misure interdittive

Le misure interdittive Le misure interdittive: definizione, normativa di riferimento, durata e giurisprudenza della Cassazione

Cosa sono le misure interdittive?

Le misure interdittive rappresentano una categoria di misure cautelari personali applicate in ambito penale per impedire a un soggetto di svolgere determinate attività quando sussistono gravi indizi di reato. Si tratta di restrizioni che limitano temporaneamente i diritti dell’indagato o dell’imputato, senza comportare la detenzione, ma incidendo sulla sua attività professionale o sulla sua capacità di esercitare funzioni pubbliche.

Le misure interdittive sono provvedimenti restrittivi adottati dal giudice su richiesta del pubblico ministero per impedire a una persona di continuare a esercitare determinati ruoli, incarichi o attività professionali che potrebbero facilitare la commissione di nuovi reati o l’inquinamento delle prove.

Queste misure vengono applicate quando si ritiene che la libertà d’azione dell’indagato possa compromettere l’esito delle indagini o rappresentare un pericolo per la collettività.

Le misure interdittive si distinguono dalle misure coercitive (come la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari) perché non incidono direttamente sulla libertà personale, ma limitano specifiche facoltà dell’indagato.

Quali sono le misure interdittive?

Le principali misure interdittive previste dall’art. 290 del Codice di Procedura Penale (CPP) sono:

  • Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio
    • Si applica a funzionari pubblici e impedisce loro di esercitare temporaneamente il proprio incarico.
    • È utilizzata in caso di reati contro la pubblica amministrazione (es. corruzione, abuso d’ufficio).
  • Sospensione dall’esercizio di una professione o arte
    • Impedisce all’indagato di esercitare la propria attività professionale (es. medici, avvocati, ingegneri) per il periodo stabilito dal giudice.
    • Applicata quando vi è il rischio che l’indagato possa reiterare il reato nell’ambito della sua professione.
  • Divieto temporaneo di contrattare con la Pubblica Amministrazione
    • Esclude un’azienda o un professionista dalla possibilità di stipulare contratti con enti pubblici.
    • Spesso adottata in casi di turbativa d’asta o frode negli appalti.
  • Interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese
    • Impedisce a un soggetto di ricoprire ruoli dirigenziali in aziende o enti per un periodo determinato.
    • Applicata nei reati societari o finanziari (es. bancarotta fraudolenta).
  • Sospensione temporanea dell’esercizio di attività imprenditoriale
    • Vieta all’indagato di gestire o dirigere un’attività economica, soprattutto in caso di reati economici o fallimentari.
  • Divieto di esercitare determinate funzioni o attività professionali
    • Impone una restrizione parziale nell’ambito lavorativo, consentendo all’indagato di continuare a lavorare con limiti imposti dal giudice.

Normativa di riferimento

Le misure interdittive trovano fondamento in diversi articoli del Codice di Procedura Penale e del Codice Penale, tra cui:

  • Art. 287 CPP – Definisce le condizioni per l’applicazione delle misure interdittive.
  • Art. 289 CPP – Regola la sospensione dall’esercizio di una professione o arte.
  • Art. 290 CPP – regola il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali o professionali

Le misure interdittive possono essere adottate in fase cautelare (durante il processo) o come sanzioni accessorie in caso di condanna definitiva.

Quanto durano le misure interdittive?

La durata delle misure interdittive varia in base alla gravità del reato e al tipo di provvedimento adottato

La norma di riferimento è l’articolo 308 c.p.p. il comma 2 in particolare stabilisce un termine generale di 12 mesi. Scaduto il termine le stesse perdono efficacia, ma se sussistono esigenze probatorie le stesse possono essere rinnovate.

L’estinzione delle misure interdittive comunque, in base a quanto previsto dal comma 3 dell’articolo 308 c.p.p, non pregiudica il potere del giudice di applicare le pene accessorie (art. 28-37 cp) o altre misure interdittive.

Il soggetto colpito da una misura interdittiva può impugnare il provvedimento davanti al Tribunale del Riesame per chiederne la revoca o la modifica.

Giurisprudenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito l’importanza delle misure interdittive nel prevenire la reiterazione del reato e proteggere l’interesse pubblico.

Cassazione n. 39752/2021: la legge, quando parla di “professioni” che possono essere sospese, non si riferisce unicamente a quelle che richiedono un’iscrizione a un albo, un permesso specifico o un’autorizzazione da parte delle autorità. In altre parole, anche se una persona non è iscritta a un albo professionale, la misura della sospensione dall’esercizio di una professione può comunque essere applicata. 

Cassazione n. 10940/2017:  È illegale applicare la misura cautelare della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio a chi ricopre una carica elettiva ottenuta direttamente dal voto popolare. Questo divieto è espressamente stabilito dall’articolo 289, comma terzo, del codice di procedura penale.

Cassazione n. 42588/2011: per decidere se applicare una misura interdittiva (come la sospensione temporanea dall’esercizio della professione a un medico accusato di omicidio colposo), il giudice deve analizzare attentamente come è stato commesso il reato e valutare la personalità dell’accusato basandosi sui criteri indicati nell’articolo 133 del codice penale. È fondamentale considerare anche il livello di colpa, valutando quanto la condotta del medico si sia discostata dalle regole di prudenza violate, quanto l’evento fosse evitabile e quanto fosse ragionevole aspettarsi che il medico seguisse la condotta corretta.

 

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reato di cattiva conservazione

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio anche senza danno La Cassazione ribadisce che è sufficiente la potenziale pericolosità di prodotto per integrare il reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio per la salute, anche senza danno concreto. In ambito alimentare, infatti, la semplice potenziale pericolosità di un prodotto è sufficiente a configurare il reato anche in assenza di danni effettivi ai consumatori. È quanto ha ribadito la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13826/2025, confermando la condanna nei confronti del titolare di una macelleria all’interno di un supermercato per la vendita di carni e salumi conservati in ambienti igienicamente inadeguati.

Quando si configura il reato ex art. 5 l. 283/1962

Secondo quanto previsto dall’articolo 5, lettere b) e d), della legge n. 283/1962, rammentano innanzitutto dal Palazzaccio, la violazione si concretizza quando gli alimenti risultano:

  • in cattivo stato di conservazione;

  • alterati o insudiciati;

  • non conformi alle norme igienico-sanitarie stabilite dalla legge.

Non è necessario che il prodotto abbia causato un danno alla salute del consumatore. È sufficiente che si accerti la propensione oggettiva dell’alimento a costituire un pericolo, in virtù del suo deterioramento o della sua contaminazione.

Il principio espresso dalla Cassazione

I giudici di legittimità hanno chiarito che ciò che rileva ai fini della responsabilità penale è l’assenza delle condizioni igieniche minime richieste per la sicurezza del prodotto alimentare.

La tracciabilità carente, la mancata adozione di misure preventive, o anche il non rispetto delle norme di comune esperienza in materia di conservazione, sono elementi sufficienti a configurare il reato.

Allegati

domiciliari al padre

Domiciliari al padre se la madre non c’è La Consulta conferma l'ammissione dei domiciliari per il padre condannato se la madre è deceduta o non può occuparsi dei figli

Domiciliari al padre condannato

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 52/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di concessione dei domiciliari al padre condannato quando la madre è assente o inidonea, anche se i minori potrebbero essere affidati a terzi.

Secondo la Consulta, negare al genitore padre la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare in presenza di figli minori – solo perché questi possono essere assistiti da altre persone – lede l’interesse del minore a mantenere una relazione stabile con almeno uno dei genitori. Questo principio è stato affermato nella sentenza n. 52 del 2025, a seguito di ordinanze di rimessione emesse dai Tribunali di sorveglianza di Bologna e Venezia.

I casi esaminati

Nel primo procedimento, un detenuto aveva chiesto il beneficio della detenzione domiciliare per accudire i propri figli minori, temporaneamente assistiti dalla sorella maggiore. Nel secondo, la richiesta proveniva da un padre con un figlio affetto da grave disabilità, la cui assistenza era interamente affidata alla madre.

La norma in questione e la decisione della Corte

La disciplina prevista dall’articolo 47-quinquies della legge sull’ordinamento penitenziario consente alla madre condannata di accedere alla detenzione domiciliare anche se il padre è disponibile ad occuparsi dei figli. Al contrario, al padre condannato tale possibilità è concessa solo se la madre è deceduta, irreperibile o completamente inidonea, e non vi siano altri soggetti disponibili all’affidamento.

Questa asimmetria normativa è stata oggetto di censura da parte dei giudici rimettenti, che ne hanno rilevato il potenziale contrasto con:

  • l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza),

  • l’articolo 30 (diritti e doveri dei genitori),

  • l’interesse superiore del minore sancito anche a livello internazionale.

La Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza storica e sociale della protezione della maternità (ex art. 31 Cost.), ha dichiarato non irragionevole il trattamento differenziato previsto per la madre detenuta, in quanto coerente con le finalità di tutela del rapporto madre-figlio nei primi anni di vita. Tuttavia, ha ritenuto illegittimo limitare l’accesso alla misura per il padre nei casi in cui la madre non sia più in grado di garantire l’accudimento dei figli e vi sia un interesse concreto del minore a convivere con il padre.

Equilibrio tra esecuzione pena e tutela del minore

La Consulta ha sottolineato che la priorità resta sempre l’interesse del minore, anche rispetto alla funzione punitiva dello Stato. Pertanto, l’automatica esclusione del padre detenuto dalla possibilità di accedere alla detenzione domiciliare, solo perché i figli possono essere affidati a terzi, non può prevalere sull’esigenza di assicurare continuità nel legame familiare.

Resta fermo che il Tribunale di sorveglianza dovrà verificare, caso per caso:

  • l’assenza di pericolo di recidiva,

  • la reale idoneità del genitore a prendersi cura dei figli,

  • l’effettivo vantaggio che la convivenza potrebbe garantire al benessere psicofisico del minore.

reato di incendio

Il reato di incendio Reato di incendio (art. 423 c.p.): disciplina, fattispecie, profili sanzionatori e giurisprudenza

Reato di incendio art. 423 c.p. 

Il reato di incendio è disciplinato dall’articolo 423 del Codice penale, collocato all’interno del Titolo VI, Capo I, dedicato ai delitti contro la pubblica incolumità. La norma punisce con la pena della reclusione da tre a 7 anni chiunque cagioni un incendio e anche quando l’incendio riguardi una cosa propria del soggetto agente, se dal fatto deriva un pericolo per la pubblica incolumità

L’incendio presuppone un fuoco di ampie dimensioni, che tende a diffondersi e che sia difficile da spegnere,

Differenza tra incendio doloso e colposo

L’incendio doloso richiede il dolo, ossia la volontà dell’agente di causare l’incendio e di accettarne le conseguenze.  In tal caso, il soggetto è punibile ai sensi dell’art. 423 c.p. (dolo generico); 423 bis comma 1 (incendio boschivo doloso);.

L’incendio colposo è disciplinato da diverse norme:

art. 423 bis c.p comma 2: incendio boschivo colposo;

dall’art. 449 c.p., che prevede pene meno gravi. La condotta infatti è punita con la reclusione da uno a cinque  anniAnche in questa forma colposa il reato si configura solo se l’incendio è tale da costituire pericolo per l’incolumità pubblica.

Normativa di riferimento

  • Art. 423 c.p.: incendio;
  • Art 424 bis c.p. incendio boschivo;
  • Art. 424 c.p.: danneggiamento seguito da incendio;
  • Art. 449 c.p.: delitti colposi di danni tra cui figura l’incendio.

Elementi costitutivi del reato di incendio

Per la configurazione del reato ex art. 423 c.p. occorrono:

  • Condotta attiva: accensione del fuoco su cose proprie o altrui;
  • Pericolo concreato o astratto;
  • Nesso causale tra condotta e pericolo;
  • Elemento soggettivo: dolo generico;
  • Pericolo per la pubblica incolumità: anche potenziale.

Pena prevista

Il delitto di incendio, ai sensi dell’art. 423 c.p., è punito con:

  • la reclusione da tre a sette anni.

Se dall’incendio deriva un danno grave a  edifici pubblici, navi, edifici abitati, monumenti, cimiteri, navi, cantieri, ecc. trovano applicazione le aggravanti dell’art. 425 c.p., che comportano un aumento di pena.

Aspetti procedurali

  • Procedibilità d’ufficio.
  • Competenza del tribunale in composizione monocratica.

Giurisprudenza sul reato di incendio

La giurisprudenza ha è intervenuta in diverse occasioni per specificar gli aspetti più importanti del reato di incendio.

Cassazione n. 8598/2024: la sentenza distingue tra la definizione comune di incendio e la definizione giuridica del reato di incendio boschivo (art. 423-bis c.p.).

  • L’incendio comune si verifica solo quando il fuoco divampa in modo incontrollabile e su vasta scala, con fiamme distruttive che si propagano e mettono in pericolo un numero indeterminato di persone.
  • L’incendio boschivo (art. 423-bis c.p.): è un reato di pericolo presunto. Non è necessario che l’incendio si sviluppi completamente con le caratteristiche descritte sopra. È sufficiente che il fuoco appiccato abbia la potenzialità di diventare un incendio, manifestando la tendenza a diffondersi, la difficoltà di essere spento e la possibilità di creare pericolo per la pubblica incolumità.

Cassazione n. 5527/2024: ciò che distingue il reato di incendio doloso (art. 423 c.p.) dal reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) è l’elemento psicologico dell’autore.

  • L’incendio doloso (art. 423 c.p.) richiede il dolo generico, ovvero la volontà di causare un evento con fiamme che, per la loro natura e intensità, sono inclini a propagarsi incontrollabilmente, generando un reale pericolo per la sicurezza pubblica. L’obiettivo primario dell’agente è provocare un incendio con queste caratteristiche.
  • Il danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.): è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare una cosa altrui. L’intenzione principale dell’agente è quella di deteriorare o distruggere un bene appartenente ad altri, l’incendio è un risultato secondario, seppur prevedibile.

Rilevanza pratica e considerazioni conclusive

Il reato di incendio è di particolare rilevanza nei contesti urbani e rurali, soprattutto nei periodi di emergenza ambientale o in presenza di fenomeni di vandalismo. La sua disciplina mira a tutelare la sicurezza collettiva e a prevenire disastri con effetti potenzialmente estesi e incontrollabili.

In ambito processuale e difensivo, è fondamentale valutare con attenzione:

  • la natura del fuoco (incendio o semplice combustione),
  • l’intenzionalità della condotta,
  • l’esistenza del pericolo concreto per la collettività,
  • eventuali fattori di rischio connessi (uso di sostanze acceleranti, contesto di luogo e tempo).

 

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giurista risponde

Il dolo nel reato di incendio Quali sono i criteri per accertare il dolo nel reato di incendio, distinguendo tra dolo generico e dolo specifico, e quale rilevanza assume tale distinzione nella qualificazione giuridica del fatto?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Per accertare il dolo nel reato di incendio, si seguono criteri indiziari basati su circostanze esteriori che rivelano l’atteggiamento interiore dell’agente. Il dolo generico implica la volontà di cagionare un incendio con caratteristiche tali da creare un pericolo per la pubblica incolumità, mentre il dolo specifico consiste nell’uso del fuoco esclusivamente per danneggiare un bene altrui.

La distinzione è rilevante per qualificare il fatto come incendio doloso (art. 423 c.p.) o danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.), in base alla volontà dell’autore e all’entità dell’evento (Cass., sez. I, 12 settembre 2024, n. 45886).

Nel caso di specie, gli imputati erano accusati di aver causato un incendio doloso utilizzando liquido infiammabile cosparso su automezzi parcheggiati in prossimità di abitazioni.

La Corte d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio doloso (art. 423 c.p.), rilevando la presenza del dolo generico. La Cassazione ha confermato tale qualificazione affermando che il dolo, quale elemento soggettivo del reato, deve essere ricostruito attraverso un ragionamento indiziario, valutando indicatori fattuali capaci di sostenere la rappresentazione e la volontà dell’autore di realizzare il fatto illecito. La Suprema Corte ha confermato quanto stabilito da Cass., sez. I, 23 giugno 2021, n. 4985 evidenziando che, nel reato di incendio di cui all’art. 423 c.p., il dolo è generico e si configura quando l’agente ha la volontà di cagionare una combustione tale da provocare un concreto pericolo per la pubblica incolumità. Diversamente, nel caso del danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 c.p., è richiesto il dolo specifico, ovvero l’intenzione di danneggiare un bene altrui mediante l’uso del fuoco, senza la previsione o la volontà di generare un incendio (così anche Cass., sez. I, 3 novembre 2020, n.32566).

La Cassazione nel caso in questione ha chiarito ex professo che se l’agente, oltre ad avere l’intenzione di danneggiare, agisce con la consapevolezza e l’accettazione del rischio di provocare un incendio di dimensioni tali da assumere le caratteristiche di un fuoco di non lievi proporzioni, si configura il delitto di incendio, anche se il dolo è eventuale (così anche Cass., sez. I, 11 febbraio 2013, n. 16612).

Nella decisione de qua, la Suprema Corte ha rilevato la correttezza e la logicità della motivazione resa dalla Corte d’Appello, con gli specifici riferimenti alle modalità utilizzate.

Il Tribunale d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio ex art. 423 c.p., rilevando la presenza del dolo generico.

La Cassazione ha confermato tale qualificazione, evidenziando che l’impiego del liquido infiammabile su più veicoli, con serbatoi pieni, indicava la volontà degli imputati di accettare il rischio di propagazione incontrollata del fuoco, oltre al fatto che il pericolo concreto per la pubblica incolumità era dimostrato dall’intensa attività dei vigili del fuoco per domare l’incendio.

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che la qualificazione giuridica dipende dalla volontà dell’agente, che deve essere valutata in base alle circostanze fattuali del caso (così come Cass., sez. I, 3 febbraio 2009, n. 6250).

La Cassazione ha, infine, ribadito quanto affermato da Cass. pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 cioè che al fine di accertare il dolo è necessario seguire un ragionamento indiziario “dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha esaminato i ricorsi presentati e, dopo averli ritenuti complessivamente infondati, ha affermato che la corretta instaurazione del rapporto processuale imponeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per estinzione del reato per prescrizione, confermando, tuttavia, la validità delle statuizioni civili.

 

(*Contributo in tema di “Il dolo nel reato di incendio”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

contenuto della querela

Il contenuto della querela spiegato dalla Cassazione Il contenuto della querela e la qualificazione giuridica del fatto: la Cassazione si pronuncia con la sentenza n. 4258/2025

Contenuto della querela

Contenuto della querela: la prima sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4258/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di querela, stabilendo che essa deve limitarsi a contenere la notizia di reato con l’istanza di punizione, mentre la qualificazione giuridica del fatto spetta esclusivamente al giudice.

La vicenda processuale

Il caso in esame trae origine dalla sentenza del tribunale di Foggia che, previa riqualificazione del fatto contestato dal pubblico ministero come integrante la contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen. anziché il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., ha condannato un uomo concessegli le circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 200 di ammenda.
Il Tribunale ha anche precisato che non potesse essere accolta la richiesta,
formulata dal difensore dell’imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di definizione del procedimento mediante oblazione in caso di riqualificazione del reato di atti persecutori in quello di molestie. A tal proposito, il tribunale ha richiamato pronunce di legittimità secondo cui l’imputato può avere accesso all’oblazione solo quando avanzi, in via preventiva e cautelativa, una
sollecitazione al giudice circa la diversa qualificazione con contestuale richiesta di oblazione, incorrendo altrimenti nella decadenza.

Nel caso di specie, l’imputato si è limitato genericamente a sollecitare di essere ammesso all’oblazione nel caso in cui il giudice avesse in sentenza riqualificato i fatti.

Il ricorso

Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso innanzi alla Cassazione, il difensore dell’imputato, articolando tre motivi.

Con il primo motivo, lamenta l’omessa declaratoria di improcedibilità per il difetto di querela, nonché la mancanza di motivazione. Nel secondo si duole del negato accesso all’oblazione. Con il terzo e ultimo motivo, infine, la mancanza di motivazione in ordine alla mancata concessione del beneficio della non menzione.

La motivazione della sentenza

Per gli Ermellini, il ricorso è parzialmente fondato, in ordine alla preclusione del diritto a fruire dell’oblazione.

Infondati invece gli altri motivi, soprattutto in ordine alla querela, osservano i giudici, dagli atti risulta che la persona offesa abbia presentato una valida querela contenente l’espressa richiesta di punizione.
Sotto questo profilo, proseguono, “non rileva che la querela fosse stata originariamente proposta per il reato di atti persecutori anziché per quello di molestie, in quanto è sufficiente che l’atto esprima la volontà di procedere nei confronti del responsabile di un fatto.
La querela, invero, rammentano dalla S.C., “deve contenere solo la notizia di reato con l’istanza di punizione, spettando esclusivamente al giudice il potere d’inquadrare il fatto storico, ossia la qualificazione giuridica del fatto stesso, indipendentemente da quella data dal querelante (cfr., tra le altre, Cass. n. 12159/1977; Cass. n. 27964/2020).

La decisione

Alla luce di quanto affermato, la sentenza impugnata per piazza Cavour va annullata limitatamente alla valutazione dell’istanza di ammissione all’oblazione, con rinvio al Tribunale di Foggia in diversa persona fisica per un nuovo giudizio sul punto. Nel resto, invece, il ricorso è rigettato.

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uomini violenti

Recupero uomini violenti: i percorsi di riabilitazione Uomini violenti con le donne: definiti con decreto i criteri di accreditamento degli enti che organizzano i percorsi di recupero

Corsi di recupero uomini violenti: il decreto

Il Ministro della Giustizia e la Ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità hanno firmato un decreto importante per contrastare la violenza contro le donne attraverso il recupero degli uomini violenti. 

Il provvedimento definisce particolare i criteri e le modalità per riconoscere e accreditare gli enti che organizzano percorsi di recupero per uomini autori di violenza di genere o domestica.

Questi percorsi possono essere svolti solo nei C.U.A.V. (Centri per Uomini autori o potenziali autori di violenza), inseriti in un elenco ufficiale gestito dal Ministero della Giustizia.

I centri possono essere organizzati da enti pubblici, servizi sanitari, organismi del terzo settore o da una loro collaborazione. Solo chi è accreditato potrà realizzare i programmi.

Il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità è responsabile del riconoscimento degli enti e della gestione dell’elenco, pubblicato online.

L’Ispettorato generale del Ministero potrà effettuare controlli e vigilanza sulle attività svolte.

Percorso e sospensione condizionale della pena

La partecipazione a questi percorsi è fondamentale per i condannati che intendono accedere alla sospensione condizionale della pena, ma può coinvolgere anche imputati e indagati, come misura preventiva.

Il decreto introduce anche le linee guida nazionali per i percorsi di recupero, che saranno aggiornate ogni tre anni. Queste indicazioni si baseranno anche sui dati raccolti dall’Osservatorio sulla violenza contro le donne e sulla violenza domestica, con l’obiettivo di garantire interventi efficaci e mirati.

Il provvedimento interministeriale si pone l’obiettivo di combattere la violenza attraverso la prevenzione e la trasformazione comportamentale degli autori dei comportamenti violenti. Offrire loro un’opportunità di cambiamento è un passo fondamentale per proteggere le vittime e ridurre il rischio di recidiva.

Il decreto, se correttamente applicato, potrebbe offrire numerosi vantaggi per la società, il sistema giudiziario e soprattutto per la tutela delle vittime.

 

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custodia cautelare

La custodia cautelare Custodia cautelare: cos'è, normativa di riferimento, requisiti di applicazione, durata, reati e giurisprudenza

Cos’è la custodia cautelare?

La custodia cautelare è una misura cautelare personale prevista dal codice di procedura penale (art. 285- art. 286 bis c.p.p). Si applica a un imputato quando sussistono gravi indizi di colpevolezza e specifiche esigenze cautelari, al fine di garantire il corretto svolgimento del processo.

Normativa di riferimento

Le disposizioni relative alla custodia cautelare sono contenute nel Titolo I, Capo II del Libro IV del Codice di procedura penale. Le principali norme di riferimento includono:

  • Art. 272 c.p.p.: sancisce che le libertà della persona possa essere limitata solo con misure cautelari nel rispetto delle disposizioni di legge dedicate presenti nel codice di procedura penale.
  • Art. 273 c.p.p.: le misure cautelari possono essere disposte solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza.
  • Art. 274 c.p.p.: le principali esigenze cautelari sono rappresentate dal pericolo di fuga, da quello di reiterazione del reato, dal possibile inquinamento delle prove.
  • Art. 285 c.p.p.: contiene la disciplina della custodia cautelare in carcere.
  • Art. 286 c.p.p.: prevede la custodia cautelare in un luogo di cura.
  • Art 286 bis c.p.p: prevede in quali casi è previsto il divieto della custodia cautelare.

Requisiti per l’applicazione

La custodia cautelare è disposta dal giudice quando ricorrono tre presupposti fondamentali:

  1. Gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p.).
  2. Esigenze cautelari concrete e attuali (art. 274 c.p.p.):
    • Pericolo di fuga;
    • Pericolo di reiterazione del reato;
    • Pericolo di inquinamento delle prove.
  1. Adeguatezza della misura: il giudice deve valutare se misure meno afflittive (es. arresti domiciliari, obbligo di firma) siano insufficienti. Il comma 2 dell’articolo 275 c.p.p sancisce infatti che “ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o che si ritiene possa essere irrogata.”

Durata della custodia cautelare

La custodia cautelare ha una durata massima stabilita dagli artt. 303 e 304 c.p.p., che varia in base alla gravità del reato e alla fase del processo:

  • Indagini preliminari: 3 mesi per delitti che prevedono la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, 6 mesi per reati puniti con la reclusione per un periodo non superiore a sei anni salvo quanto sancito dal punto 3), comma 1, art. 2303 c.p.p, 1 anno per reati puniti con l’ergastolo o con una pena non inferiore nel massimo a 20 anni;
  • Giudizio di primo grado: sei mesi per reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a sei anni; 1 anno per reati puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a 20 anni; 1 anno e sei mesi se la pena prevista è l’ergastolo o la pena della reclusione superiore, nel massimo, a 20 anni.
  • Appello e Cassazione: i tempi sono ulteriormente ridotti.

Reati per cui si applica la custodia cautelare

La custodia cautelare può essere applicata per reati di particolare gravità, tra cui:

  • Mafia e associazione per delinquere (art. 416-bis c.p.).
  • Omicidio volontario (art. 575 c.p.).
  • Violenza sessuale aggravata (art. 609-bis c.p.).
  • Traffico di droga (art. 73 D.P.R. 309/90).
  • Rapina aggravata (art. 628 c.p.).

Giurisprudenza rilevante 

La Corte di Cassazione intervenuta spesso in materia di custodia cautelare per precisare le caratteristiche peculiari dell’istituto e la sua applicazione.

Cassazione n. 10925/2025

La misura della custodia cautelare in carcere va confermata nei confronti di un imputato accusato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, evidenziando che il semplice decorso del tempo non è, di per sé, sufficiente a escludere l’attualità delle esigenze cautelari. La decisione si basa sulla persistenza di elementi concreti e attuali che attestano la pericolosità del soggetto, come condotte recenti indicative di una propensione a reiterare reati della stessa natura. In questo contesto, la valutazione dell’autorità giudiziaria deve considerare non solo il tempo trascorso, ma anche eventuali comportamenti che confermino il mantenimento del legame con l’ambiente criminale o la possibilità di nuovi reati.

Cassazione SU n. 44060/2024

Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.

Cassazione n. 32593/2021

In materia di misure cautelari personali, il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere, previsto dall’art. 275 c.p.p., comma 2-bis, opera non solo nella fase di applicazione, ma anche nel corso dell’esecuzione della misura, sicché la misura non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite; in motivazione, la Corte ha precisato che i principi di proporzionalità ed adeguatezza devono essere costantemente verificati, al fine di attuare la minor compressione possibile della libertà personale, non potendo prevalere le valutazioni compiute in fase cautelar rispetto alla pronuncia adottata in fase di merito.”

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affettività in carcere

Affettività in carcere: le linee guida Affettività in carcere: dopo la pronuncia della Consulta arrivano le linee guida che riconoscono ai detenuti il diritto all'intimità

Affettività in carcere: linee guida post Consulta

Sull’affettività in carcere arrivano le linee guida sottoscritte dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Lina Di Domenico.

Il documento recepisce le indicazioni della Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 10/2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.”

Linee guida affettività in carcere: cosa prevedono

Le linee guida, alla luce di quanto sancito dalla Consulta, prevedono che i colloqui intimi saranno consentiti, a meno che non ci sia incompatibilità con l’assenza di un controllo visivo.

Il numero dei colloqui sarà il medesimo di quelli di cui i detenuti e gli internati fruiscono già mensilmente e la durata massima sarà di due ore.

Le amministrazioni penitenziarie dovranno individuare locali da destinare a questi colloqui, che siano in grado di garantire una certa riservatezza. Da preferire le aree vicino all’ingresso dell’istituto, ma la direzione può consentire lo svolgimento dei colloqui in locali distinti.

La stanza destinata ai colloqui intimi sarà arredata con un letto e servizi igienici. La stessa però non potrà essere chiusa dall’interno e sarà sorvegliata soltanto esternamente dalla Polizia penitenziaria equipaggiata per il controllo dei detenuti e dei soggetti ammessi ai colloqui intimi e all’ispezione della stanza prima e dopo l’incontro.

Via preferenziale per i detenuti che non beneficiano di permessi premio o di altri benefici che consentano loro di coltivare rapporti affettivi all’esterno e detenuti e imputati che, a parità di condizioni, devono scontare pene più lunghe e si trovano in uno stato di privazione della libertà da più tempo.

Per quanto riguarda i soggetti ammessi ai colloqui le linee guida indicano il coniuge, la parte dell’unione civile e il convivente, dopo gli opportuni controlli documentali e la firma del consenso informato del soggetto in visita.

Soggetti esclusi e possibili limitazioni

Sono esclusi dai colloqui intimi i detenuti sottoposti a regimi detentivi speciali come quelli previsti dall’artt. 41-bis O.P. e dall’art. 14-bis O.P.

Alle Direzioni il compito di individuare eventuali ragioni ostative per ragioni di sicurezza o per la necessità di mantenere l’ordine e la disciplina.

Colloqui intimi esclusi in ogni caso per i detenuti in isolamento sanitario. I colloqui infine potranno essere negati nelle ipotesi di detenzione, dal parte dell’internato, di sostanze stupefacenti, oggetti atti a offendere e cellulari e nei casi in cui il soggetto abbia manifestato un’indole violenta o tenuto condotte che potrebbero comportare rischi in sede di colloquio.

 

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giurista risponde

Dichiarazione di ignoranza inevitabile La dichiarazione di ignoranza inevitabile dell’età di un minore può escludere la responsabilità penale ai sensi degli artt. 609quater e 609sexies c.p. per reati sessuali nei confronti di una persona al di sotto dei quattordici anni?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

La Corte di Cassazione ha escluso che la dichiarazione di ignoranza inevitabile in relazione all’età della persona offesa possa valere come scriminante per l’imputato, salvo dimostrazione di una verifica diligente e approfondita da parte dell’imputato per accertare l’età della vittima (Cass., sez. III, 19 settembre 2024, n. 45805).

La questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione affronta il delicato tema della responsabilità penale per reati sessuali con minori, concentrandosi sui criteri per valutare l’ignoranza inevitabile in relazione all’età della persona offesa e l’importanza di tutelare l’integrità psicofisica del minore nella sfera sessuale.

Il GUP del Tribunale di Genova ha riconosciuto l’imputato responsabile di un’ipotesi di concorso formale tra reati, condannandolo per i fatti previsti dagli artt. 81 e 609quater c.p., relativi a rapporti sessuali consenzienti con una minore di quattordici anni, e dagli artt. 73, comma 5, e 80 del D.P.R. 309/90, concernenti la cessione di sostanze stupefacenti alla medesima persona offesa.

In sede di giudizio, il Tribunale ha concesso l’attenuante della minore gravità ai sensi dell’art. 609quater, comma 6, c.p. e quella prevista dall’art. 62, n. 6, c.p. per la riparazione del danno.

Applicata la riduzione di pena connessa al rito abbreviato, l’imputato è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione.

Successivamente, la Corte d’Appello di Genova, pronunciandosi sia sull’appello proposto dall’imputato che sul ricorso per Cassazione del Procuratore Generale, ha riconosciuto ulteriori attenuanti generiche e ridotto la pena a dieci mesi di reclusione.

La sentenza della Suprema Corte rappresenta un consolidamento della giurisprudenza che valorizza la tutela del minore nella sfera sessuale, anche alla luce delle normative internazionali e nazionali. Essa si pone in continuità con precedenti orientamenti giurisprudenziali precisando che l’ignoranza inevitabile è configurabile solo qualora nessun rimprovero, neppure di semplice leggerezza, possa essere rivolto all’agente per non aver rispettato il dovere di accertarsi adeguatamente dell’età del soggetto coinvolto (così Cass., sez. III, 10 dicembre 2013, n. 3651; Cass., sez. III, 6 maggio 2014, n. 37837).

La Corte pone l’accento sul dovere di diligenza chiarendo che in tali circostanze è necessario compiere controlli adeguati e proporzionali alla rilevanza del bene giuridico tutelato rappresentato dal libero sviluppo psicofisico dei minori.

Avallando quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, nel caso di specie, tali controlli avrebbero potuto includere richieste di informazioni a parenti della vittima o verifiche oggettive sulla sua età.

Nella decisione de qua la Cassazione precisa che dichiarazioni mendaci del minore circa la propria età o indizi fisici non possono essere considerate sufficienti per invocare la scriminante ex art 609sexies (del pari Cass., sez. III, 4 aprile 2017, n.775).

Tale interpretazione riflette l’importanza di preservare il libero sviluppo psicofisico dei minori e di evitare esperienze traumatiche che possano compromettere il loro futuro chiarendo che qualsiasi condotta che arrechi un pregiudizio rilevante a tale bene giuridico non può considerarsi priva di offensività, anche se vi è il consenso del minore (così anche Cass. pen., sez. III, 14 dicembre 2011, n.12464).

La pronuncia in questione rafforza l’obbligo di comportamenti responsabili e scrupolosi in situazioni che coinvolgono minori definendo i confini applicativi della scriminante di cui all’art. 609sexies c.p.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, ha confermato la condanna e ha disposto il pagamento delle spese processuali nonché di una somma in favore della Cassa delle ammende, sottolineando che l’imputato non aveva soddisfatto i criteri per invocare l’ignoranza inevitabile.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazione di ignoranza inevitabile”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)