incidente animale selvatico prova

Incidente con animale selvatico e onere della prova La Cassazione fa chiarezza sull'onere della prova nel caso di incidente stradale causato da fauna selvatica

Incidente stradale causato da fauna selvatica

La responsabilità dell’ente pubblico per il danno causato dalla fauna selvatica discende dall’omessa custodia dell’animale (ex art. 2052 c.c.) e non già dalla violazione del precetto del cd. “neminem laedere” espresso dall’articolo 2043 c.c. Per cui spetta al danneggiato la prova del nesso di causa mentre incombe sul danneggiante l’eventuale prova liberatoria.

Lo ha chiarito la terza sezione civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 12714-2024 accogliendo il ricorso di un’automobilista che aveva subito un danno alla propria vettura a causa dell’investimento di un capriolo che aveva improvvisamente attraversato la strada. La donna citava in giudizio la regione chiedendo il risarcimento del danno subito, ma l’amministrazione eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva in favore della provincia. Il giudice di pace dava ragione alla donna ma, in appello, il tribunale riformava la decisione rigettando la domanda della danneggiata. Così la vicenda approdava in Cassazione. Innanzi al Palazzaccio la donna prospetta una violazione dell’art. 2052 c.c.

Art. 2052 c.c.

La ricorrente osserva, infatti, come, a partire dalla pronuncia numero 7969 del 2020, la giurisprudenza sul danno causato dalla fauna selvatica è cambiata, nel senso che si è passati dalla qualificazione di tale danno in termini di un illecito ex art. 2043 c.c. alla qualificazione invece della fattispecie in termini di danno da custodia di animali, ex art. 2052 c.c. con conseguente diversità dell’onere della prova.

Pur avendo preso atto di questo mutamento di giurisprudenza, osserva ancora la ricorrente, il tribunale “ha tuttavia ritenuto che le parti stesse avevano invece prospettato una responsabilità ex art. 2042 c.c., ossia avevano qualificato la fattispecie concreta in quei termini, e che dunque bisognava attenersi alla prospettazione fatta dalle parti con conseguente onere della prova gravante per intero sul danneggiato”.

La decisione della Cassazione

Per la S.C. la donna ha ragione. “Secondo il giudice di merito, sia nella prospettazione dell’attore che in quella del convenuto, il fatto è qualificato come un caso di responsabilità extracontrattuale dell’ente e che, di conseguenza, a qualificarlo come responsabilità del custode, si andrebbe incontro al vizio di ultra petizione. Questa tesi ovviamente è infondata – affermano i giudici di piazza Cavour – è infatti principio di diritto che quando una parte agisce prospettando una determinata fattispecie di responsabilità il giudice non è vincolato alla qualificazione giuridica dei fatti proposta dalla parte ma ha il potere di decidere una qualificazione diversa, sempre che i fatti non siano a loro volta diversi (cfr. Cass. 13757/ 2018; Cass. 11805/ 2016)”.

Responsabilità art. 2052 e art. 2043 c.c.

Ciò posto, proseguono, “la responsabilità dell’ente pubblico per il danno causato dalla fauna selvatica è una responsabilità che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, discende dalla omessa custodia dell’animale e non già dalla violazione del generico precetto di non ledere espresso dall’art. 2043 c.c., e dunque è una responsabilità che va sotto la fattispecie dell’art. 2052 c.c.”.

Con la conseguenza che “la distribuzione dell’onere della prova è del tutto diversa da come è stata valutata dal giudice di merito, nel senso che spetta al danneggiato la prova del nesso di causa” mentre “l’imprevedibilità del fatto e dunque, nella circostanza, l’imprevedibilità dell’attraversamento da parte dell’animale, quale caso fortuito che esclude la responsabilità, deve essere allegato e dimostrato dal danneggiante; allo stesso modo, la prova che il danno si è verificato per una condotta colpevole del danneggiato, ossia la guida imprudente, che è nient’altro che la prova anche essa del caso fortuito, è una prova che grava sul danneggiante”.

Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione con rinvio della decisione impugnata.

Allegati

modulo CAI valore prova

Il modello CAI non ha valore di piena prova La Cassazione ricorda che la CAI sottoscritta dai conducenti determina una presunzione che il sinistro si sia svolto con le modalità e le conseguenze indicate sul modulo

Modulo Contestazione Amichevole d’Incidente (CAI)

Nel caso in esame, il giudizio di merito aveva avuto ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno nell’ambito di un sinistro stradale che vedeva coinvolte tre autovetture che erano state coinvolte in un tamponamento a catena.

Per quanto qui rileva, la compagnia assicuratrice, nei confronti della quale era stata avanzata la domanda risarcitoria, aveva rilevato come fosse onere della richiedente dimostrare le modalità con cui si erano svolti i fatti contestati; rispetto a tale onere, aveva evidenziato l’assicuratrice, la richiedente si era limitata a produrre il modello CAI (contestazione amichevole d’incidente) sottoscritto da entrambi i conducenti.

Tale documento, in difetto di riscontro provenienti da altri elementi di prova, era stato ritenuto insufficiente dal Tribunale, in funzione di giudice di secondo grado, a fornire la prova del fatto dedotto a sostegno della domanda risarcitoria avanzata.

Invero, il Tribunale aveva ritenuto che il modello CAI non avesse valore di piena prova nemmeno nei confronti di chi l’aveva prodotto, poiché le dichiarazioni ivi contenute possono essere liberamente valutate dal giudice.

Avverso tale decisione l’appellante aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il modulo CAI può essere fatto valere solo dai sottoscriventi

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15431-2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

Per quanto in particolare rileva nel presente esame, la Corte ha rilevato che “l’art. 143, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005 è chiaro nell’affermare che la C.A.I. sottoscritta da entrambi i conducenti determina una presunzione, salvo prova contraria da parte dell’impresa di assicurazione, che il sinistro si sia svolto con le modalità e le conseguenze indicate su quel modulo”.

Presunzione di prova

Rispetto alla suddetta previsione normativa, la Corte ha evidenziato che, essendo prevista una presunzione di prova fino prova contraria, la società assicuratrice ben potrebbe superarla fornendo appunto la prova necessaria a tal fine. Anche tale ultima prova ricade dunque sulla società assicuratrice e non sul danneggiato, come erroneamente affermato dalla sentenza impugnata.

La Corte ha poi ribadito quanto già affermato dal Giudice di merito e dalla costante giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, ovvero che il modello CAI non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti di chi lo produce, poiché le dichiarazioni ivi contenute possono essere liberamente apprezzate dal giudice.

Valore confessorio

In questo senso, il libero convincimento del giudice sul valore confessorio del CAI, in quanto proveniente da un litisconsorte necessario, non è in contrasto con le norme sopracitate che conferiscono al modello CAI, firmato da entrambi i conducenti, il valore di una presunzione iuris tantum che l’assicuratore può superare.

Quanto sopra, ha spiegato la Corte, serve anche a comprendere l’interpretazione delle norme sul valore del CAI e del principio di litisconsorzio necessario, a proposito della responsabilità derivante da circolazione stradale.

La decisione della Cassazione

Nel caso di specie, la Corte ha concluso il proprio esame rilevando come la ricorrente- danneggiata (cessionaria del credito del secondo tamponato) non poteva far valere nei confronti dell’assicuratore alcun modello CAI, posto che il creditore cedente non aveva firmato alcunché (o, almeno, nessuno ha sostenuto il contrario) e quindi, in questo senso, non aveva preso parte alla redazione e sottoscrizione del suddetto documento.

Allegati

tamponamento a catena responsabilità

Tamponamento a catena: chi è responsabile? La Cassazione ha chiarito che, in caso di tamponamento a catena tra veicoli in movimento, si ha presunzione “iuris tantum” di colpa, in egual misura, dei conducenti di ciascuna coppia di veicoli, tamponante e tamponato

Tamponamento a catena: il caso

Nel caso in esame il Giudice di merito si era occupato di una richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti da un incidente stradale.

In particolare, la Corte d’appello di Catania, dopo aver rivalutato le risultanze istruttorie che avevano condotto il Giudice di prime cure ad accogliere la richiesta risarcitoria avanzata dall’attore, aveva ritenuto che i fatti così come si erano svolti, integravano una fattispecie di “tamponamento a catena su autostrada di veicoli in movimento”, con la conseguenza che, in applicazione della costante giurisprudenza di legittimità formatosi sul punto, doveva trovare applicazione la presunzione iuris tantum di colpa a carico del conducente di ciascuno dei veicoli tamponanti, fondata sull’inosservanza della distanza di sicurezza rispetto al veicolo antistante.

Sulla scorta di tali regole probatorie, la Corte territoriale aveva rigettato la richiesta risarcitoria dell’originario attore e aveva accolto la domanda riconvenzionale del convenuto in primo grado.

Avverso tale decisione l’originario attore aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La colpa dei conducenti si presume in egual misura

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15923-2024, ha accolto, per quanto qui rileva ed in relazione alla fattispecie di tamponamento a catena, il motivo d’impugnazione formulato dal ricorrente con cui veniva fatta valere la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 149 CdS, 1223, 2043 e 2054 c.c.

In particolare, la Corte ha rilevato che “mentre nel caso di scontri successivi tra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, unico responsabile degli effetti delle collisioni è il conducente che le abbia determinate, tamponando da tergo l’ultimo dei veicoli della colonna stessa, nella diversa ipotesi di tamponamento a catena tra veicoli in movimento trova applicazione l’art. 2054, seconda comma, cod. civ., con conseguente presunzione “iuris tantum” di colpa in egual misura di entrambi i conducenti di ciascuna coppia di veicoli (tamponante e tamponato)”. Tale presunzione è fondata sul mancato rispetto della distanza di sicurezza rispetto al veicolo che precede.

Presunzione di colpa in egual misura tra i conducenti

Sulla scorta di quanto sopra, la Cassazione ha pertanto rilevato che, nel caso di specie, l’esclusiva responsabilità a carico del tamponante poteva ritenersi integrata solo se fosse venuto in rilievo un caso di tamponamento tra veicoli incolonnati in sosta.

Mentre, avendo la Corte territoriale ritenuto integrata la diversa fattispecie del tamponamento a catena tra veicoli in movimento, doveva, al contrario, trovare applicazione la regola della presunzione di colpa in egual misura tra i conducenti, con conseguente riduzione della somma risarcitoria posta a carico del ricorrente.

Allegati

incidente cane randagio

Incidente con cane randagio: Asl sempre responsabile La Cassazione rammenta che l’obbligo di prevenzione del randagismo grava per legge sull’ASL e non è assolto delegando, in base ad una convenzione, i propri compiti ad altro soggetto

Responsabilità sinistro con cane randagio

Il caso in esame prendeva avvio dalla causa avviata da un automobilista nei confronti dell’ASL, nell’ambito della quale lo stesso aveva rappresentato che, per evitare l’investimento di un cane randagio che improvvisamente aveva attraversato la strada, era andato finire contro un muro di sostegno provocando danni alla vettura e riportando ferite gravi che gli avevano causato un’invalidità del 15%.

Il giudizio di merito si era concluso con la decisione della Corte d’appello di Napoli con cui la ASL ed il Comune di Vitulano, chiamato in causa dalla ASL, venivano condannati in solido al risarcimento dei danni subiti dai danneggiati.

Avverso tale provvedimento, il Comune di Vitulano aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

L’obbligo grava per legge sulla ASL

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15244-2024, ha rigettato il ricorso proposto dal Comune di Vitulano.

Nella specie, il Comune aveva sostenuto che “l’unica responsabile della prevenzione del randagismo e dunque della cattura degli animali randagi, deve ritenersi l’azienda sanitaria locale, con esclusione dunque di ogni responsabilità in capo ai comuni”.

Con ricorso incidentale, invece, l’ASL aveva rilevato che, poiché aveva delegato (con la sottoscrizione di una convenzione) l’attività di prevenzione del randagismo al Comune, difettasse una responsabilità a proprio carico.

In relazione alle suddette posizioni, la Corte ha affermato che “L’obbligo grava per legge regionale sulla ASL, e non si può dire che venga assolto semplicemente delegando, in base ad una convenzione, i propri compiti ad altri: la convenzione vale tra le parti che la stipulano, e non verso i terzi, nei confronti dei quali la legge istituisce come obbligata la ASL. E dunque la ASL resta il soggetto obbligato, salvi i suoi diritti contrattuali verso il soggetto che si era impegnato nei suoi confronti”.

Allegati

transazione medico

La transazione del medico non libera l’ospedale La Cassazione ha precisato che la transazione del medico con il paziente, non impedisce a quest’ultimo di domandare il risarcimento all’ospedale, ma ne determina la sola diminuzione del quantum debeatur

Responsabilità medica: la transazione del medico

Nel caso in esame, i genitori di un bambino nato, con una grave menomazione a causa del ritardo con cui la ginecologa si era risolta a praticare il taglio cesareo, avevano transatto con il medico.

Rispetto alla suddetta circostanza, la Corte d’appello aveva ritenuto che l’azienda ospedaliera non potesse avvalersi della transazione intervenuta tra i genitori del bambino ed il medico.

Avverso tale decisione la società di assicurazioni e l’azienda ospedaliera avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La transazione del medico non libera la struttura sanitaria

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15216-2024, ha rigettato, per quanto qui rileva, le doglianze formulate dalla parte ricorrente.

In particolare, la Corte ha rilevato come il Giudice di merito avesse correttamente escluso che la transazione conclusa dal medico, dipendente dell’ospedale, con i danneggiati potesse essere invocata dall’azienda ospedaliera o dai suoi assicuratori, in relazione alla domanda risarcitoria proposta nei confronti della stessa dai danneggiati.

A tal proposito il Giudice di legittimità ha ripercorso il quadro normativo di riferimento, affermando che la transazione conclusa dal medico non impedisce ai pazienti di introdurre e coltivare la domanda di risarcimento avanzata nei confronti dell’ospedale.

In particolare, il Giudice di legittimità ha precisato che l’errore del medico costituisce “un mero presupposto di fatto per il sorgere della responsabilità dell’ospedale: e come tutti i presupposti di fatto potrà essere accertato dal giudice incidenter tantum, senza efficacia di giudicato nei confronti del medico”

Resta fermo, ha precisato la Corte, che la conclusione della transazione non è priva di ricadute pratiche, dal momento che la sua esistenza determina, nei confronti dei danneggiati, la riduzione del quantum debeatur.

In altri termini, secondo la Cassazione, l’azienda ospedaliera non può pretendere di avvalersi dall’accordo transattivo a cui non ha partecipato, per ridurre il proprio debito “a quanto concordato tra le parti della transazione alla quale è rimasta estranea”.

Responsabilità solidale ospedale e medico

Inoltre, ha rilevato la Corte “l’ospedale e il medico rispondono in solido nei confronti del paziente: e al creditore di una obbligazione solidale è sempre consentito transigere la lite con uno dei coobbligati, con l’effetto di sciogliere il vincolo solidale rispetto al transigente e riservare i propri diritti nei confronti degli altri. La liberazione d’uno dei coobbligati, pertanto, non impedisce affatto di accertare la responsabilità di quest’ultimo nel diverso rapporto tra il danneggiato e i restanti coobbligati, ma comporta unicamente che, nel compiere tale accertamento, il giudice indagherà incidenter tantum sulla esistenza o meno di una condotta colposa da parte del medico. Diversamente opinando, prosegue la decisione, si perverrebbe al risultato per cui qualsiasi transazione stipulata dal danneggiato con l’autore materiale del danno libererebbe ipso facto anche «l’ausiliato»”.

Altrimenti opinando, ha proseguito la Corte, si giungerebbe alla conseguenza per cui la solidarietà si trasformerebbe in un istituto addirittura dannoso per il danneggiato, costringendolo a rifiutare transazioni anche vantaggiose per evitare di perdere il diritto a conseguire il danno differenziale dal preponente.

 

 

Allegati

azione vittima errore medico

Vittima di errore medico: può agire direttamente per il risarcimento Azione diretta del danneggiato da responsabilità medica: analisi del decreto attuativo sui requisiti minimi delle polizze assicurative

Attuazione legge Gelli

Il decreto 232 del 15 dicembre 2023 del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, pubblicato sulla GU n 51 del 1° marzo 2024 e in vigore dal 16 marzo 2024, ha attuato la previsione contenuta nel comma 6 dell’articolo 10 della legge Gelli n. 24/2017 sulla responsabilità sanitaria.

La disposizione rimetteva infatti a un decreto di attuazione la determinazione dei requisiti minimi: 

  • “delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie, prevedendo l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati” ;
  • “di garanzia e le condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure, anche di assunzione diretta del rischio, richiamate dal comma 1.”

Al decreto di attuazione anche il compito di disciplinare: “le regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione nonché la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati.”

Azione diretta per la vittima di errore medico

Il comma 6 dell’articolo 10, attuato con il decreto  n. 232 del 15 dicembre 2023, è richiamato dal comma 6 dell’articolo 12 della legge Gelli, che prevede l’azione diretta del soggetto danneggiato a causa di un errore medico. L’entrata in vigore della norma sulla azione diretta era infatti subordinata all’entrata in vigore del decreto di attuazione n. 232/2023.

La norma nello specifico prevede la possibilità per il soggetto danneggiato di agire direttamente nei confronti dell’assicurazione che garantisce la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private e all’esercente della professione sanitaria. Il tutto nei limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione.

All’impresa di assicurazione il comma 3 dell’articolo 12 riconosce tuttavia il diritto di rivalsa verso l’assicurato, nel rispetto dei requisiti minimi che non possono essere derogati contrattualmente e che sono stati anch’essi stabiliti dal decreto n. 232 del 15 dicembre 2023.

Garanzie assicurative: oggetto

In base all’articolo 3 del decreto n. 232/2023 per le coperture assicurative in favore dei soggetti indicati dall’art. 210 commi 1, 2 e 3 dell’articolo 10 della legge n. 24/2017 (strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private; esercenti la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture pubbliche e private; esercenti la professione sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private) l’assicurazione si obbliga a tenere indenne la struttura dei rischi che derivano dalla sua attività per coprire la responsabilità contrattuale di quanto la stessa è tenuta a pagare a titolo di risarcimento per i danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati a terzi.

La garanzia tiene indenne anche il personale operante a qualunque titolo presso la struttura stessa compresi i soggetti che svolgono attività di formazione aggiornamento sperimentazione e ricerca.

La copertura riguarda anche la responsabilità extracontrattuale di coloro che esercitano la professione sanitaria per prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria anche se non dipendono dalla struttura, ma di cui la stessa si avvale per adempiere le proprie prestazioni con il paziente.

La copertura assicurativa  tiene indenne anche l’esercente attività libero professionale quando lo stesso deve adempiere ad un’obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente per danni cagionati colposamente a terzi.

L’assicurazione si obbliga anche a tenere indenne colui che esercita la professione sanitaria presso la struttura qualunque titolo per le azioni di responsabilità amministrativa, rivalsa o surroga che siano state esercitati nei suoi confronti.

Massimali minimi di garanzia delle coperture

L’articolo 4 del decreto n. 232/2023 definisce i massimali minimi di garanzia delle coperture assicurative relative ai contratti assicurativi obbligatori delle strutture sanitarie sociosanitarie e pubbliche private.

I massimali variano da un minimo di 1.000.000,00 euro per sinistro fino a un massimo di 5.000.000,00 in base al tipo di prestazioni che vengono svolte al loro interno.

I massimali assicurativi per gli esercenti la professione sanitaria al di fuori della struttura o che svolgano la loro attività in regime libero professionale al loro interno p che si avvalga della stessa per adempiere un’obbligazione assunta con il paziente variano da un minimo di 1.000,000,00 di euro fino a un massimo di 2.000.000,00 per paziente. Anche in questo caso il massimale varia in base al livello di rischio dell’attività svolta.

Durata della copertura

Per quanto riguarda l’efficacia temporale della garanzia, l’articolo 5 del decreto n. 232/2023 stabilisce che la copertura assicurativa presenta la forma della “claims made” e opera per le richieste di risarcimento che vengono presentate per la prima volta quando la polizza è vigente e che si riferiscono a fatti che hanno generato la responsabilità verificatasi in questo periodo e nei 10 anni precedenti la conclusione del contratto.

La copertura assicurativa vale anche in caso di cessazione definitiva dell’attività dell’esercente la professione sanitaria senza che rilevi la causa della cessazione. L’ultraattività della copertura riguarda in questo caso le richieste risarcitorie presentate per la prima volta entro i 10 anni successivi alla cessazione dell’attività e riferita fatti che hanno generato la responsabilità verificatasi nel periodo di efficacia della polizza.

Allegati

responsabilità 2051 c.c.

Responsabilità ex art. 2051 c.c. La responsabilità da custodia è di tipo oggettivo e può essere esclusa solo dall’assenza del nesso causale, come chiarito anche dalle Sezioni Unite

La responsabilità da custodia: natura e caratteri

La responsabilità da custodia è disciplinata dall’art. 2051 c.c. ed è costantemente oggetto di dibattito giurisprudenziale riguardo alla sua natura e, conseguentemente, agli oneri probatori a carico delle parti in causa.

Come vedremo tra breve, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sembrano aver sciolto definitivamente ogni dubbio in merito, definendo quella del custode come una responsabilità oggettiva, e non semplicemente presunta.

Responsabilità ex art. 2051 c.c.: il caso fortuito

Cominciamo col ricordare il dato normativo, che dispone, in maniera molto essenziale, che “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

Ciò significa che il proprietario di una cosa, il suo detentore o in ogni caso chi ne abbia a carico compiti di vigilanza, manutenzione o controllo, viene ritenuto dall’ordinamento, per ciò stesso, responsabile dell’eventuale danno causato a terzi.

L’unico modo che il custode ha per andare esente da responsabilità – e quindi dai conseguenti obblighi risarcitori – è quello di dimostrare che il danno è derivato da caso fortuito, in tale espressione ricomprendendosi anche il fatto di un terzo o dello stesso danneggiato.

Natura oggettiva della responsabilità da custodia

In termini strettamente giuridici, la questione relativa alla natura della responsabilità del custode e, conseguentemente, alle circostanze che possono escluderla, si risolve nell’analisi della rilevanza, o meno, della condotta del custode antecedente all’evento che ha causato il danno.

Ebbene, anticipiamo subito che, come hanno chiarito le SS.UU., tale condotta non ha alcuna rilevanza. In altre parole, una volta verificatosi il danno causato dalla cosa (si pensi ad un immobile in cattivo stato di conservazione, ad un’automobile parcheggiata, ad un marciapiede malandato in custodia al Comune, ad una pedana di legno all’interno di un negozio: gli esempi potrebbero essere infiniti) al custode non servirà a nulla dimostrare di aver provveduto alla regolare manutenzione dell’oggetto o alla sua vigilanza.

L’unico aspetto che rileva, infatti, è il nesso causale tra l’oggetto e il danno. È solo riguardo a ciò che il custode ha la possibilità di offrire una prova che escluda la sua responsabilità; e tale prova si sostanzia nel dimostrare che l’evento sia stato del tutto fortuito (si può fare il classico esempio di eventi naturali catastrofici), o che sia dovuto al fatto del terzo o dello stesso danneggiato.

Per inciso, va quindi rilevato che, nel caso in cui sia dimostrato il caso fortuito, l’eventuale assenza di regolare manutenzione o di effettiva vigilanza da parte del custode non comporta la sussistenza della responsabilità ex art. 2051 c.c. (ma solo, eventualmente, ex art. 2043 c.c.).

La pronuncia delle Sezioni Unite sulla responsabilità ex art. 2051 c.c.

In conclusione, la responsabilità da custodia ex art. 2051 c.c. è una responsabilità oggettiva e non una semplice responsabilità presunta.

In altre parole, al custode non è sufficiente dimostrare che la causa del danno non sia a lui imputabile, ma deve dimostrare l’assenza del nesso causale tra la cosa in sua custodia e il danno.

È questo il senso della pronuncia delle Sezioni Unite cui sopra si accennava, secondo cui “la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, rappresentato da un fatto naturale o del danneggiato o di un terzo, connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, dal punto di vista oggettivo e della regolarità o adeguatezza causale, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode” (Cass. civ., SS.UU., ord. n. 20943 /2022, che in narrativa richiama le sentenze Cass. civ., III sez., nn. 2480 e 2481 del 2018).

guard rail difettoso

Guard rail difettoso: per l’incidente risponde la PA Secondo la Cassazione, la PA che non curi di verificare che i guard rail abbiano assunto una conformazione tale da costituire un pericolo per gli utenti, viola gli standard di sicurezza e i principi generali in tema di responsabilità civile

Guard rail quale concausa del sinistro

Nel caso che ci occupa, si discute delle cause che avevano condotto ad un tragico incidente stradale nell’ambito del quale avevano perso la vita alcune persone e ne erano rimaste ferite altre.

Nella specie, dalla ricostruzione dei fatti, era emerso che il sinistro si era verificato sia a causa dell’elevata velocità cui procedeva l’autovettura, che a causa dell’anomalia della barriera guardrail lungo quel tratto di strada.

All’esito del giudizio di merito, la Corte d’appello di Bologna, per quanto qui rileva, aveva dichiarato la corresponsabilità della società, incaricata alla gestione del tratto stradale interessato, nella causazione del sinistro.

Avverso la suddetta sentenza la società aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Responsabilità della PA nella manutenzione della strada

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11950-2024, ha rigettato il ricorso proposto e condannato parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.

Dopo aver ripercorso i fatti di causa, il Giudice di legittimità ha affermato che i guardrail “sono dispositivi di sicurezza stradale che (…) hanno sempre come funzione fondamentale: da un lato, di impedire a un veicolo di uscire dalla carreggiata, agendo come una barriera protettiva; dall’altro, di evitare collisioni frontali, prevenendo la possibilità che i veicoli sbandino nella corsia opposta”.

Allo stesso tempo, la Corte ha ricordato come “la custodia esercitata dal proprietario o gestore della strada non è limitata alla sola carreggiata, ma si estende anche agli elementi accessori o pertinenze, ivi comprese eventuali barriere laterali con funzione di contenimento e protezione della sede stradale”.

I principi di diritto della Cassazione

Sulla scorta del quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento, la Corte ha pertanto pronunciato i seguenti principi di diritto.

“La P.A. che, pur avendo collocato una barriera laterale di contenimento per diminuire la pericolosità di un tratto stradale, non curi di verificare che la stessa non abbia assunto nel tempo una conformazione tale da costituire un pericolo per gli utenti ed ometta di intervenire con adeguati interventi manutentivi al fine di ripristinarne le condizioni di sicurezza, viola sia le norme specifiche che le impongono di collocare barriere stradali nel rispetto di determinati standard di sicurezza, sia i principi generali in tema di responsabilità civile”.

Per quanto invece attiene alla specifica materia della responsabilità civile della p.a. per danni da cose in custodia, la Corte ha rilevato come “la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, (…) sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha dunque provveduto a rigettare il ricorso.

responsabilità comune custodia

Il Comune è responsabile delle strade in custodia La Cassazione ha ribadito che il Comune ha una responsabilità oggettiva da cose in custodia rispetto alla strada comunale ed è pertanto tenuto a risarcire i danni che da essa derivano

Ciclista inciampa nella feritoia: il caso

Nella vicenda in esame un ciclista, nel percorrere un tratto di strada comunale, era incappato con una ruota in una fessura posta al di sotto del manto stradale e, cadendo a terra, aveva riportato alcune lesioni personali.

A seguito del suddetto episodio, il danneggiato aveva convenuto il giudizio il Comune ritenuto responsabile del tratto stradale in questione ed aveva domandato il risarcimento dei danni subiti.

Il Giudice di merito aveva concluso il proprio esame condannando il Comune al risarcimento del danno patito dal ciclista.

Avverso tale decisione il Comune aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Nesso causale

La Suprema Corte, con ordinanza n. 12988-2024, ha rigettato il ricorso proposto dal Comune.

In particolare, la Cassazione, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha anzitutto affermato che le argomentazioni elaborate dalla Corte d’appello in punto di nesso causale tra la fessura nel manto stradale e l’evento dannoso, nonché la ritenuta assenza di un concorso del danneggiato alla causazione dell’evento lesivo, sono conformi al consolidato orientamento interpretativo formatosi in ordine alla responsabilità da cose in custodia di cui all’art. 2051 c.c.

Per quanto nello specifico attiene alla responsabilità ex art 2051 c.c., la Corte ha affermato che la giurisprudenza è costante nel ritenere che essa abbia natura oggettiva “e può essere esclusa o dalla prova del caso fortuito (…), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo”.

Nella medesima direzione argomentativa muove l’affermazione della Corte secondo cui “l’ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito (…) si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse in modo immanente alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, (…), ravvisandosi il presupposto di operatività della fattispecie, consistente nella relazione di fatto tra un soggetto e la cosa”.

In questo senso, la Corte ritiene che sia corretto riconoscere un onere di custodia in capo al Comune ricorrente, posto che, nel caso di specie, il sinistro era avvenuto in una strada comunale aperta al pubblico ed anzi molto frequentata.

Sulla scorta delle suddette argomentazioni e per quanto qui rileva, la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso del Comune.

Allegati

Cassazione: multe nulle se l’autovelox non è omologato Le sanzioni erogate per la violazione del limite di velocità rilevate con l’autovelox sono nulle se l’apparecchio non è omologato ma solo approvato

Autovelox non omologati

La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza storica sulle apparecchiature autovelox utilizzate per rilevare le infrazioni di velocità.

Secondo l’ordinanza 10505-2024 del 18 aprile 2024, che ha destato parecchio clamore in tutto il territorio nazionale, le multe comminate con apparecchiature autovelox prive di omologazione sono da considerarsi nulle.

Questa decisione chiarisce inoltre la differenza tra omologazione e approvazione delle apparecchiature, sollevando importanti questioni sul sistema sanzionatorio stradale.

Violazione limite di velocità con autovelox non omologato

La vicenda ha inizio con il ricorso di un conducente al Giudice di Pace, che accoglie l’opposizione al verbale di accertamento della Polizia con cui gli era stata contesta la violazione dell’articolo 142 comma 8, per avere superato il limite di velocità di 90 Km/h. Rilievo che era stato effettuato per mezzo di un dispositivo autovelox fisso.

Il Comune appellava la decisione, ma il Tribunale la respingeva perché l’apparecchiatura con cui era stata rilevata la violazione del limite di velocità non risultata omologata. Il Tribunale precisava al riguardo che “l’accertamento dell’indicata infrazione era avvenuto con la citata apparecchiatura elettronica senza che fosse stata preventivamente omologata ai sensi di legge, non risultando rilevante allo scopo la mera approvazione preventiva di tale mezzo di rilevazione, siccome non equipollente all’omologazione ministeriale, posto che quest’ultima autorizza la riproduzione in serie del prototipo di un apparecchio testato in laboratorio, mentre la semplice approvazione è riconducibile ad un procedimento di tipo semplificato che non richiede la comparazione del prototipo con caratteristiche ritenute fondamentali o previste da particolari previsioni del regolamento.”

Il Comune soccombente, insoddisfatto dell’esito del giudizio, impugnava la decisione in Cassazione, che incentra la motivazione della sentenza proprio sulla differenza tra omologazione e approvazione.

Differenze tra omologazione e approvazione

La Cassazione, rigettando la tesi dell’Ente Territoriale ricorrente, precisa che l’articolo 142, comma 6 del Codice della Strada (c.d.s) è chiaro e decisivo nel ritenere idonee solo le apparecchiature “debitamente omologate” per l’accertamento strumentale della velocità. L’articolo 192 del regolamento di attuazione del c.d.s. (d.P.R. n. 495/1992) distingue invece le attività di omologazione e approvazione, specificando che l’omologazione è un procedimento tecnico-amministrativo che garantisce la funzionalità e la precisione degli autovelox. L’approvazione, invece, è un processo meno rigoroso, che non richiede test dettagliati.

Importanza della prova della corretta funzionalità

Secondo la giurisprudenza consolidata della Cassazione, la Pubblica Amministrazione (P.A) deve fornire prova della corretta funzionalità degli autovelox attraverso certificazioni di omologazione e conformità. Questo obbligo deriva dalla necessità di garantire che gli strumenti utilizzati per le sanzioni stradali siano tecnicamente affidabili e precisi. La Corte Costituzionale aveva già sottolineato questa necessità nella sentenza 113/2015 e la Cassazione con la presente ordinanza  rafforza  ulteriormente questa posizione.

Implicazioni della decisione della Cassazione sulle multe

La decisione della Cassazione ha risvolti pratici significativi. In pratica, tutti gli autovelox privi di omologazione e certificazione metrologica sono considerati illegali. Questo implica che molte delle sanzioni attualmente emesse possono essere contestate e annullate, se le apparecchiature utilizzate non rispettano i requisiti stabiliti dalla normativa.

La pronuncia rappresenta un importante passo avanti nella regolamentazione delle sanzioni stradali e nella garanzia della correttezza dei procedimenti sanzionatori. Essa rafforza l’obbligo per la P.A di utilizzare solo apparecchiature omologate e conformi alle normative tecniche, ponendo un freno all’uso indiscriminato di autovelox non certificati. Questo intervento giuridico mira a tutelare i diritti degli automobilisti, assicurando che le sanzioni siano comminate solo sulla base di rilevamenti accurati e legalmente validi.

 

 

 

Allegati