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Processo tributario e prove in appello: l’affondo della Consulta La Corte Costituzionale si pronuncia sulla nuova disciplina delle prove in appello nel processo tributario

Processo tributario e prove in appello

Con la sentenza numero 36/2025 la Consulta ha esaminato la legittimità costituzionale di alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 220/2023, che ha introdotto modifiche significative in materia di contenzioso tributario.

L’oggetto del giudizio riguarda, in particolare, le criticità sollevate dalle Corti di giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia, in relazione alle nuove restrizioni sulla produzione di prove in appello.

Il divieto di deposito di deleghe e procure

La Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 58, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera bb) del d.lgs. n. 220/2023, nella parte in cui vieta il deposito in appello di deleghe, procure e atti di conferimento di potere. Secondo la Corte, tale divieto contrasta con il diritto alla prova e non trova giustificazione rispetto agli altri elementi probatori ammessi in secondo grado.

Confermato il divieto sulle notifiche dell’atto impugnato

Di contro, la Corte ha ritenuto legittimo il divieto di produrre in appello le notifiche dell’atto impugnato e gli atti presupposti, escludendone il contrasto con i principi costituzionali. Questa restrizione, secondo i giudici, evita che il processo d’appello diventi un’occasione per sanare omissioni probatorie commesse in primo grado.

Dichiarata l’irragionevolezza della norma transitoria

Un ulteriore profilo di incostituzionalità ha riguardato l’articolo 4, comma 2, del d.lgs. n. 220/2023, nella parte in cui estende le nuove regole sulle prove anche ai giudizi già pendenti in secondo grado. La Corte ha ritenuto questa disciplina irragionevole, in quanto incide retroattivamente sulle aspettative delle parti, lesinando la tutela di posizioni giuridiche già consolidate.

Implicazioni pratiche per il processo tributario

Questa pronuncia rappresenta un punto di riferimento per gli operatori del diritto tributario, chiarendo i limiti alla produzione di prove in appello e confermando la volontà del legislatore di limitare il ricorso all’appello per sanare vizi procedurali. Tuttavia, la Corte ha ribadito che le restrizioni non possono ledere il diritto alla difesa, soprattutto quando la mancata produzione della prova non sia imputabile alla parte.

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Riuso edilizio: la pronuncia della Consulta La Corte Costituzionale boccia alcune norme della regione Sardegna in materia di riuso edilizio e aggiudicazione dei contratti pubblici

Riuso edilizio e aggiudicazione dei contratti pubblici: la Consulta, con la sentenza n. 174/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di due disposizioni della legge della Regione Sardegna n. 17 del 2023, impugnate dal Governo.

Il riuso edilizio

La prima disposizione (art. 4, comma 1, lettera a, numero 1), modificando l’art. 124, comma 2, della legge regionale n. 9 del 2023, prevede che gli interventi di riuso dei seminterrati, piani pilotis e locali al piano terra degli immobili destinati ad uso abitativo sono consentiti anche mediante il superamento degli indici volumetrici e dei limiti di altezza e numero dei piani previsti dalle vigenti disposizioni urbanistico edilizie comunali e regionali.

La Corte ha ritenuto che “una simile disciplina contrasta con la necessità che le deroghe agli indici di densità edilizia introdotte dal legislatore regionale siano connotate dall’eccezionalità e dalla temporaneità, nel rispetto del principio di pianificazione urbanistica espresso dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942”.

La norma impugnata è stata dichiarata illegittima nella parte in cui consente, in via stabile, di superare gli indici volumetrici, in violazione del suddetto principio, che limita la competenza legislativa regionale primaria in materia di «edilizia ed urbanistica» (art. 3, primo comma, lettera f, dello statuto).

Aggiudicazione contratti pubblici

La seconda disposizione (art. 7, comma 16) inserisce nell’art. 37 della legge regionale n. 8 del 2018 un nuovo comma 3-bis, prevedendo che nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa «costituisce requisito di ammissione dell’offerta tecnica il raggiungimento del punteggio minimo pari al 60 per cento del valore massimo attribuibile all’offerta tecnica stessa».

La Consulta ha ritenuto che il legislatore regionale, imponendo un inderogabile punteggio minimo dell’offerta tecnica, abbia leso l’autonomia di scelta delle stazioni appaltanti, precludendo ad esse una diversa ponderazione dei criteri di valutazione delle offerte, in contrasto con l’art.108 del vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36 del 2023).

Conseguentemente, “la disposizione impugnata ha superato i limiti che le norme di tale codice sulla scelta del contraente, adottate dallo Stato in nome della tutela della concorrenza, pongono alla potestà legislativa regionale primaria in materia di «lavori pubblici di esclusivo interesse della Regione» (art. 3, primo comma, lettera e, dello statuto)”.

Il giudice delle leggi ha osservato, inoltre, che la garanzia di un confronto concorrenziale effettivo necessita dell’autonomia delle stazioni appaltanti nella valutazione caso per caso della migliore offerta. Ha sottolineato, inoltre, che tale autonomia – anche al fine di favorire la concorrenza – è stata rafforzata dal nuovo codice dei contratti pubblici del 2023 rispetto alle precedenti sue versioni, come è chiaramente dimostrato dalle importanti norme contenute nei primi tre articoli del codice, dedicate ai «principi generali» che regolano la contrattualità pubblica: principio del risultato (art. 1), principio della fiducia (art. 2) e principio dell’accesso al mercato (art. 3). L’autonomia delle stazioni appaltanti, dunque, risulta potenziata: limitarla significherebbe pregiudicare la competizione tra le imprese che aspirano all’aggiudicazione del contratto.