preliminare di compravendita

Preliminare di compravendita Il preliminare di compravendita (compromesso): disciplina, differenze con il definitivo, adempimenti, giurisprudenza e fac-simile

Cos’è il preliminare di compravendita

Il preliminare di compravendita, detto anche compromesso, è un contratto con cui le parti si obbligano a stipulare il futuro contratto definitivo di compravendita. Ha natura obbligatoria e vincola le parti a concludere il trasferimento del bene alle condizioni pattuite.

Disciplina giuridica e differenza con il contratto definitivo

Il compromesso è disciplinato dagli articoli 1351 e 2932 c.c. Esso si distingue dal contratto definitivo poiché non trasferisce la proprietà, ma obbliga le parti a concludere l’atto definitivo. La  Cassazione ha chiarito che, in caso di inadempimento, è possibile ottenere l’esecuzione in forma specifica (art. 2932 c.c.).

Registrazione e trascrizione

Il contratto preliminare, una volta stipulato, è soggetto a:

  • Registrazione: è obbligatoria presso l’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni dalla sottoscrizione.
  • Trascrizione: viene eseguita nei registri immobiliari per tutelare il promissario acquirente da trascrizioni pregiudizievoli (art. 2645-bis c.c.). La trascrizione infatti, come chiarito anche in diverse occasioni dalla Corte di Cassazione, protegge anche dall’acquisto dell’immobile da parte di terzi.

Il preliminare ad effetti anticipati

È un compromesso che prevede l’immissione anticipata nel possesso del bene o il pagamento anticipato del prezzo.  La Cassazione a SU n. 7930/2008 ha sancito al riguardo che anche se il promissario acquirente ottiene la disponibilità del bene prima della stipula del contratto definitivo di vendita, ciò non significa che ne acquisisca automaticamente la proprietà. La consegna anticipata del bene si basa su un contratto di comodato, che produce effetti obbligatori e non reali. Di conseguenza, il promissario acquirente, pur avendo la disponibilità materiale del bene, non ne è possessore a tutti gli effetti, ma semplice detentore qualificato. Perché la detenzione si trasformi in possesso utile all’usucapione, è necessario che il promissario acquirente compia un atto di “interversio possessionis”, ovvero un mutamento del titolo del suo rapporto con il bene, manifestando chiaramente l’intenzione di possederlo a nome proprio e non più come semplice detentore.

Giurisprudenza sul compromesso

La Corte di Cassazione è intervenuta in diverse occasione per enunciare alcuni principi fondamentali sulle caratteristiche distintive del contratto preliminare.

Cassazione n. 21650/2019: La differenza fondamentale tra il contratto preliminare e il contratto definitivo di compravendita risiede nella diversa volontà che anima le parti. Con il contratto preliminare le parti si impegnano reciprocamente a prestare il consenso necessario per il trasferimento della proprietà in un momento futuro. La loro volontà, in questa fase, è orientata verso la conclusione del contratto definitivo. Con il contratto definitivo invece le parti attuano il trasferimento della proprietà. La loro volontà è immediatamente diretta a produrre l’effetto traslativo, che può avvenire contestualmente alla firma del contratto o in un momento successivo, senza che sia necessaria una nuova manifestazione di consenso.

Cassazione Sezioni Unite n. 4628/2015: Un accordo, anche se denominato “preliminare”, che preveda la successiva stipula di un altro contratto preliminare, è valido e produttivo di effetti se sussiste un interesse concreto delle parti a una formazione progressiva del contratto, articolata in fasi distinte con contenuti negoziali specifici per ciascuna fase, se è chiaramente identificabile l’area di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo accordo preliminare. In altre parole, il “preliminare di preliminare” è ammissibile se rappresenta una fase ben definita del percorso che porterà alla conclusione del contratto definitivo, con un contenuto negoziale proprio e distinto rispetto al successivo contratto preliminare. Non è ammissibile, invece, se si configura come una mera ripetizione del primo accordo, senza alcuna utilità pratica.

Cassazione n. 10009/2015: il contratto preliminare obbliga le parti sia a stipulare il contratto definitivo (pactum de contrahendo) sia a compiere le prestazioni necessarie per l’attuazione del programma negoziale (pactum de dando). A tutela di tali diritti, l’ordinamento prevede l’azione di esecuzione forzata in forma specifica, che consente di ottenere lo stesso risultato programmato con il preliminare, qualora una delle parti non adempia l’obbligo di prestare il consenso. Tale azione è sempre esercitabile, salvo il diritto al consenso non sia prescritto.

Fac-simile di preliminare di compravendita:

Oggetto: Contratto Preliminare di Compravendita
Parti: [Nome completo del Venditore] – [Nome completo dell’Acquirente] con relativi dati anagrafici e fiscali
Immobile: Descrizione completa dell’immobile (indirizzo, dati catastali)
Prezzo: Importo concordato e modalità di pagamento (acconto, saldo, caparra)
Caparra confirmatoria: Importo e modalità di versamento (art. 1385 c.c.)
Termine per la stipula del definitivo: Data precisa o termine essenziale
Condizioni e obblighi accessori: Eventuali oneri, spese e dichiarazioni (assenza ipoteche, conformità urbanistica)
Foro competente: Clausola sul tribunale in caso di controversie
Data e firma di entrambe le Parti, con autentica notarile se richiesta

 

Nota: Questo modello è un esempio indicativo. Per la stesura definitiva è indispensabile la consulenza di un avvocato o notaio.

 

 

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ascensore in condominio

Ascensore in condominio: necessario un bilanciamento dei diritti Ascensore in condominio: necessario bilanciare i diritti dei disabili con quelli dei condomini al godimento delle parti comuni

Ascensore in condominio

L’installazione di un ascensore in condominio comporta numerosi vantaggi, soprattutto per le persone con difficoltà motorie. Quest’opera migliora infatti senza dubbio l’accessibilità all’edificio condominiale. Occorre tuttavia considerare anche la presenza di criticità.  L’installazione di un ascensore può incidere infatti sul decoro architettonico dell’edificio, ridurre lo spazio disponibile nelle scale o nei pianerottoli e generare costi di manutenzione elevati. Occorre quindi bilanciare il diritto all’accessibilità con il rispetto delle parti comuni e dei diritti degli altri condomini. La normativa tutela le persone con disabilità, ma impone limiti per garantire che nessun condomino subisca danni o pregiudizi eccessivi. La solidarietà condominiale è fondamentale, ma non deve trasformarsi in un’imposizione unilaterale. Nel caso deciso dal Tribunale di Nocera Inferiore con la sentenza n. 396/2025 la realizzazione dell’ascensore è possibile perché la riduzione del vano scale di 30 centimetri non è tale da rendere inservibili le scale interessate dall’opera.

Ascensore in condominio: un equilibrio tra diritti

L’installazione di un ascensore in un condominio è un’opera essenziale per garantire l’accessibilità alle persone con disabilità e agli anziani. Per la Cassazione l’ascensore è equiparabile agli impianti di luce, acqua e riscaldamento, poiché migliora la vivibilità degli appartamenti. La realizzazione di tale opera però deve rispettare il principio di solidarietà condominiale a tutela dei singoli condomini, ma anche dei disabili che hanno diritto alla eliminazione delle barriere architettoniche.

La legge n. 13 del 1989 stabilisce regole specifiche per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati. Secondo l’articolo 2 di questa legge, le innovazioni volte a eliminare tali barriere possono essere approvate con una maggioranza non qualificata dell’assemblea condominiale. Questo semplifica l’iter decisionale, facilitando l’adozione di soluzioni a beneficio delle persone con disabilità e degli anziani. Tuttavia, la normativa impone anche alcuni limiti. L’articolo 1120 del Codice Civile vieta innovazioni che rendano inutilizzabili alcune aree comuni dell’edificio. Ad esempio, se l’installazione dell’ascensore riduce drasticamente la larghezza delle scale o compromette l’accesso ad altri spazi comuni, l’opera può essere contestata e considerata illegittima.

Limiti all’installazione dell’ascensore

L’ascensore deve garantire un equilibrio tra l’interesse all’accessibilità e il diritto di tutti i condomini a utilizzare gli spazi comuni. La Cassazione ha chiarito che l’installazione non può privare neanche un solo condomino del diritto al godimento delle parti comuni dell’edificio. Questo significa che, se un condomino dimostra che l’ascensore limita in modo significativo il suo accesso o il suo utilizzo delle scale, la richiesta può essere bloccata o deve essere trovata una soluzione alternativa.

La giurisprudenza ha confermato questa posizione in diverse sentenze. Nel caso di specie il Tribunale ha rilevato che una riduzione delle scale da 1,10 metri a 0,80 metri come conseguenza della installazione dell’ascensore, non rende le scale del tutto inservibili, purché rimanga garantito un accesso sicuro. Tuttavia, ogni caso va valutato singolarmente, considerando le specificità dell’edificio e delle esigenze dei condomini.

Esonero dalle spese per i dissenzienti

Un aspetto cruciale della sentenza riguarda anche la ripartizione delle spese. L’articolo 1121 del Codice Civile prevede infatti che se l’innovazione comporta una spesa molto elevata o ha carattere voluttuario (non essenziale), i condomini che non intendono trarne vantaggio dall’opera, ovvero l’ascensore, possono rifiutarsi di partecipare alle spese.

I condomini dissenzienti devono quindi essere esonerati dai costi se dichiarano espressamente il loro dissenso prima dell’inizio dei lavori. Ovviamente chi decide di non partecipare alla spesa non potrà usufruire dell’ascensore, salvo successiva richiesta di adesione con il pagamento della propria quota.

 

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patto marciano

Patto marciano Cos’è il patto marciano, le origini, la definizione, la normativa e le differenze con il patto commissorio

Cos’è il patto marciano?

Il patto marciano è un accordo tra creditore e debitore in base al quale, in caso di inadempimento del debitore, il creditore acquisisce la proprietà di un bene dato in garanzia, previa valutazione del suo valore al momento dell’inadempimento e con restituzione al debitore dell’eventuale eccedenza rispetto al credito. Questo meccanismo garantisce un equilibrio tra le parti, tutelando il diritto del creditore a ottenere soddisfazione e il debitore da un’appropriazione ingiusta del bene.

Origini del patto marciano

Il patto marciano trova le sue radici nel diritto romano.  Esso si distingueva dal patto commissorio per la previsione della stima del bene e la restituzione dell’eccedenza. Il nome deriva da Marco Terenzio Varrone, che descrisse questo meccanismo nelle sue opere. Nel corso dei secoli, il patto marciano è stato rivalutato come uno strumento equilibrato di tutela dei diritti delle parti coinvolte in una relazione creditizia.

Normativa di riferimento

La normativa italiana non contiene una disciplina esplicita del patto marciano. Esso  è stato progressivamente riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina come lecito. Tale patto è infatti conforme ai principi generali di correttezza e buona fede. A differenza del patto commissorio, vietato dall’art. 2744 del codice civile, il patto marciano infatti è ritenuto legittimo perché non comporta un arricchimento ingiustificato del creditore.

Con la riforma del pegno mobiliare non possessorio (D.l. n. 59/2016, convertito in L. n. 119/2016), il patto marciano ha trovato un’applicazione concreta nel diritto positivo, prevedendo espressamente la possibilità di utilizzare meccanismi di tipo marciano nella costituzione di garanzie sui beni mobili.

Da segnalare anche larticolo 48 bis TUB il quale prevede che: “Il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico ai sensi dell’articolo 106 può essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore o di una società dallo stesso controllata o al medesimo collegata (…) della proprietà di un immobile o di un altro diritto immobiliare dell’imprenditore o di un terzo, sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore a norma del comma 5. (…) 2. In caso di inadempimento, il creditore ha diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1, purché al proprietario sia corrisposta l’eventuale differenza tra il valore di stima del diritto e l’ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento.”

Come funziona il patto marciano?

Il funzionamento del patto marciano si articola in diverse fasi.

  • Accordo tra le parti: il debitore e il creditore stabiliscono che, in caso di inadempimento, il bene dato in garanzia sarà valutato da un terzo imparziale.
  • Valutazione del bene: al momento dell’inadempimento, il bene viene stimato per determinarne il valore attuale.
  • Compensazione del credito: il creditore acquisisce il bene a compensazione del credito, restituendo al debitore l’eventuale eccedenza tra il valore del bene e l’importo del credito.

Quando è vietato il patto marciano?

Il patto marciano non è vietato. Esso è illecito se viola i principi di buona fede, se maschera un patto commissorio, se è privo della valutazione imparziale del bene, se non prevede la restituzione dell’eccedenza al debitore. In questi casi, i giudici potrebbero dichiarare il patto nullo.

Differenza tra patto marciano e patto commissorio

La principale differenza tra patto marciano e patto commissorio risiede nella tutela del debitore.

Patto commissorio (art. 2744 c.c.): è vietato dalla legge e prevede che il creditore acquisisca direttamente il bene dato in garanzia in caso di inadempimento, senza alcuna valutazione del valore del bene e senza obbligo di restituzione dell’eventuale eccedenza.

Patto marciano: è lecito e prevede una valutazione equa del bene e la restituzione al debitore dell’eventuale eccedenza rispetto al credito.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza italiana ha chiarito e confermato la liceità del patto marciano in diverse sentenze:

  • Cassazione n. 27615/2022: non viene violato il divieto di patto commissorio nei casi in cui il contratto di vendita immobiliare con funzione di garanzia contenga un patto marciano. Quest’ultimo prevede che, in caso di inadempimento, il creditore diventi proprietario del bene del debitore, con l’obbligo di restituire l’eventuale eccedenza di valore del bene rispetto all’importo del debito inadempiuto. Tale valore viene determinato al momento dell’inadempimento da un soggetto terzo e imparziale. A differenza del patto commissorio vietato dall’ 2744 c.c., il patto marciano è considerato lecito.  Esso infatti, analogamente al pegno irregolare disciplinato dall’art. 1851 c.c., mira a tutelare il debitore da possibili abusi del creditore, garantendo un equilibrio tra le parti.
  • Cassazione n. 844/2020: la vendita è considerata nulla se la convenzione marciana ad essa collegata non stabilisce criteri certi e oggettivi per la valutazione del bene, garantendo al debitore un prezzo equo in caso di inadempimento. Il contratto di vendita quindi può essere utilizzato anche come strumento di garanzia per il creditore, assicurandogli il pagamento di un debito preesistente e prevedendo l’obbligo di ritrasferire il bene al debitore nel caso in cui il debito venga estinto. Tuttavia, è fondamentale che le parti abbiano concordato in anticipo criteri chiari per determinare il “giusto prezzo” di acquisizione della proprietà in caso di inadempimento, così da garantire al debitore la restituzione di un eventuale eccedenza di valore.

 

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donazione indiretta

Donazione indiretta La donazione indiretta: cos’è, qual è normativa e come funziona, quali sono gli effetti e quale forma è richiesta

Cos’è la donazione indiretta

La donazione indiretta è una forma di liberalità che si realizza attraverso atti o negozi giuridici che, pur non avendo la forma tipica della donazione, producono effetti equivalenti. A differenza della donazione diretta, che richiede un atto formale e pubblico, la donazione indiretta si manifesta in operazioni quotidiane, come il pagamento di un debito altrui o l’acquisto di un bene intestato a un terzo.

Normativa di riferimento

La disciplina è rappresentata principalmente sull’articolo 809 del Codice Civile, il quale stabilisce che le liberalità che risultano da atti diversi dalla donazione sono soggette alle norme sulle donazioni nella misura in cui queste siano compatibili. Pertanto, le donazioni indirette devono rispettare le norme sulle donazioni in termini di revocabilità e impugnabilità, ma non necessitano della forma solenne richiesta per le donazioni dirette.

Come funziona la donazione indiretta

La donazione indiretta si realizza attraverso atti che comportano un arricchimento patrimoniale per il beneficiario senza un corrispettivo. Alcuni esempi comuni includono:

  • il pagamento di un debito altrui senza obbligo di rimborso;
  • l’acquisto di un bene intestato a un terzo;
  • la rinuncia a un diritto a favore di un altro soggetto.

L’elemento distintivo dell’istituto è l’animus donandi, ovvero l’intenzione di arricchire il beneficiario senza richiedere nulla in cambio.

Effetti della donazione indiretta

Gli effetti di questo tipo particolare di donazione sono simili a quelli della donazione diretta, in quanto comportano un arricchimento del beneficiario. Tuttavia, non essendo soggetta agli stessi requisiti formali, la donazione indiretta può essere più difficile da contestare. Tuttavia, resta soggetta alle norme in materia di revocazione per ingratitudine (art. 801 c.c.), sopravvenienza di figli (art. 803 c.c.) e riduzione per poter integrare la quota dovuta ai legittimari (art.  553 e s. C.c).

Forma della donazione indiretta

A differenza della donazione diretta, che richiede l’atto pubblico con la presenza di due testimoni (art. 782 c.c.), la donazione indiretta non è soggetta a forme particolari. Tuttavia, è consigliabile documentare adeguatamente l’operazione per evitare contestazioni future, soprattutto in ambito successorio.

Giurisprudenza recente

La giurisprudenza italiana ha spesso affrontato il tema delle donazioni indirette, chiarendo i confini e le implicazioni di tali atti. Ad esempio:

Cassazione n. 9379/2020: La donazione indiretta si realizza attraverso un atto che, pur non assumendo formalmente la veste di una donazione, è caratterizzato da uno spirito di liberalità e comporta un arricchimento gratuito del beneficiario. L’intento donativo, tuttavia, non è immediatamente evidente ma deve essere desunto indirettamente da un’attenta valutazione delle specifiche circostanze del caso concreto. Tale accertamento deve avvenire nel rispetto delle regole processuali, richiedendo che gli elementi probatori siano dedotti e dimostrati in modo corretto e tempestivo in giudizio.

Cassazione n° 7442/2024: in materia di imposta sulle donazioni, l’interpretazione dell’art. 56-bis del D. Lgs. implica che le liberalità diverse dalle donazioni formali – ovvero quegli atti che determinano un arricchimento del beneficiario a fronte di un impoverimento del donante, senza rispettare la forma solenne prevista dall’art. 760 c.c. – costituiscono espressione di capacità contributiva e, pertanto, sono soggette a tassazione. Sebbene non vi sia un obbligo di registrazione, tali liberalità possono essere accertate e assoggettate all’imposta qualora emergano da dichiarazioni rese dall’interessato nell’ambito di procedimenti di accertamento tributario e superino le attuali soglie di esenzione.

Cassazione n. 16329/2024: se un soggetto acquista un immobile con denaro proprio, ma lo intesta a un’altra persona, che intende beneficiare, la compravendita funge da mero strumento per il trasferimento del bene. In tal caso, si configura una donazione indiretta dell’immobile stesso e non del denaro impiegato per l’acquisto.Tuttavia, non si può parlare di donazione indiretta dell’immobile se il donante contribuisce solo in parte al pagamento del prezzo. In questa circostanza, il trasferimento del denaro rappresenta un atto autonomo e non uno strumento per realizzare la liberalità dell’intero immobile, a meno che il disponente non ne sostenga integralmente il costo.

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patto commissorio

Patto commissorio Il patto commissorio: definizione, normativa e giurisprudenza, il divieto di cui all’art. 2744 del codice civile

Cos’è il patto commissorio

Il patto commissorio è un accordo stipulato tra creditore e debitore che prevede la possibilità per il creditore di acquisire automaticamente la proprietà di un bene dato in garanzia nel caso in cui il debitore non adempia alla propria obbligazione. Questo meccanismo consente al creditore di soddisfare il proprio credito senza dover ricorrere alle ordinarie procedure esecutive.

Normativa di riferimento

Il patto commissorio è disciplinato dall’articolo 2744 del codice civile italiano, che stabilisce il divieto di stipulare tali accordi. La norma recita: “È nullo il patto con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore”.

Questo divieto è finalizzato a proteggere il debitore da possibili abusi da parte del creditore, evitando che quest’ultimo possa appropriarsi di beni di valore superiore rispetto al credito vantato.

Come funziona

Il funzionamento del patto commissorio prevede che, in caso di inadempimento del debitore, il creditore acquisisca direttamente la proprietà del bene dato in garanzia, senza necessità di procedere a una valutazione del bene o a una procedura giudiziale. Tuttavia, questa pratica è vietata dalla legge italiana, rendendo nullo qualsiasi accordo che contempli tale meccanismo.

Il divieto del patto commissorio e le sue implicazioni

Il divieto sancito dall’art. 2744 c.c. ha importanti implicazioni pratiche:

  1. Tutela del debitore: Il divieto impedisce al creditore di ottenere un arricchimento ingiustificato a discapito del debitore.
  2. Necessità di procedure esecutive: In caso di inadempimento, il creditore deve ricorrere alle ordinarie procedure di esecuzione forzata per soddisfare il proprio credito.
  3. Nullità del patto: Qualsiasi patto che preveda il trasferimento automatico della proprietà del bene in caso di inadempimento è considerato nullo.

Differenza tra patto commissorio e patto marciano

A differenza del patto commissorio, il patto marciano è considerato lecito in quanto prevede la valutazione del bene al momento dell’inadempimento e la restituzione dell’eventuale eccedenza al debitore. Questo garantisce un equilibrio tra le parti, evitando l’appropriazione ingiusta del bene da parte del creditore.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza italiana ha spesso ribadito il divieto del patto commissorio e chiarito i suoi limiti applicativi:

  • Civ., Sez. III, n. 11545/2013: Ha ribadito che il divieto del patto commissorio si applica a tutte le forme di garanzia reale, inclusi pegno e ipoteca.
  • Civ., Sez. I, n. 19211/2017: Ha chiarito che anche gli accordi che, pur non configurandosi formalmente come patti commissori, ne riproducono gli effetti sono da considerarsi nulli.
  • Civ., Sez. II, n. 30214/2020: Ha stabilito che il divieto si applica anche ai contratti atipici che prevedono il trasferimento automatico della proprietà del bene in caso di inadempimento.

 

Scioglimento del condominio possibile se l’edificio è autonomo Scioglimento del condominio: possibile solo se l’edificio o gli edifici presentano le caratteristiche tipiche degli edifici autonomi 

Scioglimento del condominio

L’autorità giudiziaria può disporre lo scioglimento del condominio se l’edificio risulta divisibile in parti del tutto autonome. Lo ha sancito il Tribunale di Pavia con la sentenza n. 134/2025 in cui richiama gli articoli 61 e 62 delle disposizioni di attuazione del codice civile a supporto della propria decisione.

Scioglimento condominio: impianti in comune

Alcuni condomini agiscono in giudizio per chiedere lo scioglimento di un edificio condominiale. Gli attori chiedono la divisone, in particolare, di due corpi evidenziati nelle tabelle allegate agli atti di causa. L’obiettivo del scioglimento consiste nella creazione di due condomini autonomi, fatta eccezione per l’impianto fognario e di quello per l’illuminazione del cortile. Gli attori precisano infatti che questi impianti resteranno in comunione tra i due condomini che nasceranno dopo lo scioglimento.

Altri condomini però si oppongono alla richiesta di scioglimento perché all’esito dell’istruzione della causa gli attori avrebbero richiesto “di mantenere in comune una maggiore estensione di beni” rinunciando così parzialmente alla domanda iniziale. Essi precisano inoltre che alcuni punti del regolamento condominiale, richiamato nei vari contratti di compravendita delle unità immobiliari, impedirebbero lo scioglimento.

Edifici autonomi: scioglimento possibile

Il Tribunale competente nell’accogliere la domanda attorea di scioglimento richiama il contenuto dell’articolo 61 delle disposizioni di attuazione del Codice civile. La norma nello specifico prevede che: “Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato. Lo scioglimento è deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal secondo comma dell’articolo 1136 del codice, o è disposto dall’autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell’edificio della quale si chiede la separazione”.

Il successivo articolo 62 disp. att. c.c., precisa invece che lo scioglimento di un condominio composto da più edifici può essere disposto anche se restano in comune alcune delle cose comuni indicate nell’articolo 1117 del codice civile. Se poi la divisione necessita della modifica dello stato delle cose e per sistemare i locali o le dipendenze tra i condomini servono delle opere di intervento, allora la maggioranza necessaria per deliberare lo scioglimento è quella indicata dal comma 5 dell’articolo 1136 c.c. ovveroun numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore delledificio.” 

Come rileva il Tribunale, nel caso di specie il condominio risulta composto da due edifici. Il primo è composto da 8 villette a schiera, il secondo da 8 villette a schiera e 4 appartamenti. Sei comproprietari su dodici chiede lo scioglimento di modo che sussiste il requisito numerico posto dall’art. 61 citato pari al 30%.”

Il Tribunale rileva inoltre che la CTU ha accertato lautonomia strutturale degli edifici da sciogliere, i quali, anche se simili, non presentano elementi strutturali per sostenere i carichi di entrambi.  Questa caratteristica è fondamentale ai fini dello scioglimento. La Cassazione infatti in diverse sentenza ha affermato che L’autorità giudiziaria può disporre lo scioglimento del condominio, ai sensi degli artt. 61 e 62 disp. att. cod. civ., solo quando l’immobile sia divisibile in parti strutturalmente autonome.” 

Disposizioni contrattuali e regolamentari invariate

Il Tribunale nel respingere le eccezioni sollevate dai condomini contrarie allo scioglimento del condominio rileva quindi che la richiesta degli attori debba essere accolta.

Il Tribunale quindi dispone lo scioglimento del condomino, accerta e dichiara come parti comuni gli impianti della fognatura e quello di illuminazione del cortile. Le precedenti disposizioni contrattuali e regolamentari riguardanti le servitù e la gestione delle aree comuni restano invariate dopo lo scioglimento del condominio, senza alterare gli obblighi e i diritti stabiliti dal regolamento condominiale.

 

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Allegati

responsabilità extracontrattuale

Responsabilità extracontrattuale: la guida La responsabilità extracontrattuale si configura quando un soggetto con dolo o colpa cagiona ad altri un danno ingiusto 

Cos’è la responsabilità extracontrattuale

La responsabilità extracontrattuale è uno dei pilastri del diritto civile, che sancisce l’obbligo di risarcire danni causati a terzi in assenza di un contratto preesistente. Questo principio si attiva quando un soggetto provoca un danno ingiusto attraverso un comportamento illecito.

Tipologie di responsabilità extracontrattuale

La responsabilità extracontrattuale si divide in tre principali categorie:

  • Responsabilità da fatto illecito: si basa sul comportamento diretto del soggetto. Per configurare questa responsabilità, devono essere presenti dolo (intenzione consapevole di arrecare danno) o colpa (negligenza, imprudenza o imperizia).
  • Responsabilità indiretta: in questo caso un soggetto risponde per il comportamento illecito di un’altra persona. I genitori, ad esempio, sono responsabili per i figli minorenni, i tutori per i tutelati e i datori di lavoro per i dipendenti. La legge impone questa responsabilità sulla base di rapporti di sorveglianza o dipendenza.
  • Responsabilità oggettiva: questa categoria invece è più stringente, poiché non richiede dolo o colpa. Conta solo la verificazione del danno. Tuttavia, è possibile liberarsi da questa responsabilità dimostrando di aver fatto il possibile per prevenire il danno o invocando cause di esonero, come il caso fortuito o la forza maggiore. Esempi di responsabilità oggettiva includono danni derivanti da attività pericolose, animali o beni in custodia.

Responsabilità extracontrattuale: elementi costitutivi

L’articolo 2043 del Codice Civile stabilisce che un comportamento doloso o colposo che provoca un danno ingiusto obbliga il responsabile al risarcimento. Per configurare questa responsabilità, devono concorrere alcuni elementi.

  • Un fatto imputabile: può trattarsi di un’azione o un’omissione attribuibile a un soggetto specifico.
  • Dolo o colpa: il comportamento deve essere intenzionalmente lesivo (dolo) o negligente (colpa).
  • Danno ingiusto: il danno deve violare diritti protetti dalla legge.
  • Nesso di causalità: deve esserci un collegamento diretto tra il comportamento illecito e il danno subito.

Il danno ingiusto

Il danno è considerato ingiusto quando lede diritti riconosciuti dall’ordinamento. Non tutti i danni subiti però sono risarcibili. L’esercizio di un diritto, ad esempio, non è fonte di responsabilità. Se un nuovo imprenditore apre un’attività economica vicino a una dello stesso tipo e già esistente, causando una riduzione della clientela, il danno economico subito dal primo esercizio non è risarcibile. L’apertura di un’attività commerciale infatti è un legittimo esercizio del diritto d’impresa.

Dolo e colpa nella responsabilità extracontrattuale

Il dolo implica la volontà consapevole di arrecare un danno. La colpa si configura invece quando il danno deriva da imprudenza, negligenza o imperizia.

Il nesso di causalità

Il nesso di causalità è il collegamento tra il comportamento illecito e il danno subito. Esso deve essere diretto e immediato. In alcuni casi complessi, la valutazione del nesso di causalità richiede una ricostruzione accurata degli eventi per stabilire se il danno è una conseguenza inevitabile del comportamento imputato.

Differenza con la responsabilità contrattuale

A differenza della responsabilità contrattuale, basata su un accordo tra le parti, la responsabilità extracontrattuale nasce direttamente dalla legge. Gli articoli 2043 e seguenti del Codice Civile italiano stabiliscono che chiunque provochi ingiustamente un danno ad altri, mediante dolo o colpa, è tenuto a risarcirlo. Questo tipo di responsabilità si configura anche quando un comportamento rappresenta sia una violazione contrattuale che un fatto illecito, come nel caso del medico che agisce con negligenza nei confronti di un paziente.

 

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Annullabile l’assemblea di condominio convocata via WhatsApp Il Tribunale di S. Maria Capua Vetere ritiene che le comunicazioni in modalità diverse da quelle previste dalla legge debbano essere previamente concordate

Assemblea condominiale convocata via chat

Annullabile l’assemblea di condominio convocata via WhatsApp. Non rispetta infatti le modalità di convocazione previste dalla legge (cfr. art. 66 disp. att. del codice civile). E sebbene parte della giurisprudenza ritenga sia possibile che le comunicazioni possano avvenire in modi diversi, tali modalità devono essere state previamente concordate. Questo è quanto si ricava dalla sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere n. 269/2025.

La vicenda

Nella vicenda, un condomino impugnava la delibera assembleare convocata, a suo dire, da soggetto non legittimato, poichè non preceduta da rituale convocazione.

Dal verbale, infatti, si evinceva che la convocazione era avvenuta tramite bacheche apposte nelle scale degli edifici e sul gruppo WhatsApp del condominio, per cui con modalità non rispettose di quanto prescritto dall’art. 66 disp. att. c.c.

L’art. 66 disp. att. c.c.

Il giudice gli dà ragione. La suddetta disposizione civilistica prescrive, infatti, ricorda il giudicante che “la convocazione deve avvenire almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o consegna a mano”.

Nel caso di specie, invece, alcuna prova è stata fornita circa la convocazione con le modalità indicate ed anzi, dalla stessa delibera impugnata si ricava che a tutti i condomini la convocazione non è avvenuta con le modalità prescritte dalla legge.

Convocazione assemblea in modalità diverse

Tra l’altro, aggiunge il tribunale, “la convocazione via WhatsApp, oltre a non essere consentita dalla legge, non garantisce la certezza della ricezione, come condivisibilmente rilevato dalla giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Avellino n. 1705/2024)”.

Sebbene, poi, come rilevato da altra giurisprudenza di merito, prosegue il giudice, “è possibile che le comunicazioni possano avvenire in modi diversi da quelli previsti dalla legge purché tali modalità siano state concordate inequivocabilmente dai condomini o perché richieste direttamente dagli stessi o in quanto siano state formalizzate in regolamenti condominiali approvati (Tribunale Padova 1238 del 2023), nel caso di specie alcuna prova è stata fornita dal resistente, rimasto contumace, circa accordi tra i condomini relativi a modalità di convocazione diverse da quelle prescritte dalla legge”.

La decisione

Sul punto, inoltre, va considerato che in altre delibere condominiali prodotte in atti, la convocazione è avvenuta via bacheca e via chat per gli altri condomini e via mail per il ricorrente. E ciò fa presumere, ragiona il tribunale, “che in ogni caso l’odierno ricorrente non aveva consentito alla convocazione via WhatsApp”.

Da qui l’accoglimento della proposta e il conseguente annullamento della delibera impugnata.

 

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la risoluzione del contratto

La risoluzione del contratto La risoluzione del contratto, legale o giudiziale, è un istituto che mette fine agli effetti di un accordo per cause diverse

Risoluzione contrattuale nel codice civile

La risoluzione del contratto è un istituto giuridico che consente di porre fine agli effetti di un contratto valido a seguito dell’inadempimento, dell’impossibilità sopravvenuta, della eccessiva onerosità o di cause previste dalla legge. Questo strumento è disciplinato dagli articoli 1453 e seguenti del Codice Civile e rappresenta una tutela per la parte che subisce un pregiudizio contrattuale.

Cos’è la risoluzione del contratto

La risoluzione è un rimedio a disposizione della parte non inadempiente per ottenere la cessazione del vincolo contrattuale e, in molti casi, il risarcimento del danno.

La risoluzione può essere:

  • legale: opera automaticamente in base alla legge, senza necessità di intervento giudiziale e in casi specifici, come la diffida ad adempiere o la clausola risolutiva espressa. Non è necessario quindi l’intervento del giudice, salvo contestazioni.
  • giudiziale: richiede una pronuncia del giudice per accertare e dichiarare la risoluzione quando l’inadempimento non è chiaramente riconoscibile o le parti non hanno previsto un meccanismo automatico.

Cause di risoluzione del contratto

Il Codice Civile individua le principali cause di risoluzione in alcuni articoli.

  • Inadempimento (art. 1453 c.c.): si verifica quando una delle parti non esegue la prestazione dovuta. In questo caso, la parte non inadempiente può chiedere la risoluzione o l’esecuzione, oltre al risarcimento del danno.
  • Impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.): il contratto si risolve se la prestazione diventa impossibile per cause non imputabili alla parte obbligata.
  • Eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.): si applica ai contratti a esecuzione continuata o periodica quando eventi straordinari e imprevedibili rendono eccessivamente onerosa una delle prestazioni.
  • Clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.): le parti possono concordare che il contratto si risolva automaticamente al verificarsi di specifiche inadempienze.
  • Diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.): la parte non inadempiente può intimare alla controparte di adempiere entro un termine, decorso il quale il contratto si intende risolto.

Effetti della risoluzione

La risoluzione contrattuale produce alcuni importanti e effetti.

Scioglimento del vincolo contrattuale: le parti non sono più obbligate a eseguire le prestazioni future.

Restituzioni: le prestazioni già eseguite devono essere restituite, salvo il diritto al risarcimento del danno.

Risarcimento del danno: la parte non inadempiente può richiedere un risarcimento per il pregiudizio subito.

Giurisprudenza sulla risoluzione del contratto

La giurisprudenza ha chiarito vari aspetti della risoluzione del contratto.

Cassazione n. 19579/2021: Per valutare la gravità dell’inadempimento contrattuale (art. 1455 c.c.), vanno distinte le violazioni delle obbligazioni essenziali, rilevanti ai fini della gravità, da quelle accessorie, che da sole non bastano.

Cassazione n. 18292/2022: Dopo la risoluzione del contratto per diffida ad adempiere, il recesso è precluso. La parte non inadempiente, se chiede solo la caparra o il doppio, deve abbinarvi una domanda di accertamento della risoluzione.

Cassazione n. 2047/2018: Nei contratti sinallagmatici, chi subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta può solo chiedere la risoluzione (art. 1467 c.c.), se non ha già eseguito la prestazione, ma non la modifica del contratto, che spetta solo alla parte convenuta in giudizio.

Cassazione n. 22725/2021: Per la clausola risolutiva espressa, le parti devono prevedere la risoluzione automatica per inadempimento di obbligazioni specifiche indicate nel contratto o in documenti espressamente richiamati.

 

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Canna fumaria condominio: legittima la revoca dell’autorizzazione Canna fumaria condominio: legittima la revoca dell’autorizzazione all’uso precario se altera la destinazione e impedisce l’uso agli altri

Canna fumaria condominio: uso della cosa comune

Il Tribunale di Torino con la sentenza n. 199/2025 ha confermato la legittimità della revoca di un’autorizzazione concessa in via precaria per l’uso di una colonna di scarico dei rifiuti come canna fumaria in condominio. L’articolo 1102 c.c permette a ogni condomino di utilizzare la cosa comune, tale uso però non deve alterare la destinazione della cosa comune e non deve impedire agli altri condomini di farne uso secondo il loro diritto.

Canna fumaria condominio: revocata l’autorizzazione all’uso

La vicenda giudiziari ha inizio quando l’assemblea straordinaria di un condominio delibera la revoca dell’autorizzazione concessa a un singolo condomino per l’uso dell’ex colonna di scarico dell’immondizia come canna fumaria. La decisione viene presa all’unanimità.

La titolare della proprietà interessata contesta la delibera, sostenendo che il diritto all’uso deriva dall’art. 1102 c.c., che consente a ciascun condomino di servirsi della cosa comune. Per parte ricorrente l’utilizzo della canna fumaria deve quindi ritenersi legittimo in base al principio di uso più intenso della cosa comune. Per questa ragione chiede l’annullamento della delibera condominiale. La parte convenuta replica però che l’uso della colonna di scarico come canna fumaria è stato autorizzato solo in via precaria, con diritto di revoca da parte dell’assemblea condominiale.

Legittima la revoca dell’autorizzazione

Il tribunale, condividendo la tesi della parte convenuta respinge il ricorso, confermando la legittimità della revoca dell’autorizzazione.  L’autorità giudiziaria ritiene in effetti che l’uso della colonna di scarico per il passaggio di fumi e odori abbia comportato un’alterazione della destinazione d’uso della cosa comune. L’occupazione esclusiva ha inoltre impedito agli altri condomini di esercitare il loro diritto all’uso del bene.

Art 1102 c.c.: limiti all’utilizzo della cosa comune

Il Tribunale ricorda che l’art. 1102 c.c consente a ciascun condomino di utilizzare la cosa comune, purché ciò non pregiudichi il pari uso da parte degli altri. La sentenza della Cassazione n. 18038/2020 ha ribadito inoltre che l’uso più intenso è ammesso solo se compatibile con i diritti altrui. Ipotesi che non ricorre nel caso di specie, tanto è vero che l’assemblea ha espressamente concesso l’autorizzazione in via precaria, con possibilità di revoca.

Il Tribunale evidenzia inoltre come il precedente utilizzatore della canna fumaria si era impegnato a eseguire lavori per eliminare gli odori sgradevoli. Tali interventi però non sono mai stati effettuati. L’uso della canna fumaria ha quindi continuato a provocare disagi ai condomini. Alla luce di tutto quanto esposto, la revoca non può essere considerata un atto arbitrario, ma il legittimo esercizio del diritto di ripristinare l’uso originario del bene comune.

 

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