note 171 ter cpc dubbi

Note 171-ter c.p.c.: le incertezze della riforma Allo studio del Governo i correttivi alla Riforma Cartabia, anche per dirimere le incertezze sul decreto ex art. 171-bis e sui suoi rapporti con le note integrative ex art. 171-ter

I rapporti tra le note integrative e il decreto ex art. 171-bis c.p.c.

Se la Riforma Cartabia si prefiggeva l’obiettivo di portare chiarezza, semplificazione e rapidità nell’ambito del processo civile, purtroppo non si può dire che ciò sia avvenuto con specifico riferimento al tema delle memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c. e del decreto che il giudice dovrebbe emanare a margine delle verifiche preliminari ex art. 171-bis.

Sul punto si è verificata una certa confusione e divergenza di opinioni tra gli addetti ai lavori, sfociata in una diversità di operato da parte degli avvocati e nel contrastante tenore dei provvedimenti adottati dai giudici dei Tribunali.

Ricapitoliamo brevemente la materia, per poi concentrarci sui più recenti interventi legislativi, che intendono apportare correttivi alla riforma Cartabia per riportare, quanto meno, la dovuta chiarezza normativa sul tema.

Le memorie integrative dopo la Riforma Cartabia

Come risaputo, le note integrative ex art. 171-ter c.p.c. sostituiscono, sostanzialmente, le vecchie memorie ex art. 183, sesto comma, e consentono alle parti di modificare e precisare domande, eccezioni e richieste istruttorie in un momento che precede la celebrazione della prima udienza.

Ciò allo scopo, diversamente da quanto accadeva nel rito pre-riforma, di mettere il giudice in condizioni di arrivare alla prima udienza già consapevole del thema decidendum ed istruttorio.

Ebbene, secondo le previsioni dell’articolo in questione, tali memorie possono essere depositate dalle parti entro determinati termini (pari a quaranta, venti e dieci giorni prima) da calcolarsi a ritroso, rispetto alla data di udienza di prima comparizione.

Già, ma qual è, di preciso, questa data? Ecco il vero nodo della questione.

Data della prima udienza di comparizione: il decreto ex art. 171-bis

Di regola, la data dell’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. è quella indicata dall’attore nell’atto di citazione.

Il convenuto è tenuto a costituirsi entro 70 giorni prima di tale data, e dalla scadenza di tale termine il giudice, ex art. 171-bis, ha quindici giorni (termine ordinatorio, si badi) per compiere le verifiche preliminari sulla regolarità del contraddittorio e per indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione.

Ebbene, quando pronuncia tali provvedimenti, il giudice ha facoltà di fissare una nuova data per l’udienza di comparizione delle parti, “rispetto alla quale decorrono i termini indicati dall’articolo 171-ter” (art. 171-bis, secondo comma). Inoltre, se non provvede in tal senso, egli “conferma o differisce, fino ad un massimo di quarantacinque giorni, la data della prima udienza”, ed anche in tal caso i termini ex art. 171-ter decorrono con riferimento a tale nuova data.

Adesso, il dilemma che si è posto all’attenzione di dottrina e giurisprudenza è il seguente: il giudice è tenuto in ogni caso ad adottare il decreto di cui all’art. 171-bis, o in mancanza è da ritenersi implicita la conferma della data fissata dall’attore? E cosa succede se adotta il decreto decorso il termine ordinatorio di quindici giorni indicato da tale articolo, e in particolare se tale decreto sopraggiunga dopo l’avvenuto deposito di note ex art. 171-ter da parte degli avvocati?

E ancora: il decreto del giudice vale ad autorizzare il deposito delle memorie integrative, o queste possono essere presentate anche senza alcuna concessione da parte del giudice?

Incertezze in giurisprudenza sulle memorie integrative ex art. 171-ter

Come si vede, il proposito di semplificare e velocizzare la procedura, proprio della Riforma Cartabia, è stato frustrato, in questo caso, dalla mancanza di chiarezza riguardo alla necessità, o meno, dell’adozione del decreto di conferma, differimento o fissazione di una nuova udienza da parte del giudice, ex art. 171-bis.

E così, si sono verificati casi in cui il Tribunale ha ritenuto erroneo il deposito di memorie integrative ex art. 171-ter in assenza di decreto del giudice (Trib. Treviso 25.01.2024 o anche il provvedimento del Trib. Pistoia, 22.09.2023, con cui, in sostanza, si riteneva che la decorrenza dei termini per il deposito delle note non potesse considerarsi ancora iniziata, mancando il provvedimento giudiziale); e casi in cui il Tribunale ha espressamente fatto salvi i termini ex art. 171-ter, facendoli decorrere dalla data di udienza fissata dall’attore, in un caso in cui il decreto di fissazione dell’udienza era stato adottato oltre il termine di quindici giorni previsto dall’art. 171-bis (Trib. Firenze, 19.01.2024).

Il Tribunale di Piacenza è andato ancora oltre, con un provvedimento del 01.05.2023, sostenendo espressamente che il deposito delle note ex art. 171-ter debba essere autorizzato dal giudice, sul modello del previgente rito in cui il codice prevedeva una formale concessione dei termini per le note ex art. 183 sesto comma, possibile peraltro solo su apposita richiesta di parte.

Correttivo sulla necessità del decreto all’esito delle verifiche preliminari

Insomma, un po’ di confusione si è fatta, e forse la colpa non è nemmeno di una Riforma tutto sommato ben scritta sul punto, ma piuttosto di un certo eccesso nello sforzo interpretativo da parte degli operatori: non appare, in fin dei conti, così scontato ritenere che l’intenzione del legislatore fosse quella di rendere necessario in tutti i casi un decreto relativo alla data di prima udienza, e tanto meno che dall’adozione di questo dipendesse, addirittura, la possibilità o meno di depositare le memorie integrative.

Lo schema di decreto legislativo presentato a marzo

Ma tant’è, i dubbi e le interpretazioni discordanti ci sono stati, e così siamo arrivati alla situazione attuale: la necessità di un correttivo alla Riforma Cartabia, che è in effetti ai lavori, sotto forma di Schema di decreto legislativo, presentato in data 18 marzo 2024 e concernente disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149.

Nel dettaglio, a dirimere d’ora in poi ogni dubbio sul tema sopra affrontato, il documento prevede all’art. 3 (Modifiche al codice di procedura civile) la riformulazione dell’art. 171-bis nel senso di prevedere “che la fase delle verifiche preliminari debba comunque concludersi con un decreto del giudice istruttore” e di precisare che “i termini di cui all’art. 171-ter per il deposito di memorie integrative iniziano a decorrere dalla data del decreto”, computandosi gli stessi rispetto all’udienza fissata nell’atto di citazione o dal giudice istruttore.

Tale modifica, viene precisato nell’atto di delega al Governo, “ha anche lo scopo di eliminare ogni dubbio circa il fatto che in sede di verifiche preliminari il giudice deve in ogni caso emettere un provvedimento di conferma o differimento dell’udienza, anche se non adotta uno dei provvedimenti relativi alla corretta instaurazione del contraddittorio”.

reato resistenza pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale Il reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 del codice penale. Differenze con il reato di violenza e minacce e rassegna giurisprudenziale

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale sanziona chi si oppone all’azione di un pubblico ufficiale (o del privato che, richiesto, gli presti assistenza) nel momento in cui quest’ultimo sta compiendo un atto del proprio ufficio.

Nel concetto di resistenza sono ricompresi, come vedremo tra breve, quei comportamenti che mirano a impedire il compimento dell’atto di ufficio, e questa circostanza vale a distinguere il reato di resistenza da quello di violenza o minaccia a pubblico ufficiale.

I caratteri del reato: violenza e minacce

A norma dell’art. 337 del codice penale, per aversi resistenza a pubblica ufficiale occorre che l’opposizione a quest’ultimo debba avere i caratteri della violenza o minaccia.

A questo riguardo, è opportuno precisare quando ricorrano tali caratteri, per comprendere quando si possa configurare il reato in oggetto. Ad esempio, la semplice fuga da un agente di polizia intenzionato ad eseguire controlli non integra resistenza, non ricorrendo violenza né minaccia.

Diversamente, se la fuga è accompagnata da minacce e da violenza – ad esempio, il tentativo di forzare con la propria auto un posto di blocco o l’esecuzione di manovre tese a impedire l’inseguimento in auto e foriere di pericolo per gli inseguitori – si ha resistenza a pubblico ufficiale, poiché si crea ostacolo al compimento degli atti da parte degli agenti, indipendentemente dall’esito di tale azione (Cass. pen. n. 5459/20).

La giurisprudenza sull’art. 337 c.p.

Altre pronunce giurisprudenziali ci aiutano a definire meglio i contorni di tale concetto.

Resistenza passiva

Ad esempio, la Corte di Cassazione, VI sez. penale, con sentenza n. 6604/22, ha chiarito, nel solco di pacifica giurisprudenza legittimità (cfr., tra tante, Cass. sez. VI, n. 10136/13), che la semplice resistenza passiva non vale a integrare il reato di cui all’art. 337 c.p., con tale locuzione intendendosi, ad esempio, l’atto del semplice divincolarsi del soggetto fermato dall’agente di polizia, attraverso l’uso di gesti di moderata violenza non diretta contro il pubblico ufficiale.

Parimenti, non fa resistenza il soggetto fermato dal pubblico ufficiale che si appoggi al telaio dell’auto della polizia per cercare di non essere condotto all’interno del veicolo (Cass. sez. VI, 6069/2015: si tratta di un altro esempio di resistenza passiva).

In definitiva, per integrarsi resistenza ai sensi dell’art. 337 c.p., occorre che il soggetto intenda porre in atto un condizionamento diretto dell’azione del pubblico ufficiale, opponendosi ad essa con violenza e minaccia e con lo scopo di impedirla.

La minaccia

In ogni caso, non è sempre facile ricostruire i confini di tale condotta; quanto alla minaccia, ad esempio, essa non deve essere generica, ma ingiusta, per quanto non necessariamente diretta verso la persona del pubblico ufficiale, né su una cosa. Si pensi, ad esempio, che la Suprema Corte ha ritenuto sussistente la resistenza a pubblico ufficiale in un caso in cui il soggetto fermato ha minacciato di darsi fuoco, non ritenendo la Corte necessaria una minaccia diretta o personale, essendo sufficiente una minaccia morale tale da costituire ostacolo all’azione del pubblico ufficiale (Cass. 26869/17).

Differenza tra resistenza a p.u. e violenza ex art. 336 c.p.

Il criterio per distinguere il reato di resistenza a pubblico ufficiale da quello di violenza o minaccia ai danni dello stesso (art. 336 c.p.) è quello temporale, in quanto la resistenza si configura quando si cerca di impedire un atto del pubblico ufficiale mentre questi lo sta compiendo, mentre il reato di violenza o minaccia si configura quando queste ultime sono perpetrate prima che il pubblico ufficiale compia il proprio atto d’ufficio o di servizio (cfr, Cassazione, Vi sez. pen., n. 37749/10).

Esimente al reato di resistenza a pubblico ufficiale

Va ricordato, infine, che il reato in oggetto è escluso quando la resistenza sia conseguenza di un’azione arbitraria del pubblico ufficiale che ecceda i limiti delle proprie attribuzioni (v. Cass. pen., n. 18841/2011, secondo cui tale esimente ricorre, ad esempio, quando la perquisizione personale sia disposta dal pubblico ufficiale in assenza degli elementi normativamente previsti che la giustifichino).

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale è procedibile d’ufficio – cioè senza necessità di querela – ed è sanzionato con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni.

clausola visto e piaciuto compravendita

Clausola visto e piaciuto Qual è l’efficacia della clausola visto e piaciuto nei contratti di compravendita? L’acquirente perde il diritto alla garanzia per i vizi del bene?

Clausola visto e piaciuto: cos’è e come funziona

Nelle compravendite di immobili e di veicoli usati come autovetture o motociclette, viene spesso inserita in contratto la clausola visto e piaciuto: di cosa si tratta? E quali sono gli effetti derivanti dalla sua sottoscrizione?

La clausola visto e piaciuto intende riferirsi, in sostanza, al fatto che l’acquirente, dopo avere esaminato il bene (“visto”), lo accetta così com’è (“piaciuto”): è, con tutta evidenza, una previsione contrattuale a tutela della posizione del venditore, che con tale disposizione intende evitare successive contestazioni da parte dell’acquirente e sottrarsi alla garanzia di cui all’art. 1490 c.c., primo comma.

Ma funziona davvero così? L’inserimento della formula vista e piaciuta vale effettivamente a privare l’acquirente della possibilità di lamentele circa le condizioni del veicolo, o dell’immobile, successive all’acquisto?

L’efficacia della clausola visto e piaciuto

In realtà, il valore della clausola visto e piaciuto e di altre simili – come, ad esempio, la clausola come visto e piaciuto nello stato in cui si trova – è piuttosto limitato e non protegge più di tanto il venditore dal rischio di subire contestazioni post-vendita.

Infatti, per essere realmente efficace in tal senso, la clausola dovrebbe accompagnarsi ad una più esplicita previsione contrattuale che prevedesse la rinuncia espressa dell’acquirente alle azioni conseguenti alla scoperta di un difetto del bene successiva all’acquisto.

In mancanza, il rischio è quello che un giudice – cui l’acquirente dovesse rivolgersi – possa considerare la disposizione contrattuale in questione come una mera clausola di stile, priva di qualsiasi potere cogente per le parti e pertanto inidonea a privare l’acquirente del diritto di agire per contestare i vizi del bene.

Come funziona la formula vista e piaciuta?

Ma v’è di più. Anche a voler considerare la clausola come vincolante – e non mancano, in giurisprudenza, giudici che l’abbiano ritenuta tale – la sua portata è comunque limitata.

Per comprendere, infatti, come funziona la formula vista e piaciuta bisogna pensare a cosa avviene al momento della vendita e della sottoscrizione del contratto: l’acquirente compie un esame visivo, necessariamente superficiale e limitato, del bene e si dichiara soddisfatto.

Difetti non notati durante le trattative

È ovvio, però, che, se durante l’utilizzo continuato del bene successivo all’acquisto, emergono dei difetti che era impossibile notare in sede di trattativa, la posizione dell’acquirente debba essere tutelata, anche quando abbia sottoscritto la clausola visto e piaciuto.

Si pensi al malfunzionamento di un veicolo che si manifesti solo dopo qualche giorno di utilizzo, o ad una traccia di umidità che affiori sulla parete dell’immobile appena acquistato. Se tali difetti sono conseguenti ad un vizio preesistente alla sottoscrizione del contratto (un difetto meccanico dell’auto, una tubatura difettosa dell’impianto idrico dell’appartamento), impossibile da rilevare ad un primo sguardo, allora sfuggono completamente all’operatività della formula di vendita vista e piaciuta.

Vizi occulti

Si tratta, infatti, dei c.d. vizi occulti, cioè di quei difetti che si possono rilevare solo con un utilizzo continuato del bene e che non erano riconoscibili dal normale esame del bene, per quanto diligente, in sede di compravendita.

Vendita visto e piaciuto: vizi occulti e art. 1490 c.c.

Le cose cambiano ulteriormente quando il vizio del bene fosse conosciuto dal venditore e da questi dolosamente taciuto: è evidente che, anche in tal caso e a maggior ragione, è impossibile riconoscere alcuna operatività alla clausola visto e piaciuto.

L’intera materia sopra descritta è ben riassunta dalle disposizioni dell’art. 1490 c.c., il quale, da una parte, al primo comma, prevede la responsabilità del venditore per i vizi della cosa che siano tali da renderla inidonea all’uso o che ne diminuiscano il valore. Dall’altra, al secondo comma, permette la possibilità di inserire clausole che escludano la garanzia di cui sopra, ma ne esclude l’efficacia in caso di mala fede del venditore che abbia taciuto l’esistenza del vizio.

atto di precetto art. 480 c.p.c.

Atto di precetto L’atto di precetto contiene un’intimazione al debitore di pagare spontaneamente quanto dovuto per evitare che venga avviata l’esecuzione forzata

Cos’è l’atto di precetto

Il precetto è l’atto con cui il creditore intima al debitore di pagare quanto dovuto, avvertendolo che in mancanza di adempimento spontaneo procederà con il pignoramento dei beni e quindi con l’esecuzione forzata.

In sostanza, il precetto ha la funzione di ultimo avvertimento, per consentire al debitore di pagare senza incorrere nell’esecuzione a danno dei beni rientranti nel suo patrimonio.

Come vedremo, l’atto di precetto, pur essendo teoricamente un atto stragiudiziale, perché precede il procedimento di esecuzione forzata, è sostanzialmente considerato dall’ordinamento il primo atto dell’esecuzione stessa, tanto da poter essere oggetto di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. da parte del debitore.

La notifica del precetto

L’obbligo di cui il creditore chiede l’adempimento con l’atto di precetto è quello individuato dal titolo esecutivo cui il precetto stesso fa riferimento.

Tale obbligo può corrispondere a quanto indicato in una cambiale, un assegno o in un altro titolo esecutivo, come una sentenza o un decreto ingiuntivo. Questi ultimi provvedimenti, però, prima di essere notificati al debitore, devono essere muniti di formula esecutiva.

Il precetto può essere notificato unitamente al titolo esecutivo o successivamente alla notifica del titolo.

A questo proposito, giova ricordare cosa succede se non si ritira un precetto esecutivo: in tal caso, la notifica si considera comunque perfezionata, una volta decorsi dieci giorni dall’avviso con cui il servizio postale informa il destinatario della giacenza del precetto a causa della precedente mancata consegna.

Quanto tempo passa tra atto di precetto e pignoramento?

Come abbiamo detto, per espressa previsione di legge (art. 480 c.p.c.), il precetto deve contenere l’avvertimento al debitore che, in mancanza di adempimento, si procederà ad esecuzione forzata. Quest’ultima non può, però, essere avviata dal creditore (con l’atto di pignoramento) prima di 10 giorni dalla notifica del precetto, proprio per consentire al debitore l’eventuale adempimento spontaneo.

Non solo: l’art. 491 c.p.c. impone al creditore di iniziare l’esecuzione entro novanta giorni dalla ricezione della notifica da parte del debitore. Ciò è previsto proprio per sottolineare il valore di avvertimento dell’atto di precetto a beneficio del debitore ed evitare, quindi, che il pignoramento ai danni del patrimonio di quest’ultimo possa avvenire in un tempo lontano da quello in cui egli è stato avvisato dell’intenzione del creditore di procedere ad esecuzione forzata.

Sebbene, quindi, non sia tecnicamente corretto chiedersi quando va in prescrizione un atto di precetto (poiché non si tratta di prescrizione ma di perdita di efficacia), è pacifico che una volta trascorsi 90 giorni dalla sua notifica senza che sia avviata l’esecuzione, il precetto perde la sua efficacia.

Il contenuto del precetto ex art. 480 c.p.c.

Quanto al contenuto dell’atto di precetto, in esso devono essere indicate le parti e trascritto il contenuto del titolo esecutivo. Inoltre, deve esservi l’avvertimento che il debitore può rivolgersi ad un organismo di composizione della crisi per concludere con il creditore un accordo di composizione della crisi o per predisporre un piano del consumatore (si tratta dei rimedi previsti dalla l. 3 del 2012 per risolvere le situazioni di sovraindebitamento).

Il precetto deve, inoltre, essere sottoscritto dal debitore o dal suo difensore.

Come difendersi da un atto di precetto?

Il debitore che intenda contestare l’atto di precetto notificatogli, può proporre opposizione in giudizio.

A tal fine, egli seguirà la procedura dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., qualora ritenga di contestare il diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata; oppure avanzare opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. (come accennato all’inizio di questa breve guida), se solleva eccezioni sulla regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto.

institore art. 2203 codice civile

Institore: chi è e cosa fa Chi è e cosa fa l’institore, quali sono i suoi rapporti con l’imprenditore preponente, quali i suoi poteri e le sue responsabilità. In particolare: la procura institoria

Chi è e cosa fa l’institore

L’institore è un soggetto incaricato dall’imprenditore a gestire un’impresa commerciale o un particolare ramo di essa o una sua sede secondaria.

L’incarico viene conferito con un particolare negozio giuridico, chiamato procura institoria e afferisce ad un generale potere di gestione dell’impresa e non a specifici atti.

Che differenza c’è tra institore e procuratore

Diversamente dal potere di gestione proprio dell’institore, individuato dall’art. 2203 c.c. nei termini sopra esaminati, il procuratore ha invece dei poteri più limitati, che riguardano specifici atti.

Le funzioni di institore, inoltre, sono assimilabili a quelle di un dirigente, avendo egli dei veri e propri poteri direttivi, decisionali e di rappresentanza generale, mentre lo stesso non si può dire dei procuratori.

Entrambe le figure, comunque, sono comunemente considerate come dei lavoratori subordinati ai sensi dell’art. 2094 c.c., in quanto retribuiti dall’imprenditore e legati a questi da un rapporto continuativo. In termini più generici, di solito, l’institore e il procuratore (e altresì il commesso) vengono definiti come gli ausiliari dell’imprenditore.

Poteri dell’institore

A norma dell’art. 2204 c.c., l’institore ha il potere di compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa (eccetto quelli esclusi da eventuali limiti contenuti nella procura).

L’alienazione e l’ipoteca di immobili, però, devono essere espressamente autorizzate dal proponente.

L’institore ha, inoltre, il potere di rappresentanza giudiziale dell’imprenditore. A questo riguardo, va precisato che, da un lato, l’institore può agire non solo con riferimento agli affari da lui compiuti, ma in generale per tutto ciò che afferisce all’impresa da lui gestita. Dall’altro, il suo potere di rappresentanza giudiziale non può essere limitato relativamente al lato passivo: l’institore, cioè, può essere sempre chiamato in giudizio dal terzo coinvolto con lui in un affare.

L’institore è inoltre tenuto, con l’imprenditore, all’osservanza delle norme relative all’iscrizione nel registro delle imprese e alla corretta tenuta delle scritture contabili.

Come si nomina un institore?

La procura institoria è l’atto con cui l’imprenditore prepone l’institore quale gestore della propria azienda, o di un ramo di essa.

Tale atto deve essere autenticato da un pubblico ufficiale come il notaio e successivamente trascritto presso il registro delle imprese (sebbene il rapporto institorio possa essere dimostrato, da chi ne abbia interesse, anche in assenza della procura).

I caratteri di pubblicità che caratterizzano l’atto di procura con cui viene incaricato l’institore rispondono ad un’esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi che concludono affari, o che siano coinvolti in qualsiasi tipo di rapporto giuridico, con l’institore.

Non a caso, il codice dedica particolare attenzione sia alla disciplina della responsabilità dell’institore (e dell’imprenditore), sia alla trascrizione dei limiti al potere di rappresentanza contemplati nella procura institoria.

La procura institoria e le responsabilità dell’institore

In particolare, il secondo comma dell’art. 2206 dispone che, in mancanza dell’iscrizione della procura nel registro delle imprese, la rappresentanza dell’institore è da considerarsi generale. Ciò significa che le eventuali limitazioni concordate tra imprenditore e institore non saranno opponibili ai terzi, a meno che non si dimostri che il terzo ne era a conoscenza quando ha concluso l’affare.

Inoltre, a norma dell’art. 2207 c.c., se, successivamente all’iscrizione della procura, l’imprenditore intende apportarvi delle limitazioni, anche tali atti limitativi del potere institorio dovranno essere iscritti nel registro delle imprese, pena l’inopponibilità delle limitazioni ai terzi. Di conseguenza, in assenza di pubblicità, l’imprenditore rimane obbligato per gli atti dell’institore che superino i suoi poteri.

Riguardo alla responsabilità dell’institore, infine, l’art. 2208 c.c. chiarisce che la stessa è personale quando quest’ultimo non metta il terzo in condizioni di conoscere l’esistenza del rapporto institorio; in un’ottica di maggiore tutela dell’affidamento, al terzo è riconosciuta, comunque, azione contro l’imprenditore per gli atti compiuti dall’institore che siano pertinenti all’esercizio dell’impresa. In tal caso, l’imprenditore conserva, al contempo, il diritto di agire in regresso nei confronti dell’institore che abbia agito per il proprio interesse.

irpef

Imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) Tutto quello che c’è da sapere sull’Irpef: presupposti, calcolo della base imponibile, applicazione dell’aliquota e detrazioni. Gli scaglioni e la no tax area per il 2024

Cos’è l’Irpef

L’Irpef è l’imposta sul reddito delle persone fisiche e rappresenta una delle principali fonti del gettito fiscale dello Stato.

L’Irpef, come lascia intendere la sua denominazione, è dovuta dalle persone fisiche, residenti o non residenti nel territorio italiano, ed ha come presupposto la percezione di determinate tipologie di redditi, che andremo tra breve ad esaminare.

Preliminarmente, va ricordato che il calcolo di tale imposta si basa, in ossequio al dettato costituzionale (art. 53 Cost.), su un criterio di progressività, con ciò intendendosi che, all’aumentare dei redditi considerati, aumenta anche l’aliquota applicabile per il calcolo dell’imposta in modo tale che l’ammontare dell’imposta cresca in modo più che proporzionale rispetto al reddito imponibile.

Va precisato, inoltre, che, ai fini Irpef, sono considerati residenti in Italia anche i cittadini trasferitisi in Paesi aventi un regime fiscale privilegiato.

Su quale reddito si calcola l’Irpef

I redditi che contribuiscono a formare la base imponibile dell’Irpef sono i redditi fondiari (derivanti dal possesso di terreni e fabbricati), i redditi da capitale, i redditi da lavoro autonomo e dipendente (ivi comprese le pensioni), i redditi d’impresa e i redditi diversi.

Questi ultimi, individuati dall’art. 67 del TUIR (Testo Unico delle imposte sui redditi, DPR 917/86), sono, ad esempio, quelli derivanti da plusvalenze, cessioni di strumenti finanziari, vincite di lotterie, redditi conseguenti all’utilizzazione economica di opere dell’ingegno e brevetti industriali, redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente etc.

Come si calcola l’Irpef

Per il calcolo dell’Irpef dovuta dal singolo contribuente, occorre sommare i suoi redditi (rispondenti alle varie tipologie appena esaminate) e sottrarre, da tale importo complessivo, i cosiddetti oneri deducibili. Con tale espressione si fa rifermento ad alcune spese sostenute durante l’anno dal contribuente, come, ad esempio, i contributi previdenziali e assistenziali.

In tal modo, si forma la base imponibile, su cui viene applicata l’aliquota (un coefficiente percentuale) prevista dalla legge per lo scaglione di reddito corrispondente. Dal risultato di tale operazione è possibile, inoltre, operare la detrazione degli importi sostenuti per altri tipi di spesa (in primis, le spese sanitarie, le spese per l’istruzione dei figli, etc.).

L’imposta dovuta dal contribuente è pertanto quella risultante dalla sottrazione degli importi detraibili dall’imposta lorda (risultante, a sua volta, dall’applicazione dell’aliquota al reddito complessivo, diminuito degli oneri deducibili).

Gli scaglioni e le aliquote Irpef 2024

Abbiamo fatto, finora, più volte riferimento agli scaglioni di reddito previsti dalla legge, ai quali corrisponde una determinata aliquota da applicare per il calcolo dell’imposta dovuta.

Ebbene, per il 2024 la legge ha individuato tre scaglioni di reddito, con le aliquote corrispondenti:

  • reddito fino a 28.000 euro, cui corrisponde un’aliquota del 23%;
  • reddito da 28.000 a 50.000 euro, cui corrisponde un’aliquota del 23% fino a 28.000 euro e del 35% per la parte eccedente;
  • reddito oltre 50.000 euro, cui corrisponde un’aliquota del 23% fino a 28.000 euro, del 35% per la parte tra 28.000 e 50.000 euro e del 43% per la parte eccedente i 50.000 euro.

Il reddito minimo per non pagare l’IRPEF nel 2024, ovvero la cosiddetta no tax area, è pari ad 8.500 euro.

Come si paga l’Imposta sui redditi delle persone fisiche

Per pagare l’Irpef occorre compilare il modello Redditi PF oppure il modello 730 (per redditi da lavoro dipendente o pensione).

Il versamento dell’imposta prevede il pagamento, con modello F24, entro il 30 giugno, del saldo relativo all’anno precedente e della prima rata di acconto relativa all’anno in corso; entro il 30 novembre va invece versata la seconda (o l’unica, quando ciò sia previsto) rata di acconto.

Irpef come impugnare

L’eventuale impugnazione di un atto con cui l’Agenzia delle Entrate esige il pagamento di somme a titolo di Irpef va impugnato con ricorso alla Corte di giustizia tributaria di primo grado, la cui decisione sarà ricorribile in appello presso la CGT di secondo grado e successivamente anche per Cassazione.

In alternativa, è possibile chiedere all’Agenzia il riesame dell’atto. In ogni caso, la contestazione da parte del contribuente non vale, di per sé, a sospendere i termini di pagamento dell’imposta.

notifica telematica riforma cartabia

La notifica telematica dopo la Riforma Cartabia Il ruolo dell’avvocato nell’attività di notifica telematica degli atti dopo la Riforma Cartabia. L’obbligo di notifica via PEC e il ruolo residuale dell’ufficiale giudiziario

L’obbligo di notifica telematica dopo la Riforma Cartabia

La notifica telematica degli atti giudiziari e stragiudiziali è una modalità di notifica introdotta negli ultimi anni, di pari passo con lo sviluppo del c.d. processo telematico, fino a divenire, con le novità normative introdotte dalla Riforma Cartabia, la principale modalità di notifica degli atti, a scapito delle modalità più tradizionali quali la consegna a mano e la spedizione via posta cartacea.

Particolarmente significativa è l’innovazione normativa in tema di notifica relativa all’aspetto soggettivo: come vedremo tra breve, l’art. 137 c.p.c. individua nella figura dell’avvocato il soggetto principalmente deputato all’attività di notifica, mentre ha perso la sua centralità, a questo riguardo, l’ufficiale giudiziario.

L’avvocato e la notifica a mezzo PEC

Iniziamo col ricordare in cosa consiste la notifica di un atto giudiziario: è quell’attività con la quale si intende portare a conoscenza del destinatario l’atto, con modalità prescritte dalla legge, che, una volta osservate, comportano la c.d. conoscenza legale dell’atto (che è cosa diversa dalla conoscenza effettiva: una volta eseguita la notificazione nei termini prescritti dalla legge, l’atto si intende conosciuto dal destinatario).

Orbene, la legge n. 221 del 2012 ha modificato l’art. 3-bis della l. n. 53 del 1994, prevedendo che anche gli avvocati potessero procedere alla notifica degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale, utilizzando la posta elettronica certificata.

Con la recente Riforma Cartabia, attuata con il d.lgs. n. 149 del 2022, si è andati ancora oltre, arrivando, come si diceva, a rendere centrale la figura dell’avvocato nel procedimento di notifica e relegando la notifica tramite ufficiale giudiziario ad evento residuale.

I rapporti tra avvocato e ufficiale giudiziario nell’attività di notifica ex art. 137 c.p.c.

Il nuovo secondo comma dell’art. 137 c.p.c., infatti, affianca espressamente l’avvocato all’ufficiale giudiziario tra i soggetti che eseguono la notificazione.

Ma la vera novità è rappresentata dall’aggiunta degli ultimi due commi. Il sesto pone l’accento sulla figura dell’avvocato, disponendo che questi esegue le notificazioni nei casi e con le modalità previste dalla legge (vedi paragrafo seguente).

Il settimo ed ultimo comma sancisce, invece, il ruolo residuale dell’ufficiale giudiziario, il quale esegue la notificazione su richiesta dell’avvocato, qualora questi non abbia l’obbligo di eseguirla a mezzo PEC o con altra modalità prevista dalla legge, o quando, sussistendo tale obbligo, l’avvocato non dichiari che la notificazione con tali modalità non sia possibile.

Pertanto, il quadro attuale della notifica degli atti è il seguente: è l’avvocato a doverla eseguire, e di regola deve utilizzare la PEC. Quando ciò non sia possibile, l’avvocato può rivolgersi all’ufficiale giudiziario, che provvederà alla consegna a mani o per posta cartacea.

Una precisazione importante è che, nel caso appena descritto, in cui l’avvocato si rivolga all’ufficiale giudiziario perché la notifica via PEC non è andata a buon fine, di tale circostanza deve essere dato atto nella relazione di notificazione (anche detta relata di notifica) dell’ufficiale giudiziario.

Va ricordato anche che, come stabilisce il terzo comma dell’art. 137, se l’atto da notificare è un documento informatico e il destinatario non possiede una casella PEC, l’ufficiale giudiziario consegna una copia cartacea dell’atto, dichiarandola conforme all’originale (viceversa, l’avvocato crea una copia informatica quando l’atto originale da notificare sia cartaceo, attestandone la conformità: v. art. 3-bis l. 53/94, secondo comma).

Le modalità di notifica telematica ex art. 3-bis legge 53/1994

Quanto alle modalità della notifica telematica, la norma cardine è rappresentata dall’art. 3-bis della legge n. 53 del 1994, in base al quale la notifica a mezzo PEC va effettuata necessariamente all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nei confronti dei soggetti (persone fisiche e giuridiche) che siano tenuti ad iscrivervi il proprio recapito telematico o che, pur non essendovi tenuti, abbiano scelto di effettuare tale iscrizione.

La notifica telematica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione, mentre per il destinatario si perfeziona quando viene generata la ricevuta di avvenuta consegna.

Quanto all’orario della notifica telematica, non vi sono limiti orari per effettuarla, ma è da precisare che l’invio della PEC dopo le ore 21 vale a individuare il perfezionamento della notifica per il destinatario alle ore 7 del giorno successivo.

danno biologico

Danno biologico Cos’è il danno biologico e in quale modo si provvede al suo risarcimento. Le tabelle dei tribunali e la disciplina prevista dal Codice delle assicurazioni

Cos’è il danno biologico

Per danno biologico si intende il danno non patrimoniale che deriva dalla lesione dell’integrità fisica o psichica che comprometta, anche in modo lieve, il modo di svolgimento delle attività quotidiane del soggetto che l’ha subito ed incida sugli aspetti relazionali della sua vita.

L’importanza del tema del danno biologico deriva dalla frequente ricorrenza delle richieste di risarcimento da esso derivanti, che ricorrono specialmente quando le controversie riguardano danni da sinistri stradali o in cause giudiziali da responsabilità medica.

Lesioni micropermanenti o di lieve entità

La disciplina del risarcimento del danno biologico non è stata sempre univoca, e tuttora occorre fare una serie di distinzioni, a seconda dell’evento da cui origini il danno e dell’entità delle lesioni subite.

A questo riguardo, la principale distinzione da fare in tema di danno biologico è tra lesioni di lieve entità, o micropermanenti, e lesioni di non lieve entità, o macropermanenti.

Altrettanto rilevante è la distinzione tra lesioni durature (o – per l’appunto – permanenti), quindi destinate ad incidere, in qualche modo, per il resto della vita del danneggiato, e lesioni temporanee, i cui effetti invalidanti terminano dopo un determinato lasso di tempo.

Le tabelle di Milano per il calcolo del danno biologico

Gli uffici di diversi tribunali italiani hanno provveduto a stilare delle apposite tabelle sull’invalidità, con valori di entità del danno che vanno da 1 a 100 e in cui ad ogni diverso valore corrisponde un determinato importo da riconoscere quale risarcimento, rapportato anche all’età del danneggiato (e quindi alla sua aspettativa di vita).

Tradizionalmente, le tabelle più utilizzate dai giudici italiani, in questo senso, sono quelle del Tribunale di Milano.

Danno da circolazione stradale: art. 139 codice assicurazioni

Più specificamente, in materia di danni da circolazione stradale, l’art. 139 del Codice delle Assicurazioni Private prevede che, per il risarcimento del danno biologico permanente, venga liquidato, per i postumi pari o inferiori al 9 per cento, un importo crescente, in ragione più che proporzionale, per ogni punto percentuale.

Come si vede, quindi, il limite dei 9 punti percentuali rappresenta il discrimine tra lesioni di lieve entità (micropermanenti) e lesioni di non lieve entità (macropermanenti).

Per le prime, la quantificazione viene periodicamente effettuata con apposito decreto ministeriale, rivalutato ai valori Istat sul costo della vita; per la quantificazione del risarcimento dovuto per le lesioni di non lieve entità, invece, si applicano solitamente le tabelle predisposte dai Tribunali, non essendo mai stato emanato il regolamento prescritto dall’art. 138 del Codice (d.lgs. 209 del 2005).

Il risarcimento del danno da invalidità temporanea

Si è fatto cenno, poc’anzi, al decreto ministeriale con cui vengono individuati gli importi per il risarcimento del danno biologico permanente.

Tale decreto provvede anche alla quantificazione, periodicamente rimodulata, del danno biologico per ogni giorno di invalidità temporanea. Quest’ultima, espressamente contemplata dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni (comma 1, lett. b) può essere totale o parziale, a seconda che impedisca del tutto, o solo in parte, l’esplicazione delle normali attività quotidiane e della vita di relazione del soggetto danneggiato (in gergo giuridico, si utilizzano, al riguardo, gli acronimi ITT – invalidità temporanea totale, e ITP – invalidità temporanea parziale).

Danno biologico e responsabilità medica

Infine, va rilevato che le tabelle danno biologico predisposte dai tribunali (in primis, quelli di Milano e Roma) vengono comunemente applicate anche in tema di responsabilità sanitaria, cioè quando si tratta di risarcire lesioni derivanti da colpa medica.

Per il danno biologico derivante da infortuni sul lavoro e da malattie professionali è previsto, invece, un indennizzo sulla base delle tabelle Inail, che dispongono il risarcimento in forma di rendita per invalidità permanenti a partire dai 16 punti percentuali.

responsabilità 2051 c.c.

Responsabilità ex art. 2051 c.c. La responsabilità da custodia è di tipo oggettivo e può essere esclusa solo dall’assenza del nesso causale, come chiarito anche dalle Sezioni Unite

La responsabilità da custodia: natura e caratteri

La responsabilità da custodia è disciplinata dall’art. 2051 c.c. ed è costantemente oggetto di dibattito giurisprudenziale riguardo alla sua natura e, conseguentemente, agli oneri probatori a carico delle parti in causa.

Come vedremo tra breve, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sembrano aver sciolto definitivamente ogni dubbio in merito, definendo quella del custode come una responsabilità oggettiva, e non semplicemente presunta.

Responsabilità ex art. 2051 c.c.: il caso fortuito

Cominciamo col ricordare il dato normativo, che dispone, in maniera molto essenziale, che “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

Ciò significa che il proprietario di una cosa, il suo detentore o in ogni caso chi ne abbia a carico compiti di vigilanza, manutenzione o controllo, viene ritenuto dall’ordinamento, per ciò stesso, responsabile dell’eventuale danno causato a terzi.

L’unico modo che il custode ha per andare esente da responsabilità – e quindi dai conseguenti obblighi risarcitori – è quello di dimostrare che il danno è derivato da caso fortuito, in tale espressione ricomprendendosi anche il fatto di un terzo o dello stesso danneggiato.

Natura oggettiva della responsabilità da custodia

In termini strettamente giuridici, la questione relativa alla natura della responsabilità del custode e, conseguentemente, alle circostanze che possono escluderla, si risolve nell’analisi della rilevanza, o meno, della condotta del custode antecedente all’evento che ha causato il danno.

Ebbene, anticipiamo subito che, come hanno chiarito le SS.UU., tale condotta non ha alcuna rilevanza. In altre parole, una volta verificatosi il danno causato dalla cosa (si pensi ad un immobile in cattivo stato di conservazione, ad un’automobile parcheggiata, ad un marciapiede malandato in custodia al Comune, ad una pedana di legno all’interno di un negozio: gli esempi potrebbero essere infiniti) al custode non servirà a nulla dimostrare di aver provveduto alla regolare manutenzione dell’oggetto o alla sua vigilanza.

L’unico aspetto che rileva, infatti, è il nesso causale tra l’oggetto e il danno. È solo riguardo a ciò che il custode ha la possibilità di offrire una prova che escluda la sua responsabilità; e tale prova si sostanzia nel dimostrare che l’evento sia stato del tutto fortuito (si può fare il classico esempio di eventi naturali catastrofici), o che sia dovuto al fatto del terzo o dello stesso danneggiato.

Per inciso, va quindi rilevato che, nel caso in cui sia dimostrato il caso fortuito, l’eventuale assenza di regolare manutenzione o di effettiva vigilanza da parte del custode non comporta la sussistenza della responsabilità ex art. 2051 c.c. (ma solo, eventualmente, ex art. 2043 c.c.).

La pronuncia delle Sezioni Unite sulla responsabilità ex art. 2051 c.c.

In conclusione, la responsabilità da custodia ex art. 2051 c.c. è una responsabilità oggettiva e non una semplice responsabilità presunta.

In altre parole, al custode non è sufficiente dimostrare che la causa del danno non sia a lui imputabile, ma deve dimostrare l’assenza del nesso causale tra la cosa in sua custodia e il danno.

È questo il senso della pronuncia delle Sezioni Unite cui sopra si accennava, secondo cui “la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, rappresentato da un fatto naturale o del danneggiato o di un terzo, connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, dal punto di vista oggettivo e della regolarità o adeguatezza causale, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode” (Cass. civ., SS.UU., ord. n. 20943 /2022, che in narrativa richiama le sentenze Cass. civ., III sez., nn. 2480 e 2481 del 2018).

capacità giuridica

Capacità giuridica Capacità giuridica: definizione e profili storici della disciplina dell’istituto. In particolare: la tutela del concepito. Differenze con la capacità di agire

Definizione della capacità giuridica

La capacità giuridica è l’attitudine di una persona ad essere titolare di diritti e di doveri giuridici.

Tale istituto, tanto essenziale nei suoi caratteri quanto fondamentale nell’ambito di un ordinamento giuridico, è disciplinato dall’art. 1 del codice civile, che stabilisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita.

Profili storici della disciplina dell’istituto

L’importanza di una disciplina espressa riguardo all’istituto in parola si coglie più compiutamente attraverso un confronto con la disciplina prevista in altri periodi storici, quando era contemplata la possibilità di limitare o privare della capacità giuridica (c.d. morte civile) taluni soggetti per motivi politici o razziali.

È ciò che avvenne, ad esempio, in Italia durante il regime fascista, e un importante riflesso ne è l’attuale testo dell’art. 22 della Costituzione, il quale espressamente dispone che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Acquisto e perdita della capacità giuridica. L’art. 1 del codice civile

Come si è detto, la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, con ciò intendendosi il momento del distacco del feto dal grembo materno.

Ciò significa che il nascituro non è considerato, nel nostro ordinamento, soggetto di diritto, sebbene sia comunque oggetto di tutela da parte della legge.

Infatti, ad esempio, il concepito (e a dire il vero anche il non-concepito, se si intenda il figlio di una determinata persona vivente al tempo della morte del de cuius) può succedere per testamento e ricevere per donazione.

I diritti del nascituro, però, sono subordinati all’evento della nascita, come prevede il secondo comma dell’art. 1 c.c.

Analogamente, la capacità giuridica di un soggetto termina con la sua morte naturale. Per vero, anche la dichiarazione (con sentenza) di morte presunta, ex art. 58 c.c., determina la perdita della capacità giuridica del soggetto, con contestuale apertura della relativa successione.

Capacità delle persone giuridiche

Oltre che appannaggio delle persone fisiche, la capacità giuridica è configurabile anche in capo alle persone giuridiche, sebbene ciò non postuli il possesso da parte di queste ultime di alcuni diritti propri delle persone fisiche (si pensi a quelli afferenti al diritto familiare).

Le persone giuridiche sono titolari, peraltro, di alcuni rilevanti diritti, quali quello al nome (o alla denominazione) e all’immagine.

Differenza tra capacità giuridica e capacità di agire

Sul tema in oggetto, è importante distinguere tra loro i concetti, ben differenti, di capacità giuridica e capacità di agire.

Se la capacità giuridica, come si è detto, attiene alla generica attitudine alla titolarità di diritti e obblighi giuridici, la capacità di agire indica, invece, la possibilità di porre in atto atti giuridici, e quindi di divenire volontariamente titolare di diritti o di obbligarsi verso terzi.

A differenza della capacità giuridica, la capacità d’agire non si acquista con la nascita ma, come disposto dall’art. 2 cod. civ., si consegue, come regola generale, alla maggiore età, attualmente fissata al compimento dei 18 anni.

In alcuni casi, peraltro, l’ordinamento prevede che determinati atti giuridici possano essere posti in atto anche dal minore (vedi le norme in tema di matrimonio e riconoscimento del figlio da parte del minore emancipato), e che in altri casi la capacità di agire possa essere limitata, anche a tutela del soggetto stesso (interdizione o inabilitazione).