silenzio-assenso

Silenzio-assenso edilizio: stop ai dinieghi tardivi Il Tar Campania stabilisce che il silenzio-assenso sul permesso di costruire si perfeziona decorso il termine, escludendo il diniego tardivo e tutelando il legittimo affidamento dei cittadini

La sentenza del Tar Campania

Con la decisione n. 3120 del 2025, il Tar Campania ha chiarito che, decorso il termine previsto dall’articolo 20 del Testo Unico Edilizia (Dpr n. 380/2001), il titolo edilizio si forma per silenzio-assenso.
Un eventuale provvedimento di diniego tardivo non è ammissibile, poiché contrasterebbe con i principi di collaborazione, buona fede e legittimo affidamento che regolano i rapporti tra amministrazione e cittadini.

La disciplina del silenzio-assenso

L’articolo 20 del T.U. Edilizia prevede che, trascorsi 90 giorni senza provvedimento espresso (60 per la proposta e 30 per l’adozione finale), la domanda di permesso di costruire si intende accolta, salvo i casi che riguardano vincoli ambientali, paesaggistici, culturali o idrogeologici.

Il meccanismo del silenzio-assenso rappresenta un rimedio contro l’inerzia della Pubblica amministrazione e garantisce ai cittadini tempi certi, con la possibilità di ottenere anche un’attestazione formale del decorso dei termini.

Orientamenti giurisprudenziali a confronto

La giurisprudenza in passato ha discusso sulla natura del silenzio-assenso:

  • Secondo un orientamento, esso non si perfeziona se l’attività richiesta è priva dei requisiti previsti dalla legge.

  • Le pronunce più recenti (tra cui Tar Campania, Tar Lazio e Consiglio di Stato) sostengono invece che il silenzio-assenso si forma comunque, anche se l’intervento non è conforme, lasciando all’amministrazione il potere di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della legge n. 241/1990.

In tal modo, il perfezionamento del titolo edilizio resta distinto dalla sua eventuale illegittimità, che può essere rimossa solo tramite l’autotutela.

Diniego tardivo e principi di buona fede

Il Tar Campania ha ribadito che l’adozione di un diniego oltre i termini vanificherebbe la finalità di semplificazione dell’istituto e creerebbe incertezza nei cittadini.
Solo l’autotutela può rimuovere un titolo formato per silenzio-assenso, ma non è consentito un diniego espresso tardivo, che comprometterebbe l’affidamento del privato e il principio di certezza del diritto.

ricongiungimento familiare

Ricongiungimento familiare Ricongiungimento familiare: cos’è, chi ne ha diritto, come funziona la procedura, il ricongiungimento per i rifugiati

Cos’è il ricongiungimento familiare

Il ricongiungimento familiare è un diritto fondamentale riconosciuto ai cittadini stranieri legalmente soggiornanti in Italia, che consente di far entrare e stabilire nel territorio nazionale determinati familiari. Si tratta di un istituto volto a tutelare l’unità familiare, come garantito dall’art. 29 del Testo Unico sull’Immigrazione (Decreto legislativo n. 286/1998) e dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Il ricongiungimento familiare è la procedura amministrativa che consente al cittadino extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia di richiedere il permesso d’ingresso per i propri familiari stretti rimasti nel Paese d’origine o in un altro Stato estero.

Non si tratta di una facoltà discrezionale dell’amministrazione, bensì di un diritto soggettivo, esercitabile in presenza di specifici requisiti anagrafici, reddituali e abitativi.

Chi ha diritto al ricongiungimento familiare

Possono richiedere il ricongiungimento:

I cittadini extracomunitari titolari di permesso di soggiorno di almeno un anno per motivi di:

  • lavoro subordinato o autonomo;
  • asilo o protezione sussidiaria;
  • motivi familiari;
  • studio o motivi religiosi (solo in alcuni casi particolari).

È necessario che il richiedente sia regolarmente soggiornante in Italia e possa dimostrare di disporre di:

  • un alloggio idoneo secondo i parametri igienico-sanitari e abitativi previsti dalla legge;
  • un reddito minimo annuale sufficiente a mantenere sé stesso e i familiari da ricongiungere;
  • un’assicurazione sanitaria o di un altro titolo idoneo.

Il reddito minimo è pari all’importo annuo dell’assegno sociale, aumentato della metà dell’importo dello stesso per ogni familiare.

Per quali familiari si può richiedere

Il ricongiungimento familiare può essere richiesto per i seguenti familiari stretti:

  1. il coniuge non legalmente separato e non minore;
  2. i figli minori del richiedente o del coniuge, anche adottivi, non coniugati;
  3. i figli maggiorenni a carico, se inabili in modo permanente al lavoro per gravi disabilità;
  4. i genitori a carico, se non hanno altri figli nel Paese di origine o, se presenti, non possono provvedere al loro mantenimento per gravi motivi di salute certificati.

Non è ammesso il ricongiungimento con fratelli, sorelle o altri parenti diversi da quelli elencati, salvo casi molto specifici e documentati.

Come si fa la domanda di ricongiungimento familiare

La procedura si articola in due fasi principali:

1. Richiesta del nulla osta

La domanda va presentata telematicamente attraverso lo sportello online del Ministero dell’Interno (portale ALI – Sportello Unico Immigrazione)

Il richiedente dovrà allegare, tra i vari documenti richiesti:

  • il documento d’identità valido;
  • il permesso di soggiorno;
  • il certificato del reddito e contratto di lavoro (o dichiarazione dei redditi);
  • il certificato di idoneità alloggiativa rilasciato dal Comune;
  • la documentazione attestante il legame di parentela (tradotta e legalizzata);
  • il certificato di nascita dei figli o certificato di matrimonio.

Il nulla osta viene rilasciato dalla Prefettura – Sportello Unico per l’Immigrazione, previa verifica dei requisiti. In caso di silenzio amministrativo per oltre 90 giorni, si può fare ricorso al TAR.

2. Richiesta del visto

Una volta ottenuto il nulla osta, il familiare deve presentarsi presso l’Ambasciata o Consolato italiano nel Paese d’origine, dove verrà rilasciato il visto per ricongiungimento familiare.

Dopo l’ingresso in Italia, entro 8 giorni il familiare deve richiedere il permesso di soggiorno presso la Questura.

Tempi della procedura

In condizioni ordinarie, i tempi per la procedura di ricongiungimento familiare sono:

  •   30 giorni per l’emissione del visto da parte dell’autorità competente, che decorrono dalla richiesta;
  • I tempi possono per allungarsi se è necessario procedere a verifiche ulteriori.

Ricongiungimento familiare e rifugiati

Per i titolari di protezione internazionale (asilo o protezione sussidiaria), il ricongiungimento è soggetto a una disciplina semplificata. Non sono richiesti requisiti reddituali, di alloggio e assicurativi, ma è necessario dimostrare il legame familiare con:

  • il coniuge o il partner unito da legame stabile;
  • i figli minori;
  • i genitori a carico.

Considerazioni conclusive

Il ricongiungimento familiare è uno strumento giuridico fondamentale per la tutela dell’unità familiare e il rispetto dei diritti umani. In presenza dei requisiti previsti, il cittadino straniero ha diritto soggettivo all’ingresso dei propri familiari in Italia, senza discrezionalità da parte dell’autorità amministrativa.

La corretta presentazione della domanda e la completezza della documentazione sono essenziali per evitare ritardi o rigetti. In caso di diniego, è possibile presentare ricorso al TAR.

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giurista risponde

Estromissione processuale e legittimità ad agire L’estromissione si pone su un piano diverso dal difetto di legittimazione passiva?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, l’estromissione processuale si pone su un piano diverso dal difetto di legittimazione passiva, intendendosi come riduzione del numero delle parti del giudizio per effetto di un’ordinanza del giudice che accerti il sopraggiungere di circostanze di natura sostanziale. – TAR Lazio, Roma, sez. IIbis, 3 marzo 2025, n. 4522.

La Sezione evidenzia che l’estromissione processuale, intesa come riduzione del numero delle parti del giudizio per effetto di un’ordinanza del giudice che accerti il sopraggiungere di circostanze di natura sostanziale, è ammessa esclusivamente nei casi espressamente previsti dalla legge. Essa va tenuta distinta dalla diversa ipotesi in cui la parte resistente eccepisce, in capo a sè, il difetto di titolarità della situazione giuridica soggettiva fatta valere (c.d. difetto di legittimazione passiva) e chiede l’adozione di una sentenza parziale non definitiva e di merito, volta ad accertare l’insussistenza di corrispondenza tra la domanda proposta dal ricorrente e l’effettiva titolarità passiva della situazione giuridica dedotta in giudizio.

Nel processo civile, la titolarità della situazione giuridica soggettiva e il difetto di legittimazione passiva costituiscono categorie concettualmente distinte: la prima attiene al merito della controversia, la seconda al rito. Diversamente, nel processo amministrativo tali nozioni tendono a sovrapporsi, rendendo insufficiente che il ricorrente si limiti ad allegare la sussistenza della legittimazione attiva/passiva. È, infatti, richiesta la dimostrazione dell’effettiva titolarità di una situazione giudica soggettiva configurabile come interesse legittimo, sia esso pretensivo o oppositivo. A differenza del processo civile, nel quale l’accertamento della titolarità pone fine alla questione processuale, nel processo amministrativo tale accertamento non è sufficiente a definire il giudizio. Occorre, infatti, che nella fase di merito l’interesse legittimo del ricorrente sia confrontato con l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione, al fine di stabilirne l’eventuale prevalenza. In tale ottica, la legittimazione ad agire assume una valenza sostanziale, in quanto si configura come manifestazione processuale dell’interesse legittimo stesso.

 

(*Contributo in tema di “Estromissione processuale e legittimità ad agire ”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

farmacie dei servizi

Farmacie dei servizi: quali limiti Il TAR Sicilia chiarisce i limiti delle farmacie dei servizi: prestazioni solo in sede e non assimilabili a quelle dei centri sanitari accreditati

Cosa sono le farmacie dei servizi

Le farmacie dei servizi sono un’evoluzione della farmacia tradizionale, introdotta per offrire sul territorio prestazioni a valenza socio-sanitaria complementari a quelle dei medici e delle strutture sanitarie accreditate. Introdotte con il D.lgs. n. 153/2009, hanno trovato attuazione con il D.M. 16 dicembre 2010 e successive norme, soprattutto in risposta all’emergenza Covid-19. Il loro scopo è potenziare l’offerta sanitaria del Servizio sanitario nazionale (SSN), soprattutto nei piccoli centri e nelle aree a bassa densità medica.

Le prestazioni erogabili includono, ad esempio, servizi di screening, prenotazioni CUP, autoanalisi, misurazioni, vaccinazioni e test diagnostici in farmacia.

Il caso esaminato dal TAR Sicilia

Con la sentenza n. 881/2025, il TAR Sicilia ha risolto una controversia avviata da alcune associazioni e strutture sanitarie private contro l’Assessorato alla Salute della Regione Siciliana. In particolare, venivano contestate:

  • le linee guida regionali per l’erogazione sperimentale di nuovi servizi da parte delle farmacie di comunità;

  • la possibilità di eseguire tali servizi in locali esterni alla farmacia;

  • la remunerazione delle prestazioni a carico del SSN senza il rispetto dei requisiti di autorizzazione e accreditamento previsti per le strutture sanitarie private.

TAR: non sono operatori sanitari

Il tribunale ha stabilito che le farmacie dei servizi non sono assimilabili agli operatori sanitari accreditati. Infatti, esse erogano prestazioni socio-sanitarie, non sanitarie in senso stretto, e quindi non devono sottostare agli stessi requisiti strutturali e autorizzativi imposti a poliambulatori o cliniche private. Per questo motivo, non si configura alcuna violazione in termini di autorizzazione sanitaria.

Stop alle prestazioni in locali esterni

Diverso è il giudizio sulla possibilità di erogare le prestazioni in spazi esterni alla sede della farmacia. Su questo punto, il TAR ha accolto il ricorso, ritenendo illegittima la previsione regionale che autorizzava l’erogazione in ambienti del tutto separati dalla farmacia stessa.

Secondo il Collegio, il D.M. 16 dicembre 2010, che parla di “spazi dedicati e separati dagli altri ambienti”, fa riferimento a locali interni alla farmacia, e non a strutture esterne. Inoltre, l’unica eccezione ammessa dal legislatore è quella prevista dall’art. 1, comma 2, lett. e-quater del D.lgs. 153/2009, che consente l’uso di locali esterni solo per vaccinazioni e tamponi anti-Covid o antinfluenzali.

In mancanza di una base normativa chiara, un ampliamento tramite atto amministrativo è stato giudicato inammissibile.

check-out da remoto

Check out da remoto per le strutture ricettive Check out da remoto per le strutture ricettive, l'identificazione "de visu" contrasta con la riduzione degli adempimenti amministrativi

Check out da remoto per le strutture ricettive

Torna il check out da remoto per le strutture ricettive. La sentenza n. 10210/2025 del TAR Lazio boccia la circolare del Ministero dell’Interno del 18 novembre 2024 che imponeva agli operatori turistici l’identificazione di persona (“de visu”) degli ospiti. La norma, che mirava a prevenire rischi per la sicurezza pubblica, di fatto precludeva le procedure di check-in a distanza. Con questa decisione, si riapre la strada alle modalità di registrazione a distanza.

Check out da remoto: no a identificazione de visu

Un’associazione rappresentativa del settore ricettivo extralberghiero italiano ricorre al TAR del Lazio contro la circolare del Ministero dell’Interno, datata 18 novembre 2024, protocollo 0038138. Il documento impone ai gestori di strutture ricettive l’obbligo di identificare di persona gli ospiti, ritenendo non conformi all’articolo 109 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) le procedure di check-in da remoto, considerate potenzialmente pregiudizievoli per la sicurezza collettiva.

L’associazione solleva diverse doglianze contro la circolare. La più importante da segnalare  però è quella in cui la ricorrente sostiene che la circolare si ponga in conflitto con la riforma del 2011 dell’articolo 109 TULPS, che aveva eliminato l’obbligo per i gestori di raccogliere le generalità degli alloggiati “de visu” e di far firmare le schede agli ospiti. Da tale riforma, l’obbligo si era ridotto al solo accertamento che gli alloggiati fossero muniti di un documento d’identità e alla comunicazione delle generalità alle Questure tramite il portale “Alloggiati web”. Tali obblighi erano stati estesi nel 2018 anche ai locatori di immobili per brevi periodi. La circolare pertanto, con la reintroduzione dell’identificazione “de visu”, aggraverebbe nuovamente gli adempimenti a carico dei gestori, contravvenendo allo spirito della riforma del 2011 che mirava a ridurli. La ricorrente argomenta inoltre che l’identificazione “de visu” non sarebbe idonea a raggiungere l’obiettivo di sicurezza pubblica, poiché non eliminerebbe il rischio che l’alloggiato, dopo l’identificazione, possa cedere le chiavi a un soggetto non identificato.

Identificazione “de visu” in contrasto

Il TAR precisa prima di tutto che la circolare impugnata, non ha un valore meramente interpretativo, ma introduce un “obbligo” concreto e immediatamente lesivo per i gestori. La stessa pertanto è in effetti direttamente impugnabile, non essendo necessario un provvedimento applicativo. Nel merito invece il TAR annulla il provvedimento impugnato.

L’obbligo di identificazione “de visu” si pone in effetti, come affermato dalla ricorrente, in contrasto con la riduzione degli adempimenti amministrativi introdotta dal D.L. n. 201/2011 e dalla modifica dell’articolo 109 TULPS. La circolare, infatti, ha ripristinato un onere che la legge aveva inteso eliminare, ignorando la modifica legislativa. Il TAR ritiene inoltre che l’identificazione “de visu” non sia di per sé in grado di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica. Come evidenziato nel ricorso, essa non impedisce che l’alloggio possa essere successivamente utilizzato da soggetti non identificati. Il Ministero, inoltre, non ha specificato per quale ragione strumenti alternativi (come la verifica da remoto) non sarebbero sufficienti a raggiungere il medesimo obiettivo con minore pregiudizio per i destinatari, in palese violazione del principio di proporzionalità. Per queste e per altre ragioni il TAR ritiene che la circolare sia viziata e quindi la annulla.

 

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giurista risponde

Contratto pubblico e affidamento: la motivazione della decisione di non aggiudicare La decisione di non aggiudicare un appalto deve essere motivata anche nella fase antecedente all’aggiudicazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, la decisione di non aggiudicare un appalto deve essere motivata anche prima dell’aggiudicazione, sussistendo un affidamento dell’operatore economico (T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 7 novembre 2024, n. 3683).

Preliminarmente, in base all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023, la decisione di non aggiudicare un appalto deve essere necessariamente comunicata e la medesima decisione deve essere, senza alcuna attenuazione, espressamente motivata anche nella fase antecedente alla aggiudicazione.

Inoltre, alla luce dell’art. 5 del codice dei contratti pubblici, per il principio di buona fede, anche prima dell’aggiudicazione sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al detto principio.

Pertanto, la caducazione della procedura, per altro a fronte di una posizione comunque differenziata relativa al partecipante alla selezione, la cui offerta, seppur in via provvisoria, è stata ritenuta migliore, deve trovare una solida motivazione.

Il principio della reciproca fiducia non può non confluire nel principio di trasparenza ed efficienza. Il comportamento delle stazioni appaltanti va relazionato all’assoluta rappresentazione, in qualunque fase, delle motivazioni che ne determinano l’operato e ciò ancor più laddove viene messa nel nulla una procedura avviata dalla medesima amministrazione, senza che la stessa, per altro, venga definitivamente caducata, ma eventualmente riproposta emendata da asseriti errori procedurali, che devono essere tali da dover necessariamente determinare l’impossibilità di concludere l’originario procedimento.

 

(*Contributo in tema di “Contratto pubblico e affidamento: la motivazione della decisione di non aggiudicare”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

festival di sanremo

Festival di Sanremo: addio alla Rai? Festival di Sanremo: dal 2026 gara pubblica, l’affidamento alla RAI è illegittimo, non rispetta le norme sui contratti pubblici

Festival di Sanremo: affidamento illegittimo alla RAI

Illegittimo l’affidamento diretto del Festival di Sanremo alla RAI da parte del Comune di Sanremo.  Dal 2026, l’organizzazione del Festival dovrà passare attraverso una gara pubblica. La decisione, contenuta nella sentenza del TAR Liguria n. 843/2024, nasce dal ricorso presentato dai discografici italiani, rappresentati dal presidente dell’Associazione Fonografici Italiani.

Festival della canzone italiana: concessione marchio

Nel 2023, il presidente dell’Associazione Fonografici Italiani la sua etichetta discografica  contestano la concessione diretta del Marchio “Festival della Canzone Italiana” alla RAI, senza una procedura di evidenza pubblica.

La convenzione, infatti, garantiva alla RAI l’uso esclusivo del marchio e l’organizzazione delle edizioni 2024 e 2025. Il Comune avrebbe dovuto invece rispettare le norme europee e nazionali sui contratti pubblici, aprendo il bando a operatori del settore.

Festival di Sanremo:  la convenzione tra Comune e RAI

La convenzione per il Festival di Sanremo prevede che la RAI organizzi l’evento a sue spese, presentando un progetto-programma al Comune per l’approvazione. In cambio, ottiene i diritti di sfruttamento economico del marchio e del Festival. Il Comune fornisce supporto logistico e floreale e riceve un corrispettivo, oltre a una percentuale sui ricavi generati dalla RAI.

Il TAR ha evidenziato che questa convenzione è un “contratto attivo”, poiché la RAI trae un’opportunità di guadagno. Pertanto, la concessione dovrebbe seguire i principi di trasparenza, concorrenza e imparzialità, previsti dalla normativa vigente.

Marchio e format: entità distinte

Un punto centrale della sentenza riguarda la distinzione tra il marchio e il format. Il TAR ha stabilito che il marchio “Festival della Canzone Italiana” non è inscindibilmente legato al format ideato dalla RAI. Dal 1951 al 1991, infatti, il Comune ha gestito il Festival autonomamente. La RAI si è infatti limitata trasmettere la manifestazione canora in televisione.

Negli ultimi anni poi, il format del Festival è stato modificato più volte, dimostrando l’assenza di un legame indissolubile tra marchio e organizzazione. Nel 2021, ad esempio, il Festival si è svolto senza pubblico per via della pandemia e in altre edizioni sono stati introdotti cambiamenti significativi nelle modalità di gara e conduzione.

Le difese della RAI e del Comune di Sanremo

La RAI ha sostenuto di essere titolare esclusiva del diritto d’autore sul format e di aver investito interamente nella sua creazione. Il TAR però ha respinto questa tesi, affermando che il contratto con il Comune riguarda lo sfruttamento del marchio, non del format.

Il Comune, dal canto suo, ha difeso la convenzione come immodificabile, sottolineando la necessità di un legame tra organizzazione e trasmissione televisiva. Questa posizione non ha convinto i giudici, che hanno ritenuto possibile separare i due ruoli, come avveniva prima del 1991.

Festival di Sanremo: negata la qualifica di bene culturale

Il Tar ha escluso che il Festival, il marchio o il format possano essere qualificati come beni culturali ai sensi del Codice dei beni culturali. Si tratta di diritti immateriali e di una manifestazione circoscritta nel tempo e nello spazio, non assimilabile a espressioni di identità culturale collettiva.

Conseguenze sul Festival di Sanremo

Le edizioni 2024 e 2025 rimangono salve, poiché l’organizzazione è già in fase avanzata. Tuttavia, dal 2026, il Comune dovrà aprire una gara pubblica per assegnare la gestione del Festival. La RAI, quindi, potrebbe non essere più l’organizzatrice principale dell’evento. La sentenza segna un cambiamento epocale per il Festival di Sanremo. Dal 2026, nuovi operatori potranno concorrere per gestire l’evento, garantendo maggiore trasparenza e concorrenza. La competizione potrebbe portare a innovazioni significative nel panorama musicale e mediatico italiano.

 

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giurista risponde

Procedure di gara: il termine per ricorrere Quali i termini per ricorrere nelle procedure di gara?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nell’ambito delle procedure di gara, ai fine dell’esperibilità del ricorso, trova applicazione il termine decadenziale dei trenta giorni, laddove la comunicazione degli esiti di gara abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo; nel caso contrario trova applicazione il termine di quarantacinque giorni (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 25 settembre 2024, n. 1721).

Preliminarmente, è opportuno ricordare che l’art. 120 del codice del processo amministrativo prevede che il termine decorre, per il ricorso principale ed i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, ai sensi dell’art. 36 del medesimo codice dei contratti pubblici.

Dunque, la decorrenza del termine per ricorrere differisce che si tratti di ricezione della comunicazione ex art. 90 oppure della messa a disposizione degli atti ex art. 36, mediante la procedura dell’accesso.

A tal proposito soccorrono le regole cardine della pienezza conoscitiva strumentali all’inviolabilità del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato.

Pertanto, nell’ambito delle controversie ex art. 120 c.p.a., laddove la comunicazione degli esiti di gara (ex art. 90) abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo e non sia necessario attendere la messa a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, trova applicazione il tradizionale termine decadenziale dei trenta giorni ai fini dell’esperibilità del ricorso avverso gli atti di gara. Nel caso contrario in cui la conoscenza di atti ulteriori e diversi assurga a condizione ineludibile per poter acquisire una pienezza conoscitiva, rintracciabile mediante l’istituto dell’accesso formale, allora opera la logica della dilazione temporale con un’estensione fino ai quarantacinque giorni.

 

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

lecito dare cibo

Lecito dare cibo ai gatti randagi Illegittima l'ordinanza che vieta ai cittadini di dare cibo agli animali randagi. Vanno però rimossi i contenitori utilizzati

Illegittimo divieto di sfamare randagi

Lecito dare cibo ai gatti randagi. Illegittima, dunque, l’ordinanza che vieta ai cittadini di somministrare alimenti a questi animali. Chi li sfama però deve utilizzare appositi contenitori e rimuoverli successivamente. La mancata rimozione costituisce abbandono di rifiuti e può essere sanzionata.Lo ha affermato il TAR Sicilia nella sentenza n. 3844/2024.

La vicenda

L’ordinanza contestata vietava indiscriminatamente la somministrazione di cibo ad animali vaganti, come cani e gatti, oltre ad altri animali selvatici. Una delle associazioni per la protezione degli animali ha impugnato il provvedimento, sottolineando che il divieto contrasta con le normative nazionali e regionali per la tutela degli animali d’affezione. Secondo l’associazione, la misura era eccessiva, priva di fondamento logico e in contrasto con il principio di protezione degli animali sancito dalla legge.

Crudele esporre i randagi alla fame

Il TAR ha sottolineato che il randagismo è un problema sociale da affrontare con umanità e rispetto per gli animali. Privare i randagi del cibo fornito da cittadini sensibili alle loro condizioni significa esporli alla fame e a comportamenti potenzialmente pericolosi, come rovistare nei rifiuti o diventare aggressivi per sopravvivere. Questo approccio, secondo il giudice amministrativo, risulta crudele e contrario alla legge.

Inoltre, nessuna norma vieta di alimentare animali randagi nei luoghi dove trovano rifugio. Al contrario, la legge quadro nazionale del 1991 promuove la tutela degli animali d’affezione e condanna ogni atto di crudeltà, maltrattamento o abbandono. Questi principi mirano a favorire una convivenza equilibrata tra esseri umani e animali, tutelando anche la salute pubblica e l’ambiente.

Ordinanza illegittima e ingiustificata

Il TAR ha anche evidenziato l’assenza di ragioni straordinarie che potessero giustificare l’adozione dell’ordinanza. Non sono emerse situazioni di emergenza igienico-sanitaria o pericoli per la pubblica incolumità tali da richiedere un intervento straordinario. Secondo il giudice, le circostanze citate erano fisiologiche e prevedibili. Inoltre, con le dovute precauzioni, non rappresentavano un rischio immediato per l’igiene pubblica.

La sentenza ribadisce quindi che è possibile alimentare i randagi, ma occorre rispettare alcune regole. Gli alimenti devono essere posti in contenitori idonei, che devono poi essere rimossi per evitare la dispersione di rifiuti. La mancata osservanza di questo obbligo può essere sanzionata, poiché si configura come abbandono di rifiuti. Il TAR in questo modo afferma i principi di tutela degli animali sanciti dalla legge. Cani e gatti randagi non possono essere lasciati morire di fame o essere abbandonati a sé stessi. Le autorità devono promuovere soluzioni rispettose e conformi alle normative vigenti, evitando misure che ignorano il benessere degli animali e i diritti dei cittadini.Occorre quindi un approccio equilibrato e responsabile nella gestione del randagismo, in linea sia con il quadro normativo italiano che con il senso civico.

 

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demolizione ricostruzione

Demolizione, ricostruzione e nuova opera: il Tar fa chiarezza Demolizione, ricostruzione e nuova opera si distinguono per l’entità delle modifiche apportate rispetto all’edificio preesistente demolito

Demolizione, ricostruzione e nuova opera

La ricostruzione dopo la demolizione si distingue dalla nuova opera in ragione dell’entità delle modifiche apportate. Si ha ricostruzione quando i volumi, l’altezza e la sagoma non subiscono variazione, si ha nuova opera, assoggettabile quindi alle regole della attività corrispondente, quando gli interventi vanno a modificare la sagoma, i volumi e le superfici. Il TAR delle Marche lo chiarisce nella sentenza n. 809/2024.

Contributo di costruzione se è nuova opera

Una S.R.L agisce nei confronti di un Comune per chiedere l’annullamento di una determina. Il provvedimento le richiede il pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di “costruzione” relativo a un permesso di costruire in sanatoria per la demolizione e ricostruzione di due fabbricati con cambio di destinazione d’uso. Le opere in effetti hanno dato vita a una nuova costruzione.

Durante i lavori di ristrutturazione da parte della società gli agenti della polizia municipale accertano infatti la difformità delle opere rispetto al permesso di costruire. Essi rilevano la quasi integrale demolizione del fabbricato B, atteso che ne sono rimasti conservati tronconi di muratura in misura non significativa rispetto alla sagoma originaria dell’edificio originario e tra l’altro non incluse nella nuova struttura ricostruita, contravvenendo alla prescrizione contenuta nel titolo rilasciato che ne prevedeva la conservazione al fine di ricondurre l’intervento proposto nell’ambito della ristrutturazione edilizia”.

Il tutto si è verificato in violazione dei limiti del titolo abilitativo e previsti per salvaguardare alcune porzioni di uno dei fabbricati.

Ricostruzione e nuova opera: differenze

Ai fini del decidere il TAR distingue lintervento di demolizione con successiva ricostruzione da quello con cui si realizza una nuova costruzione. A questo proposito lo stesso chiarisce che, dopo una demolizione, la distinzione tra ricostruzione e nuova costruzione si basa in particolare sul grado di variazione rispetto all’opera precedente.

Si parla quindi di ricostruzione quando l’intervento non  modifica il volume, la sagoma e l’altezza della costruzione precedente. L’edificio conserva in sostanza le caratteristiche fondamentali dell’edificio demolito.

Si realizza al contrario una nuova opera quando l’edificio viene demolito e al suo posto viene edificato un edificio nuovo e diverso, anche se parzialmente, rispetto a quello originario.

Il TAR ricorda che: Per costante giurisprudenza, non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria assoggettati a concessione gratuita una ristrutturazione c.d. pesante, se non addirittura una nuova costruzione, realizzata con la demolizione dell’edificio preesistente e l’edificazione di un organismo edilizio nuovo e diverso, almeno in parte, da quello originario; ne consegue che in questo caso il rilascio della concessione in sanatoria è correttamente sottoposto al pagamento dell’oblazione in misura pari al doppio del contributo di costruzione.”

 

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