protezione degli avvocati

Protezione degli avvocati: cosa prevede la convenzione Il Consiglio d'Europa ha adottato la prima convenzione internazionale per la protezione degli avvocati

Protezione degli avvocati: la convenzione UE

Il Consiglio d’Europa ha adottato la prima Convenzione internazionale per la protezione degli avvocati, volta a garantire una maggiore tutela alla professione forense. Questa Convenzione nasce in risposta all’aumento delle segnalazioni di minacce, intimidazioni e interferenze che ostacolano l’attività degli avvocati, inclusi impedimenti all’accesso ai clienti e attacchi fisici.

L’importanza della protezione degli avvocati

Gli avvocati svolgono un ruolo cruciale nella difesa dello Stato di diritto e nell’assicurare l’accesso alla giustizia per tutti, incluse le vittime di violazioni dei diritti umani. La fiducia dei cittadini nei sistemi giudiziari dipende in gran parte dalla libertà e dalla sicurezza con cui gli avvocati possono esercitare la loro professione.

Cosa prevede la Convenzione UE?

La Convenzione sulla protezione della professione di avvocato è destinata a garantire i diritti e l’indipendenza degli avvocati e delle loro associazioni professionali, prevedendo misure specifiche per la loro tutela. Tra gli aspetti principali regolamentati vi sono:

  • Diritto di esercizio della professione senza restrizioni indebite;
  • Tutela della libertà di espressione e dei diritti professionali;
  • Disposizioni per la protezione delle associazioni forensi;
  • Obbligo per gli Stati di garantire indagini efficaci in caso di atti di violenza o intimidazione.

Impegni richiesti agli Stati aderenti

Gli Stati firmatari si impegnano a garantire la sicurezza degli avvocati, proteggendoli da attacchi fisici, minacce e interferenze indebite nell’esercizio delle loro funzioni. Se tali atti costituiscono reati penali, dovranno essere oggetto di indagini tempestive e approfondite. Inoltre, la Convenzione impone agli Stati di riconoscere e rispettare l’indipendenza delle associazioni forensi, consentendo loro di operare autonomamente.

Firma e ratifica della Convenzione

La Convenzione sarà aperta alla firma il 13 maggio, durante la riunione dei ministri degli Affari Esteri del Consiglio d’Europa a Lussemburgo. Per entrare in vigore, il trattato dovrà essere ratificato da almeno otto Paesi, di cui sei Stati membri del Consiglio d’Europa.

L’applicazione della Convenzione sarà monitorata da un gruppo di esperti e da un comitato delle parti, che garantiranno il rispetto delle disposizioni previste.

Plauso dell’AIGA

L’Associazione Italiana Giovani Avvocati (AIGA) esprime il suo vivo apprezzamento per l’adozione, da parte del Consiglio d’Europa, del primo​Trattato internazionale volto a proteggere la professione di avvocato.

“Questo storico accordo rappresenta un passo fondamentale per contrastare i sempre più frequenti attacchi all’esercizio della professione legale che spaziano dalle molestie e minacce, alle aggressioni fisiche, alle interferenze nell’attività professionale, come gli ostacoli all’accesso ai clienti” scrive l’AIGA, la quale ribadisce “con forza la necessità di introdurre anche nella legislazione italiana un’aggravante specifica per le lesioni subite da​g​li avvocati nell’esercizio delle proprie funzioni”.

Tale proposta, già elaborata dall’associazione nel gennaio 2024, mira a fornire una tutela più efficace per gli avvocati che si trovano a operare in contesti di rischio.

“La protezione degli avvocati è essenziale per garantire l’accesso alla giustizia e la difesa dei diritti dei cittadini. Dietro ogni reato commesso nei confronti di un avvocato, nell’esercizio delle sue funzioni – afferma il presidente dell’AIGA, Carlo Foglieni – si cela un attacco ingiustificato e inaccettabile allo Stato di diritto”.

avvocato in affitto

L’avvocato in “affitto” L' avvocato in affitto o secondment è una pratica che garantisce alle aziende un’assistenza legale a tempo

L’avvocato in “affitto” rivoluziona il settore legale

Negli ultimi anni, il mondo della consulenza legale ha assistito a una trasformazione significativa. Questo grazie anche al fenomeno del secondment, noto come “avvocato in affitto”. Questo modello, nato nei paesi anglosassoni, ha introdotto maggiore flessibilità nella gestione del personale legale. Esso risponde infatti alle esigenze di aziende e studi professionali con soluzioni innovative e su misura.

Origini del secondment: da dove nasce l’idea

Il concetto di secondment (accordo tra datore e azienda per il distacco di un dipendente) ha origine nel Regno Unito e negli Stati Uniti alla fine del XX secolo. Le grandi multinazionali e i principali studi legali anglosassoni lo hanno adottato per rispondere a una due necessità principali.  Da un lato, offrire ai propri avvocati esperienze diversificate all’interno di aziende clienti. Dall’altro lato consentire alle aziende di avere professionisti qualificati a tempo determinato senza dover ampliare il proprio organico in modo permanente.

Le prime applicazioni del secondment risalgono agli anni ’80 e ’90. In questi anni le grandi law firms iniziarono a distaccare i propri avvocati presso le aziende clienti per periodi definiti, generalmente compresi tra sei mesi e due anni. Il fenomeno si è rapidamente diffuso nel mondo anglosassone. Oggi è una pratica consolidata e strategica per le realtà aziendali e legali.

Come funziona l’avvocato in affitto

Il meccanismo del secondment è relativamente semplice. Uno studio legale o una società di servizi giuridici fornisce un proprio avvocato a un’azienda per un periodo determinato. L’avvocato opera come un membro interno dell’ufficio legale dell’azienda, gestendo questioni legali quotidiane e interfacciandosi direttamente con i dirigenti e il personale. Lo studio legale continua a pagare lo stipendio del professionista, ma l’azienda ospitante rimborsa i costi. Al termine del periodo, l’avvocato può rientrare nello studio di provenienza o, in alcuni casi, essere assunto dall’azienda.

Questa pratica offre alle aziende un accesso immediato a competenze specialistiche senza il vincolo di un’assunzione definitiva e permette agli avvocati di ampliare la loro esperienza direttamente sul campo.

Vantaggi del secondment

Il successo del secondment è legato ai numerosi vantaggi che offre sia alle aziende sia agli avvocati e agli studi legali.

Per le aziende: accesso rapido a professionisti qualificati senza dover ampliare il personale; costi maggiormente prevedibili rispetto all’assunzione di un dipendente a tempo indeterminato; possibilità di testare un avvocato prima di un’eventuale assunzione diretta, maggiore flessibilità nella gestione dei picchi di lavoro e delle esigenze temporanee.

Per gli studi legali: opportunità di consolidare la relazione con i clienti aziendali, esperienza sul campo per i propri avvocati, utile per comprendere meglio le dinamiche aziendali, possibilità di offrire servizi più personalizzati e orientati al business.

Per gli avvocati: formazione diretta in un contesto aziendale; ampliamento delle competenze gestionali e strategiche e maggiore possibilità di carriera e network professionale.

Svantaggi e criticità dell’avvocato in affitto

Nonostante i numerosi benefici, il secondment presenta anche alcune sfide da considerare.

Per le aziende il rischio che l’avvocato distaccato non si integri rapidamente con la cultura aziendale e la dipendenza da personale esterno per questioni strategiche.

Per gli studi legali la possibile perdita di talenti se il cliente decide di assumere l’avvocato e la m minore disponibilità del professionista per le attività dello studio.

Per gli avvocati: la possibile difficoltà nel rientro nello studio legale dopo un’esperienza aziendale e la necessità di adattarsi a due ambienti di lavoro diversi nel corso della carriera.

Il secondment in Italia

In Italia, il secondment è ancora poco diffuso, ma sta iniziando a guadagnare terreno, specialmente nelle grandi aziende con uffici legali strutturati. Il sistema giuridico italiano, più rigido rispetto a quello anglosassone, potrebbe ostacolare una piena implementazione del modello. Tuttavia, con il crescente bisogno di flessibilità nel settore legale, molte aziende stanno esplorando formule alternative simili al secondment, come l’outsourcing legale o l’uso di consulenti esterni a tempo determinato.

Un ostacolo significativo è rappresentato dalla normativa italiana sul lavoro subordinato, che potrebbe rendere complesso il distacco temporaneo di un avvocato senza incorrere in problemi contrattuali. Inoltre, il ruolo dell’Ordine degli Avvocati e le specifiche regole deontologiche potrebbero influenzare l’applicabilità di questa pratica nel nostro paese.

Il secondment rappresenta una soluzione moderna ed efficace per rispondere alle sfide del mondo legale, garantendo flessibilità, formazione e integrazione tra professionisti e aziende. Mentre nei paesi anglosassoni è una realtà consolidata, in Italia la sua diffusione dipenderà dalla capacità di adattare il modello alle normative locali. Se ben strutturato il secondment potrebbe diventare uno strumento prezioso anche per le imprese italiane, offrendo un nuovo modo di gestire le risorse legali con maggiore efficienza e competitività.

 

Leggi anche gli altri articoli del sito dedicati alle professioni 

vietato divulgare i nomi

Avvocati: vietato divulgare i nomi dei clienti Vietato divulgare i nomi dei clienti: l'avvocato non può divulgarli, neppure utilizzando toni autocelebrativi e promozionali

Vietato divulgare i nomi dei clienti

Vietato divulgare i nomi dei clienti: l’articolo 35, comma 8 del Codice Deontologico Forense vieta all’avvocato di indicare, nelle informazioni al pubblico, i nominativi dei clienti o delle parti assistite, anche con il loro consenso. Tale divieto si applica anche quando i nominativi siano già di dominio pubblico. Inoltre, non è consentito eludere questa norma riproducendo in modo enfatico, autocelebrativo o promozionale informazioni già diffuse da media o terzi non soggetti alle regole deontologiche forensi.

Nel caso specifico, l’avvocato ha violato questa disposizione pubblicando sul proprio sito web e tramite una newsletter uno scritto che riprendeva una notizia di stampa relativa all’assistenza legale prestata in una complessa acquisizione societaria, includendo dettagli sui nominativi delle parti coinvolte. Questo quanto emerge dalla sentenza del CNF n. 294/2024.

Violato il divieto di divulgare i nomi dei clienti

Un esposto anonimo avvia un procedimento disciplinare nei confronti del titolare di uno studio legale perchè ritenuto responsabile di aver divulgato i nomi di clienti e parti assistite.

Il CDD ritiene sussistente la responsabilità disciplinare dell’avvocato tanto che gli irroga la sanzione disciplinare dell’avvertimento.

L’avvocato ritenuto responsabile però, nel ricorso al CNF precisa che “le notizie pubblicate sul sito web del suo studio legale, così come i relativi comunicati stampa, conseguivano alla pubblicazione di identici articoli già diffusi dai media. Laddove, quindi, come nel caso di specie, la “disclosure” del nominativo del cliente sia già stata fatta da terzi e con il consenso del cliente medesimo, non sarebbe ravvisabile la violazione dellart. 35 comma 8 del NCDF essendosi il difensore incolpato solo limitato a pubblicare notizie rese di pubblico dominio da altri”. 

Divieto di divulgazione art. 35 CDF

Il CNF nel respingere il ricorso dell’avvocato fornisce importanti precisazioni sul divieto di divulgazione dei nominativi di clienti e parti assistite. L’interpretazione fornita dal ricorrente dell’articolo 35 comma 8 del Codice deontologico Forense risulta infatti del tutto errata.

In primis occorre ricordare come la formulazione del comma 8 dell’articolo 8 sia rimasta nel tempo pressoché invariata. In secondo luogo il CNF rileva come la pubblicazione in prima istanza sulla stampa non qualificata (newsletter, siti ecc…) potrebbe ben essere utilizzata come escamotage dallo stesso avvocato per ritenersi poi autorizzato a riprodurre le stesse informazioni, eludendo in questo modo ogni divieto.

Vietato divulgare i nomi

Non coglie nel segno la tesi del ricorrente per il quale non sussisterebbe alcuna violazione ogni volta in cui il nominativo delle parti assistite dal legale e diffuso dallo stesso sia stato già reso di dominio pubblico da terzi.

Come chiarito correttamente dal CDD “il rapporto tra cliente e avvocato non è soltanto un rapporto privato di carattere libero-professionale e non può perciò essere ricondotto puramente e semplicemente al contratto dopera ed ad una logica di mercato.” L’avvocato  non è solo un libero professionista, manche un soggetto che partecipa attivamente allo svolgimento della funzione giurisdizionale pubblica.

Il principio di tutela dell’autonomia e del decoro della professione forense giustifica quindi il divieto per gli avvocati di pubblicare i nominativi dei propri clienti a fini pubblicitari, anche con il consenso degli stessi. L’articolo 35, comma 8 del Codice Deontologico Forense vieta questa pratica per prevenire interferenze, condizionamenti e strumentalizzazioni che potrebbero derivare dalla diffusione di tali informazioni.

Il tono autocelebrativo non rileva

Nel caso specifico esaminato dal Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) , l’Avv. ricorrente fondatore dello Studio Legale Omonimo & Associati, ha pubblicato sul sito web dello studio e inviato tramite newsletter comunicazioni relative a incarichi professionali svolti, indicando espressamente i clienti assistiti. Ad esempio, nella pubblicazione di gennaio 2022 si menzionava l’assistenza prestata a un certo Consorzio, mentre nella seconda comunicazione si faceva riferimento all’assistenza fornita a due soggetti specifici nei concordati preventivi.

Il CDD ha ritenuto che tali comunicazioni non si limitassero a riprodurre articoli di stampa o comunicati ufficiali dei clienti, ma fossero redatte in maniera autonoma, con toni promozionali e autocelebrativi. In particolare, l’avvocato ha attribuito il buon esito dell’operazione alla “tecnicalità adottata da ……..” e ha invitato a contattarlo per ulteriori informazioni sul leveraged buyout.

Infine, la newsletter, inviata a destinatari iscritti tramite il sito web dello studio, conferma la natura di informazione pubblica e la responsabilità diretta dello studio legale nella diffusione dei nominativi dei clienti assistiti, in violazione delle norme deontologiche.

 

Leggi anche: Illecito deontologico divulgare i nomi dei clienti

Allegati

patto di quota lite

Patto di quota lite: quando è vietato Il patto di quota lite è vietato quando è commisurato all’esito della lite e questo vale sia per l’attività giudiziale che stragiudiziale

Patto di quota lite: vietato anche per stragiudiziale

Il patto di quota lite consiste in un accordo tra avvocato e cliente, in base al quale il compenso per l’attività professionale svolta viene determinato in misura percentuale sul bene controverso o sul suo valore. La sentenza del CNF n. 352/2024, pubblicata sul sito del Codice Deontologico Forense in data 11 marzo 2025, conferma il divieto del patto sia quando riguarda l’attività giudiziale che quella  stragiudiziale. Il CNF annulla così il provvedimento di archiviazione del CDD, che aveva ritenuto la percentuale del 15% sul risarcimento riconosciuto alla cliente in sede transattiva con l’Assicurazione e percepita dall’avvocato a titolo di compenso legittima perché proporzionata alla difficoltà dell’incarico.

Risarcimento danno: 15% dell’importo all’avvocato

Una donna presenta un esposto al COA competente per territorio contro un avvocato. La stessa aveva conferito l’incarico a un legale per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa di un intervento chirurgico. La compagnia assicurativa con cui l’avvocato aveva accettato di transigere la vertenza provvedeva al pagamento del risarcimento del danno nella misura di 89.180,00 euro.

La compagnia pagava l’importo concordato al legale, che però consegnava alla cliente 69.880,00 euro. L’esponente chiedeva quindi chiarimenti sul minore importo corrisposto. Il legale la informava di aver sottoscritto un accordo, che prevedeva il riconoscimento in suo favore del 15% del risarcimento che le sarebbe stato riconosciuto, a titolo di compenso.

Percentuale proporzionata

Il procedimento proseguiva innanzi al CDD. Il Consiglio concludeva che tra le parti era intercorso un patto di quota lite vietato dall’articolo 2233 c.c nella sua formulazione originaria, disciplinato dall’articolo 25 comma 1 e considerato lecito nei limiti sanciti dall’articolo 29 comma IV del Codice deontologico forense. Nel caso di specie però l’accordo si era realizzato in forma scritta e l’importo risultava proporzionato alla difficoltà dell’incarico. Il CDD decideva quindi di archiviare il procedimento. Il COA però ricorreva al CNF, chiedendo la sospensione dell’avvocato dall’esercizio della professione da un minimo di due fino a un massimo di sei mesi. Per il Consiglio dell’Ordine l’avvocato aveva infatti violato l’articolo 25, comma 2 del Codice deontologico.

Patto di quota lite: evoluzione normativa

Il CNF sul motivo di ricorso del patto di quota lite, ricorda che, prima del 2006, la legge vietava severamente tali patti. Con il decreto Bersani del 2006, il divieto venne rimosso.  Gli accordi basati sul risultato pratico e sulla percentuale del valore dei beni o degli interessi litigiosi divenivano quindi leciti.

La legge 247/2012 però ha reintrodotto il divieto con l’articolo 13, comma 4. La norma vieta infatti all’avvocato di ricevere come compenso una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa. Tuttavia, il comma 3 consente la pattuizione di compensi a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il cliente. Il tutto in base al principio della libera pattuizione del compenso.

Il patto però è lecito quando si basa sul valore dei beni o sugli interessi litigiosi, è illecito se legato all’esito della lite. Questa distinzione mira a prevenire la commistione di interessi tra avvocato e cliente, evitando che il rapporto professionale si trasformi in un rapporto associativo.

Il divieto vale per lattività giudiziale e stragiudiziale

Nel caso specifico, il CDD di Firenze ha riconosciuto un patto di quota lite tra l’avvocato e la cliente ritenendo però corretta dal punto di vista deontologico, la condotta del legale.

Il CNF nella motivazione precisa che il divieto del patto di quota lite concerne sia lattività giudiziale che quella stragiudiziale. Nel caso di specie il contratto sottoscritto dal professionista al punto 2. ha così previsto il compenso in caso di attività stragiudiziale: A. stragiudiziale: proporzionato al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, nella misura percentuale del 15% da calcolare sulla somma che verrà riconosciuta al cliente oltre cassa nazionale previdenza (4%). Si precisa che tale importo non è comprensivo delle spese legali poste a carico della controparte in sede stragiudiziale stabilita in favore dellavvocato… Pertanto, in aggiunta al compenso riconosciuto dalla controparte in via stragiudiziale, è dovuto dalla cliente allavvocato un ulteriore compenso determinato in percentuale sulla somma riconosciuta al cliente”.

Questo compenso ulteriore, legato al risultato della prestazione viola l’articolo 13 della legge n. 247/201e e l’articolo 25 del CdF. Il ricorso del COA quindi va accolto, con remissione degli atti al CDD che deve proseguire il procedimento nei confronti dell’avvocato.

 

Leggi anche l’articolo Palmario: componente aggiuntiva del compenso dell’avvocato

Allegati

tirocini uffici giudiziari

Tirocini uffici giudiziari: al via le domande per le borse di studio Pubblicato sul sito del ministero l'avviso che indica le modalità di presentazione delle domande per le borse di studio per i tirocini uffici giudiziari

Tirocini uffici giudiziari: borse di studio

Tirocini uffici giudiziari: il ministero ha pubblicato l’avviso riguardante le modalità di presentazione delle domande di borsa di studio di cui all’art. 73 commi 8 bis, 8 ter del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, mediante  piattaforma informatica, per i tirocini formativi svolti nel 2024.

Le risorse finanziarie da destinare all’attribuzione delle borse di studio sono state determinate con decreto interministeriale (Giustizia-MEF) 30 dicembre 2024, pubblicato in G.U. Serie Generale n. 55 del 7 marzo 2025.

Come presentare domanda

I tirocinanti che intendano richiedere la borsa di studio per il tirocinio di cui all’art. 73, d.l. 69 del 2013, svolto nel corso dell’anno 2024, dovranno presentare apposita domanda esclusivamente attraverso la piattaforma informatica “Tirocini formativi”, a questo indirizzo:

https://tirociniformativi.giustizia.it/tirocini-formativi/borsa-utente/domanda-borsa

Le istruzioni per procedere all’inoltro della richiesta sono contenute nel “Manuale utente tirocinante”, pubblicato nella sezione (“download”) della piattaforma informatica “Tirocini formativi” (sub voce “Manuale utente tirocinante”) e sul sito del Ministero della Giustizia, al seguente indirizzo: https://tirociniformativi.giustizia.it/manuali/Tirocini%20Formativi%20-%20Manuale%20utente%20tirocinante%201.4.pdf

Documenti da allegare

Ai fini della validazione della domanda, è necessario allegare, in un unico pdf, mediante caricamento sulla pagina ad hoc dell’applicazione informatica:

  • certificazione ISEE (calcolata per le prestazioni erogate agli studenti nell’ambito del diritto allo studio universitario), rilasciata in data successiva il 1 gennaio 2025;
  • dichiarazione sostitutiva di certificazione ( art. 46 D.P.R.28/12/2000), relativa alla mancata ( o avvenuta) percezione di altre borse di studio nel corso del 2024.

Le domande di richiesta della borsa di studio non possono essere presentate dai tirocinanti con modalità cartacea ovvero tramite PEC, ma esclusivamente caricate sulla piattaforma informatica.

Termini domanda

Le domande possono essere presentate nel periodo compreso tra il 13 marzo 2025, dalle ore 10 e il 17 aprile 2025, fino alle ore 19.00.

Dal giorno successivo la piattaforma non accetterà più alcuna domanda.

E’ sempre disponibile, rammenta il ministero, per gli uffici e per i tirocinanti, per chiarimenti, anche di carattere tecnico, il servizio di help-desk all’indirizzo: tirociniformativi-art73@giustizia.it

avvocati stabiliti

Avvocati stabiliti: il CNF chiarisce il riconoscimento del titolo Il Consiglio Nazionale Forense coglie l'occasione per dettare chiarimenti sul riconoscimento del titolo ai fini dell'iscrizione nell'elenco degli avvocati stabiliti

Avvocati stabiliti

Il Consiglio Nazionale Forense (CNF), con la sentenza n. 350/2024 pubblicata il 10 marzo 2025 sul sito del Codice deontologico, ha chiarito che il titolo di avvocato ottenuto in Romania può essere riconosciuto in Italia, ai fini dell’iscrizione nell’elenco speciale degli avvocati stabiliti, solo se rilasciato dalla Uniunea Nationala a Barourilor din Romania (U.N.B.R.), ovvero l’Ordine tradizionale di Bucarest.

Il principio espresso dal CNF

Nella sentenza, il CNF ha chiarito che il riconoscimento del titolo professionale ai fini dell’esercizio della professione forense in Italia deve avvenire nel rispetto del meccanismo di cooperazione tra i Paesi membri dell’Unione Europea. In questo contesto, è considerata valida esclusivamente l’abilitazione rilasciata dalla U.N.B.R. Ordine tradizionale, designata come autorità competente dalla normativa rumena.

Di conseguenza, il CNF ha respinto l’istanza di sospensione dell’esecutività del provvedimento di cancellazione dall’elenco speciale degli avvocati stabiliti, in quanto il titolo in questione era stato rilasciato dalla U.N.B.R. – Struttura BOTA, organismo non riconosciuto come legittima autorità abilitante per l’accesso alla professione forense in Italia.

Implicazioni della decisione

La pronuncia conferma l’orientamento rigoroso del CNF in materia di riconoscimento dei titoli professionali ottenuti all’estero, ribadendo la necessità di un controllo stringente sulle certificazioni rilasciate dagli enti preposti nei diversi Stati membri dell’UE.

Per gli avvocati stabiliti che desiderano esercitare in Italia con un titolo conseguito in Romania, la decisione del CNF rappresenta un punto fermo: solo i titoli emessi dalla U.N.B.R. tradizionale consentono l’iscrizione all’albo speciale.

sospensione cautelare avvocato

Sospensione cautelare avvocato: ha natura non sanzionatoria Sospensione cautelare avvocato: il CNF fornisce importanti precisazioni sulla natura e sull’applicazione della misura

Sospensione cautelare avvocato

La sospensione cautelare avvocato prevista e disciplinata dall’articolo 60 della legge n. 24772012 non ha natura sanzionatoria. Lo ha ribadito il CNF nella sentenza n. 336/2024, che ha chiarito anche altri aspetti della misura.

La vicenda

Un avvocato viene condannato alla pena della reclusione all’esito di un procedimento penale che lo ha visto imputato per diverse gravi fattispecie in concorso con altri soggetti. L’avvocato viene quindi sottoposto anche a procedimento disciplinare presso il consiglio distrettuale di disciplina, che si conclude con l’irrogazione della sospensione cautelare dall’esercizio della professione per otto mesi.

Sospensione cautelare avvocato eccessiva e dannosa

L’avvocato contesta di fronte al CNF diversi aspetti e presupposti che hanno condotto il CDD ad adottare il provvedimento di sospensione cautelare. Per questo ne chiede l’annullamento in via principale e, in via subordinata, la sua riduzione.

Negata la natura sanzionatoria

Per il CNF però le contestazioni sollevate da ricorrente in relazione alla sospensione cautelare avvocato risultano prive di fondamento, per diverse ragioni.

Sospensione cautelare: diversa la nuova legge

Prima di tutto il CNF ci tiene a ricordare che le SU nella sentenza n. 18984/2017 hanno chiarito che la sospensione cautelare prevista dall’articolo 60 della legge 247/2012 si distingue nettamente da quella disciplinata dall’articolo 43 del R.D.L. 1578/1933. La vecchia normativa prevedeva una misura atipica, applicabile in diverse situazioni che compromettevano l’immagine dell’avvocatura.

La nuova legge, invece, elenca specificamente i casi in cui la sospensione è legittima, eliminando il potere discrezionale. Inoltre, mentre la precedente sospensione era a tempo indeterminato, l’articolo 60 stabilisce un limite massimo di un anno e prevede l’annullamento della sospensione se, entro sei mesi, non viene emesso un provvedimento sanzionatorio. In sostanza, la nuova normativa ha introdotto maggiore certezza e limiti temporali alla sospensione cautelare.

Misura cautelare con finalità preventiva

La misura cautelare di sospensione poi ha lo scopo di prevenire la ripetizione di illeciti legati all’esercizio della professione forense e di proteggere chi potrebbe interagire con un avvocato che ha abusato del suo ruolo per scopi estranei alla difesa. La tutela della fiducia pubblica e dei clienti, insieme alla correttezza dei comportamenti, sono obiettivi fondamentali dell’ordinamento forense, pertanto la sospensione cautelare si affianca alle misure cautelari penali per garantire questi valori.

Procedimento disciplinare non necessario

La difesa del ricorrente ha anche contestato l‘eccessiva durata di otto mesi della sospensione cautelare, data la pendenza del processo penale e il rischio di un danno irreparabile in caso di assoluzione, e lamenta la mancanza di motivazione sulla durata della sospensione.

Tali contestazioni però devono ritenersi infondate, poiché la sospensione cautelare ha una natura e finalità diverse dalla sanzione disciplinare, e la sua legittimità non dipende dall’esito del procedimento penale. Inoltre, l’assenza di motivazione sulla durata della sospensione non invalida la decisione, secondo l’orientamento del Consiglio Nazionale Forense, che richiede solo l’adeguatezza della misura rispetto all’offesa al decoro professionale. Il CNF ha comunque il potere di integrare la motivazione sulla quantificazione della sanzione.

Come precisato inoltre in una precedente sentenza del 2017 la sospensione cautelare, non essendo una sanzione, non richiede l’apertura formale di un procedimento disciplinare, ma decade se non viene comminata una sanzione entro sei mesi. Tuttavia, per essere legittima, l’organo disciplinare deve poter ragionevolmente ipotizzare che il reato contestato o accertato penalmente possa avere rilevanza deontologica, anche considerando l’eventuale prescrizione dell’azione disciplinare. In sostanza, la sospensione cautelare è legata alla potenziale sussistenza di un illecito disciplinare.

Sentenza definitiva non necessaria

Infondata infine anche la doglianza che ritiene necessaria la condanna definitiva in sede penale.

Per applicare la sospensione cautelare all’avvocato. Le SU della Cassazione n. 26148/2017 hanno precisato infatti che l’articolo 60, comma 1, della legge n. 247 del 2012, permette la sospensione cautelare di un avvocato senza attendere una sentenza penale definitiva, quando si verificano situazioni di particolare gravità che danneggiano l’immagine della professione. Questa misura urgente protegge il decoro della classe forense, intervenendo tempestivamente in casi di clamore pubblico, come l’applicazione di misure cautelari penali o condanne in primo grado per reati specifici. In sostanza, la legge privilegia la tutela immediata della reputazione della professione, piuttosto che attendere l’esito finale di un processo.

 

Leggi anche gli altri articoli che si occupano degli illeciti deontologici degli avvocati nella categoria professioni 

sospeso l'avvocato

Sospeso l’avvocato che difende i coniugi e poi assiste uno contro l’altro La Cassazione afferma che va sospeso l'avvocato che rappresenta entrambi i coniugi e poi ne assiste uno contro l'altro in violazione dell'art. 68 CDF

La Cassazione sulla Deontologia Forense

Sospeso l’avvocato che inizialmente rappresenta entrambi i coniugi durante una separazione e successivamente assiste solo uno dei due in procedure legali contro l’altro. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4844/2025 depositata martedì 25 febbraio 2025.

Sospeso l’avvocato per violazione deontologica

La sentenza n. 4844/2025 della Cassazione conclude una procedura avviata da una donna che ha segnalato come l’avvocato attualmente rappresentante del marito in azioni legali contro di lei fosse lo stesso che aveva assistito entrambi durante la separazione.

Il CDD ha sanzionato l’avvocato, ma questi ha contestato la decisione davanti al CNF, che ha comunque confermato la decisione riducendo però la sospensione a un anno.

L’avvocato ha impugnato nuovamente presso la Corte di Cassazione.

L’art. 68 del CDF

La S.C. ha ritenuto legittime le conclusioni del CNF sulla base dei documenti forniti, confermando così l’infrazione disciplinare prevista dall’articolo 68 del Codice deontologico Forense. Tale norma vieta espressamente di accettare incarichi contro una parte già assistita in passato: in particolare, il comma 4 vieta all’avvocato che abbia rappresentato congiuntamente coniugi o conviventi in controversie familiari di assisterne solo uno nei successivi conflitti tra i due.

 

Leggi anche gli altri interessanti articoli dedicati alla deontologia forense

omessa fatturazione compensi

Omessa fatturazione compensi: per l’avvocato illecito permanente Il CNF ribadisce che l’omessa fatturazione di compensi percepiti dall’avvocato costituisce illecito deontologico permanente

Omessa fatturazione di compensi

Il Consiglio Nazionale Forense (CNF), con la sentenza n. 343/2024, pubblicata il 4 marzo 2025 sul sito del Codice Deontologico, ha ribadito un principio in materia di obblighi professionali degli avvocati: l’omessa fatturazione dei compensi percepiti costituisce un illecito deontologico permanente.

La vicenda

Nella vicenda, un avvocato veniva sanzionato dal CDD di Bologna con la sospensione dall’esercizio della professione per 6 mesi per una serie di violazioni disciplinari, tra cui l’aver incassato e trattenuto la somma di 800 euro ricevuta dai clienti per presentare istanza di conversione del pignoramento immobiliare a carico degli stessi.

Il Consiglio di disciplina, ritenendo accertato l’inadempimento del mandato professionale e utilizzo della somma ricevuta in deposito fiduciario, in difformità dall’incarico ricevuto e dall’accordo con i mandanti, sanzionava l’incolpato.

Quest’ultimo, inoltrava tempestiva impugnazione al CNF chiedendo tra l’altro di dichiarare la nullità della decisione per violazione del diritto di difesa (mancata audizione) ovvero abnormità (per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato), dichiarare la prescrizione dell’azione disciplinare, ovvero il suo proscioglimento nel merito.

Il principio sancito dal CNF

In punto di prescrizione dell’azione disciplinare, il CNF dà torto al ricorrente, giacché contrariamente da quanto asserito dallo stesso, la violazione dei doveri deontologici contestati deve essere considerata di carattere permanente secondo i principi espressi in materia dal Consiglio e dalla Suprema corte di Cassazione (cfr., tra le altre, SS.UU., sentenza n. 22463 del 26 luglio 2023).

“L’avvocato ha l’obbligo, sanzionato dagli artt. 16 e 29 codice deontologico (già art. 15 cod. prev.), di emettere fattura tempestivamente e contestualmente alla riscossione dei compensi – ricorda infatti il CNF – restando irrilevante l’eventuale ritardo nell’adempimento in parola, non preso in considerazione dal codice deontologico. In particolare, la violazione di tale obbligo costituisce illecito permanente, sicché la decorrenza del termine prescrizionale ha inizio dalla data della cessazione della condotta omissiva”.

La decisione

Tuttavia, il ricorrente ha ragione sul punto della violazione del diritto di difesa, in quanto non era stato sentito nonostante l’espressa richiesta formulata in tal senso.

Tale censura, per il CNF, merita accoglimento poiché la decisione del CDD è stata assunta “all’esito di un procedimento non regolarmente svoltosi, secondo le fondamentali regole predisposte dalla legge, e senza che all’incolpato sia stato assicurato il pieno esercizio del diritto di difesa”.

Il Consiglio Nazionale Forense accoglie, dunque, il ricorso, dichiarando la nullità del provvedimento impugnato con restituzione degli atti al CDD di Bologna.

strepitus fori

Strepitus fori: pregiudizio a decoro e immagine dell’avvocatura Strepitus fori: condotta penalmente rilevante del singolo avvocato che danneggia il decoro e l’immagine dell’intera avvocatura

Strepitus fori e sospensione cautelare

Lo strepitus fori è il danno all’immagine e al decoro dell’avvocatura che deriva dall’allarme che la vicenda processuale penale del singolo avvocato crea nell’ambiente professionale e nella collettività. Esso è presupposto per l’applicazione della misura cautelare della sospensione prevista e disciplinata dall’art. 60 della legge 247/2012, che contiene la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense. Questo quanto emerge dalla decisione del CNF n. 336/2024 pubblicata il 25 febbraio 2025 sul sito del Codice deontologico.

Condanna penale sui giornali e strepitus fori

Un avvocato viene condannato a sette anni di reclusione perchè ritenuto responsabile della commissione di diversi illeciti penali relativi al reato di bancarotta in concorso con altri soggetti, ai danni di diverse società.

Il giorno successivo, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze trasmette al Consiglio Distrettuale di disciplina forense territorialmente competente copia di due articoli di giornale in cui si evidenziano i fatti e la notizia della condanna. Durante il procedimento disciplinare il difensore dell’avvocato evidenzia come la condanna penale non possa avere ripercussioni negative sull’intera categoria. L’avvocato infatti non è conosciuto a livello nazionale e la notizia non ha avuto rilevanza aldilà dei confini locali.

Il CDD di Firenze ritiene però che lo  strepitoso fori nel caso di specie sia conclamato. La vicenda fin dal suo esordio ha catturato l’attenzione di diverse testate giornalistiche cittadine e l’interesse per la vicenda è riesploso dopo la notizia della condanna. Lo strepitus fori è quindi evidente. Il fatto che nella vicenda penale fosse coinvolto un avvocato ha senz’altro prodotto un vulnus significativo all’immagine e alla considerazione che l’opinione pubblica ha della categoria professionale.

Strepitus fori: definizione e rilevanza

Il provvedimento viene impugnato dall’avvocato di fronte al CNF, chiedendo l’annullamento o la riduzione della sospensione cautelare disposta dal Consiglio Distrettuale di Disciplina.

Nel rigettare il ricorso il CNF ricorda però alcune importanti precisazioni relative allo strepitus fori e alla sanzione della sospensione, contenute nella sentenza n. 33/2021.

In questa decisione il CNF ha puntualizzato in particolare come lo strepitus fori non si possa dimostrare solo con documenti o articoli di giornale. Non basta neppure un provvedimento giudiziario per presumere la sua esistenza. Esso va valutato sia nel contesto professionale, dove gli esperti comprendono la gravità dell’evento, sia nell’opinione pubblica, che si forma sulla diffusione delle notizie, influenzata dalla portata dell’indagine e dall’importanza dei coinvolti. Lo strepitus fori rappresenta nello specifico il danno allimmagine dellOrdine forense causato dalla risonanza di un caso penale.

Esso costituisce un criterio per ladozione di misure cautelari, che possono essere revocate o modificate se non più adeguate (art. 60, comma 5, L. 247/2012). Sebbene non esplicitamente previsto dalla legge, esso è coerente con la tutela della credibilità della professione forense e limita la discrezionalità del Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD).

Il CDD può considerare anche elementi diversi dal clamore mediatico per valutare il danno alla reputazione dell’avvocato e della categoria.

Se poi l’illecito è strettamente legato alla professione, come l’abuso del titolo di avvocato, la sospensione cautelare può prevenire la reiterazione di comportamenti scorretti. Questo protegge chi interagisce con un avvocato che abbia usato il proprio ruolo per scopi estranei alla difesa legale. La tutela dell’affidamento della collettività e della correttezza professionale è un principio fondamentale dell’ordinamento forense (art. 1, comma 2, lett. c, L. 247/2012). La sospensione cautelare affianca la misura penale e contribuisce a garantire questi valori.

Il clamore della notizia

Nel caso esaminato, gli addebiti erano connessi all’attività difensiva e avevano avuto ampia risonanza. Il CDD ha quindi motivato adeguatamente la decisione basandosi sulla diffusione delle notizie e sul clamore della notizia nell’ambiente professionale e nell’opinione pubblica. Il Consiglio Nazionale Forense (CNF) del resto può controllare solo la legittimità formale della sospensione decisa dal CDD, senza entrare nel merito della sua opportunità o delle circostanze di fatto (CNF, sentenza n. 29/2018). Già nella sentenza n. 33/2021, il CNF aveva confermato la correttezza della motivazione del CDD, che aveva rilevato l’attualità e la concretezza del clamore suscitato dalla vicenda. Stesse conclusioni a cui è giunto quindi nel caso di specie.

 

Leggi anche gli altri articoli sulle questioni professionali