Messaggi WhatsApp: stesse garanzie della corrispondenza Messaggi WhatsApp: se conservati in memoria finché non diventano documenti storici hanno le stesse garanzie costituzionali della corrispondenza

Messaggi WhatsApp natura di corrispondenza

I messaggi WhatsApp hanno le stesse garanzie della corrispondenza. Messaggi ed SMS che vengono conservati nella memoria di un telefono cellulare conservano, infatti, la natura di “corrispondenza” anche dopo che il destinatario li abbia ricevuti. Questo tipo di qualificazione perdura fino a quando i messaggi non perdono il carattere di attualità e di interesse alla riservatezza, trasformandosi in “documenti storici”.

L’acquisizione di tali messaggi deve avvenire quindi nel rispetto delle procedure  previste dalla Costituzione relative al sequestro della corrispondenza  tradizionale come le lettere e i biglietti chiusi. Lo ha sancito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25549-2024.

Sul valore probatorio dei messaggi WhatsApp leggi anche WhatsApp: è prova nel processo

Mancato rispetto delle regole di acquisizione

Un imputato, condannato per i reati di traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti,  contesta l’acquisizione dei messaggi WhatsApp presenti sul suo cellulare. Chi ha provveduto all’acquisizione non avrebbe rispettato le regole procedurali.

L’accusa si basa sul contenuto di questi messaggi, che la polizia giudiziaria avrebbe acquisito senza rispettare la disciplina del sequestro della corrispondenza. La polizia avrebbe dovuto infatti consegnare gli oggetti di corrispondenza all’autorità giudiziaria senza aprirli o alterarne il contenuto, trasmettendoli intatti al P.M. per l’eventuale sequestro.

Messaggi WhatsApp non sono intercettazioni

La Corte di Cassazione, davanti alla quale è giunta la vicenda processuale, chiarisce che l’acquisizione dei messaggi WhatsApp che vengono conservati su un dispositivo elettronico non può essere considerata come un’”intercettazione”.

Per la Corte costituzionale, questi tipi di messaggi rientrano nella nozione ampia di “corrispondenza”. Questa nozione comprende infatti qualsiasi forma comunicazione del pensiero umano e prescinde dal mezzo tecnico utilizzato. La Costituzione, come noto, garantisce a tutti i cittadini la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. La violazione della corrispondenza è consentita solo se disposta dall’Autorità giudiziaria con un atto  motivato.

Corrispondenza anche dopo che il destinatario li abbia letti e ricevuti

La Cassazione però si spinge oltre. Esclusa infatti la nozione di intercettazione, la Corte Suprema affronta la questione relativa alla natura dei messaggi elettronici. Gli stessi conservano la natura di corrispondenza anche dopo che il destinatario li abbia ricevuti e letti?

Gli Ermellini su detta questione precisano che esistono due correnti interpretative differenti.

  • La prima sostiene che la corrispondenza, una volta letta, diventa un semplice documento, la cui acquisizione processuale non rientra né nella disciplina delle intercettazioni né in quella del sequestro della corrispondenza.
  • La seconda invece afferma che i messaggi conservano la natura di corrispondenza finché risultano attuali e di interesse per i corrispondenti, perdendo tale qualifica quando diventano “documenti storici”.

Messaggi WhatsApp: corrispondenza se attuali e di interesse

La Suprema Corte ritiene corretta questa seconda interpretazione, per cui la natura di corrispondenza non si perde con la ricezione del messaggio, ma permane finché lo stesso conserva rilevanza per i corrispondenti. Nel caso di specie la polizia giudiziaria non ha violato la disciplina sul sequestro della corrispondenza. Essa si è limitata infatti a sequestrare lo smartphone per poi consegnarlo all’autorità giudiziaria, ma non ha mai acceduto ai contenuti dei messaggi.

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cane chiuso casa reato

Cane chiuso in casa senz’acqua: è reato Lasciare soli per ore tre cani in una casa sporca e senza dar loro dell’acqua sono indizi del reato di abbandono che legittimano il sequestro degli animali

Lasciare il cane chiuso in casa senz’acqua è abbandono di animali

Lasciare tre cani soli e chiusi in casa per ore, nella sporcizia e senz’acqua è una condotta che giustifica il sequestro degli animali perché rappresentano indizi coerenti e logici del reato di abbandono di animali. Il reato contemplato dall’art. 727 comma 2 del codice penale precisa infatti che non serve lo stato di malattia dell’animale affinché si configuri lo stato di abbandono, è sufficiente che l’animale patisca una sofferenza ingiusta. Queste le ragioni per le quali la Cassazione con la sentenza n. 30369-2024 ha rigettato il ricorso della padrona dei cani contro l’ordinanza di sequestro degli animali.

Il sequestro preventivo

Un’ordinanza conferma il sequestro preventivo di tre cani disposto con decreto dal giudice per indagini preliminari. La padrona è indagata per il reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 comma 2 c.p. Gli animali sono stati rinvenuti in condizioni incompatibili con le esigenze minime, in stato di abbandono, scarsa igiene e incuria nella somministrazione dell’acqua e nella cura delle malattie.

Il ricorso

La padrona, nel ricorrere avverso l’ordinanza, fa presente che dalla relazione del medico veterinario intervenuto al momento del sequestro emerge che lo stato di salute degli animali non faceva desumere l’incuria e l’abbandono di cui la stessa è stata accusata.

Gli animali non avevano zecche, presentavano una buona massa muscolare e le unghie erano in buone condizioni. La contestazione è del tutto generica e non emergono elementi oggettivi di sofferenza patita dagli animali. Insussistente quindi il fumus commissi delicti perché i fatti a lei contestati non sono stati provati adeguatamente e sono il frutto di annotazioni relative più allo stato dei luoghi che al benessere degli animali. La ricorrente lamenta inoltre la mancata valutazione della relazione del veterinario, che ha rilevato solo la presenza di malattie pregresse, normali in cani anziani. La trasmissione tempestiva di questa relazione avrebbe permesso di smentire i reati ipotizzati e contrastare gli elementi indiziari del fumus.

Il reato di abbandono di animali

Per la Cassazione le argomentazioni che hanno condotto alla decisione invece risultano puntuali, coerenti e logiche. Il giudice ha ritenuto sussistente il fumus commissi delicti del reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 c.p. perché i  militari intervenuti sul posto hanno rilevato uno stato di abbandono dei tre cani di proprietà dell’indagata perché detenuti in condizioni igieniche incompatibili con i bisogni minimi che devono essere assicurati agli animali domestici. Dalle testimonianze è emerso che l’ambiente in cui i cani venivano detenuti era in pessime condizioni igieniche, le deiezioni erano diffuse, non era stato rimosso il cibo sparso per terra e non c’era acqua per gli animali, che venivano lasciati soli in casa per molte ore o in uno spazio esterno stretto e pieno di rifiuti.

Reato di abbandono: è sufficiente l’ingiusto patimento

La Cassazione ricorda che affinché si configuri il reato di abbandono di animali la detenzione degli stessi in condizioni capaci di recare loro gravi sofferenze non è solo quella che provoca una malattia, ma anche quella che produce un patire ingiusto. Non è necessaria la malnutrizione e il pessimo stato di salute, sono sufficienti quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale provocando sofferenza e afflizione. In queste condotte rientrano i comportamenti colposi di abbandono ed incuria. Il Gip ha disposto il sequestro nel timore di una reiterazione del reato poiché, nonostante ripetute segnalazioni e diversi accessi all’abitazione, l’indagata non ha messo in atto nessun comportamento finalizzato a migliorare le condizioni di detenzione degli animali. La stessa ha infatti mantenuto inalterate nel tempo le condizioni di incuria e di degrado della propria abitazione in cui deteneva i cani chiusi per diverse ore.

La decisione relativa al sequestro si è fondata sull’annotazione della polizia giudiziaria e sulla relazione dell’ENPA, successiva al sopralluogo. La relazione del medico veterinario incaricato dall’indagata non è stata acquisita perché non presente nel fascicolo al momento della pronuncia oggetto di impugnazione. La stessa è stata infatti acquisita in data successiva.

 

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jammer auto reato

Jammer in auto: è reato? Scatta il reato ex art. 617-bis c.p. se il jammer usato per impedire di essere intercettati, di fatto impedisce le comunicazioni tra terzi

Jammer in auto

Per la quinta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 28084-2024)scatta il reato se lo strumento (jammer) per impedire di essere intercettato di fatto impedisce comunicazioni tra terzi.

La vicenda

Nella vicenda, gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi sul ricorso di un uomo condannato in appello a un anno di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del delitto previsto dal’art. 617-bis, commi primo e secondo, codice penale, per avere tenuto, fuori dai casi consentiti dalla legge, nell’autovettura da lui condotta – in un cassetto lato posto-guidatore – un disturbatore di frequenza c.d. jammer, in funzione, al fine di impedire le comunicazioni telefoniche e via radio tra altre persone (ovvero le comunicazioni di seguito in auto dallo stesso con l’aggravante dell’aver commesso il fatto in danno di pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, disturbando le comunicazioni via radio della pattuglia della volante del commissariato di zona.

Il ricorso

L’uomo si doleva della inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché della contraddittorietà della motivazione della sentenza in relazione ala sussistenza del delitto previsto dall’art. 617-bis c.p., “che si configurerebbe solo se l’installazione sia finalizzata a impedire comunicazioni fra persone diverse dall’agente”. Nella fattispecie, invece, asseriva, il disturbo si sarebbe verificato esclusivamente nelle vicinanze della sua auto, quando l’auto della polizia giudiziaria vi si avvicinava, a dimostrazione che «l’istallazione» era finalizzata a impedire solo che qualcuno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno del suo veicolo.

D’altra parte, sosteneva il ricorrente, il possesso dell’apparecchio, risultando in libera vendita, non costituirebbe in sé reato, in assenza di una perizia che ne accerti l’effettiva potenzialità a disturbare e/o impedire le comunicazioni fra persone diverse dall’agente.

Il reato di cui all’art. 617 bis c.p.

Per la S.C., il ricorso è inammissibile.
“Il delitto di installazione di apparecchiature atte a intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni, previsto dall’art. 617-bis cod. pen. – ricordano i giudici – sanziona la condotta di chi predispone apparecchiature finalizzate a intercettare o impedire conversazioni telegrafiche o telefoniche altrui”.

Secondo la giurisprudenza di legittimità esso si configura soltanto “se l’installazione è finalizzata a intercettare o impedire comunicazioni tra persone diverse dall’agente. Pertanto, il delitto non ricorre nell’ipotesi in cui si utilizzi un jammer al fine di impedire l’intercettazione di comunicazioni, sia tra presenti che
telefoniche, intrattenute dal soggetto che predispone l’apparecchio” (cfr. Cass. n. 39279/2018).

Inoltre, il delitto in parola “si configura come un reato di pericolo che si perfeziona al momento della mera installazione degli apparecchi disturbatori di frequenze e, dunque, anche nel caso in cui essi non abbiano funzionato o non siano stati attivati (cfr., ex multis, Cass. n. 1834/2021).

La decisione

Nel caso in esame, dalle annotazioni di polizia giudiziaria acquisite agli atti, è emerso che l’uomo aveva occultato, nell’autovettura su cui viaggiava, un jammer, con il quale erano state disturbate le comunicazioni radio tra la centrale operativa della Questura e la pattuglia che lo seguiva, allertata dalla segnalazione di un rappresentante di gioielli che aveva notato come l’autoveicolo dell’imputato lo seguisse in modo sospetto. E dal momento che tali comunicazioni radio risultavano tanto più disturbate quanto più la vettura in uso alla polizia giudiziaria si avvicinava al veicolo condotto dall’imputato, le sentenze di merito hanno logicamente concluso che il jammer fosse stato attivato proprio per ostacolare eventuali comunicazioni tra le Forze di polizia che lo avessero avvicinato e la centrale operativa della Questura.
La motivazione dei giudici di merito, pertanto, per piazza Cavour, è congrua e logica, e il ricorso rappresenta “la mera mera prospettazione di una lettura alternativa del materiale probatorio, ipotizzando, senza peraltro offrire alcun riscontro alla tesi difensiva, che il disturbatore fosse finalizzato a impedire che taluno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno dell’auto dell’imputato”.

Per cui, il ricorso è inammissibile.

giurista risponde

Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

 

Contributo in tema di “Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

Gratuito patrocinio stranieri anche senza codice fiscale italiano La Cassazione chiarisce che per l'ammissione al beneficio presentata da cittadino straniero non è necessario il codice fiscale italiano

Gratuito patrocinio stranieri

Ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio per uno straniero non è necessario munirsi di un codice fiscale italiano. Il chiarimento arriva dalla quarta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 30047-2024) che ha accolto il ricorso di un cittadino rumeno contro l’ordinanza del tribunale di Roma che aveva rigettato l’opposizione avverso il diniego dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in quanto l’uomo non aveva indicato nella relativa istanza il codice fiscale italiano ma quello di cui era titolare nello stato di residenza (Romania) e la propria residenza all’estero.

A dire del tribunale, infatti, il cittadino rumeno avrebbe dovuto, in quanto cittadino dell’Unione Europea, richiedere il codice fiscale ad un ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate. Precisava, inoltre, il giudice che l’ordinanza della Corte Costituzionale n.144 del 2004, invocata dal ricorrente regolava il caso di stranieri presenti irregolarmente nel territorio dello Stato ovvero il caso in cui, per ragioni oggettive, l’interessato non possa provvedere alla indicazione del codice fiscale.

Il ricorso

Avverso il suddetto provvedimento l’uomo ha proposto ricorso in Cassazione denunciando violazione della legge penale, in relazione all’art. 79 del DPR n. 115/2002, come interpretato dalla decisione della Corte Costituzionale n.144 del 2004, secondo cui il cittadino straniero non residente nel territorio italiano può presentare l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato allegando il proprio domicilio all’estero. Le conclusioni assunte dal Tribunale con l’ordinanza impugnata erano contrarie, quindi, ai principi fondamentali posti a tutela del diritto di difesa, richiamato dalla Consulta nella decisione citata.

Gratuito patrocinio e codice fiscale

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

L’art. 79 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), premettono i giudici, prevede, “a pena di inammissibilità della domanda di ammissione al patrocinio dei non abbienti, l’indicazione del codice fiscale. In sede di disciplina dei casi in cui è obbligatoria l’indicazione del codice fiscale, il testo dell’art. 6, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 605 (Disposizioni relative all’anagrafe tributaria e al codice fiscale dei contribuenti), prevede espressamente che «l’obbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con la sola indicazione dei dati di cui all’art. 4» – dello stesso d.P.R. – «con l’eccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale all’estero.). Il citato art. 4, primo comma, lettera a), del d.P.R. n. 605 del 1973 richiede, ai fini dell’attribuzione del numero di codice fiscale delle persone fisiche, esclusivamente i seguenti dati: cognome, nome, luogo e data di nascita, sesso e domicilio fiscale”.
Il ricorrente ha dedotto che, al momento del deposito dell’istanza, era presente da soli 40 giorni sul territorio italiano e che dunque, al momento della presentazione della richiesta di ammissione del patrocinio a spese dello Stato, non aveva la titolarità di un codice fiscale italiano, ma del codice fiscale del paese di residenza ( la Romania), che aveva indicato nel ricorso unitamente al proprio domicilio nello stato di residenza.
Per cui, alla stregua della normativa sopra indicata, chiariscono dalla S.C., “agli effetti dell’ammissibilità dell’istanza diretta ad ottenere il beneficio in questione, nulla appare escludere la possibilità che lo straniero non residente ni Italia, pure se residente in un paese UE, in luogo dell’indicazione del codice fiscale, fornisca i dati di cui all’art. 4 citato, oltre al proprio domicilio all’estero. Dalle norme in questione, infatti, non si ricava alcun onere, per il cittadino straniero non residente, di munirsi di un codice fiscale italiano al fine di avanzare la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, fermo restando l’obbligo, di cui all’art 76 del DPR 115 del 2002, di allegazione alla istanza del reddito prodotto come risultante dalla ultima dichiarazione presentata nel paese di residenza”.

La sentenza della Corte Costituzionale

Né la lettura della ordinanza n.144 del 2004 della Corte Costituzionale, rincarano da piazza Cavour, “porta alle conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Roma. In quella sede – infatti – il giudice delle leggi, decidendo sulla legittimità costituzionale dell’art. 79 DPR 115/ 2002 se interpretato nel senso di richiedere, a pena di inammissibilità, anche per il cittadino extracomunitario li codice fiscale, ha rilevato che la lettura congiunta dell’art. 6 e dell’art. 4 del DPR n. 605 del 1973 consentiva di ritenere sufficiente, per il cittadino straniero irregolare, la sola indicazione del domicilio nel paese estero”. Dall’ordinanza citata non si ricava però, come si ritiene nel provvedimento impugnato, che il presupposto di applicazione dell’art. 4 DPR n. 605 del 2002 sia il fatto che l’istante si trovi nella impossibilità di richiedere la titolarità del codice fiscale italiano.

La decisione

Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al Presidente del Tribunale di Roma per nuovo esame.

 

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morte imputato sentenza inesistente

Morte imputato: sentenza inesistente La Cassazione rammenta che la morte dell'imputato prima della conclusione del grado processuale rende la sentenza inesistente anche se il giudice non è a conoscenza dell'evento

Morte dell’imputato

La morte dell’imputato intervenuta prima della decisione rende la sentenza inesistente anche laddove il giudice non è a conoscenza dell’evento. Giudice che, ad ogni modo, ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato stesso. Così la quarta sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 27827-2024 decidendo una vicenda in cui l’imputato decedeva nelle more del ricorso.

Inesistenza giuridica della sentenza

Va premesso, anticipano gli Ermellini, che “secondo il diritto vivente la morte dell’imputato intervenuta prima della decisione, determina l’inesistenza giuridica della sentenza per essere estinto il reato per morte dell’imputato e che il giudice penale ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato, quale presupposto essenziale del processo” (cfr., tra le altre, SS.UU. n. 12602/2015, n. 25995/2019).

Inoltre, “la tardiva conoscenza dell’evento morte, verificatasi nel corso del processo, può esser considerata errore di fatto paragonabile a quello materiale, soggetto dunque al procedimento di correzione, anche nei gradi successivi del giudizio, in quanto la mancanza del soggetto nei cui confronti si esercita l’azione penale determina l’inesistenza giuridica della sentenza, per essere estinto il reato per morte dell’imputato”.

Obbligo permanente del giudice

Il giudice penale, peraltro, proseguono dal Palazzaccio, “ha l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato, quale presupposto essenziale del processo – ma – tale obbligo non può tradursi in una costante attività di indagine e, con riferimento al giudizio di legittimità, l’art. 625 bis, comma terzo, del codice di procedura penale prevede che l’errore materiale disciplinato dal comma primo può essere rilevato anche d’ufficio dalla Corte di cassazione in ogni momento, con la conseguenza che l’ipotesi in questione – proprio per l’inesistenza giuridica della sentenza che essa determina – prescinde dalle condizioni di legittimazione disciplinate dall’art. 625 bis, comma secondo, che parifica, quanto ad iniziativa, quella del Procuratore Generale a quella del condannato che, nella specie, è inesistente (cfr. Cass. n. 7632/2017).

Procedimento di correzione ex art. 625 comma 3 c.p.p.

Nel caso di specie, risulta che il decesso dell’imputato è avvenuto prima che la sentenza venisse deliberata. Per cui, “l’errore, effettivamente esistente, è rilevabile d’ufficio con il procedimento di correzione di cui all’art. 625 bis comma 3 cod. proc. pen.” e, pertanto, si impone l’annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per morte dell’imputato.

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omicidio lorena quaranta

Omicidio Lorena Quaranta: sentenza annullata per stress da Covid La Cassazione penale annulla la sentenza di condanna all'ergastolo del fidanzato della vittima. Per i giudici è da valutare "lo stress da lockdown e pandemia" - Il testo della sentenza in pdf

Femminicidio Lorena Quaranta: sentenza annullata

Fa scalpore, ma fa anche discutere e indignare la sentenza della prima sezione penale della Corte di Cassazione n. 27115-2024 che riguarda l’omicidio della giovane Lorena Quaranta.

La sentenza della Corte di Assise che ha disposto la condanna all’ergastolo del fidanzato per omicidio volontario aggravato dalla commissione contro una persona legata a lui da una stabile convivenza affettiva, deve essere annullata nella parte in cui nega il riconoscimento delle circostanze attenuanti.

Per la Cassazione i giudici di merito non hanno verificato compiutamente se, dato il contesto “possa ed in quale misura  ascriversi all’imputato di non avere «efficacemente tentato di contrastare» lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica; con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale.” Lo stress che ha colpito l’omicida, come tutti durante il lockdown, potrebbe comportare una riduzione della pena.

Lockdown: marcata concitazione emotiva

Nella sentenza si legge che nei giorni che hanno preceduto l’omicidio, caratterizzati dalle restrizioni imposte dalla pandemia, il fidanzato della Quaranta ha manifestato una forte preoccupazione per l’affezione delle vie respiratorie che aveva colpito la compagna. Dalla fine del mese di marzo il disagio si sarebbe così aggravato che l’uomo, senza preoccuparsi della fidanzata bisognosa di cure, si sarebbe allontanato per recarsi dai suoi familiari, che però lo convincevano a tenere un comportamento più responsabile e a tornare a casa dalla ragazza.

L’arrivo a casa non ha portato nessun beneficio al suo stato emotivo, una vicina ha riferito di averlo visto salire e scendere le scale in modo frenetico. Dopo qualche ora di calma l’omicida tornava ad agitarsi, tanto che alle 4 di notte contattava telefonicamente il padre. Alle 6 del mattino arriva la lite con la compagna, i colpi alla fronte con un oggetto contundente, la mano sulla bocca e sul naso, la stretta al collo e infine l’arresto cardio circolatorio per asfissia della giovane donna. All’episodio segue il tentativo di suicidio dell’uomo, dapprima tramite il taglio dei polsi e poi tramite il getto del phon della vasca in cui si era immerso e che ha comportato l’attivazione del salvavita e infine il contatto delle forze dell’ordine.

Esclusione delle attenuanti

La Cassazione rileva in fatto come la Corte di Assise di Appello non abbia riconosciuto le attenuanti generiche perchè la perizia del CTU ha escluso la presenza di una patologia psichiatrica in grado di inficiare la capacità di intendere e di volere dell’imputato. Per il giudice dell’appello l’imputato, nel compiere l’omicidio, ha agito con determinazione e crudeltà, modalità espressive che non sono ricollegabili allo stato d’ansia in cui versava quando ha commesso l’omicidio e che lo stesso non ha tentato di contrastare.

Motivazione contraddittoria

Preso atto del quadro probatorio emerso nei precedenti gradi di giudizio gli Ermellini ritengono però fondato il motivo di doglianza relativo al diniego delle attenuanti generiche. Le ragioni del rigetto sono il frutto di un percorso argomentativo che per la Corte di Cassazione si caratterizza per aporie e contraddizioni non marginali. Non convincono le conclusioni della Corte dell’impugnazione, per la quale lo “stato d’ansia e di irrequietezza, comunque manifestato dall’imputato nelle ore immediatamente precedenti al delitto, non solo, come ampiamente argomentato, non ha compromesso la sua capacità di intendere e di volere, ma non ha certamente determinato, né giustificato, la furia, l’odio e l’efferatezza rivolti dal contro la povera (che non può escludersi abbiano tratto origine da un movente rimasto inesplorato).”

In un punto della sentenza infatti la Corte di merito, in contraddizione con le suddette conclusioni, afferma di rendersi conto implicitamente del fatto che “lo stato emotivo manifestato dall’imputato nei momenti antecedenti all’omicidio abbia influito concretamente sulla misura della responsabilità penale e sia, pertanto, valutabile positivamente ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche”.

L’angoscia incide sulla responsabilità penale?

L’omicida, a causa del lockdown e della pandemia ha vissuto un disagio sempre crescente, che è sfociato in angoscia, che lo ha portato a un certo punto a rifuggire alle sue responsabilità e a lasciare sola la compagna. Una scelta che probabilmente, secondo la sua visione, era l’unica possibile considerata l’impossibilità di accedere alle strutture sanitarie. Quando poi ha desistito dal suo progetto di fuga per recarsi dai familiari ha vissuto un dissidio interiore, che ha provocato le condotte altalenati successive del pomeriggio, della notte e della mattina dell’omicidio.

I giudici avrebbero omesso pertanto di verificare se, alla luce del contesto, sia possibile escludere che l’imputato non abbia tentato efficacemente di contrastare lo stato di angoscia di cui era preda e che traeva origine dall’emergenza pandemica e se la difficoltà contingente di rimediare a questa angoscia sono in grado di incidere sulla responsabilità penale.

Parola al giudice del rinvio

Da qui l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al punto concernente l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di assise di appello di Reggio Calabria.

 

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violenza donne legge 168 2023

Violenza donne: la legge n. 168/2023 Le innovazioni della L. 168/2023, il clamore suscitato dal caso Cecchettin, l'iter legislativo e la ratio della legge

Il clamore suscitato dal «caso Cecchettin» e la L. 168/2023

L’aumento esponenziale degli omicidi di genere nel nostro Paese, spesso perpetrati con modalità agghiaccianti, come nel caso di Giulia Cecchettin, che ha destato sconcerto anche per la giovane età della vittima e per l’ambiente familiare in cui è maturato il delitto, ha indotto il Parlamento ad approvare celermente e all’unanimità la L. 168/2023.

In particolare, la L. 24-11-2023, n. 168, recante Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 24-11-2023, in vigore dal 9-12-2023, impone, per la rilevanza dei temi affrontati e per le numerose disposizioni introdotte, un primo approfondimento per consentirne l’immediata e puntuale applicazione. Il provvedimento si compone di 19 articoli.

Alla luce dell’aumento esponenziale degli omicidi di genere nel nostro Paese, l’obiettivo perseguito dal Governo è quello di rendere, da una parte, più efficace la protezione preventiva, rafforzando le misure contro la reiterazione dei reati a danno delle donne e inasprendo le pene nei confronti dei recidivi; dall’altra, di ampliare la tutela, in generale, delle vittime di violenza. Riveste, infatti, particolare importanza l’attenzione verso la prevenzione della violenza sulle donne, soprattutto rispetto alla commissione dei cosiddetti «reati spia», ovvero delitti che rappresentano indicatori di una violenza di genere per evitare che possano degenerare in comportamenti più gravi.

Tra gli interventi di maggior rilievo, troviamo il rafforzamento della misura di prevenzione dell’ammonimento del Questore e di informazione alle vittime di violenza; l’applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno nel Comune di residenza o di dimora, anche agli indiziati di reati legati alla violenza contro le donne e alla violenza domestica; l’introduzione di norme finalizzate a velocizzare i processi in materia di violenza di genere e domestica, l’applicazione di misura cautelare personale e la possibilità di disporre l’applicabilità del controllo tramite il cd. braccialetto elettronico.

Rivestono, inoltre, particolare interesse anche le iniziative formative in materia di contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica nonché l’introduzione di una provvisionale, ovvero una somma di denaro liquidata preventivamente a titolo di ristoro anticipato in favore delle vittime di violenza.

La legge contiene, infine, la clausola di invarianza finanziaria, per cui dall’attuazione del provvedimento non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Le principali modifiche contenute nella L. 168/2023

Si riportano di seguito, in maniera sintetica, le più rilevanti innovazioni disciplinari contenute nella legge, consistenti:

  • nell’ampliamento del novero dei reati per i quali il questore può disporre l’ammonimento del presunto responsabile di violenza domestica, ricomprendendovi anche i reati che possono assumere valenza sintomatica (cosiddetti «reati spia») quali le fattispecie di violenza privata, di minaccia aggravata, di atti persecutori, di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (il cd. revenge porn), di violazione di domicilio e di danneggiamento;
  • nell’aumento, fino a 1/3, delle pene dei reati che configurano una violenza domestica, specificamente elencati, se il fatto è commesso da soggetto già ammonito;
  • nella procedibilità d’ufficio, anche per alcuni reati che oggi richiederebbero la querela, qualora il fatto che integra la fattispecie è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito;
  • nella facoltà riconosciuta al prefetto di adottare misure di vigilanza dinamica qualora, per fatti riconducibili a reati di violenza domestica, emerga il pericolo di reiterazione delle condotte.

Novità in materia di misure di prevenzione personali per indiziati di gravi reati

Ulteriori novità sono tese al potenziamento delle misure di prevenzione e si sostanziano in modifiche al Codice antimafia.

Tali modifiche, peraltro, estendono l’applicabilità delle misure di prevenzione personali anche ai soggetti indiziati di alcuni gravi reati che ricorrono nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere e domestica (reati di omicidio, lesioni gravi, deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, violenza sessuale).

Tra le novità, viene ampliato l’utilizzo della misura della sorveglianza speciale con le modalità del braccialetto elettronico, rispetto al quale l’obbligo di verificare preventivamente la disponibilità degli apparati da parte della polizia giudiziaria viene sostituito con quello di accertare previamente la fattibilità tecnica.

L’applicazione del braccialetto elettronico è comunque soggetta al consenso dell’interessato; in caso di diniego, è imposta l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi.

La priorità nei processi

Ulteriore elemento di novità è da individuarsi nel fatto che la L. 24-11-2023, n. 168 amplia le fattispecie per le quali è assicurata priorità nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi.

Detta priorità (già assicurata per i casi di maltrattamenti contro familiari e conviventi, violenza sessuale e atti persecutori) è estesa alle ipotesi di:

  • violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento;
  • costrizione o induzione al matrimonio, lesioni personali aggravate;
  • deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso;
  • interruzione di gravidanza non consensuale;
  • diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti;
  • stato di incapacità procurato mediante violenza laddove ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale.

L’arresto in flagranza differita e la provvisionale anticipata

Per effetto del provvedimento in esame è stato, altresì, reso possibile l’arresto in flagranza differita nei casi di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro familiari e conviventi, nonché di atti persecutori.

Tra le novità della legge, infine, si segnala l’introduzione della possibilità di corrispondere in favore della vittima di violenza di genere, oppure degli aventi diritto in caso di morte della vittima, una provvisionale, vale a dire una somma di denaro liquidata dal giudice, come anticipo sull’importo integrale che le spetterà in via definitiva.

L’iter legislativo e la ratio della legge

Il provvedimento, composto da 19 articoli, è diretto soprattutto alla prevenzione per evitare che i cosiddetti «reati spia» possano poi degenerare in fatti più gravi. E infatti l’inasprimento riguarda soprattutto chi è già stato destinatario dell’ammonimento e ricade nella stessa condotta, i cosiddetti recidivi.

L’intento del Governo è quello di:

  • rendere più veloci le valutazioni preventive sui rischi che corrono le potenziali vittime di femminicidio o di reati di violenza;
  • rendere più efficaci le azioni di protezione preventiva; rafforzare le misure contro la reiterazione dei reati a danno delle donne e la recidiva;
  • migliorare la tutela complessiva delle vittime di violenza.

Per ciò che concerne l’iter legislativo, come si vedrà, caratterizzato da una rapida approvazione, il relativo disegno di legge di iniziativa governativa n. 1294, recante Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica veniva presentato alla Camera dei Deputati il 12-7-2023.

L’esame in Commissione Giustizia iniziava il 6-9-2023 e si concludeva in poco più di un mese, il 19-10-2023. La Camera approvava all’unanimità il testo il 26-10-2023.

La Commissione giustizia del Senato della Repubblica esaminava il testo nella sola seduta del 21-11-2023 e il Senato lo approvava definitivamente il giorno successivo, il 22-11-2023, con votazione unanime. Negli interventi in Commissione e in aula si segnalava l’urgenza dell’intervento: «con riguardo ai provvedimenti in materia di violenza contro le donne dimostra quanto il tema, anche alla luce dei tristi e frequenti episodi di cronaca, sia per tutte le forze politiche di priorità assoluta. Anche nel dibattito svoltosi ieri in Commissione giustizia, tutti i Commissari hanno ribadito all’unanimità l’assoluta urgenza che il Parlamento approvi il prima possibile il disegno di legge, che rappresenta una prima risposta alla drammatica escalation di femminicidi alla quale stiamo assistendo».

Il Presidente della Repubblica promulgava la legge il 24-11-2023; lo stesso giorno il testo veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

La celerità dell’approvazione, le ragioni su indicate e l’unanimità della votazione costituiscono chiari elementi di cui l’interprete deve tenere conto sia nell’esame del significato delle nuove norme, sia nella concreta attuazione.

Quanto, invece, alla ratio della legge, fin dall’epigrafe, con la medesima, per la prima volta il legislatore indica espressamente il contrasto alla violenza sulle donne (e non solo alla violenza di genere o domestica), prendendo atto del contenuto e delle finalità della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e contro la violenza domestica, ratificata ai sensi della L. 77/2013. La legge in esame, finalmente, menziona direttamente la citata Convenzione.

La relazione di accompagnamento al disegno di legge di iniziativa governativa n. 1294, poi divenuto legge con alcune modifiche, indica con chiarezza l’obiettivo: «contrastare il fenomeno della violenza sulle donne e della violenza domestica, spesso declassata a semplice conflittualità, e il reiterarsi di episodi di violenza che possono degenerare in condotte più gravi, finanche in femminicidi; il disegno di legge si muove […] nel solco delle considerazioni rappresentate nella Relazione finale (Doc. XXIIbis, n. 15, della XVIII legislatura) della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere».

Conclusioni

Il contrasto alla violenza domestica ed in particolare sulla donna è – e deve restare – una priorità del Legislatore.

La violenza di genere, soprattutto in ambito domestico, come abbiamo innanzi annotato, continua a far rilevare dei dati allarmanti, nonostante la fine dell’emergenza pandemica e le novità introdotte dalla L. 69/2019 (cd. Codice Rosso). Infatti, continuano a essere tantissime le donne costrette a subire violenze di ogni genere, sia fisiche che psicologiche. Ogni condotta che mira ad annientare la donna nella sua identità e libertà, non soltanto fisicamente, ma anche nella sua dimensione psicologica, sociale e professionale, è una violenza di genere ed è su questa che si misura il grado di civiltà di una comunità. È necessaria una reazione di condanna forte e chiara. Non esiste tolleranza né giustificazione alcuna per le condotte che ledono i diritti delle donne e la consapevolezza condivisa della gravità del problema, come spesso succede nel campo dei comportamenti sociali, costituisce il presupposto indispensabile perché, davvero, si realizzi un concreto cambiamento.

A fronte di tale ineludibile esigenza, l’intervento normativo qui esaminato pone una specifica attenzione all’inasprimento del trattamento sanzionatorio e soprattutto cautelare, in linea con le esigenze pubbliche di sicurezza.

Vengono inoltre previste norme che, seppur prive di rilievo processuale, introducono una tempistica serrata nella valutazione del rilievo cautelare di vicende spesso nebulose, tempistica la cui violazione, seppur priva di alcun rilievo processuale, potrà determinare altre forme di responsabilità.

A fronte di tale esigenza securitaria, marcata invece è l’esigenza di una crescita culturale e sociale che passi dalle formazioni intermedie secondo quanto riportato nel preambolo della Convenzione di Istanbul:

  • riconoscendo che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne;
  • riconoscendo che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione;
  • riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.

La legge in questione costituisce certamente un passo in avanti per il contrasto dell’odioso fenomeno di cui trattasi. Tuttavia, come ormai riconosciuto da tutte le parti politiche, è indispensabile anche un’operazione socio-culturale, lunga e difficile, che richiede l’intervento coordinato di tutti gli attori istituzionali. In primo luogo, dovrà essere potenziata ulteriormente con adeguati finanziamenti l’attività dei Centri Antiviolenza che sono in prima linea nel contrasto a tale fenomeno.

In conclusione, il fenomeno della violenza di genere ha nel nostro Paese consolidate radici culturali e psicologiche che potranno essere estirpate o quantomeno ridotte, solo con una forte azione sinergica posta in essere da parte di tutti i settori della società civile e che deve trovare il suo fulcro nelle scuole e, quindi, nella formazione dei nostri giovani.

La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci, è una violazione dei diritti umani e dunque, come tale, si tratta di una battaglia non solo delle donne ma un impegno di tutti coloro, donne e uomini, che credono nell’eguaglianza, nei diritti della persona e nella democrazia.

Processo penale telematico: cos’è e come funziona Processo penale telematico: l’informatizzazione della giustizia penale ha fatto un salto in avanti grazie alla normativa sul deposito degli atti

Cos’è il processo penale telematico

Il processo penale telematico può essere definito molto semplicemente come un processo penale basato sulla informatizzazione delle procedure che la legge pone a carico degli Uffici Giudiziari che compongono la Giustizia Penale nel suo complesso e degli avvocati.

PPT: evoluzione normativa

Di processo penale telematico (PPT) si parla in maniera strutturata a partire dal 2009. La svolta normativa più importante però si è realizzata nel corso del 2020, per limitare gli accessi  alle cancellerie. Dopo questa fase pandemica di emergenza il processo penale telematico è diventato uno degli obiettivi più importanti della riforma Cartabia del 2022, grazie al dlgs n. 150/2022, anche per la necessità di ridurre i tempi del processo e renderlo più efficiente, come richiesto dal P.N.R.R.

Le ultime riforme del processo penale hanno avuto come comune denominatore la digitalizzazione della giustizia, progetto che nasce dalla consapevolezza del passaggio dall’analogico al digitale per rendere la giustizia penale più efficiente, trasparente, rapida e accessibile.

Tralasciando le questioni più squisitamente tecniche relative agli atti nativi digitali e al fascicolo elettronico vediamo come, al momento, funziona il deposito degli atti nel processo penale, in base al decreto ministeriale che è entrato in vigore il 1 gennaio del 2024, perché la disciplina del deposito coinvolge l’aspetto principale del processo ossia la circolazione degli atti e dei documenti.

Deposito telematico

Il DM n. 217 del 29 dicembre 2023, pubblicato sulla GU il giorno successivo ed entrato in vigore dal 14 gennaio 2024, ha stabilito le regole per il deposito degli atti processuali penali.

Il decreto, se così si può dire, è destinato agli utenti abilitati interni (magistrati, cancellieri, addetti agli uffici dell’amministrazione della Giustizia) e a quelli abilitati esterni che si distinguono in pubblici (avvocatura dello Stato, avvocature distrettuali, procuratori e dipendenti pubblici di tutti i livelli che possono intervenire nel portale depositi) e privati, ossia gli avvocati.

Il deposito degli atti ai sensi della legge può essere effettuato solo attraverso il portale dei depositi telematici a cui si può accedere con Smartcard o SPID.

Disciplina transitoria e tappe del deposito telematico

La disciplina transitoria, che sta creando non pochi problemi, anche se destinata a restare in vigore solo per il 2024, prevede la convivenza di tre sistemi di deposito:

  1. attraverso il portale telematico;
  2. il deposito a mezzo pec;
  3. il deposito cartaceo “analogico”.

Dall’entrata in vigore del DM n. 217/2023, per la fase delle indagini preliminari gli avvocati potranno depositare in modalità telematica gli atti processuali, i documenti e le memorie indirizzati alla Procura della Repubblica preso il Tribunale, alla Procura Europea, all’ufficio GEP del Tribunale o alla Procura Generale, se si tratta di atti relativi a un procedimento di avocazione delle indagini.

Per quanto riguarda le altre fasi processuali, diverse quindi dalla indagini preliminari, salvo alcune eccezioni che prevedono modalità di deposito del tutto peculiari, si potranno depositare in modalità telematica tutti gli atti processuali indirizzati alla Corte di Appello, al Tribunale ordinario, al Giudice di Pace, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale, alla Procura Europea, alla Procura Generale presso Corte di Appello.

Per i procedimenti di prevenzione, esecuzione e che riguardano rapporti con le autorità straniere è necessario procedere al deposito cartaceo o a mezzo pec.

Dal 1° gennaio 2025 dovranno essere depositati solo in modalità telematica gli atti destinati alla Procura della Repubblica presso il Tribunale, alla Procura Europea e al Tribunale.

Dal 30 giugno 2025 dovranno essere depositati in modalità telematica gli atti destinati alla Procura Generale presso la Corte d’Appello, alla Corte d’Appello, alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione e alla Corte di Cassazione.

Dal 1° gennaio 2026 per tutti i procedimenti, in ogni loro fase, andranno depositati telematicamente gli atti destinati alla Procura delle Repubblica presso il Tribunale dei Minori, al Tribunale dei minorenni, al Tribunale di sorveglianza, gli atti relativi ai procedimenti di prevenzione, ai procedimenti di esecuzione, ai rapporti con le autorità straniere e ai procedimenti del Giudice di Pace.

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Suicidio assistito: la Consulta torna sul fine vita La Corte Costituzionale ribadisce gli attuali requisiti per l'accesso al suicidio assistito e ne precisa il significato richiamando la sentenza del 2019

Suicidio assistito: la Consulta ribadisce i requisiti

Suicidio assistito. La Consulta torna ad esprimersi sul fine vita e ribadisce gli attuali requisiti, alla luce della propria storica sentenza del 2019, precisandone il significato. “Nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia, i requisiti per l’accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019, compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, il cui significato deve però essere correttamente interpretato in conformità alla ratio sottostante a quella sentenza. Tutti questi requisiti – (a) irreversibilità della patologia, (b) presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili, (c) dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, (d) capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli – devono essere accertati dal servizio sanitario nazionale, con le modalità procedurali stabilite in quella sentenza” afferma infatti il giudice delle leggi nella sentenza n. 135/2024, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Firenze sull’art. 580 del codice penale.

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Questioni che miravano ad estendere l’area della non punibilità del suicidio assistito oltre i confini stabiliti dalla Corte con la precedente sentenza del 2019 e che nascevano da un procedimento penale contro tre persone che hanno aiutato un paziente affetto da sclerosi multipla di grado avanzato, in stato di quasi totale immobilità, ad accedere al suicidio assistito in una struttura privata svizzera.

Il GIP ha rilevato che il paziente si trovava in una condizione di acuta sofferenza, determinata da una patologia irreversibile e aveva formato la propria decisione in modo libero e consapevole, ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Pertanto, ha ritenuto che non sussistessero tutte le condizioni di non punibilità del suicidio assistito fissate dalla Corte nella sentenza n. 242 del 2019.

Il GIP, a questo punto, ha chiesto alla Corte di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ritenendolo in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il diritto al rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel giudizio di legittimità costituzionale è stato ammesso l’intervento di due donne affette da analoghe patologie, a sostegno delle questioni prospettate. Numerosi amici curiae, inoltre, hanno depositato opinioni favorevoli o contrarie all’accoglimento delle questioni.

Requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale

La Corte ha, anzitutto, escluso che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti.

La sentenza n. 242 del 2019 non aveva riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile determinata da una patologia irreversibile, ma aveva soltanto «ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti».

Autodeterminazione terapeutica

Quanto all’autodeterminazione terapeutica, la Corte ha ribadito che “ogni paziente ha un diritto costituzionale di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza”.

Il diritto, nella sostanza invocato dal GIP di Firenze, a una generale sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo è però più ampio del diritto a rifiutare il trattamento medico, e va necessariamente bilanciato con il contrapposto dovere di tutela della vita umana, specie delle persone più deboli e vulnerabili. Ciò al fine di evitare non soltanto ogni possibile abuso, ma anche la creazione di una «pressione sociale indiretta» che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi.

“Il compito di individuare il punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al legislatore, nell’ambito della cornice precisata dalla Corte nella propria giurisprudenza” ha affermato ancora la Consulta rinnovando l’invito al legislatore a pronunciarsi.

Inalienabile dignità della vita umana

La Corte ha poi sottolineato che, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge. La nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’ordinanza di rimessione e connessa alla concezione che il paziente ha della propria persona – nozione alla quale pure la Corte «non è affatto insensibile» – finisce poi per coincidere con quella di autodeterminazione. Anche rispetto ad essa resta quindi necessario un bilanciamento, a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana.

La Corte ha negato inoltre la violazione del diritto alla vita privata riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella sentenza Karsai contro Ungheria del 13 giugno scorso, in effetti, la stessa Corte di Strasburgo ha escluso che l’incriminazione dell’assistenza al suicidio violi il diritto alla vita privata di una persona affetta da una patologia degenerativa del sistema nervoso in stato avanzato, riconoscendo un ampio margine di apprezzamento a ciascuno Stato nel bilanciamento tra tale diritto e la tutela della vita umana.

Tuttavia, la Consulta ha precisato che la nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio della sentenza n. 242 del 2019.

I principi del 2019

Questa sentenza si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. La nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo.

La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242 del 2019.

D’altra parte, la Corte ha riaffermato la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n. 242 del 2019. È dunque necessario, per tutti i fatti successivi al 2019, che le condizioni e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio siano verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, previo parere del comitato etico territorialmente competente, senza che possa venire in rilievo l’ipotetica equivalenza di procedure alternative in concreto seguite. Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del reato, compreso l’elemento soggettivo.

Auspicio intervento legislativo

Infine, la Corte ha espresso il forte auspicio che “il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi oggi richiamati”. La consulta ha, quindi, ribadito “lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010“.

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