cessione case prefabbricate

Cessione case prefabbricate: quale aliquota Iva L'Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti sull'aliquota Iva applicabile alla cessione delle case prefabbricate

Aliquota IVA cessione case prefabbricate

Cessione case prefabbricate: l’Agenzia delle Entrate con la risposta ad interpello n. 246/2024 del 5 dicembre scorso, ha fornito chiarimenti in merito all’aliquota Iva applicabile.
Nel caso di specie l’Amministrazione ha risposto all’interpello di una società che chiedeva delucidazioni sulla possibilità di assoggettare la cessione della casa prefabbricata alle aliquote  ridotte del 4 e del 10% nel caso di presentazione, da parte del cliente,  di una dichiarazione per l’applicazione dell’aliquota IVA agevolata.

Soluzione prospettata dal contribuente

A  parere  della  Società  le  aliquote  agevolate  saranno  applicabili  sulla  base  della dichiarazione  resa dal cliente a  seguito della quale è tenuta ad emettere  fattura,  che  registrerà  attraverso  il  sistema  di  dichiarazione  elettronica  (OSS)  nello  Stato  di  appartenenza.

L’Istante indica la transazione nella Dichiarazione IVA nel sistema OSS come operazione effettuata in Italia e paga l’IVA ricevuta a saldo della fattura nel proprio Stato, che poi la riverserà all’Italia.

Parere dell’Agenzia delle Entrate

“L’One Stop Shop (OSS o Sportello Unico) è un regime opzionale IVA che consente a un soggetto passivo di dichiarare e pagare l’IVA in un unico Stato membro, quello dove è identificato ai fini IVA, a fronte di operazioni dallo stesso effettuate a favore  di  privati consumatori UE,  siano esse cessioni  di  beni  o  prestazioni  di  servizi (B2C).

OSS

Lo Stato UE di identificazione provvederà poi alla ripartizione dell’imposta così  raccolta  tra  i  vari  Stati  UE  di  consumo  di  beni  e  servizi,  in  base  agli  importi  delle  transazioni ivi effettuate, rilevanti ai fini IVA”. Queste le premesse dell’Agenzia delle Entrate. “Si tratta dunque di una misura di semplificazione in quanto i soggetti passivi IVA che optano per tale regime, anziché identificarsi in tutti gli Stati UE per l’assolvimento  degli  obblighi  di  dichiarazione  e  di  versamento  dell’imposta  dovuta  a  fronte  delle  cessioni di beni e/o prestazioni di servizi ivi effettuate, dichiarano e versano l’IVA nel solo Stato membro di registrazione/identificazione per l’imposta dovuta sulle forniture  transfrontaliere di beni e/o servizi” proseguono le Entrate.

Nella fattispecie in esame, la Società afferma di essere un soggetto passivo IVA registrato in uno Stato dell’UE, dove ha optato per il regime in commento e pertanto alla  stessa si applicano le disposizioni di cui articolo 74­ septies del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (Decreto IVA) quando effettua, nel territorio dello Stato, le operazioni ivi riportate.

In relazione a dette operazioni (i.e. B2C, effettuate nel territorio dello Stato), oltre a  dichiarare e  versare  nel  proprio Stato la  relativa imposta  dovuta in  Italia, la  norma  appena richiamata dispensa l’Istante anche dagli obblighi di cui al Titolo II del Decreto IVA, tra cui quelli di fatturazione, registrazione, tenuta dei registri contabili, ecc. (cfr. articolo 74­septies, comma 4, del Decreto IVA).

Cessioni di case prefabbricate in legno

In merito alle cessioni di case prefabbricate in legno, la Risoluzione Ministeriale  503351 del 12 marzo 1974 chiarisce che:

1. si applica l’aliquota IVA ordinaria al 22 per cento quando il cliente ”acquista i  pezzi della casa prefabbricata e li fa montare e mettere in opera dalla stessa impresa che li produce o da terzi”. In questo caso, ”il contratto ha per oggetto il semplice acquisto  dei singoli pezzi e poiché tali pezzi costituiscono l’oggetto della ordinaria produzione dell’impresa che li fabbrica…”, è da ritenere ”che il negozio giuridico si debba qualificare come una compravendita e, pertanto, il corrispettivo relativo vada assoggettato all’I.V.A. con l’aliquota ordinaria…”;

2. si applica l’aliquota IVA del 4% o del 10% quando ”il committente affida ad  un’impresa la costruzione di una casa, da effettuare con i pezzi fabbricati dall’impresa stessa”.

La fattispecie

Nel caso di specie, dalle informazioni fornite, la  fattispecie  prospettata dalla società è riconducibile all’ipotesi 1 della citata risoluzione: il cliente italiano in realtà non sta acquistando  una casa, come affermato dall’Istante, bensì pezzi di una casa (precisamente le pareti).

La Società offre anche opzioni supplementari, quali infissi, scale e pavimenti, che, tuttavia, anche considerandole unitamente alle pareti, non permettono di affermare che oggetto della  transazione  sia  una  casa/immobile.

All’operazione prospettata, per come così ricostruita, si rende dunque applicabile  l’aliquota IVA ordinaria del 22 per cento. A diverse conclusioni potrebbe giungersi nell’ipotesi in cui la fornitura in oggetto  avvenga nell’ambito di un contratto di appalto che abbia per oggetto la costruzione e la  consegna di una casa ”chiavi in mano” a cui, al ricorrere dei relativi presupposti, può  essere riconosciuta l’aliquota IVA del 4 o del 10 per cento.

perenzione

Perenzione: la guida Perenzione: istituto che determina l’estinzione del processo amministrativo se le parti restano inattive per un periodo determinato

Perenzione nel processo amministrativo

La perenzione è un istituto giuridico che regola la scadenza di certi termini processuali. Essa determina infatti la cessazione automatica di un’azione legale se la stessa non viene svolta entro il periodo previsto dalla legge. Questo concetto ha un’importanza fondamentale per garantire l’efficienza e la certezza dei processi amministrativi. In Italia, la perenzione è disciplinata dal DLgs n. 104/2010, noto come Codice del Processo Amministrativo, che ha introdotto diverse norme in materia di scadenze processuali e decadenze dei ricorsi.

In questo articolo, esamineremo gli articoli 81-85 del DLgs n. 104/2010, che regolano la perenzione nel processo amministrativo, approfondendo la sua applicazione pratica e le principali pronunce giuridiche che hanno contribuito a chiarire l’ambito di operatività di questo istituto.

Cos’è la perenzione?

La perenzione si verifica quando un’azione legale, che non venga portata avanti nel tempo previsto dalla legge, perde efficacia, determinando la decadenza del ricorso.

Nel contesto del processo amministrativo, la perenzione si applica principalmente ai ricorsi giurisdizionali amministrativi, che, se non attivati o non seguiti con le necessarie attività procedurali (come il deposito di documenti o l’avanzamento della causa), cadono in perenzione, estinguendosi automaticamente.

La perenzione ha quindi lo scopo di velocizzare i processi ed evitare l’accumulo di cause non attuali, ottimizzando il lavoro dei tribunali amministrativi e delle autorità competenti.

Codice del processo amministrativo: artt. 81-85

Come anticipato, la perenzione trova la sua disciplina negli articoli 81, 82. 83, 84 e 85 del decreto legislativo n. 104/2010, che ha disposto il riordino del processo amministrativo. Analizziamo singolarmente queste norme.

Articolo 81 – Perenzione: un ricorso è considerato perento se non viene compiuto alcun atto di procedura per un anno. Il termine di un anno non decorre dal momento della presentazione di un’istanza per la fissazione dell’udienza, fino a quando non vi sia una decisione su di essa, salvo eccezioni.

Articolo 82 – Perenzione dei ricorsi ultraquinquennali: se un ricorso rimane pendente per più di cinque anni dalla sua presentazione, la segreteria notifica alle parti l’obbligo per il ricorrente di presentare una nuova istanza di fissazione dell’udienza entro 120 giorni. Tale istanza deve essere firmata dal ricorrente e dal suo avvocato. In mancanza di questa istanza, il ricorso è dichiarato perento. Se invece viene comunicata la fissazione dell’udienza senza la notifica precedente, il ricorso può essere deciso solo se il ricorrente dichiara interesse alla decisione, altrimenti è dichiarato perento con decreto.

Articolo 83 – Effetti della perenzione: La perenzione si applica automaticamente (di diritto) e può essere rilevata anche d’ufficio. Ogni parte sopporta le proprie spese processuali.

Articolo 84 – Rinuncia: Una parte può rinunciare al ricorso in qualsiasi fase del processo attraverso: 1. una dichiarazione scritta firmata dalla parte stessa o dall’avvocato con mandato speciale, da depositare presso la segreteria; 2. una dichiarazione resa in udienza e registrata nel verbale. Il rinunciante deve sostenere le spese degli atti compiuti, salvo diversa decisione del collegio. La rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno 10 giorni prima dell’udienza. Se non vi è opposizione, il processo si estingue. Il giudice può comunque dedurre la perdita di interesse alla causa da fatti o comportamenti delle parti.

Articolo 85 – Procedura per lestinzione e limprocedibilità: l’estinzione e l’improcedibilità possono essere dichiarate con un decreto del presidente o di un magistrato delegato. Il decreto è comunicato alle parti dalla segreteria. Le parti hanno 60 giorni dalla comunicazione per opporsi al collegio mediante atto notificato a tutte le altre parti. Il giudizio di opposizione è deciso con un’ordinanza che, se accoglie l’opposizione, fissa una nuova udienza. In caso di rigetto, le spese sono a carico dell’opponente senza possibilità di compensazione. L’ordinanza è comunicata alle parti e può essere impugnata in appello. Se l’estinzione o l’improcedibilità si verificano durante l’udienza di discussione, vengono dichiarate con sentenza.

Giurisprudenza sulla perenzione

La giurisprudenza ha avuto un ruolo cruciale nell’interpretare e applicare i principi della perenzione, cercando di chiarire i contorni di questa disciplina e di bilanciare le esigenze di celerità dei processi con la tutela dei diritti degli utenti del processo amministrativo.

Consiglio di Stato sentenza n. 4318/2017

Nel processo amministrativo, il termine di perenzione previsto dall’art. 81, comma 1, del D.Lgs. n. 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo) non decorre se la mancata fissazione dell’udienza da parte della Segreteria dipende da un’omissione di quest’ultima. In tali circostanze, l’inerzia del procedimento non può essere attribuita alle parti, che non hanno la possibilità di intervenire in un’attività procedurale demandata esclusivamente all’ufficio. Le parti hanno quindi il diritto di fare affidamento sull’obbligo della Segreteria di fissare l’udienza d’ufficio.

Consiglio di  Stato sentenza n. 3017/2018

La perenzione nel processo amministrativo ha una duplice natura: privatistica, perché presuppone una tacita rinuncia delle parti alla prosecuzione del giudizio; pubblicistica, in quanto mira a soddisfare l’interesse pubblico a una rapida definizione delle controversie relative all’esercizio del potere amministrativo. Questo istituto risponde quindi all’esigenza di garantire la chiusura delle situazioni giuridiche coinvolgenti la Pubblica Amministrazione entro un termine ragionevole. 

Consiglio di Stato sentenza n. 3426/2019

Nel giudizio amministrativo, il giudice può rilevare una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa anche in assenza delle formalità previste dall’art. 84 del D.Lgs. n. 104/2010. Tale valutazione può basarsi su fatti o atti univoci intervenuti successivamente alla proposizione del ricorso, nonché sul comportamento delle parti, che possono fornire elementi utili a dimostrare la perdita di interesse alla prosecuzione del giudizio.

Effetti della perenzione

La perenzione ha effetti rilevanti sul processo amministrativo. Quando si applica la perenzione, il ricorso diventa inefficace, e il procedimento legale si estingue senza che sia necessaria una pronuncia di merito. Ciò significa che il ricorrente perde la possibilità di far valere i propri diritti in quel determinato processo, e il ricorso non potrà più essere ripreso nemmeno su richiesta della parte. I termini di perenzione sono dunque strumenti utilizzati per accelerare i procedimenti amministrativi e per evitare l’accumulo di ricorsi inerti. Tuttavia, la legge consente alcune deroghe, soprattutto nei casi in cui vi siano impedimenti giustificati che impediscono al ricorrente di proseguire l’azione.

 

Leggi anche: gli altri interessanti articoli di diritto amministrativo 

cassa integrazione guadagni

Cassa Integrazione Guadagni Cassa Integrazione guadagni: cos'è, come funziona e quale impatto ha avuto sull'istituto decreto legislativo n. 148/2015

Cassa Integrazione Guadagni: come funziona

La Cassa Integrazione Guadagni (CIG) è uno strumento fondamentale per il sostegno dei lavoratori in Italia durante periodi di crisi aziendali o difficoltà economiche.

Consente di garantire una parte della retribuzione ai dipendenti, evitando licenziamenti di massa e favorendo la continuità lavorativa. Un aspetto fondamentale del sistema di CIG è la sua regolamentazione, che nel corso degli anni ha subito importanti modifiche.

Da segnalare quelle introdotte dal Decreto Legislativo 148/2015, che ha modernizzato il quadro normativo della Cassa Integrazione.

In questo articolo esploreremo cos’è la Cassa Integrazione, le principali tipologie, e come il Decreto 148/2015 abbia influenzato il sistema, introducendo importanti novità sia per le imprese che per i lavoratori.

Cos’è la CIG

La Cassa Integrazione Guadagni (CIG) è una misura di sostegno al reddito che interviene quando un’impresa, per motivi economici, temporaneamente non può garantire ai propri dipendenti il normale orario di lavoro. Grazie alla CIG, l’azienda ha la possibilità di sospendere o ridurre l’attività lavorativa, mentre i dipendenti ricevono una parte del loro stipendio grazie all’intervento dello Stato.

La Cassa Integrazione può essere richiesta in diversi casi, come ad esempio in seguito a una crisi aziendale, a situazioni di mercato difficili, o a eventi straordinari come calamità naturali o pandemie.

Tipologie di Cassa Integrazione

Esistono principalmente tre tipologie di Cassa Integrazione:

Cassa Integrazione Ordinaria (CIGO)

Si applica alle aziende non editi e a quelle industriali e artigiani dell’edilizia che affrontano una temporanea difficoltà economica o organizzativa. La CIGO è concessa per 13 settimane, fatte salve eventuali proroghe, che in certe zone possono elevare il limite a 24 mesi.

Cassa Integrazione Straordinaria (CIGS)

È utilizzata da aziende in difficoltà più gravi, come quelle in ristrutturazione, riorganizzazione o in crisi aziendale. La CIGS è destinata a grandi imprese e a determinati settori, ed è regolamentata da norme più stringenti rispetto alla CIGO.

Cassa Integrazione in Deroga (CIGD)

È una misura di sostegno speciale che può essere attivata in situazioni straordinarie, come crisi aziendali che non rientrano nei criteri delle altre forme di CIG. Viene applicata anche in caso di difficoltà di piccole e medie imprese o in settori non coperti da altre misure.

Decreto Legislativo 148/2015: novità e conseguenze

Il Decreto Legislativo 148 del 14 settembre 2015 ha rappresentato una pietra miliare per la riforma degli ammortizzatori sociali in Italia, modificando e migliorando il sistema di Cassa Integrazione. Questo decreto ha avuto un impatto significativo su come la CIG viene concessa e gestita, introducendo una serie di innovazioni a favore sia delle imprese che dei lavoratori. Vediamo le principali modifiche.

  1. Razionalizzazione e unificazione ammortizzatori sociali

Prima del Decreto 148/2015, esistevano diverse forme di ammortizzatori sociali, ma con criteri e modalità di accesso differenti, a seconda delle dimensioni dell’impresa e delle specifiche situazioni. Il decreto ha introdotto una razionalizzazione del sistema, cercando di semplificare le procedure e di rendere più uniforme l’accesso agli ammortizzatori.

Il decreto ha, infatti, unificato il trattamento di integrazione salariale per tutte le tipologie di CIG, anche per le imprese di piccole dimensioni. Ha creato maggiore uniformità e maggiore accessibilità alla Cassa Integrazione, estendendo la possibilità di utilizzare gli ammortizzatori sociali anche alle aziende più piccole, che prima avevano difficoltà a beneficiare di questi strumenti.

  1. Durata e utilizzo della CIG

Il Decreto ha anche modificato la durata del trattamento di CIG, introducendo una maggiore flessibilità. In particolare, ha previsto che le agevolazioni per la CIGO vengano concesse solo per periodi determinati (a seconda della gravità della crisi aziendale). Questo permette di ridurre il rischio di abuso di questo strumento da parte delle imprese, incentivando l’adozione di soluzioni più durature e strutturali per uscire dalla crisi.

Inoltre, il decreto ha limitato l’utilizzo della CIG in deroga, che viene concessa solo per situazioni eccezionali. L’idea è quella di incentivare il ricorso a forme ordinarie di integrazione salariale, garantendo al contempo maggiore equità tra le aziende di diverse dimensioni e settori.

  1. Maggiore controllo e trasparenza

Una delle innovazioni più importanti introdotte dal Decreto 148/2015 è l’aumento dei controlli sulle modalità di accesso agli ammortizzatori sociali. Le aziende sono tenute a fornire una documentazione dettagliata riguardo le motivazioni che giustificano il ricorso alla CIG. In questo modo, il governo intende prevenire eventuali abusi e garantire che le risorse vengano utilizzate esclusivamente per aiutare le imprese in difficoltà reali.

  1. Sostegno a settori strategici e a imprese

Il Decreto ha esteso anche l’ambito di applicazione della CIGS per le imprese in crisi e per quelle che devono affrontare ristrutturazioni aziendali. Inoltre, ha previsto misure di sostegno specifico per i settori in difficoltà, come il settore industriale e quello agricolo, attraverso una maggiore personalizzazione delle forme di ammortizzatore sociale.

Come richiedere la Cassa Integrazione Guadagni

La procedura per richiedere la Cassa Integrazione varia a seconda della tipologia, ma in generale le imprese devono inviare una richiesta formale all’INPS, accompagnata dalla documentazione che giustifica la necessità di ricorrere alla CIG. L’INPS, a sua volta, valuta la richiesta e decide se concedere l’ammortizzatore. La durata e l’importo del trattamento dipendono dalle specifiche condizioni aziendali e dalla tipologia di CIG richiesta.

 

Leggi anche: Ammortizzatori sociali: online i dati INPS

giurista risponde

Procedure di gara: il termine per ricorrere Quali i termini per ricorrere nelle procedure di gara?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nell’ambito delle procedure di gara, ai fine dell’esperibilità del ricorso, trova applicazione il termine decadenziale dei trenta giorni, laddove la comunicazione degli esiti di gara abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo; nel caso contrario trova applicazione il termine di quarantacinque giorni (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 25 settembre 2024, n. 1721).

Preliminarmente, è opportuno ricordare che l’art. 120 del codice del processo amministrativo prevede che il termine decorre, per il ricorso principale ed i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, ai sensi dell’art. 36 del medesimo codice dei contratti pubblici.

Dunque, la decorrenza del termine per ricorrere differisce che si tratti di ricezione della comunicazione ex art. 90 oppure della messa a disposizione degli atti ex art. 36, mediante la procedura dell’accesso.

A tal proposito soccorrono le regole cardine della pienezza conoscitiva strumentali all’inviolabilità del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato.

Pertanto, nell’ambito delle controversie ex art. 120 c.p.a., laddove la comunicazione degli esiti di gara (ex art. 90) abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo e non sia necessario attendere la messa a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, trova applicazione il tradizionale termine decadenziale dei trenta giorni ai fini dell’esperibilità del ricorso avverso gli atti di gara. Nel caso contrario in cui la conoscenza di atti ulteriori e diversi assurga a condizione ineludibile per poter acquisire una pienezza conoscitiva, rintracciabile mediante l’istituto dell’accesso formale, allora opera la logica della dilazione temporale con un’estensione fino ai quarantacinque giorni.

 

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

foglio di via

Foglio di via, nessuna convalida del giudice Per la Corte Costituzionale, il foglio di via del Questore non richiede la convalida da parte del giudice

Foglio di via e convalida

La misura di prevenzione del foglio di via, disposta dal questore nei confronti di persone pericolose per la sicurezza pubblica, non restringe la libertà personale dell’interessato, ma limita la sua libertà di circolazione. Pertanto, essa non richiede l’intervento di un giudice, come prescritto invece dall’articolo 13 della Costituzione per ogni misura restrittiva della libertà personale. Spetterà poi al giudice amministrativo e al giudice penale verificarne la legittimità e proporzionalità nel singolo caso concreto, rispettivamente quando l’interessato proponga ricorso contro il provvedimento del questore, o sia imputato in sede penale per la violazione degli obblighi stabiliti nel provvedimento. Lo ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza numero 203/2024, con la quale sono state dichiarate non fondate le questioni sollevate dal Tribunale di Taranto sull’articolo 2 del codice antimafia.

Il caso

Nel caso in esame, un uomo era stato rinviato a giudizio per avere fatto più volte ritorno nel Comune di Taranto, dal quale era stato allontanato mediante foglio di via, motivato dal questore sulla base della sua pericolosità sociale. Prima di pronunciarsi sulla responsabilità penale dell’imputato per la violazione delle prescrizioni imposte con la misura, il giudice si è però interrogato sulla legittimità costituzionale dell’articolo 2 del codice antimafia. Quest’ultimo attribuisce al questore il potere di disporre la misura senza prevedere la sua necessaria convalida da parte di un giudice.

La restrizione della libertà personale

La Corte ha anzitutto ricordato che una restrizione della libertà personale si verifica quando la persona subisce una coazione nel proprio corpo, come nel caso di arresto o di detenzione, o ancora nel caso di un trattamento medico coattivo. Si ha, inoltre, restrizione della libertà personale quando il soggetto venga sottoposto a misure che presuppongano un giudizio di “degradazione giuridica” e impongano obblighi di intensità tale da poter essere equiparati all’assoggettamento della persona all’altrui potere. In numerose decisioni, a partire dal 1956, la Corte ha ritenuto che quest’ultima situazione si verifichi in conseguenza di misure di prevenzione che impongano all’interessato obblighi di rimanere in un luogo determinato, ovvero di recarsi periodicamente presso un ufficio di polizia.

La giurisprudenza

Viceversa, la Corte ha sinora sempre escluso che il semplice divieto di recarsi in un luogo determinato ponga in causa le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. In questo caso, infatti, la persona resta libera di andare in qualsiasi altro luogo desideri, tranne quello dal quale è interdetta. Con la sentenza in esame, la Consulta ha ritenuto di dover confermare la propria costante giurisprudenza, alla quale del resto il legislatore si è da tempo orientato nel configurare la disciplina delle misure di prevenzione e dei cosiddetti “DASPO”.

E ciò nella consapevolezza che il tendenziale rispetto dei propri precedenti è una delle condizioni essenziali per l’autorevolezza delle decisioni di ogni giurisdizione superiore, compresa la Corte costituzionale.

La decisione

Peraltro, la Consulta ha sottolineato che”gli effetti del foglio di via possono risultare assai gravosi per il destinatario, ad esempio quando gli venga vietato l’ingresso nell’intero capoluogo di provincia nella quale risiede”. Tuttavia, l’ordinamento italiano dispone “di strumenti efficaci per garantire una tutela effettiva ai diritti fondamentali del destinatario contro i pericoli di uso arbitrario di queste misure, ad esempio quale strumento di repressione del dissenso politico e delle legittime forme di protesta protette dalla Costituzione”.

Da un lato, il ricorso al giudice amministrativo è certamente idoneo ad assicurare una tutela immediata ed effettiva contro eventuali provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali dell’interessato.

Dall’altro, lo stesso giudice penale, nei procedimenti per violazione degli obblighi inerenti a una misura di prevenzione, ha il dovere di verificarne preliminarmente la legittimità.

La verifica di legittimità compiuta dall’uno e dall’altro giudice, infine, comprende necessariamente anche una valutazione di proporzionalità tra le finalità di tutela perseguite dall’autorità di polizia e la concreta incidenza della singola misura sulla libertà di circolazione dell’interessato, nonché sull’intera gamma dei suoi diritti fondamentali comunque incisi dal provvedimento.

indegnità a succedere

Indegnità a succedere Indegnità a succedere: analisi dell'istituto ex art. 463 c.c. che esclude dalla successione chi ha compiuto atti gravi contro il de cuius o persone a lui vicine

Indegnità a succedere: cos’è

L’indegnità a succedere è una causa di esclusione dalla successione, sancita dall’articolo 463 del Codice Civile italiano. In base a questo istituto una persona, normalmente chiamata a succedere, viene privata del diritto di ereditare, a causa di comportamenti gravemente lesivi nei confronti del defunto o di persone a lui vicine. In questo articolo, esploreremo nel dettaglio l’articolo 463 del Codice Civile, i suoi effetti sulla successione, e le principali pronunce giuridiche che hanno interpretato e applicato questa norma, per fornire una panoramica chiara e completa dell’istituto.

Quando si verifica l’indegnità a succedere

L’indegnità a succedere si verifica quando una persona, pur avendo diritto all’eredità come successibile, viene esclusa dalla successione a causa comportamenti gravi o immorali della stessa nei confronti del defunto. Il Codice Civile italiano prevede che alcune azioni, particolarmente gravi, possano privare un soggetto della capacità di ereditare.

L’istituto ha quindi natura punitiva e preventivo-sociale. Esso impedisce a chi ha compiuto atti gravi di godere dei benefici derivanti dalla morte di chi ha danneggiato.

Articolo 463 c.c.: cosa prevede

L’articolo 463 c.c. stabilisce che una persona è indegna a succedere se, con azioni od omissioni, ha compiuto atti gravi di rilievo penale e civile. L’indegnità colpisce infatti:

  • chi, con volontà, ha ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente dello stesso, in assenza di una delle cause che ne escludono la punibilità;
  • chi ha commesso, in danno di uno dei suddetti soggetti, un fatto a cui la legge dichiara applicabile le disposizioni sull’omicidio;
  • chi ha denunciato una delle persone suddette per un reato punibile con l’ergastolo o la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denuncia è stata dichiarata poi calunniosa nell’abito del giudizio penale; chi ha testimoniato contro le stesse persone imputate per i predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata falsa nel giudizio penale;
  • chi è decaduto dalla responsabilità genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta e non è stato reintegrato nella stessa alla data di apertura della successione;
  • chi ha indotto con dolo o violenza la persona a fare, revocare o mutare il testamento;
  • chi ha soppresso, celato, o alterato il testamento che regolerebbe la successione;
  • chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso.

Indegnità a succedere: cosa dice la giurisprudenza

La giurisprudenza ha avuto e ha ancora un ruolo fondamentale nell’interpretare e applicare l’articolo 463 del Codice Civile. Diverse sentenze della Corte di Cassazione hanno infatti contribuito a chiarire l’ambito e i limiti dell’indegnità a succedere. Vediamo alcune delle principali pronunce.

Indegno chi contravviene ai doveri di assistenza familiare

La sentenza della Cassazione Civile n. 19547/2008 ha stabilito che l’indegnità a succedere non si limita ai casi di omicidio o tentato omicidio. Essa si realizza in tutti i casi in cui il comportamento del successibile contravvenga ai doveri di rispetto e di assistenza familiare. Il caso riguardava un figlio che, pur non avendo ucciso il padre, aveva compiuto atti di grave maltrattamento psicologico e fisico nei suoi confronti. La Corte ha ritenuto che tali azioni giustificassero l’esclusione dalla successione. A conclusioni similari è giunta, sempre la Cassazione, nella sentenza n. 10591/2012. La Corte ha escluso infatti dalla successione una persona che, pur non avendo compiuto atti di violenza fisica diretta, aveva continuato a trattare il padre malato in modo indegno e disumano, causando  allo stesso un grave danno psicologico. La decisione della Cassazione ha sancito quindi che l’indegnità può derivare da atti non necessariamente violenti, ma comunque lesivi della dignità del defunto.

Indegno chi commette violenza economica

Gli Ermellini, nella sentenza n. 5935/2018 si sono occupati invece della questione della violenza economica come causa di indegnità a succedere. Un coniuge che aveva abusato della posizione di potere economico nei confronti del defunto, sottraendo beni o controllando in modo oppressivo le risorse finanziarie, è stato ritenuto indegno a succedere. La Corte ha interpretato l’indegnità come una misura che tutela non solo la vita fisica del defunto, ma anche il suo patrimonio e la sua integrità morale.

Dichiarazione di indegnità

L’indegnità a succedere non si verifica in ogni caso automaticamente: deve essere accertata in giudizio. Per dichiarare una persona indegna di succedere è necessario infatti che il tribunale prenda una decisione formale in seguito a una causa avviata da un altro soggetto che vanta diritti sull’eredità. Chi ha interesse a escludere un successibile dalla successione può quindi ricorrere al tribunale per ottenere una sentenza di indegnità, che ha natura costituiva.

Effetti dell’indegnità a succedere

La sentenza di indegnità comporta l’esclusione dalla successione del soggetto indegno, che perde quindi il diritto a ricevere beni e diritti rientranti nell’eredità del defunto.

La persona indegna non eredita nulla dal defunto, neppure legati o donazioni disposti in suo favore dal de cuius. Il patrimonio del defunto verrà quindi suddiviso tra quei soggetti che, per legge o per testamento, possono succedere al de cuius.

Riabilitazione dell’indegno

L’articolo 466 c.c prevede però che, chi è stato dichiarato indegno, possa essere riammesso a succedere se lo stesso è stato riabilitato espressamente per mezzo di un atto pubblico o di un testamento. Se poi l’indegno che non è stato riabilitato espressamente, è stato incluso nel testamento e il testatore conosceva la causa di indegnità, allora l’indegno può essere ammesso a succedere nei limiti della disposizione testamentaria in suo favore.

Leggi anche: Testamento: no all’interpretazione troppo “tecnica”

nuove licenze ncc

Nuove licenze NCC autorizzate dalle Regioni Le Regioni possono autorizzare nuove licenze di NCC ma devono rispettare l'obbligo della pubblica gara

Licenze NCC autorizzate dalle Regioni

Nuove licenze NCC autorizzate dalle Regioni. Ok dalla Corte Costituzionale purchè si rispetti l’obbligo della pubblica gara. Questo quanto precisato con la sentenza n. 206/2024.

La «rigida previsione contenuta nella risalente disciplina introdotta nel 1992», che assegna solo ai comuni la possibilità di indire pubblici concorsi per il rilascio delle autorizzazioni al servizio di noleggio con conducente (NCC), deve ritenersi «cedevole rispetto a successive leggi regionali che definiscano un assetto più articolato e attuale, in funzione della tutela di un livello di interessi che riguarda importanti potenzialità di sviluppo dell’intero territorio regionale». Si legge nel documento con cui la Consulta – dopo la pronuncia numero 137 del 2024, con cui è stata dichiarata, a seguito di autorimessione, l’illegittimità costituzionale del divieto di rilascio di nuove autorizzazioni per il servizio di NCC, previsto dall’articolo 10-bis, comma 6, del decreto-legge numero 135 del 2018 – è tornata a giudicare il ricorso del governo avverso l’articolo 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Calabria numero 16 del 2023.

Duplice portata normativa

Tale disposizione – ha precisato la sentenza – riveste una duplice portata normativa: da un lato, infatti, alloca anche alla Regione Calabria la funzione relativa al rilascio delle autorizzazioni per il servizio di NCC, dall’altro la disciplina attraverso una assegnazione diretta di tali autorizzazioni alla Ferrovie della Calabria srl. In riferimento al primo aspetto, la sentenza ha chiarito che «il principio di sussidiarietà non si oppone, ma anzi conferma la possibilità per la Regione di introdurre, nell’ambito della propria competenza legislativa residuale in materia di trasporto pubblico locale, norme che integrano, nel territorio regionale, quelle statali vigenti che declinano il livello di governo di allocazione della funzione di rilascio di autorizzazione al NCC».

Potenziare il sistema del trasporto

Dal momento che è la «quasi totale assenza di vettori» il motivo che ha spinto il legislatore regionale ad intervenire, la norma risulta funzionale a potenziare il sistema complessivo del trasporto non di linea, che «concorr[e] a dare “effettività” alla libertà di circolazione».

La sentenza ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale della previsione del rilascio delle autorizzazioni a svolgere il servizio di NCC direttamente a Ferrovie della Calabria srl: tale disciplina viola, infatti, l’obbligo del pubblico concorso previsto dall’articolo 8, comma 1, della legge numero 21 del 1992 e si pone pertanto in contrasto con la competenza statale in materia di «tutela della concorrenza», che assume carattere trasversale e prevalente, fungendo «da limite alla disciplina che le Regioni possono dettare nelle materie di loro competenza, concorrente o residuale», «sia pure nei limiti strettamente necessari per assicurare gli interessi alla cui garanzia la competenza statale esclusiva è diretta».

giurista risponde

Diniego di accesso e segreto professionale È legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale che rientra tra i casi di esclusione previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a), della L. 241/1990 (Cons. Stato, sez. VII, 19 settembre 2024, n. 7658).

È opportuno preliminarmente ricordare che l’art. 24 della legge sul procedimento amministrativo disciplina i casi di esclusione del diritto di accesso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della L. 801/1977, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo; b) nei procedimenti tributari; c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.

Il secondo comma dell’art. 24 prevede che, le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma 1.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale facendolo rientrare tra i casi di esclusione previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a), della L. 241/1990, rendendo, pertanto, superflua la mancata formalizzazione della opposizione del professionista interessato.

Infatti, il segreto professionale è posto a tutela, oltre che degli assistiti, anche della libertà di scienza che, nell’esercizio dell’attività professionale, deve essere garantita ai prestatori d’opera intellettuale ai sensi dell’art. 2239 c.c. e dell’art. 33 Cost. Tale libertà potrebbe risultare gravemente compromessa qualora non si garantisse la riservatezza delle valutazioni, dei giudizi e delle opinioni espresse nel corso dell’attività professionale.

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

rito abbreviato

Rito abbreviato: la rinuncia all’impugnazione apre alla sospensione La Consulta ha stabilito che la rinuncia all'impugnazione della condanna nel giudizio abbreviato può aprire la strada alla sospensione condizionale della pena

Rito abbreviato e rinuncia all’impugnazione

Il condannato in esito a rito abbreviato che non abbia proposto impugnazione deve poter essere ammesso alla sospensione condizionale e alla non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando per effetto della diminuzione di un sesto prevista dalla “riforma Cartabia” la pena inflittagli non superi i due anni di reclusione. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 208/2024, che ha ritenuto fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata dal GUP del Tribunale di Nola sulla nuova disciplina introdotta dalla riforma.

La questione

Una persona condannata, con rito abbreviato, a due anni e quattro mesi di reclusione aveva rinunciato all’impugnazione, ottenendo così l’ulteriore sconto di un sesto della pena ora previsto dal nuovo comma 2-bis dell’articolo 442 del codice di procedura penale. Il giudice dell’esecuzione aveva quindi ridotto la pena a un anno, undici mesi e dieci giorni di reclusione. Il condannato aveva però anche chiesto al giudice i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, che in via generale possono essere concessi quando la pena concretamente inflitta resti al di sotto del tetto di due anni di reclusione.

Il giudice aveva però osservato che la riforma non attribuisce espressamente questo potere al giudice dell’esecuzione. Ritenendo che tale mancata previsione non fosse compatibile con il principio di eguaglianza e la finalità rieducativa della pena, il giudicante aveva investito della questione la Corte costituzionale.

I chiarimenti della Consulta

La Consulta ha chiarito, anzitutto, che i principi costituzionali evocati dal giudice impongono effettivamente di riconoscere al giudice dell’esecuzione il potere di valutare se sussistano i presupposti per la concessione dei due benefici, ogniqualvolta la pena da eseguire sia ridotta entro il limite dei due anni per effetto della riduzione prevista dalla riforma.

La Corte ha sottolineato la funzionalità alla finalità rieducativa della pena dei benefici in esame, entrambi di antica tradizione nel nostro ordinamento.

In particolare, “la sospensione condizionale mira, da un lato, ad evitare gli effetti criminogeni e desocializzanti della pena detentiva breve. Dall’altro, essa intende prevenire la commissione di nuovi reati da parte del condannato attraverso la minaccia di revoca del beneficio, e a favorirne il percorso di risocializzazione attraverso gli obblighi riparatori, ripristinatori o di recupero che possono essere associati al beneficio”.

In conformità al principio costituzionale della finalità rieducativa, il legislatore ha previsto in generale che le pene detentive non superiori a due anni possano essere sospese.

Ciò deve valere, ha ritenuto la Corte, anche quando la determinazione finale della pena costituisca il risultato degli sconti di pena stabiliti dal legislatore in cambio di scelte processuali, con cui l’imputato volontariamente rinuncia a garanzie che formano parte integrante dei suoi diritti costituzionali di difesa in giudizio (come il diritto di proporre appello contro la sentenza di condanna che lo riguarda), fornendo così un contributo al più rapido ed efficiente funzionamento del sistema penale nel suo complesso.

La decisione

Secondo la Corte, il giudice avrebbe potuto concedere i benefici al condannato anche sulla base della legge oggi vigente, interpretata in conformità ai principi costituzionali. Poiché, tuttavia, due recentissime pronunce della Corte di cassazione hanno interpretato in senso opposto la disciplina normativa, la Corte costituzionale ha ritenuto opportuno intervenire per assicurare la certezza del diritto in materia processuale, dichiarando costituzionalmente illegittima la mancata espressa previsione della possibilità per il giudice dell’esecuzione di concedere i due benefici, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena originariamente determinata era superiore ai relativi limiti di legge.

Edilizia residenziale pubblica

Edilizia residenziale pubblica: meno vincoli all’esecuzione forzata Per la Consulta è incostituzionale l'improcedibilità prevista per l'esecuzione forzata su immobili di edilizia pubblica nei confronti del costruttore privato

Esecuzione forzata edilizia residenziale pubblica

Edilizia residenziale pubblica: “è incostituzionale l’improcedibilità prevista – nell’ambito dell’esecuzione forzata su immobili destinati all’edilizia residenziale pubblica convenzionata – per il caso in cui il creditore fondiario non risponda a particolari requisiti o non partecipi alla procedura”. È quanto si legge nella sentenza numero 211/2024, con cui la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 1, comma 378, della legge 30 dicembre 2020, numero 178.

La norma

La norma censurata prevedeva che il giudice dell’esecuzione dovesse verificare d’ufficio in capo al creditore fondiario procedente la sussistenza dei seguenti requisiti: rispondenza del contratto di mutuo ai criteri stabiliti dalla legge numero 457 del 1978 (articolo 44) e inserimento dell’istituto di credito nell’elenco delle banche convenzionate presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

Dopo aver constatato che il citato elenco non risulta ancora istituito e dopo aver preso atto che la formulazione della disposizione ha generato interpretazioni significativamente diverse, la Corte ha reputato “irragionevole e sproporzionata la norma censurata, ricostruita dal rimettente in maniera da abbracciare tanto una ratio sanzionatoria, quanto una supposta funzione di tutela della garanzia dello Stato”.

La Corte ha ritenuto, anzitutto, incostituzionale la disciplina, “là dove prevede la sanzione della improcedibilità per il creditore che non abbia rispettato i requisiti indicati nel richiamato articolo 44 della legge numero 457 del 1978, in presenza dei quali gode della garanzia dello Stato. Se dal mancato rispetto dei citati requisiti si fa discendere anche la perdita della garanzia dello Stato, risulta, infatti, sproporzionato inibire in aggiunta l’accesso alla tutela esecutiva. Se, invece, si esclude la perdita della garanzia dello Stato, l’improcedibilità determina solo l’irragionevole effetto di far valere la garanzia dello Stato al di fuori della procedura, anziché nell’ambito della stessa, ove la garanzia opera in via sussidiaria”.

Parimenti, irragionevole, oltre che sproporzionata, è la norma se interpretata nel senso di estendere l’improcedibilità anche ai casi in cui il creditore fondiario neppure partecipi alla procedura concernente i richiamati immobili.

La decisione

La Consulta rileva, infatti, che il creditore fondiario viene per legge avvisato dell’avvio della procedura concernente il bene su cui grava il suo diritto di ipoteca e rispetto al quale gode della garanzia dello Stato. Pertanto, se non interviene, è solo su di lui che dovrebbero riverberarsi le conseguenze della sua stessa inerzia. Viceversa, è irragionevole correlare all’inerzia del creditore fondiario l’improcedibilità per gli altri creditori, consentendo, al contempo, al debitore di assicurarsi, con il solo pagamento delle rate del mutuo fondiario, una temporanea impignorabilità del bene. Infine ha ribadito il giudice delle leggi che “restano fermi gli strumenti preposti alla tutela della finalità abitativa, vale a dire l’improcedibilità in caso di mancato avviso al comune e all’ente finanziatore circa la pendenza della procedura e il rispetto degli oneri reali in capo all’assegnatario della vendita forzata”.