licenziamento dei dirigenti

Licenziamento dei dirigenti durante il Covid: è legittimo La Corte costituzionale ha dichiarato legittimo il licenziamento dei dirigenti durante l’emergenza Covid, ritenendo conforme alla Costituzione il diverso trattamento rispetto agli altri lavoratori

Licenziamento dei dirigenti durante il Covid

Licenziamento dei dirigenti: con la sentenza n. 141/2025, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di Catania in merito al divieto di licenziamenti economici introdotto durante la pandemia da Covid-19.
La norma non includeva i dirigenti, per i quali restava possibile il licenziamento individuale, mentre veniva applicato il blocco solo in caso di licenziamenti collettivi.

Blocco dei licenziamenti individuali

La Consulta ha chiarito che il diverso trattamento non è in contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
Il dirigente, infatti, ricopre una posizione peculiare di autonomia e rappresentanza, assimilabile a quella dell’imprenditore. Questo status giustifica l’applicazione del principio di libera recedibilità, senza le garanzie previste per gli altri lavoratori subordinati.

Il ruolo della contrattazione collettiva

Pur ribadendo la definizione legale di “dirigente” (art. 2095 cod. civ.), la Corte ha sottolineato che la contrattazione collettiva e il datore di lavoro possono attribuire tale qualifica anche come riconoscimento di miglior favore, senza che ciò incida sulla disciplina generale dei licenziamenti.

La disciplina eccezionale durante la pandemia

Il legislatore, durante l’emergenza sanitaria, ha riproposto per i dirigenti lo stesso assetto previsto in via ordinaria:

  • i licenziamenti collettivi erano bloccati,

  • i licenziamenti individuali per motivi economici restavano consentiti.

Questa scelta, secondo la Corte, rientra nella discrezionalità del legislatore e rispetta i principi di eccezionalità, temporaneità e proporzionalità, già richiamati in precedenti pronunce.

Una misura proporzionata e temporanea

Il blocco dei licenziamenti durante il Covid è stato considerato uno strumento eccezionale, legato alla durata della pandemia e adottato come extrema ratio per tutelare interessi sociali ed economici generali.
Nel caso dei dirigenti, il legislatore ha ritenuto coerente limitare la tutela al solo ambito dei licenziamenti collettivi, senza violare la Costituzione.

licenziamenti illegittimi

Licenziamenti illegittimi: incostituzionale il tetto di sei mensilità per le piccole imprese La Corte costituzionale dichiara illegittimo il limite massimo di sei mensilità per l’indennizzo in caso di licenziamenti illegittimi nelle imprese sotto soglia

La Consulta boccia il limite massimo all’indennità risarcitoria

Con la sentenza n. 118/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui impone un tetto fisso e invalicabile pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, quale limite massimo dell’indennità risarcitoria per i lavoratori licenziati illegittimamente da datori di lavoro che non superano i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi 8 e 9, dello Statuto dei lavoratori.

Perché la norma è incostituzionale

Secondo la Corte, l’imposizione di un limite rigido e indistinto all’indennizzo, indipendentemente dalla gravità del vizio del licenziamento, compromette i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento.

A ciò si aggiunge il fatto che, nei casi riguardanti le piccole imprese, le soglie risarcitorie sono già dimezzate rispetto a quelle previste per i datori di lavoro di dimensioni maggiori (come stabilito dagli artt. 3, 4 e 6 del d.lgs. 23/2015). Ne consegue un sistema in cui la forbice dell’indennizzo è così ristretta da rendere impossibile per il giudice modulare la sanzione in base alle specificità del caso concreto.

La funzione dissuasiva dell’indennità è compromessa

Un ulteriore profilo di criticità evidenziato dalla Corte riguarda la funzione deterrente della sanzione nei confronti del datore di lavoro. Il limite di sei mensilità, essendo automatico e inalterabile, non solo mina l’equità del risarcimento, ma non scoraggia comportamenti illeciti, svuotando di significato la finalità repressiva e preventiva del rimedio previsto.

Invito al legislatore: rivedere i criteri per le imprese sotto soglia

Nel dispositivo, la Corte invita il legislatore a intervenire per una riformulazione del quadro normativo, evidenziando come il numero dei dipendenti non sia di per sé un indicatore esaustivo della solidità economica dell’impresa. Anche in altre branche del diritto (ad esempio la disciplina della crisi d’impresa), il parametro occupazionale non è l’unico a determinare la capacità di sostenere costi o responsabilità.

La Consulta sottolinea dunque la necessità di un riequilibrio, che tenga conto di fattori ulteriori rispetto al solo criterio numerico, al fine di tutelare efficacemente i diritti dei lavoratori e garantire un sistema sanzionatorio rispettoso dei principi costituzionali.

diffamazione militare

Diffamazione militare: inammissibile la qlc sulla pena detentiva La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione sull’art. 227 del codice penale militare di pace. Il giudice non era chiamato ad applicare la pena e mancava la motivazione sulla rilevanza

La Consulta si pronuncia sulla pena per la diffamazione militare

Con la sentenza n. 127/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Napoli in merito all’articolo 227 del codice penale militare di pace, che prevede la pena detentiva per il reato di diffamazione militare, senza contemplare un’alternativa pecuniaria.

Il nodo giuridico: pena detentiva e libertà di espressione

Secondo il giudice rimettente, la previsione esclusiva della reclusione per il reato di diffamazione militare sarebbe in contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
La Corte EDU, infatti, ha più volte affermato che la pena detentiva per la diffamazione è sproporzionata, a meno che non si tratti di discorsi d’odio o incitamento alla violenza.

La decisione: la questione è prematura e irrilevante

La Corte costituzionale ha respinto la questione per inammissibilità, senza entrare nel merito.
La motivazione principale è che la censura era prematura e priva di rilevanza concreta: il giudice che ha sollevato la questione non era chiamato a decidere sulla responsabilità dell’imputato, trattandosi solo di udienza preliminare, e non vi era un’applicazione immediata della norma censurata.

Mancanza di motivazione sull’esercizio del diritto sindacale

La Corte ha inoltre rilevato d’ufficio un ulteriore vizio di inammissibilità: l’ordinanza di rimessione non ha motivato adeguatamente la rilevanza della norma impugnata alla luce del contesto sindacale in cui si era verificata la condotta contestata.
Non è stato spiegato se e come l’attività sindacale potesse configurare l’esercizio di un diritto, e quindi costituire causa di giustificazione, con possibile esclusione della punibilità.

lieve entità

Rapina e lieve entità: illegittimo il divieto di prevalenza dell’attenuante sull’aggravante La Corte costituzionale dichiara illegittimo il divieto di prevalenza dell’attenuante della lieve entità sul reato di rapina in presenza di recidiva reiterata

Divieto di prevalenza dell’attenuante della lieve entità

Rapina e lieve entità: con la sentenza n. 117/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui impedisce la prevalenza dell’attenuante della lieve entità del fatto — introdotta con la precedente sentenza n. 86 del 2024 — rispetto alla circostanza aggravante della recidiva reiterata nel reato di rapina.

Lieve entità: la questione sollevata da giudici e Cassazione

La legittimità del divieto era stata messa in discussione da più autorità giudiziarie, tra cui i Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali di Sassari e di Cagliari, oltre alla Corte di cassazione, che avevano rilevato un contrasto tra la rigidità normativa e il principio di uguaglianza.

Le motivazioni della Corte costituzionale

Richiamando la propria giurisprudenza in materia, la Corte ha ritenuto fondate le censure, evidenziando che il divieto assoluto di prevalenza:

  • viola l’articolo 3 della Costituzione, poiché compromette la funzione di “valvola di sicurezza” dell’attenuante stessa e

  • impedisce di differenziare le sanzioni in base alla gravità concreta del fatto, tradendo così il principio di eguaglianza tra situazioni diverse.

Rapina: fattispecie eterogenea, serve flessibilità nella pena

La Consulta ha sottolineato che il reato di rapina, pur previsto come fattispecie unitaria, può manifestarsi in forme anche molto diverse tra loro per livello di offensività. Mantenere il divieto di prevalenza in modo assoluto, senza lasciare margine di valutazione al giudice, contrasta con i principi di personalizzazione della pena, proporzionalità e finalità rieducativa, sanciti dall’art. 27, commi 1 e 3, della Costituzione.

articolo 81 Costituzione

Articolo 81 Costituzione: vincola il legislatore, non il giudice La Corte costituzionale chiarisce che il vincolo di copertura finanziaria dell’art. 81 Cost. riguarda solo il legislatore, non le decisioni delle autorità giudiziarie

L’articolo 81 della Costituzione si applica al legislatore

Articolo 81 Costituzione: il principio dell’obbligo di copertura finanziaria delle spese vincola esclusivamente il legislatore, statale o regionale che sia. E non è violato da un aumento delle spese conseguente a decisioni delle autorità giurisdizionali, quali nella specie la Corte di giustizia UE.

Lo ha affermato la Corte costituzionale con sentenza numero 121/2025, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Torino con sei ordinanze.

La portata del principio di copertura finanziaria

La Corte ha ricordato che il principio dell’obbligo della copertura finanziaria delle spese espresso nell’articolo 81 della Costituzione, impone un preciso vincolo non al giudice, ma al legislatore. Tale vincolo opera per ogni legge, inclusa la legge di bilancio, traducendosi nell’obbligo di predisporre, all’atto dell’approvazione delle norme, i mezzi per fronteggiare gli oneri che ne derivano.

Equilibrio tra pronunce giurisdizionali ed esigenze di bilancio

La Consulta ha ribadito che, per fronteggiare le spese conseguenti a decisioni delle autorità giurisdizionali, il nostro ordinamento prevede procedure idonee a garantire al contempo l’effettività delle pronunce e gli equilibri di bilancio.

In tal modo viene assicurata la primazia del diritto euro-unitario e l’effettiva tutela dei diritti riconosciuti dall’UE e dall’ordinamento nazionale.

gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: legittima la richiesta di certificazione consolare allo straniero La Corte costituzionale conferma la legittimità della norma che impone ai cittadini extraeuropei di presentare una certificazione consolare sui redditi prodotti all’estero per accedere al patrocinio gratuito

Certificazione consolare: non viola la Costituzione

Gratuito patrocinio: con la sentenza n. 119 depositata il 22 luglio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Firenze in merito alla disciplina del patrocinio a spese dello Stato per i cittadini non appartenenti all’Unione europea. In particolare, è stata confermata la legittimità dell’obbligo di allegare all’istanza una certificazione consolare che attesti la veridicità dei redditi prodotti all’estero.

Il caso: il dubbio sollevato dal Tribunale di Firenze

Il giudice remittente aveva ritenuto che tale obbligo potesse violare gli articoli 3 e 24 della Costituzione, in quanto avrebbe comportato una discriminazione ingiustificata tra cittadini italiani o dell’UE e cittadini extra UE, pur se residenti stabilmente in Italia. A detta del giudice, la richiesta documentale aggiuntiva si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e con il diritto alla difesa, rendendo l’accesso alla giustizia più oneroso per una sola categoria di persone.

La ratio dell’obbligo di certificazione

La Corte costituzionale ha respinto le censure, ribadendo quanto già affermato in precedenti pronunce: la previsione ha una finalità di certezza e rapidità nella verifica della condizione economica dei richiedenti non europei, i quali possono produrre redditi in Paesi terzi non direttamente accessibili dall’amministrazione italiana. La certificazione consolare è funzionale ad accertare in modo unitario e rapido la complessiva situazione reddituale dell’istante, senza dover ricorrere a più amministrazioni estere per ottenere documenti separati.

La residenza in Italia non esonera dall’obbligo

Secondo la Corte, il fatto che un cittadino extra UE sia residente in Italia, anche da tempo, non elimina l’interesse statale a verificare i redditi eventualmente prodotti all’estero. La nozione di “non abbienza” – requisito per accedere al patrocinio gratuito – include tutte le risorse economiche, non solo i redditi da lavoro dipendente o autonomo, e richiede una valutazione complessiva della capacità finanziaria del richiedente.

Tutela della parità e dell’efficienza del sistema

La Corte ha quindi confermato che l’obbligo di certificazione consolare non viola i diritti costituzionali, perché risponde a una esigenza di controllo equo e oggettivo sullo stato economico del richiedente. Inoltre, la previsione non ostacola l’accesso alla difesa, poiché è possibile rivolgersi direttamente agli uffici consolari presenti in Italia, senza dover affrontare costi o procedure sproporzionate.

tetto retributivo

Tetto retributivo nel pubblico impiego: incostituzionale il limite fisso di 240.000 euro La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del tetto retributivo fisso per i dipendenti pubblici. Il limite dovrà tornare a essere parametrato al trattamento del primo presidente della Cassazione

Tetto retributivo nel pubblico impiego

Con la sentenza n. 135 del 2025, la Corte costituzionale ha ribadito che l’introduzione di un tetto retributivo per i dipendenti pubblici non è, in sé, incompatibile con i principi costituzionali. Tuttavia, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge n. 66 del 2014, nella parte in cui prevedeva un limite fisso pari a 240.000 euro lordi annui, invece che rapportarlo al trattamento economico onnicomprensivo spettante al primo presidente della Corte di cassazione.

Il parametro corretto

Il tetto retributivo era stato inizialmente introdotto dal decreto-legge n. 201/2011, come convertito, prevedendo che la soglia massima fosse pari allo stipendio del primo presidente della Corte di cassazione. Con il successivo decreto-legge n. 66/2014, però, tale parametro fu sostituito con una soglia fissa, causando una rilevante decurtazione dei compensi, in particolare per i magistrati.

L’evoluzione normativa e il principio di temporaneità

La norma del 2014, sebbene inizialmente ritenuta compatibile con la Costituzione in quanto misura straordinaria e temporanea, giustificata dal contesto di grave crisi finanziaria, ha perso nel tempo il suo carattere transitorio. Tale perdita di temporaneità ha inciso sulla sua compatibilità costituzionale, anche in considerazione dell’indipendenza della magistratura, tutelata dall’art. 104 della Costituzione.

Conformità ai principi europei e comparati

La pronuncia della Corte costituzionale si inserisce in un contesto più ampio di tutela dei diritti retributivi dei magistrati e dei pubblici dipendenti, in linea con i principi degli ordinamenti costituzionali europei. In particolare, la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 25 febbraio 2025 (grande sezione, cause riunite C-146/23 e C-374/23), ha espresso un orientamento analogo, censurando la riduzione eccessiva e prolungata delle retribuzioni dei magistrati.

Estensione dell’incostituzionalità a tutti i dipendenti pubblici

La Corte ha inoltre sottolineato che l’illegittimità costituzionale della norma ha carattere generale, pertanto deve applicarsi a tutti i dipendenti pubblici, e non solo ai magistrati. Il limite retributivo, quindi, dovrà essere ridefinito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa acquisizione del parere delle Commissioni parlamentari competenti.

Effetti temporali della pronuncia

Trattandosi di una incostituzionalità sopravvenuta, la dichiarazione di illegittimità non avrà effetto retroattivo, ma produrrà effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

fine vita

Fine vita: inammissibili le questioni sull’intervento attivo del terzo La Corte costituzionale dichiara inammissibili le questioni sull’art. 579 c.p. sollevate dal Tribunale di Firenze: manca la motivazione sulla reperibilità dei dispositivi di autosomministrazione

Fine vita, la decisione della Corte costituzionale

Fine vita, la Corte costituzionale, con sentenza n. 132 del 2025, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 579 del codice penale, sollevate dal Tribunale di Firenze in riferimento agli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione. Il giudizio prendeva avvio dal caso di una persona affetta da sclerosi multipla, nelle condizioni previste dalla sentenza n. 242/2019 per accedere al suicidio medicalmente assistito.

Il caso concreto: impossibilità di autosomministrazione

Nel caso esaminato, il soggetto, pur avendo ottenuto la verifica delle condizioni per l’accesso al suicidio assistito, non era in grado di autosomministrare il farmaco a causa della completa perdita dell’uso degli arti e dell’irreperibilità di dispositivi adeguati, come pompe infusionali attivabili con comandi vocali, oculari o orali.

La questione sollevata dal Tribunale di Firenze

Il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente), nella parte in cui non esclude la punibilità del terzo che, in presenza delle condizioni per il suicidio medicalmente assistito, esegua materialmente la volontà del malato, impossibilitato all’autosomministrazione per cause fisiche e per l’assenza di strumenti idonei.

La motivazione di inammissibilità

La Corte ha ritenuto inammissibili le questioni, evidenziando che il giudice rimettente non ha adeguatamente motivato circa la reperibilità di dispositivi di autosomministrazione compatibili con lo stato clinico della paziente. L’ordinanza si è limitata a riportare interlocuzioni con l’azienda sanitaria territoriale e ad accogliere il risultato di semplici ricerche di mercato, senza coinvolgere strutture tecnico-scientifiche centrali, come l’Istituto superiore di sanità.

Il ruolo del Servizio sanitario nazionale nel fine vita

Secondo la Corte, se i dispositivi risultassero reperibili in tempi compatibili con lo stato di sofferenza della paziente, questa avrebbe diritto ad avvalersene. La sentenza sottolinea che chi si trovi nelle condizioni previste dalla sentenza n. 242/2019 gode di una situazione giuridica soggettiva tutelata, che comprende l’accompagnamento da parte del Servizio sanitario nazionale.

Un dovere di garanzia per le persone fragili

Il Servizio sanitario nazionale è tenuto a reperire e fornire i dispositivi esistenti per l’autosomministrazione, nonché a garantire il supporto tecnico per il loro utilizzo, nel quadro di un doveroso ruolo di garanzia, specie nei confronti delle persone più fragili.

reati ostativi

Pene sostitutive escluse per i reati ostativi La Consulta conferma la legittimità dell’esclusione dei condannati per reati ostativi dalle pene sostitutive, ma richiama il dovere costituzionale di garantire condizioni carcerarie rispettose della dignità e della rieducazione

Reati ostativi: legittima l’esclusione dalle pene sostitutive

Con la sentenza n. 139 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’articolo 59 della legge n. 689/1981, come modificata dalla riforma Cartabia. La norma preclude l’applicazione delle pene sostitutive alla detenzione per i soggetti condannati per i cosiddetti reati ostativi, ovvero quelli elencati all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario.

La discrezionalità del legislatore e i limiti della riforma

Secondo la Corte, rientra nella discrezionalità del legislatore decidere quali reati escludere dalle misure alternative alla detenzione, purché la scelta rispetti i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Non è quindi irragionevole, né costituzionalmente censurabile, escludere in via generale l’applicazione delle pene sostitutive per reati di maggiore gravità e allarme sociale, come quelli oggetto dei giudizi da cui è nata la questione: violenza sessuale e pornografia minorile.

La riforma Cartabia e la coerenza con la legge delega

La sentenza chiarisce che il decreto legislativo attuativo della riforma non ha violato i criteri stabiliti dalla legge delega, che prevedeva espressamente il coordinamento con le preclusioni già previste dall’ordinamento penitenziario. Il legislatore ha dunque rispettato il mandato ricevuto dal Parlamento.

Nessuna violazione dell’eguaglianza

La disparità di trattamento denunciata dai rimettenti – tra condannati per reati ostativi e non ostativi – è stata esclusa. Per la Consulta, non si tratta di una discriminazione, poiché la gravità del reato può giustificare un trattamento differenziato in fase esecutiva, anche in relazione all’accesso alle misure alternative al carcere.

La pena resta strumento di rieducazione, ma non solo

Il principio della funzione rieducativa della pena, sancito dall’art. 27, comma 3, della Costituzione, non esclude che essa possa rispondere anche a finalità di prevenzione generale e speciale. Pertanto, l’esecuzione della pena detentiva può risultare legittima anche nei confronti di soggetti non più considerati pericolosi, se ciò risponde a esigenze di tutela sociale.

Il carcere deve restare conforme ai principi costituzionali

La Corte ha tuttavia ribadito che la detenzione deve svolgersi nel rispetto della dignità umana e in condizioni tali da favorire comunque il percorso rieducativo del condannato, indipendentemente dalla tipologia di reato. La compatibilità tra esecuzione penale e diritti fondamentali deve essere sempre garantita, anche in presenza di reati particolarmente gravi.

La riforma penale è un passo avanti, ma graduale

Pur legittimando le scelte del legislatore, la Corte costituzionale ha riconosciuto che l’ampliamento del catalogo delle pene sostitutive introdotto dalla riforma Cartabia costituisce un importante progresso nel rispetto dei principi costituzionali. Le pene alternative – come il lavoro di pubblica utilità, la semilibertà o la detenzione domiciliare – sono più funzionali alla rieducazione del condannato rispetto alla detenzione tradizionale.

Tuttavia, l’estensione dell’accesso a tali misure deve avvenire in modo graduale, partendo dai reati meno gravi e lasciando ai margini quelli che il legislatore considera, con giudizio non arbitrario, maggiormente offensivi.

Il problema strutturale del sistema penitenziario

In conclusione, la Corte ha espresso preoccupazione per lo stato delle carceri italiane, ricordando che il sovraffollamento ostacola gravemente l’attuazione della finalità rieducativa della pena e mina il rispetto dei minimi standard di umanità. L’effettiva conformità dell’esecuzione penale ai principi costituzionali dipende anche dalle condizioni materiali e organizzative del sistema penitenziario.

stalking

Stalking: se il reato connesso diventa a querela, cambia la procedibilità La Corte costituzionale dichiara illegittima la norma che manteneva d’ufficio gli atti persecutori connessi a un danneggiamento divenuto procedibile a querela

Stalking e riforma Cartabia: torna la procedibilità a querela

Con la sentenza n. 123/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima una norma contenuta nel decreto “correttivo” della riforma Cartabia, nella parte in cui impediva che la modifica del regime di procedibilità del reato di danneggiamento si riflettesse su quello degli atti persecutori a esso connessi.

Danneggiamento e stalking con remissione della querela

Il caso oggetto del giudizio prende avvio da un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Verona, nel quale un imputato era accusato di atti persecutori (minacce e insulti reiterati) e, in aggiunta, del danneggiamento dell’auto della persona offesa – nello specifico, la rottura dei tergicristalli.

In origine, il danneggiamento su cose esposte alla pubblica fede era procedibile d’ufficio, rendendo tale anche il reato connesso di stalking. Tuttavia, la persona offesa aveva presentato e poi rimesso la querela, ma il giudice non poteva dichiarare l’estinzione del reato a causa della norma sopravvenuta che manteneva gli atti persecutori procedibili d’ufficio anche dopo la riforma.

La riforma Cartabia e il correttivo del 2024

Nel 2024, il decreto correttivo alla riforma Cartabia ha modificato la procedibilità del danneggiamento su cose esposte alla pubblica fede, rendendolo procedibile a querela. Tuttavia, una norma inserita nel decreto stabiliva che tale modifica non si estendesse ai delitti connessi, come gli atti persecutori, che continuavano a rimanere procedibili d’ufficio.

La violazione del principio di retroattività favorevole

La Corte costituzionale ha ritenuto che questa norma rappresenti una deroga ingiustificata al principio di retroattività della legge penale più favorevole, tutelato dall’art. 3 della Costituzione e riconosciuto a livello di diritto internazionale dei diritti umani.

In mancanza della deroga, ha spiegato la Corte, la modifica del regime del reato connesso avrebbe comportato il ritorno alla procedibilità a querela anche per lo stalking, come previsto dalla regola generale.

Incostituzionale la norma che cristallizza il regime d’ufficio

Secondo la Consulta, mancano valide ragioni giustificative per escludere la retroattività favorevole in questo caso. La norma impugnata è quindi costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevede la procedibilità d’ufficio per gli atti persecutori connessi al danneggiamento, nonostante la sopravvenuta querelabilità di quest’ultimo.