei fornitori di piattaforme online dinanzi a un organo giurisdizionale conformemente al diritto applicabile.”

 

Leggi: Stalking su Facebook: bastano due post

giurista risponde

Diritto alla provvigione del mediatore e rilevanza della veste giuridica dell’affare In caso di conclusione di un negozio diverso da quello per cui l’incarico di mediazione era stato conferito ma avente il medesimo spostamento patrimoniale come risultato finale, il mediatore ha comunque diritto alla provvigione?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

Il mediatore ha diritto alla provvigione ove le parti concludano l’affare, senza che possa assumere rilievo la veste giuridica da costoro prescelta, ma solo il raggiungimento dello scopo economico, per perseguire il quale esse avevano dato incarico al mediatore (Cass. 20 giugno 2024, n. 16973).

Tizio, nella qualità di rappresentante legale della società a responsabilità limitata alfa, ha conferito alla società beta l’incarico di adoperarsi per la vendita di un immobile avente un prezzo soglia minima. Ricevuta un’offerta inferiore e poi declinata, la società alfa ha ceduto il proprio intero patrimonio alla società gamma il cui amministratore era il coniuge del primo offerente, al fine di assicurare la cessione immobiliare con un risparmio fiscale.

Di fronte al rifiuto di corrispondere la provvigione, la società mediatrice beta ha citato in giudizio le parti alienanti e acquirenti, nonché i relativi rappresentanti legali.

Il tribunale di primo grado rigettò tuttavia la domanda traendo spunto dalla natura ontologicamente diversa dell’affare concluso (cessione di quote sociali) rispetto a quello per cui era stato l’incarico di mediazione (vendita del bene), nonostante il patrimonio della società venditrice fosse costituito solo da questo.

A seguito di impugnazione proposta dalla società beta, la Corte di Appello ha dato atto della raggiunta mediazione tra gli appellanti e la società alfa, condannando questi ultimi al pagamento di una somma pecuniaria; le argomentazioni proposte dai giudici di secondo grado hanno riguardato, ex multis, la continuità tra il soggetto che aveva partecipato alle trattative e quello stipulante, il rapporto di causalità tra l’opera del mediatore e la conclusione dell’affare, nonché l’effetto esclusivo di ottenere un risparmio fiscale attraverso la cessione immobiliare per quote societarie.

Adita la Corte di Cassazione, i giudici si sono espressi nel seguente modo:

–   in primo luogo, gli effetti degli atti compiuti dal rappresentante legale ricadono sulla società rappresentata organicamente, specie se dotata di piena autonomia patrimoniale e personalità giuridica; purtuttavia, i giudici di prime cure non hanno propriamente esaminato se il legale rappresentante avesse agito anche nell’interesse proprio o si sia mosso ingenerando nel terzo il legittimo affidamento che lo stesso incaricando della vendita di un bene nella propria signoria e piena disponibilità, al fine di escluderne la personale responsabilità dell’agente;

–   in secondo luogo, viene ribadito che “il diritto del mediatore alla provvigione consegue alla conclusione dell’affare, mentre non rileva che questo sia concluso dalle medesime parti ovvero da parti diverse da quelle cui è stato proposto, purché vi sia un legame, anche se non necessariamente di rappresentanza, tra la parte originaria – che resta debitrice nei confronti del mediatore, per avere costei avuto rapporti con lo stesso – e quella con cui è stato successivamente concluso, tale da giustificare, nell’ambito dei reciproci rapporti economici, lo spostamento della trattativa o la stessa conclusione dell’affare su un altro soggetto”; infatti, l’art. 1755 c.c. parla di “affare” e non di “contratto” stante che il diritto al compenso non è condizionato dalla corrispondenza tra il contratto prospettato con l’incarico e quello attraverso il quale è stato reso possibile il regolamento dei privati interessi, bensì dal raggiungimento dello scopo economico per la persecuzione del quale la parte aveva dato incarico al mediatore. La condizione per cui il predetto diritto possa sorgere è l’identità dell’affare proposto con quello concluso senza che assuma rilevanza il caso in cui le parti sostituiscano altri a sé nella stipulazione finale, ovvero che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle trattative e quello che ne prende il posto, e che la conclusione dell’affare sia collegabile al contratto determinato dal mediatore tra le parti originarie, tenute comunque al pagamento della provvigione, senza che assumano rilevanza le forme giuridiche mediante le quali l’affare medesimo è concluso.

In conclusione, rigettando il ricorso, la Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio di diritto:

Il mediatore ha diritto alla provvigione ove le parti concludano l’affare, senza che possa assumere rilievo la veste giuridica da costoro prescelta, ma solo il raggiungimento dello scopo economico, per perseguire il quale esse avevano dato incarico al mediatore”.

(*Contributo in tema di “Diritto alla provvigione del mediatore e rilevanza della veste giuridica dell’affare”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

animali domestici e separazione

Animali domestici e separazione: senza accordo a chi spettano? Animali domestici e separazione: cosa accade in caso di mancato accordo? Chi e come decide il loro destino

In caso di separazione cosa succede agli animali domestici?

Animali domestici e separazione sono i due termini di un problema spesso difficile da risolvere. Quando una coppia si separa può litigare perché entrambi si contendono lo stesso animale o perché al contrario, nessuno dei due vuole assumersi gli stessi impegni del matrimonio una volta riacquistata la propria libertà. Cosa fare in questi casi? Tutto dipende dal percorso di separazione che le parti hanno deciso di intraprendere.

Separazione consensuale e animali domestici

Nel caso in cui i coniugi abbiano optato per una separazione consensuale, con l’assistenza dei loro avvocati e tanta buona volontà possono inserire nell’accordo anche le condizioni di assegnazione dell’animale domestico, la suddivisione delle spese di cura, mantenimento e dei compiti quotidiani di accudimento.

In questo caso il giudice non farà altro che omologare l’accordo e la questione, anche se modificabile, in futuro, può dirsi temporaneamente risolta.

Animali domestici e separazione giudiziale: la decisione al giudice?

Le cose cambiano quando la separazione è conflittuale e i coniugi sono protagonisti di una separazione giudiziale. In questo caso è molto difficile che il Tribunale prenda una posizione sugli animali domestici.

In Italia però ci sono stati dei Tribunali che hanno preso decisioni coraggiose su questo tema.

Il tribunale di Cremona ad esempio ha optato per l’affido condiviso di un cane e la conseguente suddivisione a metà delle spese per il mantenimento dell’animale.

Il Tribunale di Foggia invece ha stabilito l’assegnazione esclusiva di un cane a uno dei coniugi, riconoscendo all’altro un diritto di visita regolare.

Il Tribunale di Sciacca infine ha deciso di assegnare il gatto di casa a un coniuge e il cane a entrambi, senza tenere conto dell’intestazione risultante dal microchip.

In questa decisione il criterio discriminante è stata la valutazione della capacità dei soggetti  coinvolti di garantire il miglior sviluppo e le migliori condizioni di cura all’animale.

Animali domestici: l’affidamento segue l’interesse dei figli

Nel rispetto di quanto stabilito dal Codice civile in caso di separazione giudiziale, il Giudice potrebbe rifarsi però anche a un altro criterio per stabilire le sorti dell’animale domestico.

In una famiglia con figli gli animali spesso e volentieri vengono acquistati o adottati soprattutto se sono presenti dei bambini. Il Giudice deve quindi indagare, prima di tutto, quale tipo di rapporto lega l’animale di casa ai figli. Il Tribunale infatti quando assume le decisioni che riguardano la coppia in presenza di figli minori, deve tenere conto dell’interesse primario di questi ultimi, per cui se i bambini sono particolarmente affezionati all’animale, allora il giudice, nel loro interesse morale e materiale può decidere di assegnare l’animale al genitore a cui vengono anche assegnati i figli.

Benessere dell’animale domestico

Un altro criterio però che può far propendere il giudice per l’affidamento di un animale a uno solo dei due coniugi è rappresentato dal benessere dell’animale. Chi dei due per spazio, tempo e possibilità è in grado di garantire un maggior benessere all’animale? Anche in questo caso la proprietà formale dell’animale viene messa in secondo piano per dare priorità al pet, alle sue esigenze fisiche e psicologiche.

Se poi l’animale è affezionato a entrambi, i coniugi se ne occupano con la stessa amorevole attenzione, la custodia a settimane alterne o a giorni alterni potrebbe essere la soluzione migliore. In questo modo  infatti l’animale manterrebbe il contatto con entrambe le figure di riferimento.

La custodia condivisa ovviamente deve includere tutti gli aspetti di vita dell’animale, dalle vacanze, alle cure mediche, dall’alimentazione alle passeggiate quotidiane. In questi casi è importante anche definire a priori chi, in caso di difficoltà o impossibilità di gestire l’animale, se ne deve occupare.

La mediazione per gestire i conflitti

La mediazione è una procedura stragiudiziale di risoluzione delle controversie che può risultare molto utile in caso di conflitti che hanno per protagonisti gli animali domestici. Il percorso si basa sulla collaborazione delle parti e sulla guida di un mediatore, che è un soggetto terzo, ed estraneo che, in caso di difficoltà, può intervenire con una proposta conciliativa soddisfacente per entrambi. In sede di mediazione è possibile anche avvalersi dell’aiuto e dell’esperienza di consulenti come veterinari ed esperti del comportamento. Se le parti hanno a cuore il benessere dell’animale non avranno problemi a seguire le indicazioni sull’ambiente e sulla persona più adatta a prendersi cura dell’amato pet.

 

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compravendite immobiliari

Compravendite immobiliari: compenso del mediatore fuori dal rogito Compravendite immobiliari: il ddl lavoro elimina l'obbligo di indicare l'importo sostenuto per la mediazione

Compravendite immobiliari: la novità del ddl lavoro

Le compravendite immobiliari stanno per subire una piccola rivoluzione, in virtù di una modifica del ddl lavoro n. 1264, ora al Senato, in attesa dell’approvazione definitiva, dopo il sì della Camera. Il testo del “collegato lavoro”, tra le tante novità, prevede infatti una modifica sul contenuto del rogito all’articolo 22.

L’unico comma della norma prevede infatti che: “1. All’articolo 35, comma 22, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, la lettera d) è sostituita dalla seguente: «d) lammontare della spesa sostenuta per tale attività o, in alternativa, il numero della fattura emessa dal mediatore e la corrispondenza tra limporto fatturato e la spesa effettivamente sostenuta nonché, in ogni caso, le analitiche modalità di pagamento della stessa.»

Contesto normativo della modifica

La norma, così isolata non appare molto chiara nel suo significato. Occorre infatti analizzare il contesto in cui è inserita. La nuova disposizione va infatti a modificare il comma 22 dell’art. 35 della legge n. 223/2006 contenente le Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale.”

Ed è proprio nel capo dedicato al contrasto all’evasione fiscale che si inserisce l’articolo 35 della legge, che nella prima parte del comma 22 dispone All’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad IVA, le parti hanno l’obbligo di rendere apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo. Con le medesime modalità, ciascuna delle parti ha l’obbligo di dichiarare:

  1. se si è avvalsa di un mediatore e, nell’ipotesi affermativa, di fornire i dati identificativi del titolare, se persona fisica, o la denominazione, la ragione sociale ed i dati identificativi del legale rappresentante, se soggetto diverso da persona fisica, ovvero del mediatore non legale rappresentante che ha operato per la stessa società;
  2. il codice fiscale o la partita I.V.A.;
  3. il numero di iscrizione al ruolo degli agenti di affari in mediazione e della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di riferimento per il titolare ovvero per il legale rappresentante o mediatore che ha operato per la stessa società;
  4. l’ammontare della spesa sostenuta per tale attività e le analitiche modalità di pagamento della stessa.”

Ratio della modifica relativa alle compravendite immobiliari

L’articolo 22, introdotto alla Camera dei deputati interviene sulla disciplina che riguarda la dichiarazione dei dati dell’attività di mediazione, che viene svolta quando si verifica la cessione di beni immobili. Nella sua formulazione originaria ciascuna delle parti deve dichiarare, come previsto dalla lettera d) la spesa sostenuta per l’attività di mediazione e le analitiche modalità di pagamento.

La nuova formulazione della lettera d) permette invece alle parti di dichiarare la somma sostenuta per l’attività di mediazione indicando solo il numero della fattura emessa dal mediatore e la corrispondenza tra l’importo fatturato e la spesa sostenuta effettivamente. Resta solo l’obbligo di indicare nel dettaglio le modalità di pagamento.

La modifica, apparentemente di poco conto, soddisfa le richieste dei mediatori di vedere tutelata la loro privacy e quella del cliente. Il venir meno dell’obbligo di indicare nel rogito l’importo della provvigione del mediatore tutela in effetti la libera contrattazione tra cliente e mediatore. La controparte in questo modo non può conoscere questo dato, che in effetti non lo riguarda. Il mediatore deve essere infatti libero di applicare importi diversificati ai clienti. La sola indicazione del numero della fattura relativa all’attività di mediazione inoltre azzera praticamente il rischio di evasione, soprattutto dopo l’introduzione della fattura elettronica.

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Decreto ingiuntivo: titolo inoppugnabile per ammissione al passivo Decreto ingiuntivo: inoppugnabile per l’ammissione al passivo se il giudizio si è estinto e sono decorsi i 10 giorni per il reclamo

Decreto ingiuntivo opposto e ammissione al passivo

Il decreto ingiuntivo opposto acquisisce efficacia di giudicato sostanziale e diventa titolo idoneo per l’ammissione al passivo del fallimento a condizione che il giudizio di opposizione si sia estinto e nel momento in cui viene emessa la sentenza di fallimento, il termine di 10 giorni per proporre il reclamo verso l’ordinanza di estinzione sia già decorso. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 22125/2024.

Titolo inidoneo se diventa definitivo dopo il fallimento

Una banca vorrebbe partecipare alla distribuzione della somma ricavata dalla vendita dei beni immobili che la debitrice fallita ha ceduto a un’altra società fallita. Sui beni immobili la banca aveva iscritto un’ipoteca giudiziale in virtù di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo. Il giudice del fallimento ritiene rituale la domanda avanzata dalla banca. Costui però la respinge perché l’ipoteca si fonderebbe su un decreto ingiuntivo, che è stato dichiarato esecutivo in via definitiva dopo il fallimento delle due società, quella cedente e quella cessionaria.  

Decreto ingiuntivo definitivo dopo il fallimento: ipoteca inopponibile

La banca presenta la sua opposizione al fallimento ai sensi dell’art. 98 della legge fallimentare. Il Tribunale però la respinge per due ragioni.

  • Il titolare di ipoteca non può avvalersi del procedimento di verifica del passivo nella procedura fallimentare. Occorre instaurare un contraddittorio con il debitore e far valere il suo diritto nelle modalità previste dagli articoli 602-604 c.p.c.
  • L’ipoteca giudiziale non è opponibile al fallimento perché il decreto è diventato esecutivo in via definitiva dopo il fallimento.

Titolo definitivo dopo l’estinzione dell’opposizione

La banca ricorre quindi in Cassazione per contestare le ragioni del rigetto.

Nel primo motivo precisa di aver presentato una domanda di partecipazione al riparto di quanto ricavato dalla vendita degli immobili.

Con il secondo motivo invece chiarisce che il decreto ingiuntivo è diventato esecutivo in via definitiva dopo l’estinzione del giudizio di opposizione a causa della mancata riassunzione del giudizio da parte del curatore fallimentare.

Decreto ingiuntivo, giudicato sostanziale e ammissione al passivo

La Corte, nel respingere il primo motivo di doglianza richiama la Cassazione a sezioni unite n. 8557/2023 e i principi in essa sanciti ossia che “i creditori titolari di un diritto di ipoteca o di pegno sui beni compresi nel fallimento costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito (…) possono (…)  intervenire nel procedimento fallimentare in vista della ripartizione dell’attivo, per richiedere di partecipare alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dei beni compresi nella procedura che sono stati ipotecati o pignorati in loro favore.” 

Nell’accogliere il secondo motivo invece la Cassazione spiega che il decreto ingiuntivo della banca ricorrente è divenuto definitivo nei confronti della debitrice principale con la sentenza con cui il tribunale ha dichiarato estinto il giudizio di opposizione, prima della dichiarazione di fallimento della società a cui la debitrice principale aveva ceduto i propri immobili a cui quindi doveva ritenersi opponibile.

Decreto ingiuntivo opposto dal debitore fallito

L’ordinanza n. 9933/2018 della Cassazione sul punto aveva precisato che: il decreto ingiuntivo che sia stato opposto dal debitore poi fallito è opponibile alla massa fallimentare, a condizione che sia stata pronunciata sentenza di rigetto dell’opposizione, ovvero ordinanza di estinzione, divenute non più impugnabili – per decorso del relativo termine – prima della dichiarazione di fallimento, restando irrilevante che con i detti provvedimenti sia stata dichiarata l’esecutorietà del decreto monitorio, ex art. 653 c.p.c., ovvero che sia stato pronunciato, prima dell’apertura del concorso tra i creditori, il decreto di esecutività di cui all’art. 654 c.p.c.” 

Alla luce di questa e di altre decisioni  ribadisci Ermellini sanciscono infine che “il decreto ingiuntivo, in caso di opposizione, acquista efficacia di giudicato sostanziale idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo, purché il relativo giudizio si sia estinto e, al momento della sentenza di fallimento, sia già decorso il termine di dieci giorni per proporre reclamo avverso l’ordinanza di estinzione.”

 

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cid digitale

CID digitale: sostituirà quello cartaceo? Un CID digitale in sostituzione di quello cartaceo. E' la proposta dell'IVASS ma associazioni e periti segnalano le problematiche

Arriva il CID digitale

Il CID digitale rimpiazzerà quello cartaceo? Al momento non c’è nulla di certo, è solo un’ipotesi. L’Ivass sta pensando di apportare questa modifica in sede di revisione del regolamento Isvap n. 13/2008. In questo modo non sarebbe più necessario compilare il modulo blu cartaceo. La denuncia di sinistro potrà essere effettuata avvalendosi di applicazioni mobile o web.

L’obiettivo è quello di semplificare la normativa e di renderla omogenea rispetto alla dematerializzazione del contrassegno e alla digitalizzazione di diversi documenti assicurativi.

CID Digitale: le associazioni dei consumatori e i periti dicono no

Le associazioni dei consumatori, ma anche i periti assicurativi non ritengono che il CID digitale sia una novità da accogliere con favore. Essi riscontrano infatti numerosi rischi nell’adozione del CID digitale. A preoccupare è soprattutto la tutela della privacy. In presenza di feriti potrebbe essere necessario inserire nel modulo i dati sensibili di natura sanitaria di questi soggetti.

C’è però un altro problema, di non poco conto. In Italia il modulo blu è documento molto utile perché  se viene firmato da tutti i soggetti coinvolti nel sinistro significa che tutti concordano sulla dinamica del sinistro. In questo modo le assicurazioni hanno la possibilità di gestire il sinistro in tempi decisamente più rapidi. Qualora dovesse essere introdotto il CID digitale il rischio è che, in caso di sinistro, soggetti poco “tecnologici” si scoraggino e non si dimostrano disponibili a firmare l’accordo sulla dinamica.

Anche i periti hanno manifestato gli stessi dubbi. I periti che fanno parte dell’Aiped (Associazione nazionale periti estimatori danni) ritengono che a oggi non tutti gli utenti della strada hanno le competenze necessarie per poter utilizzare un’applicazione. Quando si verifica un sinistro, nessuno dei soggetti coinvolti dovrebbe trovarsi in una condizione di svantaggio rispetto agli altri solo perché ha una minore competenza digitale.

CID digitale: meglio la doppia opzione

Le associazioni, alla luce di tutti i dubbi sollevati sul possibile inserimento del CID digitale, propongono la doppia opzione. Le assicurazioni devono essere obbligate a consegnare al cliente il modulo di constatazione amichevole in formato cartaceo. Il CID digitale dovrebbe rappresentare solo un’opzione, ma dovrebbe essere fornito da un terzo soggetto, per evitare che, qualora il cliente cambi compagnia, sia costretto a scaricare  una nuova e diversa applicazione.

Non si può trascurare inoltre il fatto che un applicazione scaricata sul telefono potrebbe presentare problemi a causa della mancata copertura. Il contraente dovrebbe essere lasciato libero, nell’immediatezza di un sinistro, ossia in un momento impegnativo anche dal punto di vista emotivo, di scegliere il metodo che lo faccia sentire più a suo agio.

CID o CAI? Facciamo chiarezza

Il vecchio CID, acronimo di Convenzione Indennizzo Diretto, noto anche come modulo blu, è un termine che viene ancora utilizzato, ma in modo improprio. Il modulo di cui stiamo parlando in realtà è il CAI, acronimo di Constatazione Amichevole di Incidente, che ha preso il posto del vecchio CID.

Leggi anche: Constatazione amichevole di incidente: il modello CAI

vendita con riserva

Vendita con riserva o rent to buy: quale scegliere Vendita con pagamento dilazionato del prezzo, quale istituto prediligere: la vendita con riserva della proprietà o il rent to buy?

Rent to buy e vendita con patto di riservato dominio

Il rent to buy e la vendita con patto di riservato dominio sono soluzioni che consentono all’acquirente di acquistare un immobile senza dover affrontare un esborso iniziale elevato.

Il rent to buy

Il rent to buy è un istituto di derivazione anglosassone che è stato definitivamente disciplinato dall’art. 23 del d.l. n. 133/2014 (decreto c.d. “Sblocca Italia”). Tale istituto prevede che il proprietario dell’immobile conceda in godimento l’immobile a fronte del pagamento di un canone, con possibilità per il conduttore di esercitare il suo diritto di acquisto nei termini convenuti. Le parti dovranno, dunque, espressamente prevedere la quota del canone che sarà imputata a titolo di corrispettivo per il godimento del bene e la quota di canone che, invece, sarà destinata al prezzo dell’eventuale acquisto.

La vendita con riserva di proprietà

La vendita con riserva di proprietà, anche definita vendita con patto di riservato dominio, è disciplinata dagli articoli 1523 e seguenti del Codice civile. Tale istituto prevede che l’acquirente possa godere dell’immobile sin della sottoscrizione del contratto e che il passaggio di proprietà in favore dell’acquirente avvenga al pagamento dell’ultima rata.

Le differenze

Tra i due istituti vi sono alcune differenze sostanziali:

  • La prima differenza riguarda la facoltà/obbligo di acquisto. Nel rent to buy il conduttore ha la facoltà, ma non l’obbligo, di acquistare l’immobile al termine del periodo di locazione. Nella vendita con riserva di proprietà, invece, il passaggio di proprietà avviene ‘automaticamente’ al momento del pagamento integrale del prezzo.
  • La seconda differenza riguarda la ‘gravità’ dell’inadempimento che legittimerebbe la risoluzione. Nel rent to buy, la risoluzione può essere determinata dal mancato pagamento di un numero minimo di canoni, liberamente stabilito dalle parti, non inferiore ad 1/20. Nella vendita con patto di riservato dominio la risoluzione può essere determinata unicamente dal mancato pagamento di una rata superiore ad 1/8 del corrispettivo.
  • In caso di risoluzione per inadempimento, inoltre, le conseguenze sono diverse. Nel rent to buy, in caso di inadempimento del conduttore, il venditore può trattenere tutti i canoni pagati del conduttore a qualsiasi titolo imputati. Tuttavia, è importante sottolineare che nelle ipotesi di inadempimento non rientra il mancato esercizio del diritto di acquisto da parte del conduttore, in quanto questo è un diritto e non un obbligo.

Nella vendita con riserva di proprietà, ai sensi dell’articolo 1526 c.c., il venditore è tenuto a restituire le rate di prezzo riscosse, salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso del bene e per il risarcimento del danno, che potrà essere ridotto ad equità dal giudice.

Sul punto, l’articolo 1526, comma 3, c.c. estende l’ipotesi di riduzione ad equità della penale a tutti i casi in cui il contratto sia configurato come una locazione, e sia convenuto che, al termine di esso, la proprietà della cosa sia acquisita dal conduttore per effetto del pagamento dei canoni.

A tal proposito, per non figurare l’esclusivo intento della vendita, con conseguente riduzione della penale, appare ragionevole evitare che la quota del canone imputata a corrispettivo non si discosti troppo dal valore di mercato del bene e che la quota imputata a godimento sia conforme ai canoni medi di locazione.

Di conseguenza, solo la valutazione dell’intera operazione complessiva e della causa in concreto consente di stabilire se le parti vogliono realizzare un rent to buy o una vendita sotto forma di locazione.

Scelta in base alle intenzioni delle parti

In conclusione, la scelta tra rent to buy e vendita con patto di riservato dominio dipende principalmente dalle intenzioni delle parti coinvolte:

  • se l’acquirente desidera una maggiore flessibilità, senza l’obbligo di acquistare l’immobile e con la possibilità di recuperare almeno una parte dei pagamenti, il rent to buy potrebbe essere la soluzione preferibile;
  • se, invece, le parti desiderano una vendita definitiva, ma con la possibilità di dilazionare il pagamento, dove il passaggio di proprietà avviene automaticamente al completamento del pagamento del prezzo, la vendita con riserva di proprietà – sebbene presenti il rischio per il venditore di riduzione ad equità della penale – appare l’istituto più adatto.

In generale, il rent to buy potrebbe risultare più vantaggioso per l’acquirente che non è completamente sicuro di voler acquistare l’immobile, mentre la vendita con riserva di proprietà potrebbe essere la soluzione più indicata quando l’intenzione è quella di procedere ad un acquisto definitivo, anche se dilazionato nel tempo.

 

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