lite temeraria

Lite temeraria Cosa si intende per lite temeraria, quando ricorre la responsabilità aggravata processuale ex art. 96 c.p.c. e qual è l’elemento soggettivo richiesto dalla norma

Lite temeraria e responsabilità aggravata ex art. 96

Con la locuzione “lite temeraria” giuridicamente si fa riferimento ad una posizione giudiziale sostenuta da una parte del processo nella consapevolezza della sua palese infondatezza.

In particolare, l’aver intrapreso una lite temeraria postula a carico della parte una particolare responsabilità processuale aggravata che viene sanzionata dall’art. 96 c.p.c. con l’obbligo di risarcire i danni causati alla controparte.

Tale obbligo si aggiunge, ed è quindi cosa distinta, dalla refusione delle spese prevista, in via generale, dall’art. 91 a carico della parte soccombente nel processo.

Quando si configura lite temeraria?

Presupposto della condanna per responsabilità aggravata, di cui al primo comma dell’art. 96, è la mala fede o la colpa grave di chi agisce o resiste in giudizio sapendo di essere nel torto o non avendo posto l’ordinaria diligenza nel verificare se il proprio diritto fosse effettivamente esistente.

Ulteriore presupposto per la condanna è che la parte che abbia sostenuto una lite temeraria sia risultata in totale soccombenza nel giudizio a seguito della sentenza. Una soccombenza parziale, quand’anche accompagnata dalla condanna alla rifusione delle spese di lite, non può quindi mai comportare la responsabilità aggravata di cui all’art. 96.

Inoltre, la condanna al risarcimento dei danni comportati dallo svolgimento della lite temeraria deve necessariamente conseguire ad una specifica domanda di controparte, non potendo essere dichiarata d’ufficio dal giudice.

Il risarcimento del danno per lite temeraria

Chi propone l’istanza di risarcimento per responsabilità aggravata deve dimostrare l’esistenza del danno subito, il suo nesso consequenziale con lo svolgimento del processo e l’entità del danno.

Il giudice, in ogni caso, può liquidare il risarcimento anche in via equitativa, pur rimanendo a carico della parte istante la prova del danno e l’indicazione della sua quantificazione.

Un’importante precisazione che occorre fare a proposito della pronuncia relativa al risarcimento da responsabilità processuale aggravata è che la stessa può essere domandata soltanto nel medesimo processo in cui è insorta e che la relativa decisione del giudice deve essere contenuta nella sentenza stessa.

Non è quindi configurabile un diritto della parte che abbia subito danni da lite temeraria a chiederne il ristoro in separato procedimento. Ciò vale anche per quanto riguarda i gravami, in quanto nel giudizio di appello possono essere chiesti i danni ex art. 96 c.p.c. solo se il carattere di temerarietà della lite riguardi il contegno processuale della parte tenuto nel grado di impugnazione.

La responsabilità aggravata per colpa lieve

Il secondo comma dell’art. 96 c.p.c. contempla, invece, una distinta fattispecie di responsabilità processuale aggravata, per la cui configurazione è sufficiente l’elemento soggettivo della colpa lieve.

In base a tale norma, infatti, viene pronunciata la condanna al risarcimento dei danni da lite temeraria se si accerta l’inesistenza del diritto in base al quale sia stata chiesta:

  • l’esecuzione di un provvedimento cautelare;
  • la trascrizione di una domanda giudiziale;
  • l’iscrizione di un’ipoteca giudiziale;
  • l’avvio o prosecuzione di un’esecuzione forzata.

La norma prevede che la responsabilità aggravata possa essere accertata, sempre su istanza di parte, quando l’attore/creditore abbia agito senza verificare con la normale prudenza (quindi con colpa lieve) l’effettiva sussistenza del proprio diritto ad agire.

A differenza della fattispecie contemplata dal primo comma, non è quindi necessaria la malafede o colpa grave: ciò perché le ipotesi previste dal secondo comma postulano un’ingerenza nella sfera del danneggiato più immediata e più grave, e quindi esigono un più alto grado di attenzione da parte del creditore procedente nella valutazione dell’effettiva sussistenza del proprio diritto.

Quando si applica l’articolo 96 c.p.c.?

Gli ultimi due commi dell’art. 96 c.p.c. sono di recente introduzione e prevedono due ulteriori specificazioni della disciplina della condanna per lite temeraria.

Il terzo comma, introdotto dalla legge n. 69/2009, prevede un’ipotesi di responsabilità aggravata accertabile dal giudice anche d’ufficio, a differenza di quanto previsto dai primi due commi.

Nello specifico, è previsto in capo al giudice il potere di condannare la parte dichiarata soccombente ai sensi dell’art. 91 al pagamento, in favore della parte vittoriosa, di una somma – ulteriore a quella da riconoscersi a titolo di rifusione delle spese processuali – da determinarsi in via equitativa.

Infine, il quarto ed ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. dispone che in tutte le ipotesi contemplate dal medesimo articolo (cioè, tutto quanto abbiamo sopra esaminato) il giudice debba condannare la parte condannata per lite temeraria anche ad un pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro da quantificarsi tra i 500 e i 5.000 euro (norma introdotta dalla recente Riforma Cartabia, d.lgs. 149/22).

comodato familiare

Il comodato familiare Contratto di comodato familiare: a cosa serve e qual è la disciplina. Quando è possibile chiedere la restituzione del bene secondo la Cassazione

Comodato familiare: cos’è e come funziona

Per comodato familiare si intende il contratto con cui il proprietario (comodante) concede gratuitamente la disponibilità di un immobile ad un soggetto (comodatario, in questo caso solitamente il figlio/a del comodante) con lo specifico scopo di soddisfare le esigenze della famiglia di quest’ultimo.

Dal punto di vista pratico, dunque, il quadro è chiaro: il comodato familiare è la soluzione con cui, in genere, i genitori provvedono a procurare un’abitazione al proprio figlio/a per consentirgli di risiedervi con la propria famiglia.

Sotto l’aspetto giuridico, come vedremo, l’istituto del comodato familiare pone degli interrogativi in ordine alla possibilità di richiedere la restituzione del bene da parte del comodante e alla destinazione del bene in caso di separazione dei coniugi beneficiari del comodato (o di conclusione della loro convivenza).

Il contratto di comodato: disciplina generale

In linea generale, il comodato è il contratto con cui si concede l’uso gratuito di un bene mobile o immobile, con l’obbligo per il comodatario di conservarlo con la diligenza del buon padre di famiglia e di restituirlo al termine dell’utilizzo o allo scadere della durata concordata nel contratto.

Il contratto di comodato, che può essere concluso per iscritto o verbalmente, si perfeziona con la consegna del bene (in questo, oltre che per la gratuità, si differenzia dalla locazione, che invece si perfeziona con la stipula del contratto). La consegna del bene, peraltro, genera la mera detenzione da parte del comodatario e non il possesso, e di conseguenza non si configurano i presupposti di una possibile successiva usucapione.

In particolare: il comodato precario

Un aspetto rilevante ai fini dell’analisi del comodato familiare è la distinzione tra comodato a tempo determinato e il c.d. comodato precario.

Va ricordato, infatti, che in un contratto di comodato non è obbligatorio stabilire la durata: ciò ha importanti conseguenze in tema di restituzione del bene.

In particolare, se il comodato è previsto per una durata predeterminata o per un utilizzo specifico, il comodatario sarà tenuto a restituire il bene alla scadenza o al termine dell’utilizzo, e il comodante potrà richiederne la restituzione anticipata solamente in caso di insorgenza di un bisogno urgente e imprevedibile.

Diversamente, se il contratto non prevede alcuna scadenza, né questa sia desumibile dall’uso cui la cosa è destinata, il comodante può richiedere la restituzione del bene ad nutum, cioè in qualsiasi momento, ed il comodatario è tenuto ad adempiere. In questo caso, come detto, si parla di comodato precario, un istituto che trova la sua disciplina nell’art. 1810 del codice civile.

Il termine di durata nel comodato familiare

Tale distinzione ha importanti riflessi sulla disciplina del comodato familiare.

Sono molto frequenti, infatti, nell’esperienza dei nostri tribunali, le controversie relative all’interpretazione del contratto di comodato familiare e in particolare all’individuazione dell’esistenza o meno di un termine di durata.

Ebbene, il costante orientamento della giurisprudenza, anche di legittimità, è quello di inquadrare il comodato familiare nella disciplina generale del comodato (artt. 1803-1809 c.c.) e non in quella particolare del comodato precario di cui all’art. 1810.

Infatti, il contratto stipulato allo scopo di soddisfare le esigenze della famiglia del comodatario contiene di per sé un termine implicito, che afferisce all’esistenza di tali necessità. Solo nel momento in cui non sussistono più i bisogni familiari insorge il diritto alla restituzione da parte del comodante.

Ciò significa che nel comodato familiare il comodante non ha diritto di richiedere in qualsiasi momento la restituzione del bene (come invece accade nel comodato precario), ma può farlo solo quando vengano meno le necessità della famiglia o quando insorga una necessità del comodante imprevista ed urgente, come da disciplina generale.

Comodato familiare e separazione, la giurisprudenza

Va ulteriormente precisato che il termine implicito di durata così individuato fa riferimento non già all’esistenza della famiglia del comodatario, ma alla sussistenza delle necessità della stessa: ciò significa che il diritto alla detenzione del bene continua a sussistere anche in caso di separazione dei coniugi (o di conclusione della convivenza di fatto), e anche se l’immobile oggetto di comodato sia assegnato al coniuge collocatario che non sia il figlio/a del comodante.

Così, ad esempio, se i genitori del marito concedono in comodato familiare un immobile di loro proprietà al proprio figlio e questi, successivamente, si separi dalla moglie e il giudice assegni a quest’ultima l’immobile in quanto collocataria della prole, il comodato familiare continuerà a sussistere (esistendo ancora le esigenze della famiglia), nonostante il figlio/comodatario non vi abiti più.

Tutto questo è confermato da costante giurisprudenza di Cassazione, tra le cui pronunce segnaliamo la recente ordinanza Cassazione n. 573 del 9 gennaio 2025 e la sentenza delle Sezioni Unite n. 20448 del 2014. Riguardo alla necessità urgente e imprevista che dà diritto al comodante di chiedere la restituzione prima del termine, si veda Cass. n. 18619/2010, secondo cui tale bisogno deve essere “serio e non voluttuario”. Per l’applicabilità di quanto sopra esposto anche ad una situazione di convivenza di fatto, si rimanda a Cass. n. 13592/2011.

 

Per ulteriori approfondimenti, vedi anche la nostra guida generale al contratto di comodato

affidamento condiviso

Affido condiviso L’affido condiviso (o affidamento condiviso) e il principio di bigenitorialità: la centralità degli interessi del minore nei provvedimenti del giudice sulla separazione dei coniugi

L’affido condiviso nella separazione

L’affido condiviso (o affidamento condiviso) è la condizione in cui, di regola, si trovano i figli in conseguenza della separazione dei genitori.

Affido congiunto e affido esclusivo

L’affido congiunto si contrappone ad altre possibili soluzioni che il giudice può adottare in sede di separazione dei coniugi con prole. Come ad esempio l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori in considerazione di particolari circostanze (in particolare, quando l’affidamento all’altro genitore, anche in via condivisa, sia contrario all’interesse del minore).

Affido condiviso come funziona

Fino all’emanazione della legge 54/2006, la regola, in tema di affidamento dei figli in sede di separazione, era rappresentata dall’affido esclusivo.

Con tale provvedimento legislativo, invece, si è scelto di rendere centrale il ruolo dell’affido condiviso paritario per garantire, da un lato il diritto di ciascun coniuge all’esercizio della responsabilità genitoriale e alla partecipazione alle decisioni più importanti nell’interesse dei figli; e dall’altro, il diritto di questi ultimi alla c.d. bigenitorialità.

Il principio della bigenitorialità

Il principio della bigenitorialità è riassunto nella formula dell’art. 337-ter del codice civile. Lo stesso dispone che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

Più in generale, il secondo comma della norma citata evidenzia come oggi l’affidamento condiviso rappresenti la regola, in quanto impone al giudice, in caso di separazione dei coniugi, di valutare prioritariamente “la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”.

Solo quando tale strada non sia percorribile egli è chiamato a stabilire a quale dei genitori i figli debbano essere affidati, fermi restando il diritto e il dovere di ciascuno dei genitori di contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.

Quali sono le regole per l’affidamento condiviso

Il regime di affido paritario non esclude, peraltro, che tra i due genitori ne sia individuato uno presso la cui abitazione i figli continueranno a dimorare.

Il collocamento dei figli

Al genitore collocatario, di norma, è concessa la possibilità di continuare ad abitare nella casa familiare. In tal caso, all’altro genitore viene garantita la presenza dei figli presso il proprio domicilio (evidentemente, una casa diversa presso cui il coniuge non collocatario è andato a vivere dopo la separazione). Sta al giudice, in assenza di accordo tra le parti, individuare i giorni o i periodi in cui i figli si trasferiscono presso l’abitazione del genitore non collocatario (frequente è, ad esempio, l’adozione di provvedimenti giudiziali che prevedano i c.d. fine settimana alternati presso ciascun genitore).

La casa familiare

Una particolare tendenza emersa nelle decisioni della più recente giurisprudenza è quella di prevedere, nell’interesse dei figli, che questi abitino permanentemente nella casa familiare e che ad alternarsi nella presenza all’interno di essa siano gli ex coniugi.

Stabilità di vita

In altre parole, tali provvedimenti mirano a garantire una stabilità emotiva, nei rapporti e nella vita quotidiana, in favore dei figli ed evitare che questi ultimi siano trattati, come si usa dire, come “pacchi postali”, in continua peregrinazione tra le attuali abitazioni dei due genitori. I giudici che seguono tale orientamento impongono, dunque, a ciascun genitore di abbandonare, in determinati giorni, la casa familiare per far posto all’altro coniuge.

Tale filone giurisprudenziale, che annovera anche autorevoli pronunce di legittimità (v. Cass., ord. n. 6810/2023), incontra, per avverso, le critiche di chi vi scorge un’eccessiva gravosità per i coniugi nella gestione della propria vita e dei propri rapporti quotidiani.

Quando decade l’affido condiviso

In ultima analisi, con l’affido condiviso viene garantita la partecipazione di entrambi i genitori alle più importanti decisioni relative alla cura e all’educazione dei figli, si pensi ad esempio al percorso scolastico da seguire, alle attività extrascolastiche da praticare o alle scelte in ambito sanitario, come la decisione di sottoporsi o meno ad un vaccino.

Diritto all’ascolto del minore

In ogni caso, ai figli minori è garantito l’ascolto da parte del giudice, ai sensi dell’473 bis 4 c.p.c. che prevede in capo al minore che abbia compiuto gli anni dodici (o meno, se capace di discernimento) un generale diritto di essere ascoltato in relazione ai provvedimenti giudiziali che lo riguardano.

Revisione affido condiviso figli

Infine, va ricordato che ogni provvedimento giudiziale in tema di affidamento dei figli – ivi compreso quello che dispone sull’assegno di mantenimento  – può essere sottoposto a revisione su richiesta di uno dei genitori, ai sensi dell’art. 337-quinquies c.c.

comodato

Comodato: la guida Breve guida al comodato: caratteristiche e disciplina del contratto, diritti e doveri del comodante e del comodatario. Aspetti fiscali e agevolazioni

Cos’è il comodato e come funziona

Il comodato è un contratto con cui un soggetto consegna ad un altro un bene mobile o immobile affinché quest’ultimo se ne serva fino a quando non debba restituirlo.

La caratteristica principale del contratto di comodato è la gratuità: il comodatario, cioè la parte che riceve il bene, non è tenuto a versare alcun corrispettivo. Ciò vale a distinguere il comodato dalla locazione, nel caso in cui oggetto del contratto sia un bene immobile.

Il comodato si distingue, inoltre, dal mutuo, in quanto può avere ad oggetto solo beni infungibili, essendo il comodatario tenuto alla restituzione del medesimo bene ricevuto, e non di beni dello stesso genere. Altra distinzione riguarda il comodato ed il contratto di deposito, poiché quest’ultimo non prevede la possibilità di utilizzo del bene da parte del depositario.

Il comodato gratuito: i diritti del comodatario

Il comodato è un contratto reale con effetti obbligatori, in quanto si perfeziona soltanto con la consegna del bene.

L’obbligo principale a carico del comodatario è quello di restituire il bene alla scadenza, se individuata, o una volta esaurito l’utilizzo.

Il comodatario è inoltre tenuto a sostenere le spese ordinarie necessarie per l’uso e la manutenzione della cosa, mentre le spese straordinarie necessarie per mantenere utile all’uso il bene incombono sul comodante; in caso di urgenza, il comodatario ha diritto al rimborso delle spese straordinarie da lui anticipate.

Il comodatario deve inoltre aver cura di custodire e conservare con diligenza il bene, pur non rispondendo del suo normale deterioramento. Il comodante, da parte sua, risponde dei danni causati da vizi della cosa di cui non aveva informato il comodatario al momento della conclusione del contratto.

Quanto alla restituzione del bene, prevista in generale alla scadenza (se stabilita in contratto) o al termine dell’utilizzo, va precisato che il comodante ha anche il diritto di richiederla in via immediata in caso di necessità urgente e imprevedibile. Se non è prevista espressamente una durata determinata, la restituzione deve avvenire quando lo richieda il comodante.

Il c.d. comodato oneroso

Come detto, al comodante non spetta alcun corrispettivo, ma è configurabile il c.d. comodato oneroso se è previsto che il comodatario esegua a una determinata prestazione (ad esempio, il pagamento delle spese condominiali, o il rimborso di una parte delle imposte da pagare sull’immobile); l’importante, perché continui a configurarsi il comodato, è che l’entità di tale prestazione sia ridotta in relazione al valore del bene e quindi non possa essere considerata quale corrispettivo.

Aspetti fiscali del comodato

Quando il comodato è stipulato in forma scritta ed ha ad oggetto un bene immobile, è obbligatorio procedere alla sua registrazione entro trenta giorni dalla sua sottoscrizione. In caso di comodato verbale, la registrazione è obbligatoria solo se di tale atto viene fatta espressa enunciazione in un differente atto da registrare.

L’imposta di registro per il contratto di comodato ammonta in misura fissa ad euro 200.

La registrazione del contratto di comodato tra parenti in linea retta entro il primo grado (cioè tra genitori e figli) dà diritto alle agevolazioni sull’IMU e sulla TASI, riducendo del 50% la base imponibile su cui calcolare tali tributi.

Per godere della suddetta agevolazione, è necessario che:

  • non si tratti di immobile di lusso, cioè rientrante nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9
  • il comodatario utilizzi l’immobile come abitazione principale
  • il comodante risieda nello stesso comune in cui si trova l’immobile concesso in comodato e che possieda solo un altro immobile nel territorio nazionale oltre alla casa principale.

Vedi gli altri articoli di diritto civile

modello red

Modello RED: cos’è, a cosa serve, quando si presenta Guida al modello RED: che cos’è, quali sono i soggetti tenuti a presentarlo ed entro quando bisogna inviare il RED 2024

Che cos’è il modello RED

Il modello RED è il documento telematico che i percettori di pensione devono compilare per dichiarare quei redditi che risultano rilevanti ai fini del riconoscimento di alcune prestazioni economiche.

Vi sono, infatti, alcune prestazioni assistenziali previste dalla legge – come la maggiorazione sociale o l’integrazione del minimo della pensione – per il cui riconoscimento devono ricorrere determinati requisiti reddituali (c.d. prestazioni collegate al reddito).

Perciò, l’Inps, cioè l’ente erogatore di tali prestazioni, deve essere messo in condizioni di conoscere i redditi percepiti dal titolare di trattamento pensionistico, per valutare correttamente se questi abbia diritto a tali ulteriori prestazioni.

Quali sono i pensionati che devono presentare il modello RED?

Con il modello RED, quindi, vengono comunicati tutti quei redditi che non vengono dichiarati con le ordinarie comunicazioni annuali.

In particolare, devono compilare il modello RED:

  • i pensionati che non sono tenuti ad inviare all’Agenzia delle Entrate la dichiarazione dei redditi con modello 730 o con modello Redditi PF e che siano percettori di redditi ulteriori alla pensione (es. redditi immobiliari);
  • i pensionati che abbiano presentato la dichiarazione dei redditi ma che non erano tenuti a indicarvi determinati redditi, ulteriori alla pensione (es. interessi bancari), che invece influiscono sul riconoscimento o meno delle prestazioni economiche erogate dall’Inps;
  • i pensionati che percepiscono redditi che vanno dichiarati in modo diverso all’Agenzia delle Entrate (es. redditi da lavoro autonomo: al riguardo, vedi il nostro approfondimento sul Divieto di cumulo pensione con redditi da lavoro autonomo);
  • sono, inoltre, tenuti alla compilazione del modello RED i pensionati che hanno il coniuge o un altro familiare percettori di redditi che influiscono sulla determinazione del diritto a prestazioni erogate dall’Inps.

Chi non deve inviare il Modello Red

Di converso, non sono tenuti all’invio del modello RED i pensionati che hanno inviato all’Agenzia delle Entrate la dichiarazione dei redditi (o che non sono tenuti all’invio della stessa) e che non percepiscono ulteriori redditi, oltre a quelli dichiarati.

Come si presenta il modello RED 2024

Il modello RED si può presentare rivolgendosi a un CAF autorizzato, dove si potrà ricevere l’opportuna assistenza, oppure collegandosi in modo autonomo sul sito www.inps.it, autenticandosi con Spid o Carta Nazionale dei Servizi.

Per chi sceglie di inviare da sé il modulo, da quest’anno è possibile fare affidamento sul modello RED precompilato, che prende il posto del modello RED semplificato. In sostanza, si tratta di una funzione molto utile che permette di completare l’inserimento dei propri dati reddituali semplicemente confermando, integrando o rettificando i dati precompilati.

Scadenza modello RED: quando si deve fare il Red 2024

L’Inps ha già comunicato, con il messaggio n. 3301 dello scorso 4 ottobre, che la scadenza per il Modello RED 2024, relativo ai redditi percepiti nel 2023, è fissata al 28 febbraio 2025.

Il mancato invio della dichiarazione, ove dovuta, può portare alla sospensione o revoca della prestazione collegata al reddito da parte dell’Inps, a seguito di successivi controlli.

Ai fini della dichiarazione reddituale, l’INPS ha messo a disposizione dal 23 dicembre 2024, la videoguida personalizzata, per facilitare i pensionati (circa 700mila) tenuti a inviare il modello Red, utilizzando comodamente da casa il RED Precompilato entro la scadenza del 28 febbraio 2025.

La video guida, oltre a ricordare la scadenza per l’invio, le diverse modalità di trasmissione della dichiarazione per il 2022, le modalità per gli espatriati prima e dopo il 2022, permette anche di verificare – tramite il servizio Consulente digitale delle pensioni – l’eventuale diritto a ulteriori prestazioni.

innovazioni in condominio

Innovazioni in condominio Cosa sono le innovazioni condominiali, quali sono le maggioranze necessarie per deliberarle e quali diritti ha il condomino dissenziente

Cosa sono le innovazioni in condominio

Le innovazioni in condominio sono quegli interventi che migliorano o rendono più comode da utilizzare le cose comuni.

Trattandosi di interventi che vanno oltre la semplice manutenzione del bene, mutandone, invece, in qualche modo la natura o la destinazione sostanziale, le innovazioni sono soggette ad una particolare disciplina codicistica e possono essere deliberate solo con maggioranze qualificate, individuate dall’art. 1120 del codice civile.

Quale maggioranza per le innovazioni?

Nel dettaglio, per l’approvazione di un intervento innovativo sulle parti comuni è necessario il voto della maggioranza degli intervenuti in assemblea, che rappresenti almeno i due terzi del valore dell’edificio.

La legge n. 220 del 2012, però, ha introdotto alcune ipotesi, corrispondenti ad innovazioni oggettivamente meritevoli di apprezzamento, per le quali è sufficiente, per l’approvazione assembleare, la consueta maggioranza di cui all’art. 1136 c.c. secondo comma (cioè la maggioranza degli intervenuti che rappresenti la metà del valore dell’edificio).

Le ipotesi

Tali ipotesi sono le seguenti:

  • interventi che migliorino la sicurezza e la salubrità dell’edificio o dei suoi impianti;
  • interventi tesi all’eliminazione delle barriere architettoniche;
  • innovazioni mirate al miglioramento dell’efficienza energetica dell’edificio;
  • realizzazione di posti auto al servizio delle unità immobiliari;
  • realizzazione di impianti di produzione di energia con fonti rinnovabili;
  • realizzazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva, anche via satellite o cavo.

Richiesta di innovazioni in condominio

La richiesta di realizzazione di un intervento che costituisca innovazione condominiale può provenire anche da un singolo condomino.

A fronte di tale richiesta, l’amministratore è tenuto a convocare apposita assemblea entro trenta giorni.

Il proponente deve indicare il contenuto specifico della propria istanza, descrivendo anche le possibili modalità di esecuzione dell’intervento. Se l’amministratore non ritiene sufficientemente precisa la richiesta, deve chiedere le opportune integrazioni al condomino.

Quali sono le innovazioni vietate ex art. 1120 c.c.

Un aspetto importante della disciplina relativa alle innovazioni condominiali è quello individuato dall’ultimo comma dell’art. 1120 c.c., che vieta tutti quegli interventi suscettibili di mettere in pericolo la stabilità o la sicurezza del fabbricato o che ne ledano il decoro architettonico (peggiorandone, cioè, il suo aspetto estetico e il suo carattere di pregio).

Altrettanto vietate, in base alla norma appena citata,  sono le innovazioni che renderebbero inservibili alcune parti comuni anche per un solo condomino.

Quali sono le innovazioni voluttuarie

La disciplina codicistica delle innovazioni condominiali è completata dalle disposizioni dell’art. 1121 c.c., secondo il quale ciascun condomino ha il diritto di essere esonerato dalla relativa spesa, quando l’innovazione comporti una spesa molto gravosa o sia da considerare innovazione voluttuaria rispetto alle condizioni dell’edificio.

Resta fermo il diritto dell’esonerato e dei suoi eredi, in qualunque tempo, di decidere di partecipare ai vantaggi offerti dall’opera, versando in un momento successivo gli importi corrispondenti alle spese di esecuzione e manutenzione.

L’esonero di cui sopra, però, è previsto solo se l’innovazione consista in opere o impianti che possono essere utilizzati separatamente dai vari condomini. Diversamente, in caso di opera non suscettibile di utilizzo separato, la sua realizzazione non è consentita, a meno che la maggioranza dei condomini che la desiderano non intendano sopportarne integralmente la spesa.

In chiusura, va segnalato che molti degli aspetti sopra descritti coinvolgono la discrezionalità dell’interprete (e cioè dei condomini, dell’amministratore e dello stesso giudice, qualora dalla realizzazione dell’innovazione derivi una controversia legale). Starà a questi ultimi, cioè, di volta in volta, cercare di capire, innanzitutto, se l’intervento rappresenti un’innovazione (secondo quanto si è detto in apertura di articolo) o una mera modifica; se esso sia suscettibile di utilizzo separato (si pensi a un impianto centralizzato), o meno (ad esempio, un c.d. cappotto termico).

Ancora, sarà il condomino a dover dimostrare in giudizio se l’innovazione comporti una spesa che possa considerarsi voluttuaria (prevedendo, ad esempio, l’installazione di finiture o l’utilizzo di materiali di particolare pregio); e, infine, se l’innovazione leda i suoi diritti di singolo condomino, rendendogli inservibile una parte comune (si pensi all’installazione di un manufatto che oscuri una finestra della sua unità immobiliare).

società per azioni

Società per azioni Guida alla società per azioni: cosa sono le azioni, a quanto ammonta il capitale minimo e quali sono i sistemi di gestione

Cos’è una società per azioni

La società per azioni è un modello di società di capitali solitamente utilizzato per imprese di grandi dimensioni, le cui quote di partecipazione sociale sono rappresentate da azioni.
Nell’ordinamento italiano le s.p.a. devono avere un capitale minimo di 50.000 euro; tale capitale è suddiviso in un certo numero di parti, ognuna delle quali rappresenta un’azione. Il numero complessivo di cui si compone il capitale sociale e il valore di ciascuna azione (uguale per tutte le azioni) sono indicate nell’atto costitutivo della società.

I vantaggi della s.p.a.

La s.p.a. è dotata di personalità giuridica distinta da quella dei suoi soci ed ha autonomia patrimoniale perfetta.
Ciò significa che i creditori della società possono far valere le proprie ragioni solo sul patrimonio sociale, senza avere la possibilità di aggredire il patrimonio personale dei singoli soci.

L’atto costitutivo delle spa

La società per azioni nasce con un contratto o con atto unilaterale cui deve seguire la stipula dell’atto costitutivo e dello statuto. Questi ultimi atti devono necessariamente essere formalizzati con atto pubblico presso lo studio di un notaio, il quale poi provvede all’iscrizione della s.p.a. presso il Registro delle Imprese.
Nell’atto costitutivo devono essere indicati, tra l’altro, la denominazione della società, l’ammontare del capitale sottoscritto, il numero di azioni in cui lo stesso si suddivide ed il relativo valore, le generalità dei soci e il numero di azioni ad essi attribuito e il sistema di gestione adottato.
Il capitale sociale deve essere sottoscritto per intero al momento della costituzione (la sottoscrizione rappresenta l’impegno giuridico a versare il capitale dichiarato), ma è sufficiente il versamento iniziale del solo 25% dei conferimenti in denaro.
È possibile, inoltre, partecipare alla società per azioni effettuando conferimenti in natura (ad esempio crediti, beni immobili, etc.), che devono essere accompagnati da apposita perizia di stima da allegare all’atto costitutivo.

Che cos’è un’azione

L’azione, dunque, rappresenta la partecipazione del socio ed è incorporata in un documento chiamato titolo azionario, liberamente trasferibile (cioè, ogni socio può cedere le proprie azioni senza necessità di ottenere il consenso degli altri soci).
Le società di maggiori dimensioni possono fare ricorso al mercato per reperire più diffusamente i capitali di rischio e collocare le azioni societarie. Per le società che scelgono di quotarsi in borsa sono previsti particolari obblighi di trasparenza a tutela dei risparmiatori (l’autorità amministrativa cui è demandata la vigilanza in materia è la Consob).
Le azioni ordinarie conferiscono al titolare il diritto di voto, il diritto alla partecipazione agli utili e il diritto alla partecipazione alla divisione del patrimonio sociale in occasione della liquidazione.
Altri tipi di azione sono le azioni privilegiate e le azioni di risparmio, cui corrispondono maggiori benefici economici ma più limitati diritti di voto.
Le s.p.a. possono anche emettere obbligazioni, per reperire più facilmente capitale di rischio. Le obbligazioni danno diritto alla restituzione del capitale e al percepimento degli interessi, ma non conferiscono poteri di voto.

I sistemi di gestione delle società per azioni

Il sistema di gestione tradizionale della s.p.a. è composto da tre organi: l’assemblea dei soci, l’organo di amministrazione e l’organo di controllo.
All’assemblea sono demandate alcune importanti decisioni, come la nomina degli amministratori e l’approvazione del bilancio (il “peso” del voto di ogni socio dipende dal numero di azioni da questi posseduto). L’organo di amministrazione (collegio o amministratore unico) provvede alla gestione della società, mentre al collegio sindacale sono demandati poteri di supervisione in particolar modo in materia di conti.
È possibile per i soci decidere di adottare sistemi di gestione diversi da quello tradizionale, indicando tale scelta nell’atto costitutivo.
In particolare, è possibile scegliere il c.d. sistema dualistico, in cui sono presenti solo l’organo di amministrazione e quello di controllo; a quest’ultimo sono demandati i poteri solitamente riservati all’assemblea dei soci.
Il c.d. sistema monistico, invece, prevede la presenza del solo organo di amministrazione, al cui interno è nominato un comitato di controllo.

società a responsabilità limitata

Società a responsabilità limitata (s.r.l.) Disciplina e vantaggi della s.r.l.: il modello organizzativo, il capitale sociale, i conferimenti dei soci e il regime fiscale

Cos’è una società a responsabilità limitata

La società a responsabilità limitata, anche detta s.r.l., è una società di capitali e rappresenta uno dei modelli societari più diffusamente adottati in Italia, in virtù della sua particolare disciplina legislativa che offre ampia flessibilità organizzativa ai soci.

Cosa rischiano i soci di una SRL?

La principale caratteristica della s.r.l. è l’autonomia patrimoniale perfetta: i soci, pertanto, rispondono delle obbligazioni sociali solo nei limiti della quota da ciascuno conferita e non con il proprio patrimonio personale, come invece accade nelle società di persone.

I creditori di una società a responsabilità limitata, quindi, possono rivalersi sul patrimonio sociale, ma non possono aggredire quello personale dei soci.

È evidente come sia questo uno dei principali motivi per cui la s.r.l. rappresenta un modello molto appetibile per chi vuole avviare un’impresa in forma societaria. Altri vantaggi rilevano sotto il profilo economico, organizzativo e fiscale.

A differenza di quanto accade in altre società di capitali, le partecipazioni di una s.r.l. non possono essere rappresentate da azioni.

Qual è il capitale minimo per costituire una SRL?

Il capitale sociale della società a responsabilità limitata può essere anche inferiore a 10.000 euro e, grazie a recenti modifiche legislative, è persino possibile costituire una s.r.l. con capitale iniziale pari a 1 euro.

Quando il capitale sociale è inferiore a 10.000 euro è necessario che le quote dei soci siano in denaro e siano versate per l’intero.

Particolare importanza ha la disciplina delle riserve, che devono essere accantonate fino a quando la somma tra capitale e riserve non raggiunga i 10.000 euro. In particolare, ogni anno, il 20% degli utili deve necessariamente essere imputato a riserva (e quindi non distribuito né riportato all’esercizio successivo) fino al raggiungimento di tale limite.

Diversamente, in una s.r.l. con capitale pari o superiore a 10.000 euro, sono ammessi anche i conferimenti in natura (ad esempio crediti o prestazioni d’opera, il cui valore va certificato con perizia di stima) ed occorre versare il 25% dei conferimenti in denaro e per l’intero quelli in natura.

Come si costituisce una s.r.l.

La s.r.l. si costituisce con atto costitutivo redatto con atto pubblico presso un notaio e viene ad esistenza al momento dell’iscrizione presso il Registro delle Imprese della Camera di commercio territorialmente competente.

È possibile anche che si configuri una società a responsabilità limitata unipersonale. In questo caso, il socio unico della s.r.l. unipersonale deve versare per intero il capitale ed adempiere a particolari obblighi pubblicitari al momento dell’iscrizione (e di ogni altro significativo cambiamento successivo), depositando presso il Registro delle Imprese una dichiarazione contenente l’indicazione di nome, cognome, denominazione e sede societaria, in mancanza della quale il socio unico potrebbe essere chiamato a rispondere illimitatamente con il proprio patrimonio personale dei debiti societari.

Gli organi della società a responsabilità limitata

Dal punto di vista organizzativo, la s.r.l. prevede un’assemblea, un organo di amministrazione e, se previsto dalla legge, un organo di controllo.

L’assemblea è la sede naturale nella quale i soci prendono le loro decisioni, ma l’atto costitutivo può prevedere metodi diversi con cui i soci possono manifestare il proprio voto (ad esempio, con consultazioni scritte).

L’organo amministrativo può essere rappresentato da un consiglio di amministrazione o da un amministratore unico. Il consiglio di amministrazione può funzionare congiuntamente (agendo di comune accordo) o disgiuntamente (con particolari poteri in capo al singolo amministratore). Sono ammessi anche modelli di amministrazione mista, con i quali gli amministratori agiscono talvolta congiuntamente e talvolta autonomamente, a seconda del tipo di attività da compiere.

Come detto, quando il socio amministratore, in virtù del suo potere di rappresentanza, agisca in nome e per conto della società, risponde nei limiti della quota conferita.

L’organo di controllo, che può anche essere costituito da una singola persona, funge da revisore dei conti.

SRL semplificata (s.r.l.s.)

La s.r.l. può anche configurarsi in forma semplificata (s.r.l.s.): in questo caso ai vantaggi economici (si risparmia, per lo più, sui costi notarili iniziali di costituzione) fanno da contraltare i limiti al capitale sociale, che può essere di massimo 10.000 euro; inoltre, possono essere soci della società a responsabilità limitata semplificata solo persone fisiche, e non anche persone giuridiche, come invece accade nella s.r.l. ordinaria.

Il regime fiscale della Società a responsabilità limitata

Dal punto di vista fiscale, la s.r.l. sconta la soggezione all’IRES (imposta sul reddito delle società), che presenta un’aliquota fissa, spesso più conveniente dell’aliquota che una persona fisica pagherebbe a titolo di Irpef se esercitasse l’attività d’impresa in forma non societaria.

In più, la società a responsabilità limitata è soggetta all’imposta regionale dell’Irap. Gli utili distribuiti ai soci al netto delle suddette imposte sono, altresì, soggetti all’imposta sui redditi.

società in accomandita semplice

Società in accomandita semplice Guida sulla società in accomandita semplice (s.a.s.): disciplina e vantaggi. La differenza tra soci accomandatari e soci accomandanti

Come funziona la società in accomandita semplice

La società in accomandita semplice è una tipologia di società di persone caratterizzata da una spiccata flessibilità organizzativa, unita ad alcuni aspetti tipici delle società di capitali, in primis la possibilità di parteciparvi con una limitazione della responsabilità patrimoniale.

Soci accomandatari e soci accomandanti

La principale caratteristica della s.a.s., infatti, è quella di prevedere due distinte categorie di soci (cfr. art. 2313 del codice civile):

  • i soci accomandatari, cui è riservata l’amministrazione della società, che rispondono illimitatamente e solidalmente delle obbligazioni sociali;
  • e i soci accomandanti, che non hanno alcun potere di gestione e rispondono delle obbligazioni sociali nei limiti della quota conferita.

Che differenza c’è tra socio accomandante e accomandatario

I soci accomandatari, quindi, hanno il potere di amministrazione della società, sia per l’attività ordinaria che straordinaria. La loro responsabilità illimitata nei confronti dei creditori sociali comporta che, nell’ipotesi in cui il capitale sociale non sia sufficiente per soddisfarli, questi ultimi hanno diritto di rivalersi sul patrimonio personale degli accomandatari (beneficium excussionis: i creditori devono sempre escutere prima il patrimonio sociale, e aggredire quello dei soci solo in caso di incapienza).

Inoltre, solo i soci accomandatari sono soggetti a fallimento, come disposto dall’art. 222 della Legge Fallimentare (R.D. n. 267/1942).

I soci accomandanti, invece, rispondono nei limiti della quota conferita. Va evidenziato, però, che se questi pongono in essere atti di amministrazione non autorizzati o ratificati dai soci accomandatari, contravvenendo al c.d. divieto di immistione, perdono il beneficio della limitazione di responsabilità e dunque rispondono delle obbligazioni sociali (tutte, comprese quelle pregresse) anche con il proprio patrimonio personale (senza, peraltro, acquisire con questo lo status di accomandatari e quindi permanendo esclusi dalla gestione della società).

Inoltre, gli accomandanti che violano il divieto di immistione possono essere esclusi dalla società e sono soggetti al fallimento al pari dei soci accomandatari.

Ai soci accomandatari spetta, di regola, anche il potere di rappresentanza, che può essere conferito anche al socio accomandante, ma solo per singoli affari e con procura speciale.

Che vantaggi ha una SAS

Tale configurazione dei ruoli societari vale a rendere la società in accomandita semplice un modello organizzativo flessibile, che può risultare attraente per chi intende reperire capitale senza compromettere il proprio potere gestionale (dal punto di vista dell’accomandatario) e, dall’altro lato, per chi intende cercare un guadagno, senza investire più della propria quota (dal punto di vista dell’accomandante).

Disciplina dell’art. 2313 codice civile

La società in accomandita semplice viene costituita con atto pubblico o scrittura privata autenticata; solo con la registrazione di tale atto nel Registro delle imprese avviene la formale costituzione della s.a.s. In mancanza di iscrizione, si crea una s.a.s. irregolare, la cui disciplina è analoga a quella della società in nome collettivo irregolare, pur permanendo la distinzione tra le due categorie di soci.

Nell’atto costitutivo deve essere espressamente indicato il tipo di società creata, i nominativi dei soci e la categoria a cui appartengono (accomandatari o accomandanti). Il numero minimo di soci è due, uno per categoria.

La disciplina della società in accomandita semplice non prevede un limite minimo di capitale. I conferimenti possono consistere in denaro, beni o prestazioni in favore della società.

La s.a.s. può avere ad oggetto anche un’attività commerciale, a differenza della società semplice e in analogia alla società in nome collettivo, la cui disciplina si applica alla s.a.s. per quanto non diversamente disposto dal codice civile.

Nella ragione sociale (il “nome” della società) deve necessariamente apparire il nome di uno dei soci accomandatari e il modello di società scelto (“s.a.s.”). Eccezionalmente, il socio accomandante può acconsentire all’inserimento del proprio nome nella ragione sociale, ma questo comporta per lui la perdita del beneficio della responsabilità limitata, analogamente a quanto più sopra esaminato.

Scioglimento della s.a.s.

La s.a.s. si estingue per i seguenti motivi:

  • volontà unanime dei soci
  • scadenza del termine
  • raggiungimento dell’oggetto
  • fallimento
  • sopravvenuta mancanza della pluralità di categorie dei soci, se non ricostituita entro sei mesi.

In tale ultimo caso, se a mancare è la categoria dei soci accomandatari, dev’essere nominato un amministratore temporaneo per compiere gli atti di ordinaria amministrazione.

Vedi gli altri articoli e guide di diritto civile

posti auto condominio

Posti auto condominio Posti auto condominio: chi ne ha diritto, come si assegnano i parcheggi, cosa fare in caso di occupazione abusiva

Parcheggio in condominio, quali sono le regole

La disciplina dell’utilizzo dei posti auto in condominio rappresenta un tema molto dibattuto, poiché nel codice civile non si rinvengono norme che regolino esplicitamente la materia.

Per tale motivo, per comprendere la disciplina dei parcheggi in condominio è necessario riferirsi alle norme di carattere generale che regolano la gestione del condominio (e in particolare quelle che riguardano l’utilizzo dei beni comuni). E ad alcuni particolari provvedimenti legislativi che hanno individuato dei parametri tecnici a cui fare riferimento.

Chi ha diritto al parcheggio condominiale?

Per prima cosa, va evidenziato che l’art. 1117 c.c. ricomprende espressamente tra le parti comuni dell’edificio le aree destinate a parcheggio.

Pertanto, i posti auto condominio ricadono nella disciplina generale prevista dall’art. 1102 c.c. Tale norma, dettata in tema di comunione (e, quindi, applicabile anche in materia condominiale) prescrive che ogni comproprietario  ha diritto di servirsi della cosa comune, a condizione di non alterarne la destinazione e di non impedire agli altri comproprietari di farne uso a loro volta.

Ecco, pertanto, emergere il primo, importante aspetto relativo alla disciplina dei parcheggi condominiali. A prescindere dalla quantità di posti auto presenti nell’edificio (che potrebbe ben essere inferiore al numero di abitazioni), ogni condomino ha diritto di servirsene, purché rispetti la destinazione propria dell’area di sosta (e non la usi, quindi, per scopi diversi: ad esempio, come zona di deposito) e non ne ostacoli l’utilizzo da parte degli altri condomini.

È evidente che, in tutti quei casi in cui il numero di posti auto non risulti sufficiente per soddisfare le necessità di tutti i residenti, si pone il problema di regolare l’utilizzo degli stessi.

Ebbene, cominciamo col dire che il compito di individuare le modalità di utilizzo dei posti auto spetta all’amministratore, in ossequio a quanto previsto dall’art. 1130 c.c. comma primo n. 2, secondo il quale l’amministratore deve “disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune”.

Come vengono assegnati i posti auto in un condominio

Detto questo, la pratica insegna che il criterio più di frequente adottato per regolare l’utilizzo dei posti auto condominiali, quando questi siano insufficienti rispetto alle abitazioni, sia la turnazione.

Sta all’assemblea stabilire le modalità di dettaglio della turnazione, a cominciare dalla periodicità della stessa (ad es. settimanale, mensile od annuale.

A tale riguardo, è sufficiente una delibera adottata con la maggioranza prevista dall’art. 1136 comma secondo (maggioranza dei presenti che rappresenti una quota pari ad almeno metà del valore dell’edificio), dal momento che si tratta di una decisione che non viola i diritti esclusivi di alcun condomino e che non introduce alcuna innovazione, limitandosi a disciplinare l’uso di una cosa comune.

Cosa fare se un condomino parcheggia negli spazi comuni

Un breve accenno merita il caso pratico, abbastanza ricorrente nella vita quotidiana, relativo all’occupazione del posto auto condominiale da parte di chi non ne ha diritto, ad esempio da parte di un condomino che non rispetti la suddetta turnazione.

In tal caso, non è alla forza pubblica che bisogna rivolgersi, quanto all’amministratore di condominio, il quale potrà far leva non solo su eventuali sanzioni previste dal regolamento condominiale, ma anche sulla configurabilità del reato di violenza privata ex art. 610 c.p. (cfr. la recente sentenza n. 27559 del 26 giugno 2023 della Corte di Cassazione penale).

In aggiunta, il condomino può far valere le proprie ragioni chiedendo al Giudice competente il rilascio di un provvedimento di urgenza o di intervenire in via cautelare.

Posti auto condominio: legge ponte e legge Tognoli

Infine, va ricordato che la materia dei posti auto in condominio è stata oggetto anche di legislazione tecnica.

Legge ponte

A cominciare dalla c.d. “legge ponte” (legge n. legge 765 del 1967, modificativa della l. 1150/1942), in base alla quale in ogni edificio deve essere presente almeno un metro quadro di parcheggio ogni dieci metri cubi di fabbricato.

A tal riguardo, la giurisprudenza – con qualche oscillazione – ha evidenziato la natura pertinenziale di tali posti auto rispetto all’unità immobiliare, nel senso che, sebbene il proprietario possa vendere l’abitazione indipendentemente dal posto auto, all’acquirente va riconosciuto il diritto reale d’uso dell’area stessa. Rimane esclusa da questo regime, e quindi può essere venduta liberamente, l’area di parcheggio realizzata in periodo antecedente alla “legge ponte” ed ogni area realizzata in misura eccedente rispetto alla necessità dell’edificio (quindi nei fabbricati che prevedono un numero di posti auto maggiore rispetto a quello delle abitazioni).

Legge Tognoli

Un altro importante provvedimento in materia è la c.d. legge Tognoli (legge n. 122 del 1989), che incentivò la creazione di posti auto in edifici ove l’area di parcheggio non era originariamente prevista o era prevista in misura insufficiente per le necessità delle rispettive abitazioni. Anche tali aree, per orientamento prevalente della giurisprudenza, sono da considerarsi quali pertinenze delle unità immobiliari ivi esistenti.