modello 5

Modello 5 inviato in ritardo? L’illecito deontologico resta Il CNF chiarisce: l’invio tardivo del Modello 5 revoca la sospensione ma non esclude la responsabilità disciplinare

Modello 5, regolarizzazione non elimina l’illecito

Con le decisioni n. 407, 408 e 409 del 2024, pubblicate il 12 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, il Consiglio Nazionale Forense ha ribadito un principio importante in tema di responsabilità deontologica degli avvocati: l’invio tardivo del Modello 5 alla Cassa Forense non scrimina l’illecito disciplinare, anche se comporta la revoca della sospensione amministrativa.

Il caso: omissione del Modello 5 e difesa in giudizio

Il caso esaminato riguardava un avvocato sanzionato dal Consiglio Distrettuale di Disciplina per omesso invio del Mod. 5. L’incolpato aveva impugnato la decisione davanti al CNF, sostenendo che la propria posizione era stata nel frattempo regolarizzata con Cassa Forense e chiedendo quindi l’estinzione del procedimento per cessazione della materia del contendere.

La decisione del CNF: responsabilità confermata

Il Consiglio Nazionale Forense ha però rigettato l’eccezione difensiva, chiarendo che la regolarizzazione tardiva rileva solo per individuare la data finale di consumazione dell’illecito, ma non comporta l’estinzione del procedimento disciplinare.

Infatti, secondo l’art. 17, comma 5 della legge n. 576/1980 (come modificato dalla legge n. 141/1992), l’omesso invio del Mod. 5 determina la sospensione amministrativa dell’avvocato, sospensione che viene meno una volta trasmesso il modello. Tuttavia, la violazione deontologica si consuma comunque e rimane sanzionabile.

patrocinio infedele

Patrocinio infedele Patrocinio infedele: quando l’avvocato risponde penalmente – guida completa all’art. 380 c.p.

Cos’è il patrocinio infedele

Il reato di patrocinio infedele si configura quando l’avvocato, agendo con dolo, viola consapevolmente i doveri di fedeltà e lealtà nei confronti del proprio assistito, arrecandogli un danno giuridicamente rilevante. Si tratta di una fattispecie che tutela l’integrità del rapporto fiduciario tra difensore e cliente, ponendosi al crocevia tra diritto penale, deontologia forense e responsabilità professionale.

Normativa di riferimento: art. 380 codice penale

Il testo dell’art. 380 c.p. recita: “Il patrocinatore (…) che,  rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516.”

Il legislatore con questa norma intende colpire penalmente le condotte scorrette e sleali del difensore, che tradiscono gli interessi del proprio cliente con comportamenti fraudolenti.

Quando si configura il reato di patrocinio infedele

Il reato si perfeziona quando sussistono due elementi fondamentali:

  • un comportamento sleale o doloso dell’avvocato nell’esercizio dell’attività difensiva o di assistenza;
  • la lesione dei diritti della parte assistita, cagionata da tale comportamento.

Non si tratta di una semplice negligenza o imperizia, ma di una vera e propria infedeltà dolosa, come ad esempio:

  • la mancata presentazione intenzionale a un’udienza rilevante;
  • l’acquiescenza consapevole a provvedimenti sfavorevoli;
  • l’omissione di atti fondamentali per interesse proprio (es. favorire la controparte);
  • la comunicazione fraudolenta di informazioni al cliente, al solo fine di indurlo a rinunciare a un diritto.

Elemento oggettivo del reato

Sul piano oggettivo, il reato di patrocinio infedele richiede:

  • un atto o comportamento attivo od omissivo del difensore;
  • che tale condotta abbia precluso o danneggiato i diritti della parte;
  • che la condotta sia fraudolenta, ossia accompagnata da un elemento di inganno o dissimulazione.

Elemento soggettivo: il dolo specifico

Affinché si configuri il reato è sufficiente la presenza del dolo generico, ovvero  la rappresentazione e la volontà, anche eventuale, delle conseguenze dell’evento.

L’avvocato non risponde penalmente se:

  • agisce in buona fede;
  • commette un errore tecnico con colpa;
  • svolge l’attività con imperizia o superficialità, ma senza volontà fraudolenta.

Il momento consumativo del reato

Il reato si consuma nel momento in cui si materializza la lesione degli interessi del cliente. Non è sufficiente che si realizzi la mera lesione dell’interesse al regolare funzionamento della giustizia.

Procedibilità, competenza e pena

  • Procedibilità: il reato è procedibile d’ufficio.
  • Competenza: spetta al Tribunale in composizione monocratica.
  • Pena prevista: reclusione da uno a tre anni e multa don inferiore a 516,00 euro.

Violazione grave del rapporto fiduciario

Il patrocinio infedele costituisce una delle violazioni più gravi che un avvocato possa commettere nei confronti del proprio cliente. La norma mira a tutelare la fiducia nella funzione difensiva, cardine del giusto processo. La responsabilità penale si affianca a quella disciplinare e civile, e può comportare radiazione dall’albo, sanzioni economiche e pregiudizi irreparabili per la parte lesa.

Giurisprudenza rilevante sul patrocinio infedele

La Cassazione penale è intervenuta più e più volte per chiarire alcuni aspetti importanti del reato.

Cassazione n. 13084/2025: Nell’accertare il reato di infedele patrocinio, il giudice non può limitarsi a esaminare singoli atti isolati. È invece essenziale contestualizzare l’intera attività professionale svolta dall’avvocato, inserendola nella linea difensiva complessiva e nella strategia processuale adottata per raggiungere gli obiettivi del cliente. Questo approccio permette di valutare se il patrocinatore abbia intenzionalmente tradito il suo obbligo di curare gli interessi della parte, in conformità con il mandato ricevuto, le regole professionali e le incombenze processuali.

Cassazione n. 341/2025: il reato di patrocinio infedele ai sensi dell’articolo 380 del Codice Penale non si configura con la sola violazione dei doveri professionali. È infatti necessario che si verifichi un nocumento agli interessi della parte, il quale può manifestarsi come il mancato ottenimento di risultati favorevoli o la creazione di situazioni processuali pregiudizievoli, anche se queste si presentano in una fase intermedia del procedimento, ritardandone o impedendone il prosieguo. Questo nocumento, inteso come conseguenza della violazione dei doveri professionali, costituisce l’evento del reato. Tale evento non è necessariamente un danno patrimoniale in senso civilistico, ma può consistere anche nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, inclusi quelli di natura morale, che sarebbero derivati da un esercizio corretto e leale del patrocinio legale.

Cassazione n. 25766/2023: Il delitto di patrocinio infedele, delineato dall’articolo 380 del Codice Penale, si perfeziona nel momento in cui il professionista compie un’azione o un’omissione che, oltre a rappresentare un’infedeltà ai suoi doveri professionali, risulta capace di arrecare un nocumento agli interessi della parte che sta rappresentando, assistendo o difendendo.

Leggi anche: La responsabilità professionale dell’avvocato

dolo o colpa grave

Avvocati responsabili solo per dolo o colpa grave Approvata in Commissione Giustizia al Senato, la proposta di legge n. 745 che intende limitare la responsabilità civile degli avvocati: ora si attende la discussione in Aula

Responsabilità avvocati: la proposta di legge

Gli avvocati potrebbero presto rispondere civilmente solo in caso di dolo o colpa grave. È quanto prevede la proposta di legge n. 745, che ha ricevuto nei giorni scorsi il via libera dalla Commissione Giustizia del Senato e che ora attende la calendarizzazione in Aula, con possibile discussione prima della pausa estiva.

Il testo, presentato due anni fa dal senatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e sostenuto dall’associazione Italia Stato di diritto, mira a modificare la legge professionale forense (legge n. 247/2012), introducendo un principio di limitazione della responsabilità degli avvocati che li equiparerebbe, almeno sotto questo profilo, ai magistrati.

Responsabilità ridotta come per i magistrati

Il cuore della proposta consiste nell’escludere la responsabilità civile dell’avvocato per colpa lieve e nelle ipotesi di errore interpretativo di norme, prevedendo invece la possibilità di azione risarcitoria solo nei casi di dolo o colpa grave.

Un modello ispirato alla disciplina già vigente per i magistrati, contenuta nella legge n. 117/1988, che consente di agire per danni solo in presenza di dolo o colpa grave, escludendo espressamente la responsabilità per l’attività interpretativa o valutativa. L’obiettivo dichiarato è dunque quello di riconoscere agli avvocati una tutela simile a quella dei giudici, considerando la complessità e l’alto rischio interpretativo insito nell’attività forense.

La normativa attuale

Attualmente, la legge 247/2012 non contiene disposizioni esplicite sulla responsabilità civile degli avvocati, lasciando il tema alla giurisprudenza, che ha delineato negli anni un quadro fondato sull’obbligo di diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c. L’avvocato, in quanto professionista, è tenuto a un comportamento conforme allo standard medio della categoria, con possibilità di risarcimento del danno anche per colpa lieve.

La proposta in esame andrebbe dunque a introdurre un limite normativo esplicito, riducendo sensibilmente il rischio di azioni giudiziarie contro i legali per scelte professionali non viziate da dolo o grave negligenza.

Le ragioni della riforma

Nella relazione illustrativa allegata al disegno di legge si sottolinea l’esigenza di garantire agli avvocati un margine di autonomia e sicurezza operativa, anche in funzione del ruolo costituzionalmente riconosciuto della difesa.

Viene segnalato, infatti, un aumento delle azioni civili promosse da clienti contro i propri legali, anche in relazione a decisioni processuali negative, come l’inammissibilità di ricorsi in Cassazione. In assenza di una tutela normativa specifica, il rischio è che l’avvocato si trovi esposto a responsabilità anche per scelte interpretative o strategiche ragionevoli, con effetti paralizzanti sulla libertà e indipendenza del mandato difensivo.

comunicazioni tra avvocati

Comunicazioni tra avvocati: vanno trasmesse all’autorità Il CNF chiarisce che le comunicazioni tra colleghi possono essere trasmesse se richieste nell’ambito di indagini penali. Obbligo deontologico cede di fronte all’autorità giudiziaria

Comunicazioni tra avvocati e consegna autorità

Comunicazioni tra avvocati: il Consiglio nazionale forense, con parere n. 23 del 12 maggio 2025, pubblicato il 3 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, ha fornito chiarimenti rilevanti in materia di corrispondenza tra avvocati e obblighi deontologici, rispondendo a un quesito posto dal COA di Benevento. 

Il quesito

La questione riguardava la possibilità di trasmettere le comunicazioni intercorse tra legali, a seguito di una richiesta formale da parte dei Carabinieri, delegati all’attività di indagine, nell’ambito di un procedimento penale avviato per fatti oggetto della predetta corrispondenza.

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, pertanto, chiedeva delucidazioni al CNF.

Deontologia e collaborazione con l’autorità

Secondo il parere del CNF, la presenza di una richiesta esplicita proveniente dall’autorità investigativa, in questo caso i Carabinieri delegati all’indagine su fatti oggetto della corrispondenza, “prevale sull’obbligo deontologico e l’avvocato – anche per sottrarsi a eventuali conseguenze penali della mancata collaborazione – è tenuto a consegnare la corrispondenza”.

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incarichi extra-forensi

Avvocati e incarichi extra-forensi: i “paletti” del CNF Il CNF chiarisce che gli incarichi extra-forensi, ad esempio in associazioni culturali, sono compatibili con la professione, purché nel rispetto delle regole deontologiche

Avvocati e incarichi extra-forensi: compatibilità

Incarichi extra-forensi: il Consiglio nazionale forense, con il parere n. 6 del 13 marzo 2025, pubblicato il 26 maggio sul sito dedicato al Codice deontologico, ha chiarito la compatibilità tra l’esercizio della professione forense e lo svolgimento dell’incarico di Segretario di un’associazione non riconosciuta e senza scopo di lucro, operante nei settori della sicurezza, intelligence, cyber e intelligenza artificiale.

Il quesito del COA di Ferrara

Il quesito è stato posto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Ferrara, che ha chiesto se la partecipazione attiva in un’associazione scientifico-culturale, priva di fini commerciali, potesse ritenersi compatibile con l’attività forense. L’associazione oggetto del quesito prevede tra i compiti del Segretario, oltre alle funzioni ordinarie (verbalizzazione, gestione dei libri sociali, archivio e relazioni interne), anche rapporti informativi con soggetti esterni, cura del sito web e organizzazione di eventi coerenti con gli scopi statutari.

Nessuna incompatibilità secondo l’art. 18 l. 247/2012

Il CNF ha risposto positivamente, ritenendo che la situazione descritta non integri una causa di incompatibilità ai sensi dell’art. 18 della legge n. 247/2012, che disciplina le attività non compatibili con l’esercizio della professione forense. In particolare, l’attività indicata può rientrare tra quelle culturali, espressamente escluse dal divieto di incompatibilità dalla lettera a) dell’articolo 18 della legge professionale.

Rispettare comunque i canoni deontologici

Tuttavia, il Consiglio nazionale ha richiamato l’attenzione su un punto fondamentale: anche se l’attività svolta in ambito associativo non è qualificabile come esercizio della professione, l’avvocato è comunque tenuto a rispettare i principi deontologici, evitando condotte che possano configurare pubblicità professionale non conforme o forme di accaparramento di clientela. In altri termini, la partecipazione all’associazione – e le modalità con cui essa viene resa nota – non devono trasformarsi in un mezzo indiretto per promuovere la propria attività professionale in violazione del Codice deontologico.

conflitto d'interessi avvocati

Conflitto d’interessi avvocati: il CNF impone limite di 2 anni Il Consiglio Nazionale Forense si esprime sul conflitto d'interessi avvocati, in ordine all'incarico contro il cliente di un collega di studio

Incarico contro il cliente di un collega di studio

Conflitto d’interessi avvocati: con la sentenza n. 375/2024, pubblicata il 21 aprile 2025 sul sito del Codice Deontologico, il Consiglio Nazionale Forense ha ribadito un importante principio in materia di conflitto di interessi e di doveri deontologici tra colleghi di studio legale, delineando con chiarezza il perimetro entro cui è legittima l’assunzione di un incarico professionale contro una parte precedentemente assistita da un collega di studio.

Il principio stabilito dal CNF

La decisione si fonda sul combinato disposto di due disposizioni del Codice Deontologico Forense:

  • Art. 24, comma 4 – “Conflitto di interessi”: l’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando vi è conflitto con l’interesse di una parte precedentemente assistita, anche da un collega con cui collabori stabilmente;

  • Art. 68, comma 1 – “Assunzione di incarichi contro una parte già assistita”: è vietato all’avvocato accettare incarichi contro una parte già assistita, salvo che siano trascorsi almeno due anni dalla cessazione del rapporto professionale.

Secondo il CNF, l’avvocato può assumere un incarico contro un ex cliente del Collega di Studio solo quando siano trascorsi almeno due anni dalla cessazione dell’incarico professionale da parte del collega, sempre che vi sia stata una collaborazione non occasionale tra i due.

Il caso concreto esaminato

Nel caso sottoposto al Consiglio, un avvocato aveva accettato un mandato professionale in un procedimento giudiziale contro una parte precedentemente assistita da un altro avvocato dello stesso studio legale, con il quale intratteneva rapporti professionali stabili e continuativi. Il rapporto tra il collega e l’ex assistito si era concluso da meno di due anni.

Il comportamento è stato qualificato come illecito deontologico, configurando una violazione tanto dell’art. 24 quanto dell’art. 68 cdf, in quanto:

  • il legame tra i due professionisti era qualificabile come collaborazione non occasionale;

  • l’intervallo temporale tra la cessazione dell’assistenza prestata dal collega e il nuovo incarico non raggiungeva il biennio richiesto.

Le motivazioni della decisione

La ratio della pronuncia è fondata sulla necessità di tutelare l’affidamento della parte assistita e di preservare la riservatezza delle informazioni conosciute all’interno del medesimo studio o ambito professionale collaborativo.

Il CNF ha richiamato la funzione essenziale del principio di lealtà e fiducia che caratterizza il mandato tra cliente e avvocato e ha sottolineato come tale fiducia non si esaurisce con la cessazione dell’incarico, ma permane per un tempo sufficiente a impedire abusi o indebiti vantaggi derivanti da informazioni acquisite in ambito professionale.

Inoltre, il Consiglio ha precisato che la previsione del termine biennale mira proprio a “cristallizzare” un limite temporale certo, utile ad evitare ambiguità e condotte che potrebbero compromettere l’etica della professione forense.

difensori d'ufficio

Difensori d’ufficio: lo Stato paga anche il recupero crediti La Cassazione riconosce il diritto al rimborso delle spese di recupero crediti per i difensori d’ufficio: lo Stato deve coprire anche questi costi

Difensori d’ufficio e costi recupero credito

Difensori d’ufficio: la Cassazione, con ordinanza n. 14179/2025, ha affermato che lo Stato è tenuto a rimborsare anche le spese sostenute dall’avvocato d’ufficio per l’attività di recupero del credito. A condizione che tali spese siano documentate e riconducibili alla procedura avviata per ottenere il pagamento del compenso professionale. Resta invece legittima la compensazione delle spese se la domanda è articolata in più capi e il ricorrente risulti soccombente in uno di questi.

La vicenda

La controversia trae origine dal ricorso di un avvocato avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano che, pur riconoscendo il compenso per l’attività svolta come difensore d’ufficio in un procedimento penale, aveva escluso il rimborso delle spese connesse alla fase di recupero del credito.

Il legale aveva adito il Palazzaccio, censurando la decisione del Tribunale e sostenendo che quest’ultimo avesse erroneamente escluso l’esistenza di spese vive, in quanto l’attività di recupero era stata svolta in proprio e ritenuta priva di oneri fiscali e tributari.

Il principio espresso dalla Cassazione

Accogliendo il primo motivo del ricorso, la seconda sezione civile della S.C. ha ritenuto che il Tribunale si fosse discostato dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il difensore d’ufficio non può essere gravato delle spese necessarie al recupero del proprio credito. Tali costi, infatti, rientrano tra quelli che devono essere rimborsati dall’Erario, poiché connessi all’attività difensiva svolta nell’interesse del soggetto assistito.

Difensori d’ufficio e compensazione delle spese

È stato invece respinto il secondo motivo di ricorso, volto a contestare la compensazione delle spese disposta dal Tribunale. La Corte ha precisato che, nel caso in esame, la domanda era strutturata in due capi distinti. Uno relativo al pagamento del compenso professionale, l’altro al rimborso delle spese sostenute per ottenerne il riconoscimento. Pertanto, avendo il ricorrente ottenuto accoglimento solo parziale, la decisione di compensare le spese è da ritenersi conforme ai principi processuali vigenti. Non in contrasto, dunque, con la pronuncia delle Sezioni unite n. 32061/2022, invocata dal ricorrente.

L’esito del giudizio

Nel merito, la Cassazione ha quindi cassato l’ordinanza impugnata e liquidato in favore del ricorrente la somma di 500 euro a titolo di rimborso per le spese di recupero del credito, condannando al versamento il ministero della Giustizia, confermando, tuttavia, la compensazione delle spese.

Allegati

legittimità costituzionale

Il CNF può sollevare questioni di legittimità costituzionale Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che il Consiglio Nazionale Forense può sollevare questioni di legittimità costituzionale

Questioni di legittimità costituzionale

Con la sentenza n. 13376/2025, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno affrontato un rilevante quesito interpretativo di carattere istituzionale e processuale, stabilendo che il Consiglio nazionale forense (CNF) è legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale, in quanto rientra tra i giudici speciali previsti dall’art. 134 della Costituzione e dall’ordinamento giudiziario.

Il contesto del giudizio

La pronuncia trae origine da un ricorso per cassazione proposto da un avvocato avverso una decisione del CNF in sede disciplinare. La questione preliminare che si è posta alla Corte ha riguardato la legittimazione del CNF a sollevare q.l.c. davanti alla Corte costituzionale, in un procedimento nel quale era stato messo in discussione un profilo di compatibilità costituzionale di norme che incidono sull’ordinamento forense.

Le motivazioni delle Sezioni Unite

La Corte ha ricostruito il ruolo e la natura del CNF, osservando che, sebbene questo sia un organo amministrativo dotato di autonomia ordinamentale, esercita anche funzioni giurisdizionali in materia disciplinare nei confronti degli avvocati, secondo quanto previsto dalla legge n. 247/2012 e dal Codice deontologico forense.

Richiamando i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, le Sezioni Unite hanno ribadito che per poter sollevare una questione di legittimità costituzionale è necessario che l’organo:

  • eserciti una funzione giurisdizionale, ossia sia chiamato a risolvere una controversia in contraddittorio tra le parti;

  • sia terzo e imparziale;

  • sia istituito per legge;

  • decida con effetti vincolanti, anche se in ambito settoriale o specialistico.

Il Consiglio nazionale forense, nell’ambito dei procedimenti disciplinari, soddisfa tutti questi requisiti: è istituito per legge, esercita una funzione giurisdizionale, le sue decisioni sono vincolanti, e adotta provvedimenti in contraddittorio con le parti, con piena terzietà rispetto al procedimento.

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Formweb

Formweb, il portale per gli avvocati Processo amministrativo telematico: arriva Formweb, il portale per gli avvocati e i collaboratori per il deposito degli atti

Processo amministrativo telematico: Formweb

Il processo amministrativo telematico compie un altro passo in avanti. È stato introdotto infatti il “Formweb”, un nuovo portale, il cui funzionamento è stato dettagliato nel decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 109, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 15 maggio 2025.

Il decreto è in vigore dal 20 maggio 2025 e dal 1° giugno 2025 sarà possibile accedere al fascicolo informatico con identità digitale.

In alcuni uffici inizierà una fase sperimentale del Formweb. Il suo impiego a regime diventerà obbligatorio dal 1° febbraio 2026 per il deposito degli atti.

Fino al 31 gennaio 2026, presso tutti i Tribunali amministrativi regionali e il Consiglio di Stato, continueranno pertanto a valere le vecchie regole di deposito, ossia a mezzo PEC e con upload.

Formweb: come funziona

Formweb consiste, nello specifico, in un’interfaccia web per il deposito guidato di atti e documenti. Esso genera un “Riepilogo Deposito Formweb” da sottoscrivere digitalmente.

I depositi sono tempestivi e vengono documentati con la ricevuta automatica del portale che deve essere generata entro le 24 del giorno di scadenza.

PAT: accesso a Formweb e responsabilità

Avvocati, parti e collaboratori dei difensori potranno accedere al portale Formweb. L’accesso dovrà avvenire tramite identità digitale (SPID, CIE, CNS). Da segnalare l’importante novità rappresentata dall’estensione ai collaboratori. La responsabilità esclusiva per i depositi resta però del difensore.

Depositi cartacei: come funziona

Il deposito cartaceo sarà ancora consentito, ma solo per eccezionali ragioni tecniche come il malfunzionamento del sistema informatico, l’incompatibilità dei documento con il SIGA e casi particolari previsti dalla normativa. Non costituiscono eccezione però le dimensioni dei documenti per l’upload, a meno che il file non possa essere diviso o compresso.

Evoluzione del processo amministrativo telematico

Il processo amministrativo è telematico dal 2017. Con Formweb si fa un ulteriore passo in avanti nel superare il sistema PEC e upload. Il nuovo portale presenterà l’indubbio vantaggio di semplificare gli adempimenti, in base all’obiettivo espresso dal nostro legislatore.

procedimento disciplinare

Avvocati: ok cancellazione durante il procedimento disciplinare La Consulta dichiara incostituzionale il divieto di cancellazione dall'albo degli avvocati durante il procedimento disciplinare

Cancellazione avvocati procedimento disciplinare

Con la sentenza n. 70 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nella legge professionale forense che vieta all’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare di richiedere la cancellazione dall’albo professionale.

Libertà professionale e autodeterminazione

La questione è sorta nell’ambito di un giudizio dinanzi alle Sezioni unite della Cassazione, relativo al rigetto da parte del Consiglio dell’Ordine dell’istanza di cancellazione presentata da un avvocato affetto da gravi patologie, per via della pendenza di più procedimenti disciplinari a suo carico.

La Corte ha chiarito che il divieto di cancellazione, pur finalizzato a impedire che la rinuncia all’iscrizione possa neutralizzare l’efficacia dell’azione disciplinare, comprime in modo eccessivo diritti costituzionali fondamentali:

  • la libertà di autodeterminazione (art. 2 Cost.),

  • il diritto al lavoro e alla sua cessazione o trasformazione (art. 4 Cost.),

  • e il principio di proporzionalità (art. 3 Cost.).

In particolare, la norma ostacola la possibilità di accedere a prestazioni previdenziali o assistenziali che richiedono la cancellazione, e limita la libertà di avviare una diversa attività lavorativa non compatibile con la permanenza nell’albo.

Nessuna giustificazione per la compressione dei diritti

La Consulta ha ritenuto che, pur essendo legittimo l’obiettivo di garantire l’azione disciplinare, questo può essere perseguito attraverso strumenti meno invasivi. L’attuale disposizione non è la misura meno restrittiva dei diritti fondamentali e, pertanto, viola il principio di ragionevolezza e proporzionalità.

Effetti della pronuncia e ruolo del legislatore

La sentenza chiarisce che, in assenza di una disciplina sostitutiva, la cancellazione volontaria in pendenza di procedimento determina l’estinzione dello stesso. Tuttavia, l’azione disciplinare potrà essere riattivata in caso di richiesta di reiscrizione, purché non prescritta.

La Corte invita infine il legislatore a intervenire con una nuova norma che, pur salvaguardando l’efficacia dell’azione disciplinare, rispetti i diritti fondamentali dell’avvocato in linea con i parametri costituzionali.