conferenza di servizi

La conferenza di servizi La conferenza di servizi: istituto di semplificazione dell’attività amministrativa, tipologie e modalità decisorie

Cos’è la conferenza di servizi

La conferenza di servizi è un istituto giuridico di diritto amministrativo finalizzato a semplificare l’attività della pubblica amministrazione.

Normativa di riferimento

La normativa di riferimento base della conferenza di servizi è la legge n. 241/1990, riformata nel corso degli anni da numerosi interventi legislativi, tra i quali occorre segnalare:

  • la legge n. 15/2015, che ha previsto l’opzione di svolgere le conferenze di servizi in modalità telematica;
  • la legge Madia n. 124/2015, attuata dall’articolo 1 del decreto legislativo n. 127/2016, che ne ha riformato la disciplina.

Conferenza di servizi: tipologie

L’art. 14 della legge n. 241/1990 contiene la disciplina di diverse conferenze di servizi:

  • la conferenza di servizi istruttoria;
  • la conferenza di servizi decisoria;
  • la conferenza preliminare.

Analizziamo in breve le diverse tipologie di conferenze di servizi

Conferenza di servizi istruttoria

La conferenza di servizi istruttoria può essere convocata dall’amministrazione che gestisce il procedimento, o su richiesta di un’altra amministrazione o di un privato, quando lo ritenga necessario. L’obiettivo principale è quello di esaminare contemporaneamente gli interessi pubblici che rientrano in uno o più procedimenti amministrativi collegati tra loro, che riguardano le stesse attività o risultati. La conferenza può seguire le procedure stabilite dall’articolo 14-bis (conferenza semplificata). L’amministrazione che la indice può però anche definire modalità diverse per il suo svolgimento.

La conferenza di servizi decisoria

La conferenza di servizi decisoria viene sempre indetta dall’amministrazione che gestisce il procedimento quando, per concluderlo positivamente, è necessario ottenere l’approvazione (come pareri, intese, nulla osta) da parte di diverse amministrazioni o gestori di servizi pubblici. Se un’attività privata richiede più autorizzazioni che devono essere rilasciate al termine di diversi procedimenti, gestiti da varie amministrazioni, la conferenza di servizi può essere convocata da una qualsiasi delle amministrazioni coinvolte, anche su richiesta dell’interessato.

La conferenza do servizi preliminare

Per progetti complessi o insediamenti produttivi, l’amministrazione può convocare una conferenza preliminare, su richiesta motivata dell’interessato e con uno studio di fattibilità. Questa conferenza serve a indicare al richiedente le condizioni per ottenere tutti gli atti di assenso necessari prima di presentare la domanda o il progetto definitivo. L’amministrazione, se accetta la richiesta, indice la conferenza entro cinque giorni lavorativi. Questa conferenza si svolge secondo l’articolo 14-bis (semplificata), ma con termini dimezzati. Le amministrazioni coinvolte si esprimono sulla base della documentazione fornita. Le determinazioni vengono trasmesse al richiedente entro cinque giorni dalla scadenza del termine.Dopo la preliminare, l’amministrazione indice la conferenza simultanea sul progetto definitivo. Le decisioni prese nella preliminare possono essere modificate o integrate solo in presenza di nuovi elementi significativi emersi successivamente. Per opere pubbliche, la conferenza preliminare si esprime sul progetto di fattibilità per definire le condizioni per gli assensi sul progetto definitivo.

Conferenze di servizi decisorie: modalità di svolgimento

Le conferenze di servizi decisorie si possono svolgere principalmente in due modalità.

Conferenza semplificata 

La conferenza decisoria si svolge generalmente in forma semplificata e asincrona (art. 14 bis legge n. 241/1990). L’amministrazione la indice entro cinque giorni dall’avvio del procedimento o dal ricevimento della domanda, comunicando alle altre amministrazioni l’oggetto, la documentazione e i termini. Le amministrazioni coinvolte hanno un termine perentorio, massimo 45 giorni (o 90 per enti di tutela ambientale, paesaggistica, culturale o sanitaria), per esprimere il proprio parere motivato, in termini di assenso o dissenso, indicando eventuali modifiche necessarie. La mancata risposta o una risposta incompleta equivale ad assenso incondizionato. Entro cinque giorni dalla scadenza dei termini, l’amministrazione procede con la determinazione finale. Se ha ricevuto solo assensi (anche impliciti) o se le condizioni possono essere accolte senza modifiche sostanziali, la conferenza si conclude positivamente. In caso di dissensi insuperabili, la conferenza si chiude negativamente, respingendo la domanda. In casi complessi o su richiesta, si può optare per una riunione sincrona.

Conferenza simultanea

La prima riunione della conferenza di servizi simultanea e sincrona (art. 14 ter legge 241/1990) si tiene nella data prestabilita, anche in teleconferenza, con i rappresentanti delle amministrazioni competenti. I lavori si concludono entro 45 giorni (90 per questioni ambientali, paesaggistiche, culturali o sanitarie), rispettando il termine finale del procedimento. Ogni ente o amministrazione è rappresentato da un unico soggetto con potere decisionale vincolante. Per le amministrazioni statali, un singolo rappresentante, nominato dal Presidente del Consiglio o dal Prefetto, esprime la posizione di tutte le amministrazioni statali, potendo essere supportato da personale delle singole amministrazioni. Le Regioni e gli enti locali definiscono in modo del tutto autonomo le modalità per indicare il rappresentante unico. Gli interessati possono essere invitati alle riunioni. Al termine dell’ultima riunione, entro i termini stabiliti, l’amministrazione procedente adotta la determinazione finale basandosi sulle posizioni prevalenti. L’assenso è considerato acquisito anche se un rappresentante non partecipa, non esprime una posizione o esprime un dissenso immotivato o non pertinente. Quando un progetto richiede la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) regionale, tutte le autorizzazioni e gli assensi necessari per realizzarlo ed esercitarlo vengono ottenuti tramite un’apposita conferenza di servizi sincrona, come stabilito dall’articolo 27-bis del D.Lgs. 152/2006.

 

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giurista risponde

Esclusione vincolo partecipazione gruppo societario: parola alla Corte UE Si pone questione se il limite si applichi «oltre l’operatore economico offerente, nel caso in cui la medesima legge di gara non rechi una specifica indicazione in tal senso»; in caso di risposta positiva al quesito, si chiede di chiarire quali siano i parametri «di detta espansione soggettiva» e sulla base di quali indici l’operazione interpretativa debba essere condotta e inoltre sulla base di quali criteri debbano essere individuate «le offerte da escludere in quanto in soprannumero»

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

Ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, previa riunione dei giudizi deferiti ex art. 99, comma 1, cod. proc. amm. a questa Adunanza Plenaria, vanno rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali (Estensione automatica del vincolo di partecipazione):

  1. I) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014 (sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE), che definisce l’«operatore economico», in relazione ai considerando 1 e 2 della medesima direttiva, può essere interpretato in senso estensivo al gruppo societario di cui fa parte;
  2. II) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 46 della direttiva 2014/24/UE, relativa alla suddivisione della gara in lotti, che facoltizza le amministrazioni aggiudicatrici a suddividere la gara in lotti (par 1), a limitare la presentazione delle offerte «per un solo lotto, per alcuni lotti o per tutti» (par. 2), e a indicare «il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente» (par. 2, comma 1), possa essere applicato dando rilievo al gruppo societario di cui fa parte l’offerente;

III)  se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare i principi generali di certezza e proporzionalità, ostino ad un’esclusione dalla gara in via automatica di un offerente facente parte di un gruppo societario che in una gara suddivisa in lotti ha partecipato e presentato offerte attraverso le proprie partecipate in misura superiore ai limiti di partecipazione e di aggiudicazione previsti dal bando di gara. – Cons. Stato, Ad. Plen., 13 dicembre 2024, n. 17.

Nell’esaminare la questione a lei rimessa, la Plenaria rileva – primariamente – come la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è divisa sulla possibilità di estensione soggettiva del limite di partecipazione (e di aggiudicazione), in specie elaborando i seguenti orientamenti.

Secondo la tesi favorevole, tale possibilità sarebbe ammissibile anche in mancanza di un’espressa indicazione sul punto nel bando di gara; a sostegno si richiamano argomenti teleologici, riconducibili all’esigenza di dare al mercato degli appalti pubblici massima apertura alla concorrenza, rispetto alla quale sono strumentali la suddivisione della gara in lotti, dichiaratamente a favore degli operatori economici di minori dimensioni (art. 51, comma 1, dell’codice dei contratti pubblici 50/2016), e inoltre i limiti di partecipazione e aggiudicazione previsti dai commi 2 e 3 del medesimo articolo.

A tenore di un opposto orientamento contrario, invece, i limiti non sono estensibili a casi non previsti dalla legge o dal bando, per l’impossibilità di introdurre a posteriori cause di esclusione, che lederebbero i principi di certezza e trasparenza.

Non manca, poi, una terza più recente ricostruzione, per la quale i limiti si estendono in caso di accertato intento elusivo, equiparabile alla dichiarazione falsa o fuorviante in grado di «influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante» sulla partecipazione dell’operatore economico e l’aggiudicazione della gara, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-bis), dell’abrogato codice dei contratti pubblici.

Tanto premesso, il Collegio fa presente che le ordinanze di rimessione hanno aderito alla tesi restrittiva, sulla base del carattere discrezionale del limite di partecipazione e di una ricostruzione sistematica per cui l’interesse alla massima apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza è in posizione equiordinata e non sovraordinata rispetto all’interesse alla selezione del miglior contraente privato.

Più nel dettaglio, si precisa che con le due ordinanze di rimessione all’Adunanza Plenaria 7111 e 7112/2024, la sez. V del Consiglio di Stato – pur ribadendo la necessità di un intervento nomofilattico – ha palesato la propria preferenza per l’orientamento più restrittivo sulla base di un a doppia lettura della disciplina: letterale e sistematica.

Sotto il profilo letterale, infatti, l’(allora vigente) art. 3, comma 1, lett. p), del codice di cui al D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 l’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, fanno riferimento ad una soggettività diversa rispetto a quella del singolo operatore (eventualmente raggruppato) che nel partecipare alla procedura ha «presentato un’offerta».

Sotto il differente profilo sistematico, poi, il considerando 79 della direttiva 2014/24/UE ha rimarcato il carattere discrezionale degli eventuali vincoli di partecipazione e aggiudicazione inseriti nella documentazione di gara, da intendersi quali «facoltà» delle amministrazioni aggiudicatrici, con l’obiettivo (nel caso dei limiti di partecipazione) «di salvaguardare la concorrenza o per garantire l’affidabilità dell’approvvigionamento». Pertanto, in base all’orientamento restrittivo sposato dalle due ordinanze innanzi citate, il summenzionato considerando 79 sarebbe sintomatico del fatto che l’obiettivo della massima apertura alla concorrenza (a base degli istituti della suddivisione della gara in lotti e dei vincoli di partecipazione e aggiudicazione) non avrebbe eliso quello tipico dell’evidenza pubblica alla selezione del miglior contraente, con la conseguenza che in assenza di previsioni espresse nel bando di gara i vincoli di aggiudicazione/partecipazione sarebbero inapplicabili a livello di gruppo societario.

Tanto ricostruito e premesso, la Plenaria osserva che la posizione restrittiva espressa dalla Sezione remittente potrebbe rivelarsi lesiva di uno dei valori fondanti dell’ordinamento eurounitario, consistente nel principio di massima apertura del mercato alla concorrenza (cfr. considerando 1 della direttiva 2014/24/UE).

Secondo il massimo Consesso amministrativo, tale principio, in un a quello di tutela giurisdizionale piena ed effettiva (ex art. 1, par. 3, direttiva 89/665/CEE del 21 dicembre 1989, come modificato dalla direttiva 2007/66/CE dell’11 dicembre 2007), dovrebbe sempre legittimare il giudice amministrativo – una volta investito del ricorso contro l’aggiudicazione di una gara suddivisa in lotti – a sindacare le scelte dell’amministrazione nella definizione dei limiti di partecipazione ad essa.

Ad avviso della Plenaria, pertanto, il giudice amministrativo dovrebbe sempre poter sindacare la scelta della stazione appaltante di non applicare il limite di partecipazione a livello di gruppo societario, quando essa conduca – come nel giudizio a quo – a consentire ad un solo gruppo di concorrere per 32 dei 34 lotti totali per un valore complessivo superiore al 99% di quello complessivo della gara.

L’Adunanza Plenaria sembra quindi esprimere la propria preferenza – in consapevole discostamento dalla posizione espressa dalla Sezione remittente – per un’interpretazione estensiva, secondo la quale il vincolo di partecipazione (e anche quello di aggiudicazione) – pur in mancanza di un’espressa indicazione sul punto nel bando di garasi estende automaticamente a tutte le consociate del medesimo gruppo societario, ove ciò sia necessario per rimediare a situazioni estreme nelle quali, altrimenti, la maggioranza dei lotti finirebbe per essere “preda” del medesimo gruppo societario (in patente violazione del principio di massima apertura del mercato delle commesse pubbliche alle medie e piccole imprese).

A conferma di tale lettura estensiva l’Adunanza Plenaria cita – in una logica di interpretazione evolutival’art. 58, comma 4, del D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36 (entrato in vigore dopo l’emanazione degli atti impugnati), che rispetto al previgente Codice ha disposto che le stazioni appaltanti: a) possono limitare «il numero massimo di lotti per i quali è consentita l’aggiudicazione al medesimo concorrente» tra l’altro «per ragioni inerenti al relativo mercato», e in questo specifico caso «anche a più concorrenti che versino in situazioni di controllo o collegamento ai sensi dell’art. 2359 del codice civile», ovvero in situazione di controllo societario; b) alle «medesime condizioni e ove necessario in ragione dell’elevato numero atteso di concorrenti», possono limitare «anche il numero di lotti per i quali è possibile partecipare».

Tali disposizioni possono essere considerate o innovative rispetto al previgente Codice dei contratti pubblici oppure ricognitive nel sistema nazionale dei principi europei rilevanti per verificare se l’amministrazione ha legittimamente esercitato la discrezionalità nella definizione dei limiti di partecipazione e di aggiudicazione a gare suddivise in lotti.

Fermo quanto precede, l’Adunanza Plenaria è anche pienamente consapevole del fatto che la summenzionata interpretazione estensiva – seppur sostanzialmente coerente con il principio eurounitario dell’apertura del mercato alla concorrenza (cfr. considerando 1 della direttiva 2014/24/UE) – deve essere oggetto di un vaglio pregiudiziale di compatibilità unionale ex art. 267 TFUE, atteso che il dato testuale e contestuale delle norme eurounitarie pertinenti (segnatamente degli artt. 2 e 46 della direttiva 2014/24/UE aventi ad oggetto rispettivamente la nozione di “operatore economico” e la disciplina della suddivisione in lotti) non appare affatto univoco nel senso di estendere automaticamente i vincoli di partecipazione/aggiudicazione all’intero gruppo del singolo operatore economico concorrente. Di qui la necessità dell’ordinanza in commento, secondo cui: “Previa riunione dei giudizi deferiti ex art. 99, comma 1, cod. proc. amm. a questa Adunanza Plenaria, vanno rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali:

  1. I) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 2, par. 1, n. 10), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014 (sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE), che definisce l’«operatore economico», in relazione ai considerando 1 e 2 della medesima direttiva, può essere interpretato in senso estensivo al gruppo societario di cui fa parte;
  2. II) se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art. 46 della direttiva 2014/24/UE, relativa alla suddivisione della gara in lotti, che facoltizza le amministrazioni aggiudicatrici a suddividere la gara in lotti (par 1), a limitare la presentazione delle offerte «per un solo lotto, per alcuni lotti o per tutti» (par. 2), e a indicare «il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente» (par. 2, comma 1), possa essere applicato dando rilievo al gruppo societario di cui fa parte l’offerente;

III)  se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare i principi generali di certezza e proporzionalità, ostino ad un’esclusione dalla gara in via automatica di un offerente facente parte di un gruppo societario che in una gara suddivisa in lotti ha partecipato e presentato offerte attraverso le proprie partecipate in misura superiore ai limiti di partecipazione e di aggiudicazione previsti dal bando di gara”.

Non resta, dunque, che attendere il pronunciamento della Corte di Giustizia europea.

 

(*Contributo in tema di “Estensione automatica del vincolo di partecipazione all’intero gruppo societario in caso di suddivisione della gara in lotti: la parola va alla corte di giustizia dell’unione europea”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Laurea invalida: non provati gli esami sostenuti in Erasmus  Laurea invalida: il superamento degli esami sostenuti durante il percorso Erasmus mancano del riscontro e di convalida ufficiale

Laurea invalida: la laureata deve ripetere gli esami

Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 518/2025 ha dichiarato una laurea invalida. Otto esami Erasmus, svolti in Spagna nel 2007-2009, non sono stati validamente riconosciuti. Il Consiglio ha stabilito che gli esami risultano non sostenuti o non convalidati ufficialmente. La laureata dovrà quindi ripetere gli esami per riottenere il titolo e completare la specializzazione.

Titolo di laurea nullo: non superati otto esami nel percorso Erasmus

L’Università di Bari ha dichiarato nullo il titolo di studio di una laureata in medicina. L’Ateneo ha rilevato il mancato superamento di otto esami, sostenuti nel programma Erasmus presso l’Università di Valladolid negli anni 2007-2008 e 2008-2009. Lo stesso ha quindi annullato la laurea dopo alcuni controlli amministrativi avviati  in sede di esame della domanda di trasferimento della dottoressa a una Scuola di Specializzazione. Il gestionale informatico Esse3 presentava un’anomalia, consistente nell’assenza di documentazione (statini o Transcripts of Records) comprovante il superamento degli otto esami registrati nel libretto online Esse3 come “Erasmus”. L’ Università di Valladolid non ha confermato il superamento degli esami. Sei di questi non apparivano nei Learning Agreements né nei Transcripts of Records rilasciati. I due presenti nel piano di studi spagnolo risultavano invece “no presentado” (studente assente).

Illegittimo considerare non superati gli esami Erasmus

La laureata ha impugnato il provvedimento davanti al TAR Puglia, che ha accolto il ricorso. Il Tribunale ha rilevato che l’Università aveva seguito la procedura per il riconoscimento degli esami Erasmus. L’Ateneo aveva rilasciato infatti una certificazione propedeutica all’accesso alla seduta di laurea con l’elenco di tutti gli esami superati.  Uno scrutinio eseguito anni dopo però ha smentito la certificazione.

Il TAR ha rilevato però che l’Ateneo aveva smarrito la documentazione originale e che le prove documentali iniziali certificavano lo svolgimento degli esami Erasmus. Illegittimo quindi porre a carico della ricorrente l’assenza di documentazione e farne derivare il mancato superamento degli esami. Il transcript of records dell’Ateneo spagnolo, inoltre, non è stato considerato idoneo a supportare l’annullamento della laurea. Il TAR ha ritenuto illegittimo considerare non superati gli esami non rientranti nel programma Erasmus, a fronte della “disordinata gestione dei fascicoli” da parte dell’Ateneo barese e in assenza di prova piena. Quanto all’ipotesi della verbalizzazione irregolare dei due esami il TAR ha statuito che trattasi si errore materiale.

Registrazione esami illegittima: mancato riscontro documentale

L’Università  ha appellato la sentenza, contestando l’errore del TAR nell’attribuire valore di prova fidefacente alla registrazione degli esami nel libretto informatico Esse3. Trattasi di una mera operazione informatica che richiede una previa valutazione e convalida del Consiglio di Facoltà sulla base della documentazione fornita dall’Ateneo straniero. Confrontando i learning agreements, i transcript of records e le risultanze del Consiglio di Facoltà, è emerso “con certezza” che per alcuni esami la registrazione in Esse3 era illegittima per mancanza di riscontro documentale e convalida. Errato ritenere che l’annullamento della laurea si fondi su un’ipotesi di contraffazione. La decisione si basa piuttosto sull’accertamento documentale che otto esami non erano stati sostenuti in Erasmus né convalidati dal Consiglio di Facoltà. L’Ateneo appellante ha criticato la valutazione del TAR riguardo al documento emesso dall’Università di Valladolid in risposta alla richiesta di documentazione post-smarrimento del libretto. Il nuovo transcript of records spagnolo è risultato coerente con quelli dell’epoca e con il verbale del Consiglio di Facoltà dell’8 marzo 2010. La laureata non disponeva di documenti (learning agreements, transcript of records e verbali di convalida) in grado di dimostrare il superamento degli otto esami mancanti. La nullità della laurea è quindi una conseguenza logica della mancanza di prova del completamento del corso di studi.

Laurea invalida: non provato il superamento degli esami

Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello dell’Università e ha dichiarato la laurea invalida. La dichiarazione di nullità del diploma di laurea deve quindi ritenersi legittima. La stessa si basa sulla mancanza di documentazione comprovante il superamento degli otto esami registrati come “Erasmus”. La documentazione fornita dall’Università spagnola e dall’Ateneo di Bari non provano il superamento degli otto esami presenti nell’applicazione informatica.

Cruciale il rilievo che, ai sensi dell’art. 14 del regolamento didattico interno, il riconoscimento del Consiglio di Facoltà è imprescindibile per la validità degli esami Erasmus. Il verbale agli atti recava il riconoscimento degli esami sostenuti dalla ricorrente, ma in esso non figuravano gli otto esami contestati dall’Università di Bari. Questa circostanza, per il Consiglio di Stato, implica l’assenza dei necessari transcript of records dall’Ateneo estero. L’ipotesi di smarrimento, prospettata dalla laureata, è di “improbabile verificazione” e non supportata da elementi vincolanti.

Di conseguenza non può essere attribuito alcun valore alla mera registrazione degli esami sul libretto informatico della ricorrente. Questa presuppone infatti il previo riconoscimento da parte del Consiglio di Facoltà. Le ricerche condotte dall’Università di Valladolid, su richiesta dell’Ateneo barese, hanno confermato l’assenza degli otto esami contestati nei “copies of the original Transcripts of Records”. La dichiarazione di nullità della laurea deve pertanto ritenersi legittima. È stato provato in positivo che la laureata non aveva mai sostenuto e superato gli otto esami.

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Allegati

giurista risponde

L’adunanza plenaria torna sui casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 cpa Ci si chiede se l’annullamento della sentenza di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque una ‘lesione del diritto di difesa’ del ricorrente – lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal giudice d’appello – non determini la necessità di rimettere la causa, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., al giudice di primo grado: e ciò, quantomeno, allorché la declaratoria di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, nella sua interezza, sia avvenuta ex ante e a prescindere dall’esame, seppur parziale, dei motivi dedotti dalla parte

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

L’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, si applica anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente (Cons. Stato, Ad. Plen., 20 novembre 2024, n. 16 (casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a).

Nel decidere sul quesito formulato con l’ordinanza di rimessione, l’Adunanza Plenaria ritiene di dover confermare, nella sostanza, la soluzione seguita dalla Plenaria nel 2018, sia pure sulla base di un percorso argomentativo parzialmente diverso e con una integrazione, quanto alla individuazione delle ipotesi di ‘nullità della sentenza.

Più precisamente, l’Adunanza Plenaria, ad integrazione di quanto statuito con le sentenze sopra citate del 2018, enuncia il seguente principio di diritto in ordine alle ipotesi di “nullità della sentenza”: l’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, si applica anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente”.

Il Collegio muove dalla conformazione costituzionale del processo amministrativo e dalla individuazione dei limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere ad esso applicate precisando che, sotto il primo profilo, per il processo amministrativo il doppio grado di giudizio ha valore di regola costituzionale (art. 125 Cost.; Corte cost. 12 marzo 1975, n. 61, e 1° febbraio 1982, n. 8; Cass., Sez. Un., 15 dicembre 1983, n. 7409), e i casi di giurisdizione in unico grado davanti al Consiglio di Stato devono ritenersi eccezionali e basarsi su una espressa previsione normativa, anche dopo la pronuncia della Corte cost. 395/1988.

Rimarcano i Giudici che, il principio costituzionale del doppio grado del giudizio va interpretato alla luce, da un lato, dei principi del giusto processo e del diritto a un ricorso effettivo (artt. 111, comma 1, Cost.; 13 CEDU; 1 c.p.a.), e, dall’altro lato, della previsione costituzionale del limitato sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, circoscritto “ai soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111, comma 8, Cost.) e più ristretto del sindacato di legittimità che la Corte di Cassazione esercita sulle sentenze del giudice civile per “violazione di legge” (art. 111, comma 7, Cost. e art. 360 c.p.c.).

Il principio del doppio grado di giudizio non implica che la parte abbia diritto a un pieno esame della causa nel merito in due gradi (Cons. Stato, Ad. Plen., 30 giugno 1978, n. 18). Esso comporta, da un lato che, una volta che la causa sia stata decisa dal TAR, sia previsto il rimedio dell’appello, e, dall’altro lato, che la causa debba essere esaminata nel merito in primo grado, in presenza dei relativi presupposti e sulla base dei principi del giusto processo e di effettività della tutela.

Una pronuncia di merito in primo grado potrebbe dal soccombente essere ritenuta persuasiva senza necessità di appello, così evitando i costi di un secondo giudizio e contribuendo alla ragionevole durata del processo.

Le erronee sentenze di primo grado di mero rito, evidenziano i Giudici, non sono solo sentenze “ingiuste” e come tali appellabili, ma – nella misura in cui l’ordinamento non consentisse mai una regressione del giudizio recherebbero anche un vulnus al principio del giusto processo.

La decisione in unico grado di merito innanzi al Consiglio di Stato, le cui sentenze non sono impugnabili per violazione di legge, non costituisce il modello del giudizio amministrativo disciplinato dagli artt. 111 e 125 Cost. e dal c.p.a., laddove hanno previsto il giusto processo e il doppio grado per i casi in cui il giudizio sia definito dall’organo di giustizia amministrativa di primo grado.

La mediazione tra il modello del ‘doppio grado di merito pieno’ – in cui tutti i motivi e tutte le questioni sono esaminati in due gradi – e l’evenienza pratica di un primo grado di mero rito, seguito da un unico grado di merito pieno in fase di appello, è lasciata al legislatore ordinario, chiamato a operare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze del giusto processo e della sua ragionevole durata, e ad individuare, per il caso di erronee pronunce in rito, un modello intermedio tra un appello sempre cassatorio e un appello con effetto devolutivo pieno.

A tale bilanciamento il legislatore ordinario ha provveduto in modo differenziato nei diversi processi, con diversa ampiezza dei casi di regressione del giudizio in presenza di erronee pronunce in rito. L’art. 105 c.p.a. prevede un novero di ipotesi di regressione del processo ben più ampio di quello contemplato dall’art. 354 c.p.c.

Quanto ai limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere applicate nel processo amministrativo, l’art. 39, comma 1, c.p.a. stabilisce che: “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali.

Orbene, sostiene il Collegio che la circostanza che una disposizione del processo civile sia espressione di un principio generale non giustifica di per sé sola l’estensione del principio processualcivilistico al processo amministrativo o il suo utilizzo come criterio ermeneutico.

Invero, la regolamentazione di una fattispecie concreta mediante i principi generali piuttosto che mediante disposizioni puntuali, è consentita dall’ordinamento positivo solo i) quando i principi siano gerarchicamente sovraordinati e siano pertanto prevalenti a prescindere da una lacuna dell’ordinamento (ad es. i principi eurounitari), ii) o quando vi sia una lacuna normativa da colmare (analogia iuris ex art. 12, comma 2, disp. prel. c.c.), iii) o quando una legge stabilisca espressamente che i principi da essa enunciati prevalgono sulle sue regole puntuali o ne costituiscono criterio esegetico (v. ad es. art. 1, comma 4, D.Lgs. 36/2023).

I Giudici affermano che nessuna di queste tre ipotesi è ravvisabile nel caso specifico, in quanto: i) il c.p.c. non è una fonte del diritto sovraordinata al c.p.a., ii) l’art. 105 c.p.a. non presenta alcuna lacuna, iii) nessuna disposizione del c.p.a. affida ai principi del processo civile una valenza di canone esegetico del c.p.a.

In particolare, il c.p.a. non contiene alcuna lacuna, quanto ai casi di regressione del giudizio e al c.d. effetto devolutivo, recando un’autonoma e compiuta disciplina di tali profili nel combinato disposto dell’art. 101, comma 2, e dell’art. 105 c.p.a., che non necessita di alcuna integrazione o esegesi sistematica, sicché di per sé non rileva per il processo amministrativo l’art. 354 c.p.c.

Si legge nella sentenza che è vero che l’art. 44, comma 1, L. 69/2009 individua tra le finalità del riassetto delle norme del processo amministrativo quella “di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali, ma tale criterio della legge delega ha richiesto al legislatore delegato di effettuare una ricognizione e una trasposizione dei principi generali del processo all’interno del processo amministrativo, anche alla luce della pregressa prassi giurisprudenziale utilizzata al fine di colmare lacune della legge processuale amministrativa, e quindi individuando i principi generali del processo civile già ritenuti applicabili al processo amministrativo prima dell’entrata in vigore del c.p.a.

Coordinamento” del c.p.a. con il c.p.c., si evidenzia nella decisione, non significa necessariamente pedissequa trasposizione, bensì adattamento alle peculiarità di un processo che risponde a diverse esigenze e ha una diversa struttura secondo la Costituzione.

In ogni caso, una volta esercitata la delega, i principi del processo civile possono regolare quello amministrativo solo alle condizioni stabilite dall’art. 39 c.p.a., ossia in presenza di una lacuna.

Il c.d. “effetto devolutivo” dell’appello dunque, quale lo si desume, a guisa di principio generale, dall’art. 354 c.p.c. non può essere ricostruito, per il processo amministrativo, in modo identico a come viene ricostruito in quello civile, perché differiscono sia la cornice costituzionale (‘doppio grado di merito’ costituzionalizzato nel primo e non nel secondo, caratterizzato dalla ricorribilità in Cassazione), sia le disposizioni applicabili (rispettivamente gli artt. 101 e 105 c.p.a. e l’art. 354 c.p.c.).

Ad avviso della Plenaria, ogni questione esegetica circa l’ambito applicativo dell’art. 105 c.p.a. va dunque risolta considerando il solo articolo suindicato, nella cornice del c.p.a. e dei principi costituzionali richiamati.

Sul piano dell’interpretazione letterale, logica e sistematica dell’art. 105, cit., il Collegio ritiene di dover analizzare e coordinare in modo armonico i seguenti “segmenti normativi”:

  1. a) “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se”;
  2. b) “è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza”;
  3. c) “o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”.

Il primo segmento normativo, con l’espressione soltanto se, comporta che l’elenco dei casi di rimessione al primo giudice è tassativo e pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Quanto al secondo e al terzo segmento normativo, il Collegio evidenzia che i casi di rimessione al primo giudice sono individuati con una tecnica legislativa non omogenea.

Invero, il secondo segmento normativo si riferisce a tre vizi – afferenti al processo e alla decisione – individuati mediante tre ‘categorie generali’ che non corrispondono a tre “singoli vizi”, ma a tre “serie di vizi”, sicché le tre categorie vanno riempite di contenuto attraverso una ricognizione delle ipotesi normative e delle fattispecie concrete riconducibili nelle categorie generali.

Invece, il terzo segmento normativo si riferisce a quattro ipotesi puntuali di decisioni di rito erronee, univocamente corrispondenti a fattispecie previste da disposizioni processuali (erronea declinatoria della giurisdizione; erronea declinatoria della competenza; erronea estinzione del giudizio; erronea perenzione).

I Giudici ribadiscono quanto affermato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, sulla tassatività delle ipotesi previste dall’art. 105 e dunque sulla sua insuscettibilità di interpretazione analogica.

Tuttavia, ritiene l’Adunanza Plenaria, dato che la previsione contempla tre “categorie generali” di vizi del procedimento o del giudizio di primo grado, l’interprete deve riempirle di contenuto.

Si legge nella sentenza che, nell’individuazione delle fattispecie generali, occorre muovere dal rilievo che l’art. 105 non solo contempla distintamente le ipotesi in cui “è mancato il contraddittorio”, quella in cui “è stato leso il diritto di difesa di una delle parti”, e quella della “nullità della sentenza”, ma soprattutto contiene una formulazione ben più ampia di quella dell’art. 354 c.p.c., in cui la rimessione al primo giudice è prevista nei casi di mancata integrazione del contraddittorio, erronea estromissione di una parte e nullità della sentenza nel solo caso di cui all’art. 161, comma 2, c.p.c.

Più precisamente, l’art. 354 c.p.c. menziona due sole fattispecie specifiche di mancanza del contraddittorio, non fa riferimento alcuno alla lesione del diritto di difesa e individua la nullità della sentenza con rinvio all’art. 161, comma 2, c.p.c., così circoscrivendola al solo difetto di sottoscrizione.

Invece, l’art. 105 c.p.a. si riferisce alla nullità della sentenza tout court, includendovi, oltre che il vizio formale di sottoscrizione, anche errori di giudizio, come hanno già rilevato dalle sent. 10, 11 e 15/2018 dell’Adunanza Plenaria.

Del resto, sostengono i Giudici, non può ritenersi che l’art. 105 abbia inteso riprodurre solo la previgente disciplina basata sulla distinzione tra gli “errores in procedendo” e gli “errores in iudicando”.

Nelle fattispecie, sia generali che puntuali, ivi previste, molte ipotesi sono di “errores in iudicando”, così la ‘nullità della sentenza, l’erronea declinatoria della giurisdizione o della competenza, l’erronea dichiarazione di estinzione o di perenzione del giudizio.

Il Collegio ricorda che già nel 1987, l’Adunanza Plenaria rilevò che – pur se si poteva ammettere un’approssimativa coincidenza fra l’ipotesi generica (“difetto di procedura”) dell’art. 35 L. 1034/1971, e le ipotesi specifiche elencate nell’art. 354 c.p.c. – il legislatore aveva utilizzato tecniche normative diverse: nel c.p.c., quella “dell’elencazione tassativa” che non può essere che di stretta interpretazione, e, nell’art. 35 della L. 1034/1971, quella della “formula generica”, la quale, se pur sostanzialmente coincidente, lasciava all’interprete la possibilità di aggiungere ulteriori ipotesi non previste dall’art. 354 c.p.c. (Cons. Stato, Ad. Plen., 27 ottobre 1987, n. 24).

Inoltre, come già ricordato, la sentenza dell’Ad. Plen. 23/1996 ammise un’interpretazione estensiva, se non analogica, dell’art. 35 L. 1034/1971, includendo nell’erronea dichiarazione di difetto di competenza anche l’erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione.

L’approccio seguito dall’Adunanza Plenaria nel 1987 e nel 1993 viene ribadito nella sentenza, anche alla luce di quanto sopra osservato circa l’autonoma portata normativa dell’art. 105 c.p.a. rispetto all’art. 354 c.p.c.

Così come già l’art. 35 della L. 1034/1971 aveva utilizzato la tecnica delle “categorie generali”, anche il vigente art. 105 c.p.a. ha indicato, da un lato, ipotesi specifiche di annullamento con rinvio, e, dall’altro lato, tre ‘categorie generali’.

Inoltre, mentre il medesimo art. 35 menzionava espressamente il “difetto di procedura” tra i casi di annullamento con rinvio, tale locuzione non compare nell’art. 105.

Le stesse pronunce dell’Adunanza Plenaria del 2018, rimarcano i Giudici, con riferimento alla categoria della “nullità della sentenza”, vi hanno attribuito un contenuto “misto” tale da includere sia errori procedurali, quale il difetto di sottoscrizione, sia errori di giudizio, quale quello della motivazione mancante o apparente.

Orbene, venendo al caso oggetto dell’ordinanza di rimessione, l’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di una condizione dell’azione – con il consequenziale mancato esame della totalità dei motivi di ricorso – ben può, ad avviso del Collegio, integrare la ‘nullità della sentenza, in armonia con i principi enunciati dalle sentenze dell’Ad. Plen. 10 e 11/2018, §47 e ss., e 15/2018, §7.3, sia pure con alcune precisazioni.

Per le citate sent. 10 e 11/2018, la ‘nullità della sentenza’ è ravvisabile non solo nel caso di motivazione “radicalmente assente”, ma anche nel caso di motivazione “meramente apparente”, che si ha quando essa è “palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta”, o “tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile” o “richiama un generico orientamento giurisprudenziale senza illustrarne il contenuto”. “Più in generale, la motivazione è apparente quando sussistono anomalie argomentative di gravità tale da porre la motivazione al di sotto del minimo costituzionale che si ricava dall’art. 111, comma 5 Cost. […] tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile […]. La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi […]. La nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito […] non sorretto da una reale motivazione”. […] “Il difetto assoluto di motivazione deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.

Sostiene il Collegio che, quando l’esclusione della legittimazione o dell’interesse a ricorrere è frutto di un palese errore, per effetto del quale è mancato l’esame della totalità dei motivi di ricorso, si determina per il ricorrente una situazione più grave rispetto all’erroneo diniego di giurisdizione o di competenza o all’errore in procedendo, posto che nelle prime due ipotesi non è negata la tutela giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva e la parte può riassumere il giudizio davanti al giudice indicato come avente giurisdizione o competenza, così conservando i due gradi di merito, e nel caso di errore in procedendo la sentenza esamina i motivi di ricorso, mentre nel caso di erronea declaratoria del difetto di legittimazione o di interesse è più radicalmente negata la sussistenza di una posizione tutelabile (e dunque non vi è alcun esame del merito, né la possibilità di ottenerlo riassumendo il giudizio davanti ad altro giudice di primo grado).

Il ricorrente, se vuole ottenere il riconoscimento della sussistenza di una posizione giuridica tutelabile in sede giurisdizionale (e dunque ottenere una pronuncia di merito), è pertanto onerato di proporre appello, con i relativi costi e tempi.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la sentenza che nega la sussistenza della legittimazione o dell’interesse al ricorso – e dunque ravvisa l’assenza di una posizione giuridica tutelabile, malgrado vi sia stata l’impugnazione di un provvedimento autoritativo incontestabilmente devoluta alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo – deve basarsi su una motivazione adeguata, ragionevole e coerente con i principi processuali, che tenga conto dei fatti di causa e delle censure dedotte in relazione alla lesione prospettata, e deve consentire di far comprendere in modo chiaro in fatto e in diritto l’effettiva sussistenza della ragione giuridica, posta a base della declaratoria di inammissibilità.

Per individuare il ‘chi’ possa impugnare il provvedimento autoritativo, la motivazione della sentenza deve tenere adeguatamente tenere conto della potenziale lesività dell’atto (ad esempio, sul patrimonio, sulla salute o anche sugli aspetti morali del ricorrente) e non è dunque sufficiente una riproduzione pedissequa dei fatti di causa e dei motivi di ricorso prospettati dalla parte, priva di vaglio critico da parte del giudice, né è sufficiente riportare gli orientamenti della giurisprudenza sulle condizioni dell’azione, ingiustificatamente negando la sussistenza di una posizione soggettiva tutelabile.

Occorre dunque per i Giudici una motivazione puntuale sulla specifica posizione dedotta in giudizio dalla parte ricorrente tenendo conto della situazione fattuale.

Ne consegue che, qualora la statuizione di inammissibilità si basi su una motivazione tautologica o sia frutto di un errore palese, in fatto o in diritto, che abbia per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso, si concreta il vizio di ‘nullità della sentenza, che, secondo quanto statuito dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nel 2018, “deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso”.

È appunto il confronto tra una motivazione di puro rito frutto di un errore palese e il ricorso proposto unitariamente inteso che rende evidente il grave difetto argomentativo di una tale motivazione rispetto al ricorso.

L’Adunanza Plenaria rileva che della nozione di “merito processuale” possono darsi diverse accezioni, come “fatti processuali” o come “motivi di ricorso”, esaminati nella sostanza, in contrapposizione ad una pronuncia di “rito” che non esamina il “merito”.

Le decisioni in rito di inammissibilità di un ricorso di primo grado, possono atteggiarsi in vario modo. Viene in considerazione la seguente principale casistica:

  1. a) decisioni di inammissibilità, che hanno omesso l’esame del merito inteso come fatti di causa, ossia decisioni che non prendono in considerazione la specifica situazione fattuale (ad es., nelle controversie in materia edilizia, la concreta ubicazione del bene di proprietà del ricorrente ai fini della verifica della vicinitas, della legittimazione e dell’interesse al ricorso, le concrete caratteristiche dell’immobile costruendo);
  2. b) decisioni di inammissibilità, che non esaminano il merito inteso come motivi di ricorso;
  3. c) decisioni con doppia motivazione, in rito e in merito, che, pur dichiarando inammissibile un ricorso, esaminano “comunque” i motivi di ricorso;
  4. d) decisioni di inammissibilità in cui la declaratoria di inammissibilità è il risultato di una disamina di tutti o di alcuni motivi di ricorso.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la prima e la seconda ipotesi sopra delineate danno luogo ad una pronuncia di annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., in ragione della nullità della sentenza per motivazione apparente, come già rilevato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, o in ragione di un errore palese di rito che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.

Nella terza e quarta ipotesi sopra delineate, vi è stato comunque un esame dei motivi di ricorso, che, anche se solo parziale, non giustifica un annullamento con rinvio, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, come si desume anche dall’art. 101, comma 2, c.p.a.

Ritiene il Collegio che tale ricostruzione del quadro normativo consente di rendere coerenti tra loro le fattispecie disciplinate dall’art. 105 c.p.a., in quanto sia nel caso della ‘nullità della sentenza’ (per palese errore di giudizio sulle condizioni dell’azione) che in quelli di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea estinzione o perenzione, viene in rilievo non qualsivoglia errore di giudizio, ma quell’errore di giudizio che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.

Inoltre, siffatta interpretazione consente anche di evitare disparità di trattamento tra i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 2, c.p.a. (che impongono l’annullamento con rinvio) e i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 1, c.p.a., non espressamente richiamati dall’art. 105 c.p.a., non risultando ragionevole il trattamento differenziato di chi subisce un’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso e di chi subisce un’erronea dichiarazione di estinzione del giudizio.

L’Adunanza Plenaria non condivide gli argomenti addotti a sostegno dell’interpretazione che nega la regressione del giudizio quando il TAR abbia errato nell’individuare il ‘chi’ possa impugnare l’atto autoritativo ed abbia quindi errato nell’escludere una delle condizioni dell’azione.

Ad avviso del Collegio non risulta persuasivo l’argomento secondo cui il giudice di primo grado avrebbe esercitato e consumato comunque il suo potere, anche con la semplice pronunzia di rito, posto che questo si verifica anche nei casi di “nullità della sentenza” (già considerati dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria), di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea dichiarazione di estinzione del processo o di perenzione: in tutti tali casi, ciò che giustifica la regressione del processo è il mancato esame di qualsivoglia motivo di ricorso.

Quanto all’obiezione che l’interessato ha comunque avuto la possibilità di esperire entrambi i gradi di giudizio, rileva quanto sopra esposto su quale sia la effettiva portata del principio del doppio grado del giudizio amministrativo.

Quanto all’obiezione che il carattere devolutivo dell’appello imporrebbe un’interpretazione restrittiva della normativa sui casi di rimessione al TAR, rileva quanto sopra esposto sulla portata dell’effetto devolutivo dell’appello amministrativo e al significato della “tassatività” delle fattispecie previste dall’art. 105.

Non risulta persuasivo ad avviso dell’Adunanza Plenaria nemmeno l’argomento secondo cui l’estensione delle ipotesi di rimessione al primo giudice pregiudicherebbe la ragionevole durata del processo,

L’art. 105, comma 2, e l’art. 85, comma 3, c.p.a. disciplinano il rito camerale, più celere di quello ordinario, per gli appelli contro le sentenze dei TAR che hanno declinato la giurisdizione o la competenza e contro le ordinanze rese sull’opposizione a decreti di estinzione o improcedibilità. Tuttavia, un appello avverso una pronuncia di inammissibilità, in cui si lamenti la ‘nullità della sentenza’ nei sensi sopra visti, si può comporre con un solo motivo (volto a far rilevare l’ammissibilità del ricorso) ed è destinato o al rigetto o all’accoglimento con annullamento con rinvio, senza esame del merito da parte del giudice di appello.

Trovano pertanto applicazione gli artt. 72 e 72bis c.p.a. sulla fissazione con priorità dell’udienza pubblica, trattandosi di un ricorso vertente su un’unica questione, e sulla trattazione in camera di consiglio con i termini propri del rito cautelare, trattandosi di un appello suscettibile di immediata definizione.

La parte appellante, evidenzia il Collegio, ha inoltre la possibilità di chiedere l’abbreviazione dei termini, sicché l’appello contro la statuizione di inammissibilità può essere definito rapidamente, senza nocumento per la ragionevole durata del processo.

 

(*Contributo in tema di “L’adunanza plenaria torna sui casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

concessioni balneari

Concessioni balneari: incostituzionali norme che violano concorrenza La Consulta ha dichiarato incostituzionali parti della legge regionale Toscana sulle concessioni demaniali marittime per violazione della tutela della concorrenza

Concessioni demaniali marittime: l’intervento della Consulta

Concessioni balneari: con la sentenza n. 89/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge della Regione Toscana n. 30 del 2024. In particolare, sono stati dichiarati incostituzionali gli articoli 1, 2 commi 3 e 4, e 3, in quanto incidono in modo diretto sull’assetto concorrenziale del mercato balneare.

Le norme contestate

Le disposizioni regionali, impugnate dal Presidente del Consiglio dei ministri, modificavano la legge regionale n. 31 del 2016, introducendo criteri per le procedure selettive di affidamento delle concessioni demaniali marittime. Tra le previsioni figuravano:

  • un criterio premiale per la valutazione dei concorrenti;

  • la determinazione di un indennizzo a favore del concessionario uscente.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, tali regole limitavano la concorrenza e pregiudicavano il libero accesso al mercato.

La competenza legislativa esclusiva dello Stato

La Corte costituzionale ha ricordato che, pur investendo la materia delle concessioni profili di competenza regionale, quando le norme incidono sulle modalità di scelta del contraente e alterano l’assetto concorrenziale dei mercati, prevale la competenza esclusiva dello Stato prevista dall’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, in tema di tutela della concorrenza.

Nel caso esaminato, le regole regionali determinavano restrizioni alla libera iniziativa economica degli operatori balneari, non giustificate da esigenze specificamente regionali.

La motivazione della Consulta

La Regione Toscana aveva motivato l’intervento normativo con due esigenze:

  • la persistente inerzia del legislatore statale nell’adozione di una disciplina unitaria;

  • la necessità di tutelare l’affidamento maturato dagli operatori del settore.

Tuttavia, la Corte ha ritenuto che tali ragioni non potessero legittimare l’adozione di regole regionali incidenti sulla concorrenza, trattandosi di un ambito riservato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

La sentenza ha inoltre sottolineato che, anche in assenza di una legge statale organica, esistono già principi e parametri di matrice europea che consentono ai Comuni di organizzare le procedure di gara nel rispetto dei principi di concorrenza e trasparenza.

responsabilità erariale

Responsabilità erariale: in vigore la legge Responsabilità erariale: in vigore la legge di conversione che ha prorogato al 31 dicembre 2025 la limitazione alle ipotesi dolose

Responsabilità erariale: in GU la legge di conversione del dl 68

E’ stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale ed è in vigore dal 5 luglio 2025 la legge n. 100/2025 di conversione del decreto legge n. 68/2025 sulla responsabilità erariale che aveva ricevuto il via libera della Camera nella giornata dell’1 luglio scorso. Il testo differisce fino alla fine del 2025 il termine previsto dal dl n. 76/2020 in materia di limitazione della responsabilità erariale, alle ipotesi dolose. In Gazzetta anche il testo coordinato del dl n. 68/2025 e della relativa legge di conversione.

Responsabilità erariale: prorogata la disciplina speciale

In particolare il decreto n. 68/2025 differisce dal 25 aprile 2025 fino al 31 dicembre 2025 il termine indicato nel co. 2 dell’art. 21 del decreto legge n. 60/2020. Si ricorda che questo decreto, emanato durante la pandemia, aveva introdotto una deroga temporanea alla disciplina della responsabilità erariale, limitandola alle ipotesi dolose.

La norma, nella formulazione contenuta nell’articolo 21. co. 2 così disponeva: “1. All’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, dopo il primo periodo è inserito il seguente: “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso.”. 2. Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 aprile 2025, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente.”

Efficacia retroattiva della deroga

Il decreto 68/2025 prevede inoltre l’efficacia retroattiva della disciplina, stabilendo che il regime derogatorio si applichi anche ai fatti commessi tra il 30 aprile 2025 e la data di entrata in vigore del decreto stesso, ossia il 12 maggio 2025.

Responsabilità erariale: cos’è

Si ricorda in breve che la responsabilità per danno erariale si configura ogni volta che un soggetto che agisce nella sua qualità di dipendente pubblico causa un danno alla pubblica amministrazione a causa di una gestione non efficiente o attraverso un uso inadeguato delle risorse.

L’art. 1 della legge n. 241/1990, che disciplina il procedimento amministrino, prevede infatti che l’attività amministrativa debba rispettare i principi di efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza.

La competenza giurisdizionale a giudicare i casi di responsabilità erariale è di competenza esclusiva della Corte dei Conti, che svolge funzioni consultive, amministrative, di controllo, ma anche di tipo giurisdizionale in materia di contabilità pubblica.

 

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Nella giornata di venerdì 27 giugno 2025 il Ministero della infrastrutture ha emanato il decreto n. 210  del 27 giugno 2025  che contiene la disciplina dei contrassegni identificativi dei monopattini elettrici.

Come disposto dall’art. 1 del provvedimento, il decreto disciplina:

  • la stampa dei contrassegni affinché gli stessi siano uniformi e inalterabili, per garantire la sicurezza (Allegato A)
  • i criteri da seguire per formare le varie combinazioni di numeri e lettere dei contrassegni, affinché ogni combinazione identifichi un solo monopattino (Allegato B).

Il decreto, una volta pubblicato sulla GU, entrerà in vigore decorso il termine di 15 giorni.

Contrassegno identificativo: caratteristiche

Il contrassegno identificativo di ogni monopattino:

  • è stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato;
  • è personale, nel senso che la targa identifica la persona e non il monopattino;
  • ha una forma rettangolare (50 mm x 60 mm);
  • è stampato su un supporto in plastica adesivo e non rimovibile;
  • ha lo sfondo bianco mentre i caratteri sono neri;
  • contiene l’emblema dello Stato;
  • non può essere manomesso o contraffatto;
  • deve essere posizionato sul parafango posteriore del monopattino in modo che sia visibile e permanente. In assenza del parafango, deve essere posizionato nella parte anteriore del piantone a un’altezza compresa tra i 20 cm e 1,20 m dal suolo.

La previsione della “targa” per i monopattini elettrici mira a tutelare le vittime di incidenti causati dall’uso improprio del monopattino elettrico. Il contrassegno identificativo permetterà infatti di risalire al proprietario e quindi al corresponsabile, anche nel caso in cui il monopattino sia condotto da un altro soggetto.

Combinazioni alfanumeriche dei contrassegni

Per quanto riguarda invece le combinazioni alfanumeriche, l’allegato B del decreto prevede che il contrassegno debba riportare tre lettere e tre numeri.

Prossimo passo: obbligo assicurativo

L’obbligo del contrassegno identificativo arriva dopo l’obbligo di indossare il casco a bordo del monopattino. Il prossimo passo prevede l’introduzione dell’obbligo assicurativo anche per questi mezzi a propulsione elettrica.

 

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trattenimento migranti

Trattenimento migranti nei CPR: la Consulta richiama il legislatore La Corte costituzionale ha dichiarato inidonea la disciplina sul trattenimento dei migranti nei CPR, richiamando il legislatore a definire regole più chiare nel rispetto della libertà personale

Trattenimento migranti nei CPR: i dubbi di costituzionalità

Con la sentenza n. 96 del 2025, la Corte costituzionale ha esaminato la legittimità dell’art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 286 del 1998 (TU sull’immigrazione), nella parte in cui disciplina le modalità di trattenimento migranti nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR).

Le questioni erano state sollevate dal Giudice di pace di Roma, chiamato a convalidare i provvedimenti di trattenimento di cittadini stranieri. Il giudice rimettente aveva denunciato la mancanza di una disciplina di rango primario che definisse le modalità e le garanzie di esercizio della restrizione della libertà personale, in violazione dell’articolo 13 Cost.

La libertà personale e la riserva assoluta di legge

La Corte ha ribadito che il trattenimento nei CPR costituisce un assoggettamento fisico che incide direttamente sulla libertà personale. In questo quadro, la disciplina vigente è stata ritenuta inidonea a individuare con chiarezza i “modi” della restrizione, cioè le regole che tutelano i diritti fondamentali durante il periodo di trattenimento.

Secondo la Consulta, il rinvio a norme regolamentari e a provvedimenti amministrativi discrezionali contrasta con la riserva assoluta di legge prevista dall’articolo 13, secondo comma, Cost.

Il ruolo del legislatore e l’inammissibilità delle questioni

Pur riconoscendo il vulnus costituzionale, la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate con riferimento agli articoli 13 e 117 della Cost. Il motivo è che non spetta al giudice costituzionale colmare il vuoto normativo riscontrato: è il legislatore a dover predisporre una disciplina compiuta e conforme ai principi costituzionali e internazionali.

La Corte ha evidenziato che resta un dovere inderogabile del Parlamento intervenire per definire standard minimi di tutela e garantire i diritti e la dignità delle persone trattenute.

Le altre questioni di costituzionalità dichiarate inammissibili

Le ulteriori censure fondate sugli articoli 2, 3, 10, 24, 25, 32 e 111 della Costituzione sono state dichiarate inammissibili per incompletezza della ricostruzione del quadro normativo. La Corte ha ricordato che l’ordinamento già consente il ricorso ai rimedi civili, come l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. e la tutela cautelare d’urgenza prevista dall’art. 700 c.p.c., strumenti idonei a garantire la protezione dei diritti fondamentali in caso di violazioni durante il trattenimento.

La conclusione della Corte costituzionale

In conclusione, la Corte ha chiarito che la disciplina attuale non soddisfa i requisiti costituzionali di determinatezza e legalità delle restrizioni alla libertà personale. L’onere di colmare questa carenza spetta al legislatore, cui è demandato il compito di assicurare una regolamentazione adeguata nel rispetto dei diritti fondamentali.

fine vita

Fine vita: analisi del testo base Fine vita: redatto il testo base, che contiene le disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita

Testo base sul fine vita

Sul fine vita, al Senato, è stato redatto il testo base, che riunisce diversi disegni di legge. Il testo unificato, composto da 4 articoli, contiene le disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita. Analizziamo uno a uno gli articoli del testo, che hanno suscitato critiche e polemiche.

Diritto alla vita: inviolabile e indisponibile

Il comma 1 del primo articolo contiene una disposizione di principio che sancisce il diritto alla vita in quanto presupposto fondamentale di tutti i diritti della persona. Segue poi la disposizione che attribuisce alla Repubblica il compito di tutelare la vita di ogni individuo indiscriminatamente. Non rilevano, infatti, l’età, il sesso, la condizione di salute, personale o sociale. Il comma 2 sanziona, infine, con la nullità tutti gli atti di natura civile o amministrativa che dovessero contrastare con questi principi.

Fine vita: novità per il reato di istigazione o aiuto al suicidio

L’articolo 2 interviene sul secondo comma dell’articolo 580 c.p., che al comma 1 punisce con la reclusione fino a 12 anni la condotta di chi determina altri al suicidio, ne rafforza il proposito o ne agevola l’esecuzione in qualsiasi modo, se il suicidio avviene.

Il nuovo comma 2 della norma, in base al testo base, prevede la non punibilità del soggetto agente, in presenza di circostanze specifiche:

  • il proposito del fine vita deve essersi formato in modo libero, autonomo e consapevole;
  • il soggetto che intende porre fine alla propria vita deve essere maggiorenne e pienamente capace di intendere e di volere;
  • lo stesso deve essere stato inserito in un percorso di cure palliative e tenuto in vita da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali;
  • il soggetto deve essere affetto da una malattia irreversibile che gli causa sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili;
  • le sue condizioni devono essere state accertate da un apposito Comitato.

Cure palliative: piani di potenziamento

L’articolo 3 si occupa delle cure palliative, modificando il comma 4-bis dell’articolo 5 della legge n. 38/2010. Questa la formulazione potenziale della norma (modifiche in grassetto): “Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano presentano, entro il 30 gennaio di ciascun anno, un piano di potenziamento delle cure palliative al fine di raggiungere, entro l’anno 2028, il 90 per cento della popolazione interessata e di garantire l’integrale utilizzo, per le finalità di cui alla presente legge, delle somme di cui all’articolo 12, comma 2. Il monitoraggio dell’attuazione del piano è affidato all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS) che lo realizza a cadenza semestrale. La presentazione del piano e la relativa attuazione costituiscono adempimento regionale ai fini dell’accesso al finanziamento integrativo del Servizio sanitario nazionale a carico dello Stato. Eventuali residui delle somme di cui all’articolo 12, comma 2, non utilizzati per le finalità di cui alla presente legge, sono in ogni caso restituiti allo Stato e non possono essere utilizzati per finalità diverse da quelle previste dalla presente legge”.

AGENAS: analisi dei piani

Dopo questo comma è previsto l’inserimento di altri tre commi.

Il comma 4-ter prevede che l’AGENAS istituisca un osservatorio per analizzare i piani regionali di potenziamento delle cure palliative (domiciliari e pediatriche). Ogni anno, inoltre, l’AGENAS dovrà inviare una relazione a diverse autorità (Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Presidenti di Senato e Camera) indicando le regioni che non hanno presentato tali piani o non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati l’anno precedente.

Il comma 4-quater, invece, dispone che in caso di mancata presentazione del piano da parte di una regione entro 30 giorni dalla relazione AGENAS, il Governo nomini un commissario ad acta fino al raggiungimento dello standard. Se poi la regione non dovesse raggiungere gli obiettivi di potenziamento delle cure palliative dell’anno precedente, il Ministro della Salute è tenuto a concedere un termine di massimo sei mesi; se l’inadempimento dovesse persistere, è prevista la nomina governativa di un Commissario.

Il comma 4-quinques chiarisce, infine, che alle novità contenute nei due commi precedenti si debba provvedere senza nuovi o maggiori oneri.

Comitato nazionale di valutazione fine vita

L’articolo 4 del testo base interviene sulla legge n. 833/1978, che ha istituito il Servizio sanitario nazionale, aggiungendo l’art. 9-bis, che disciplina il Comitato nazionale di valutazione, un organo cruciale che fornisce un parere obbligatorio sulla presenza dei requisiti per l’esclusione della punibilità in casi specifici (riferiti all’articolo 580, terzo comma, del codice penale).

Composizione del comitato

La composizione del Comitato prevede la presenza di sette membri esperti: un giurista, un bioeticista, un medico anestesista-rianimatore specializzato in terapia del dolore, un medico specialista in cure palliative, uno psichiatra, uno psicologo e un infermiere. Questi professionisti sono nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che designa anche presidente, vicepresidente e segretario. La durata in carica dei membri è di cinque anni, con la possibilità di due rinnovi. L’incarico è gratuito.

Fine vita: verifica requisiti di non punibilità

Qualora un cittadino maggiorenne e capace di intendere e di volere presenti una richiesta di verifica dei requisiti di non punibilità, il Comitato deve acquisire il parere non vincolante di uno specialista della patologia del richiedente. Se la richiesta include l’uso di farmaci “off label”, è necessario anche il parere non vincolante del Centro di coordinamento nazionale. Il Comitato ha sessanta giorni di tempo dalla richiesta per esprimersi, potendo disporre possibili proroghe in caso di necessità o di acquisizione dei pareri. Le norme generali sul procedimento amministrativo non si applicano in questo contesto e per svolgere le sue funzioni, il Comitato si avvale delle strutture del Ministero della Salute, senza oneri aggiuntivi. La richiesta presentata al Comitato potrà essere ritirata in qualsiasi momento dall’interessato. Se il Comitato dovesse accertare l’assenza dei requisiti, una nuova richiesta potrebbe essere presentata solo se si dimostra la successiva sussistenza degli stessi, e comunque non prima di centottanta giorni. Il parere rilasciato dal Comitato sarà valutato dall’autorità giudiziaria ai fini dell’applicazione della non punibilità.

Pur riconoscendo le competenze del Comitato, il personale, le strumentazioni e i farmaci del Servizio Sanitario Nazionale non potranno essere impiegati per facilitare l’esecuzione di quanto previsto dall’articolo 580 del codice penale.

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