La decisione del Consiglio Nazionale Forense
Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 65 del 22 marzo 2025, pubblicata il 26 agosto sul sito del Codice deontologico, ha ribadito che il patto di quota lite – anche se stipulato nel periodo in cui era lecito, ossia tra il 2006 e il 2012 – non può tradursi in un compenso manifestamente sproporzionato rispetto all’attività svolta dall’avvocato.
Il richiamo è all’art. 29, comma 4, del Codice deontologico forense, che vieta la richiesta di onorari eccessivi in rapporto alla prestazione resa.
Il caso
Un avvocato era stato sospeso per tre anni dal Consiglio distrettuale di disciplina di Lecce-Brindisi-Taranto per la gestione delle somme risarcitorie (pari a 804.000 euro) ottenute per i propri assistiti in un sinistro mortale.
Il professionista avrebbe indotto i clienti ad aprire carte prepagate intestate a loro, ma di fatto gestite personalmente, senza rendiconti né fatture, appropriandosi di circa 115.000 euro. Tale importo è stato ritenuto largamente sproporzionato rispetto a un compenso congruo.
La difesa dell’avvocato e la valutazione del Collegio
Il legale aveva sostenuto la liceità dell’accordo, consistente in una quota del 20% della somma liquidata, poiché stipulato prima dell’entrata in vigore della legge professionale del 2012.
Tuttavia, il Cnf ha ritenuto che la somma percepita (115.000 euro) fosse sproporzionata rispetto all’attività svolta, che si era limitata a una trattativa stragiudiziale con la compagnia assicurativa.
Parametri di riferimento e sproporzione del compenso
Il Collegio ha richiamato i parametri stabiliti dal D.M. 140/2012: per un’attività di primo grado il compenso massimo, con aumento del 60%, era pari a 32.400 euro. Anche applicando l’aumento previsto dall’art. 4 del decreto per la difesa congiunta di più clienti, la somma non avrebbe superato i 64.800 euro.
Da ciò la conclusione che il compenso effettivamente riscosso fosse eccessivo e squilibrato rispetto alla prestazione professionale.
I limiti del patto di quota lite
Il Cnf ha richiamato il principio già affermato dalla Cassazione (sent. n. 28914/2022): il patto di quota lite, pur valido nel periodo intermedio, resta soggetto al controllo di equità e proporzionalità, volto a prevenire abusi e tutelare il cliente da accordi iniqui.
Pertanto, l’accordo che comporti un compenso sproporzionato integra violazione deontologica, anche se formalmente lecito.
Altri profili di responsabilità disciplinare
La condotta del professionista è stata considerata contraria anche all’art. 23, comma 3, del Codice deontologico forense, che vieta di intrattenere con il cliente rapporti economici o patrimoniali tali da compromettere il corretto rapporto professionale.
Sono stati invece esclusi il conflitto di interessi e l’illecito per omessa fatturazione (quest’ultimo prescritto).
La sanzione finale
Il Consiglio Nazionale Forense ha confermato le violazioni disciplinari, ritenendo tuttavia congruo ridurre la sospensione da tre anni a due anni e sei mesi.
Il caso ribadisce come, anche nel periodo di liceità, il patto di quota lite non possa mai tradursi in un compenso sproporzionato, pena l’applicazione di sanzioni disciplinari.