crudeltà

Le lesioni inflitte con crudeltà sono procedibili d’ufficio Per la Cassazione, le lesioni inflitte con crudeltà non si estinguono per remissione di querela, in quanto procedibili d’ufficio

Aggravante della crudeltà

Il reato di lesioni commesso con crudeltà (nella specie sigaretta spenta sul braccio della vittima) non si estingue per effetto della remissione di querela, in quanto procedibile d’ufficio. Lo rammenta la quinta sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 19050/2025, dando ragione al procuratore che aveva impugnato la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Castrovillari dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato in ordine al delitto di lesioni personali aggravate dalla crudeltà, di cui agli art. 582, 585, 57 e 61 n. 4, cod. pen. per essere lo stesso estinto per remissione tacita di querela.

Proponeva ricorso per cassazione li Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catanzaro, deducendo che li reato di lesioni personali come contestato, ossia, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 4 cod. pen. per essere stato il fatto commesso con l’uso della crudeltà, è procedibile d’ufficio, di modo che il giudice censurato avrebbe errato nell’averlo dichiarato estinto per remissione di querela. Peraltro, la circostanza aggravante contestata sarebbe in astratto configurabile, avuto riguardo alle modalità della condotta dell’imputato, che spegnendo una sigaretta sull’avambraccio sinistro della parte offesa, le aveva inflitto sofferenze aggiuntive rispetto a quelle necessariamente discendenti dalla realizzazione del reato.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

“La lettura dell’imputazione – affermano i giudici preliminarmente – riportata nell’incipit della sentenza impugnata dà conto di come oggetto dell’addebito mosso a siano le lesioni personali di cui agli artt. 582 e 585 cod. pen. in relazione all’art, 577 e 61 n. 4 cod. pen., aggravate dall’«avere agito con crudeltà verso la persona offesa»”.

Il testo della disposizione di cui all’art. 582, comma 2, cod. pen., in tema di lesioni personali, ordinariamente perseguibili a querela di parte, ricordano dal Palazzaccio, stabilisce che «Si procede tuttavia d’ufficio se ricorre taluna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 583, 583-quater, secondo comma, primo periodo, e 585, ad eccezione di quelle indicate nel primo comma, numero 1), e nel secondo comma dell’articolo 577».

Nel caso al vaglio, “il reato contestato all’imputato non poteva essere dichiarato estinto per remissione di querela: l’elemento accessorio della crudeltà non rientra, infatti, nel novero delle eccezioni alla procedibilità d’ufficio delle lesioni personali pur aggravate”. Per cui, la sentenza impugnata va annullata. Parola al giudice del rinvio.

 

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suicidio assistito

Suicidio assistito: legittimo il sostegno vitale Suicidio assistito: la Corte costituzionale conferma la legittimità del requisito del trattamento di sostegno vitale

Suicidio assistito: nuovo intervento della Consulta

Suicidio assistito: con la sentenza n. 66 del 2025, la Corte costituzionale ha confermato la non contrarietà alla Costituzione della previsione normativa che subordina la non punibilità dell’aiuto al suicidio alla condizione che la persona malata necessiti, secondo valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale. La pronuncia rigetta le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Milano in relazione all’art. 580 c.p., in un procedimento avviato a seguito della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero.

Sostegno vitale come criterio non discriminatorio

La Consulta, richiamando i principi già affermati nella sentenza n. 135 del 2024, chiarisce che il requisito del trattamento di sostegno vitale si considera soddisfatto quando, in base all’indicazione clinica, tale trattamento è necessario per garantire le funzioni vitali del paziente. È sufficiente che, in assenza del trattamento, la morte risulti prevedibile in un arco temporale ristretto. Non è invece richiesta la previa attivazione del trattamento al solo fine di accedere al suicidio assistito.

Non viola la Costituzione il limite salvavita

La Corte ha escluso che tale condizione integri una forma di discriminazione o rappresenti una violazione del diritto all’autodeterminazione. Ha inoltre ribadito che, pur potendo il legislatore adottare scelte differenti, queste dovrebbero essere accompagnate da idonee garanzie contro possibili abusi. Allo Stato deve essere riconosciuto un ampio margine di discrezionalità legislativa nel bilanciamento tra la tutela della vita (art. 2 Cost.) e il diritto all’autonomia personale, intesa come espressione del più ampio diritto allo sviluppo della personalità.

Garanzie procedurali essenziali e ruolo del legislatore

La Corte ha ribadito l’importanza delle condizioni sostanziali e procedurali, già individuate con la sentenza n. 242 del 2019, sottolineando la loro funzione nel prevenire abusi e nel tutelare soggetti vulnerabili. Tali requisiti costituiscono un argine anche rispetto a potenziali derive culturali che possano indurre persone malate a optare per il suicidio in assenza di un adeguato sostegno sociale e sanitario.

Criticità del sistema di cure palliative

Nel testo della pronuncia emerge inoltre un chiaro richiamo al dovere della Repubblica di garantire l’accesso effettivo a cure palliative e assistenza sociosanitaria domiciliare continuativa, poiché l’assenza di tali servizi incide significativamente sulle scelte delle persone affette da gravi patologie. La Corte ha segnalato con preoccupazione le criticità sistemiche: carenza di personale specializzato, disparità territoriali, lunghi tempi d’attesa e una presa in carico spesso inadeguata.

Infine, viene nuovamente sollecitato il Parlamento e il Servizio sanitario nazionale affinché provvedano alla puntuale attuazione della sentenza n. 242 del 2019, anche attraverso l’elaborazione di una disciplina normativa alternativa che, pur nel rispetto delle indicazioni costituzionali, possa fornire una risposta compiuta e uniforme alla tematica del fine vita.

misure cautelari personali

Misure cautelari personali Misure cautelari personali: definizione, principio di proporzionalità, normativa, presupposti, tipologie, normativa e giurisprudenza

Cosa sono le misure cautelari personali?

Le misure cautelari personali rappresentano strumenti giuridici che limitano temporaneamente la libertà personale di un soggetto nel corso di un procedimento penale. Vengono applicate per prevenire la fuga dell’imputato, la reiterazione del reato o l’inquinamento delle prove.

Le misure cautelari personali sono provvedimenti restrittivi imposti dal giudice prima della sentenza definitiva per garantire il buon andamento del processo.

Il principio di proporzionalità

Tra i principali criteri di scelta delle misure cautelari da applicare il giudice deve tenere conto del principio di proporzionalità della misura rispetto al reato contestato (art. 275 app).

Normativa di riferimento

Sono disciplinate dal Titolo I del Libro IV del Codice di Procedura Penale (articoli 272-315 app).

Queste le norme di maggiore rilievo:

  • art. 272 CPP: Principio di eccezionalità delle misure cautelari;
  • art. 273 CPP: Necessità di gravi indizi di colpevolezza;
  • art. 274 CPP: Esigenze cautelari;
  • art. 275 CPP: Principio di proporzionalità;
  • art. 280 CPP: Condizioni di applicabilità delle misure;
  • art. 292 CPP: Contenuto dell’ordinanza cautelare;
  • art. 309-311 CPP: Procedura di impugnazione delle misure cautelari.

Presupposti adozione misure cautelari personali

L’adozione di una misura cautelare personale richiede la presenza di determinati presupposti fondamentali:

1. gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p);

2. esigenze cautelari (art. 274 c.p.p), che possono riguardare:

  • il pericolo di fuga;
  • la possibile reiterazione del reato;
  • l’inquinamento delle prove.

3. utilità della misura. 

Tipologie di misure cautelari personali

Le misure cautelari personali si distinguono in misure coercitive e misure interdittive.

Misure Coercitive

Le misure coercitive incidono direttamente sulla libertà personale dell’imputato.

  • Custodia cautelare in carcere (art. 285 c.p.p): è la misura più grave, applicata per reati particolarmente gravi (es. omicidio, mafia, terrorismo). Il giudice deve motivare la necessità di applicarla.
  • La custodia cautelare può avvenire anche in un istituto a custodia attenuata per le detenute madri (art. 285 bis c.p.p) e in un luogo di cura (art. 286 c.p.p).
  • Arresti domiciliari (art. 284 c.p.p): l’imputato è obbligato a rimanere presso la propria abitazione o altro luogo designato. Può essere concesso solo se sufficiente a tutelare le esigenze cautelari.
  • Obbligo di dimora (art. 283 c.p.p): impone all’indagato di risiedere in un determinato Comune senza allontanarsi.
  • Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p): viene adottato nei casi di reati contro la persona, come violenza domestica o stalking.
  • Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 282 c.p.p): l’imputato deve presentarsi periodicamente presso un comando di polizia.
  • Divieto di espatrio (art. 281 c.p.p): l’imputato non può uscire dal territorio nazionale senza preventiva autorizzazione del giudice procedente.

Misure interdittive

Le misure interdittive non limitano direttamente la libertà personale, ma incidono sull’attività professionale o sociale dell’imputato.

  • Sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale (art. 288 c.p.p)
  • Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 288 c.p.p);
  • Divieto temporaneo di contrattare con la Pubblica Amministrazione (art. 289 bis c.p.p)
  • Divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (art. 290 c.p.p).

Durata delle misure cautelari

La durata della custodia cautelare è stabilita dall’art. 303 CPP e dipende dalla gravità del reato e dalla fase processuale:

  • Massimo 2 anni per reati puniti con pena massima non superiore a 6 anni;
  • Massimo 4 anni per reati puniti con pena non superiore nel massimo a 20 anni, salvo eccezioni;
  • Massimo 6 anni per reati con pena superiore a 20 anni o puniti con la pena dell’ergastolo.

Per quanto riguarda invece la durata delle misure cautelari diverse dalla custodia cautelare l’art. 308 c.p.p stabilisce che “perdono efficacia quando dall’inizio della loro esecuzione è decorso un periodo di tempo pari al doppio dei termini previsti dall’articolo 303.”

Le misure interdittive invece non possono durare più di 12 mesi, anche se possono essere rinnovate.

Per particolari delitti queste perdono efficacia con il decorso di sei mesi dalla loro esecuzione.

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha spesso ribadito i criteri di applicazione delle misure cautelari:

Cassazione n. 8379/2025: a seguito della sentenza n. 173 del 2024 della Corte costituzionale, è stato dichiarato illegittimo l’automatismo con cui il giudice, dopo aver disposto il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa con le modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis del codice di procedura penale, applichi una misura più restrittiva qualora si accerti l’impossibilità tecnica di tali controlli. La Corte ha stabilito che il giudice, in tale circostanza, deve invece riesaminare il caso specifico e decidere se aggravare o attenuare la misura originaria, sempre nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità.

Cassazione n. 30996/2023: la vicenda cautelare richiede una valutazione continua e unitaria dei presupposti che la giustificano, il che significa che le condizioni richieste per l’applicazione di una specifica misura devono persistere non solo al momento iniziale, ma durante tutta la sua esecuzione. I principi di adeguatezza e proporzionalità devono quindi accompagnare quella particolare misura restrittiva non solo quando viene disposta, ma per tutta la sua durata nel processo. Se così non fosse, si verificherebbe una limitazione della libertà personale sproporzionata rispetto alla sua funzione, compromettendo il quadro costituzionale di riferimento.

 

Leggi anche: Le misure interdittive

violenza domestica

Violenza domestica: la Cassazione valorizza gli indizi La Cassazione chiarisce che anche un solo episodio di violenza domestica può giustificare la separazione con addebito. Fondamentali anche gli indizi e le testimonianze indirette

Violenza domestica e separazione

In ambito familiare, ai fini della ricostruzione dei fatti nei procedimenti giudiziari – in particolare nelle cause di separazione personale tra coniugi – il giudice non può limitarsi a considerare solo le prove dirette e palesi. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10021/2025, affermando che la valutazione degli indizi è essenziale per accertare episodi di violenza domestica.

Un solo episodio può bastare per l’addebito

La vicenda trae origine da una causa di separazione in cui il Tribunale aveva addebitato la crisi coniugale al marito, ritenuto responsabile di atti di violenza contro la moglie. La Corte d’appello, tuttavia, aveva annullato tale addebito, non ravvisando prove sufficienti delle condotte contestate. Contro questa decisione la moglie ha proposto ricorso in Cassazione, che ha accolto la doglianza, cassando la sentenza impugnata e rinviando la questione a una diversa composizione della Corte territoriale.

La Suprema Corte ha ribadito un principio fermo nella sua giurisprudenza: anche un solo episodio accertato di percosse può giustificare la separazione con addebito, in quanto comportamento lesivo della dignità personale e tale da compromettere in modo irreversibile l’equilibrio della relazione coniugale.

Indizi strumenti fondamentali per accertare la verità

Nel confermare la centralità dell’approccio indiziario, la Cassazione evidenzia come, soprattutto nei procedimenti familiari, spesso legati a dinamiche intime e riservate, il giudice debba fondare il proprio convincimento anche su elementi indiretti. Tra questi:

  • le testimonianze de relato, provenienti dalla parte che denuncia i fatti;

  • le relazioni dei Servizi sociali, spesso fondamentali per rilevare situazioni di maltrattamento o disagio familiare.

La Corte sottolinea che queste fonti possono rappresentare indizi rilevanti, da valutare congiuntamente per ricostruire episodi di violenza fisica o psicologica difficilmente documentabili con prove dirette, come spesso accade nei contesti di abuso domestico.

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diritti di copia

Diritti di copia nel processo penale: i chiarimenti di via Arenula Nuove regole sui diritti di copia nel processo penale: 25 euro per supporti fisici e 8 euro per invii telematici. I chiarimenti della circolare del Ministero della Giustizia del 13 maggio 2025

Diritti di copia nel processo penale

Con la circolare diramata il 13 maggio 2025, pubblicata sul canale Filo Diretto, il Ministero della Giustizia ha fornito importanti chiarimenti in merito al nuovo regime dei diritti di copia nel processo penale, introdotto dalla legge di bilancio 2025 (L. n. 207/2024), che ha modificato le disposizioni del Testo Unico delle spese di giustizia.

Esclusione dell’esenzione prevista nel processo civile

Un primo punto chiarito riguarda l’inapplicabilità, nel rito penale, della disposizione introdotta dal nuovo comma 1-bis dell’art. 269 del T.U. spese di giustizia. Tale norma, che esonera dal pagamento dei diritti di copia le copie senza certificazione di conformità estratte direttamente dal fascicolo informatico, è infatti riferita esclusivamente al processo civile. Nel processo penale, anche il download degli atti digitali comporta un’attività della cancelleria, configurandosi dunque come trasmissione telematica e non come semplice estrazione.

Regime forfettario per copie informatiche nel penale

Con l’introduzione dell’articolo 269-bis del Dpr n. 115/2002, trova applicazione un criterio forfettario di calcolo dei diritti di copia per gli atti e documenti processuali nel settore penale, valido dal 1° gennaio 2025. Sono previste due modalità di rilascio:

  • Supporti fisici (USB, CD, DVD): il costo è pari a 25 euro per ciascun dispositivo utilizzato, indipendentemente dal numero di pagine o dal tipo di contenuto (video, audio, testi);

  • Trasmissione telematica (PEC, PEO, portale): il diritto di copia è fissato in misura forfettaria pari a 8 euro per ogni invio, senza considerare il numero di pagine trasmesse.

In caso di invii multipli – ad esempio per limiti alla dimensione dei file allegati – si applicherà l’importo di 8 euro per ciascuna trasmissione.

Applicabilità anche in assenza del fascicolo informatico

La circolare chiarisce che, anche in contesti in cui il fascicolo informatico non sia attivo (es. nei giudizi d’appello), continua a trovare applicazione il nuovo regime forfettario introdotto dall’art. 269-bis, in quanto riferito a qualunque richiesta di rilascio o trasmissione telematica di atti, indipendentemente dall’effettiva informatizzazione del fascicolo.

Riduzioni nei procedimenti dinanzi al Giudice di Pace

Nel processo penale davanti al Giudice di Pace, i diritti sono ridotti del 50% come stabilito dall’art. 271 del Dpr n. 115/2002:

  • 12,50 euro per supporti fisici;

  • 4,00 euro per ogni trasmissione telematica.

Precisazioni operative

La circolare ministeriale precisa inoltre che:

  • La mera visione degli atti informatici non comporta il pagamento di diritti, che sono dovuti solo nel caso di formale richiesta di copia;

  • Non è ammessa la riproduzione autonoma dei documenti tramite dispositivi personali (scanner, smartphone, ecc.), in quanto elusiva degli obblighi fiscali;

  • Le copie cartacee restano richiedibili, ma i relativi diritti sono soggetti a un aumento del 50%, secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 5, D.L. n. 193/2009, convertito in L. n. 24/2010.

incaricato di pubblico servizio

Incaricato di pubblico servizio Incaricato di pubblico servizio: chi è, normativa, tipologie, differenze rispetto al pubblico ufficiale e giurisprudenza

Chi è l’incaricato di pubblico servizio

L’incaricato di pubblico servizio è una figura giuridica rilevante nel diritto penale italiano, collocata accanto a quella del pubblico ufficiale. Si tratta di un soggetto che, pur non essendo titolare di pubblici poteri autoritativi o certificativi, esercita un’attività di pubblico interesse con modalità che richiedono particolare attenzione giuridica.

Normativa di riferimento

La definizione di incaricato di pubblico servizio si trova all’articolo 358 del Codice Penale, che così recita: “Agli effetti della legge penale, sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio, intendendosi per pubblico servizio un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni d’ordine e della prestazione di lavoro meramente materiale.”

La disposizione precisa quindi che il pubblico servizio, pur essendo attività di interesse collettivo, non attribuisce poteri autoritativi né certificativi all’incaricato.

Tipologie di incaricati di pubblico servizio

Gli incaricati di pubblico servizio possono essere individuati in diverse categorie operative, tra cui:

  • addetti di aziende fornitrici di pubblici servizi (es. dipendenti delle società di trasporto pubblico o delle imprese erogatrici di energia elettrica);
  • addetti alle società concessionarie di servizi pubblici, come la gestione di rifiuti urbani o della distribuzione idrica;
  • personale amministrativo di enti pubblici o di società private che operano in regime di concessione pubblica.

Non rientrano invece nella categoria gli esecutori di mere attività materiali o coloro che svolgono semplici compiti di manovalanza.

Differenze tra incaricato di pubblico servizio e pubblico ufficiale

È fondamentale distinguere l’incaricato di pubblico servizio dal pubblico ufficiale.

Criterio

Pubblico ufficiale

Incaricato di pubblico servizio

Poteri

Esercita pubbliche funzioni con poteri autoritativi e certificativi

Svolge attività di pubblico interesse senza poteri autoritativi o certificativi

Esempi

Carabinieri, giudici, ufficiali di stato civile

Dipendenti di aziende di trasporto pubblico, personale di sportelli amministrativi

Rilevanza penale

Applicazione di reati propri contro la Pubblica Amministrazione (es. abuso d’ufficio, corruzione)

Applicazione limitata a reati compatibili con la mancanza di potere autoritativo

In sostanza, il pubblico ufficiale ha la capacità di manifestare la volontà della Pubblica Amministrazione e di incidere direttamente nella sfera giuridica dei privati, mentre l’incaricato svolge attività strumentale o esecutiva, pur rilevante per il funzionamento di servizi pubblici.

Responsabilità penale dell’incaricato di pubblico servizio

Gli incaricati di pubblico servizio possono rispondere di diversi reati contro la Pubblica Amministrazione, tra cui:

  • peculato (art. 314 c.p);
  • indebita destinazione di denaro o cose mobili (art. 314 bis c.p);
  • peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 326 bis c.p);
  • concussione (art. 317 c.p);
  • induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p);
  • corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 c.o);
  • utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragione di ufficio (325 c.p);
  • rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p);
  • rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p).

Gli incaricati di pubblico servizio sono ovviamente esclusi alle fattispecie che richiedono necessariamente l’esercizio di pubblici poteri, come il reato di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale (art. 479c.p).

Inquadramento dottrinale e giurisprudenziale

Dottrina e giurisprudenza hanno precisato che la qualifica di incaricato di pubblico servizio non dipende dal rapporto di pubblico impiego né dalla natura pubblica o privata dell’ente datore di lavoro, ma è legata esclusivamente alla funzione esercitata.

La recente pronuncia della Cassazione n. 1957/2023 ha chiarito che l’incaricato di pubblico servizio svolge un’attività regolamentata come la pubblica funzione, ma senza poteri di certificazione o decisione. Allo stesso tempo, il suo ruolo va oltre semplici compiti esecutivi o manuali.

La precedente Cassazione n. 5550/2022 invece ha chiarito che l’esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio non sussiste se l’attività dell’agente è disciplinata da norme di diritto privato, anche qualora una persona giuridica pubblica o una società con partecipazione pubblica quasi totale sia coinvolta.

 

Leggi anche: Il pubblico ufficiale 

tenuità del fatto e iscrizione

Tenuità del fatto e iscrizione nel casellario giudiziale Tenuità del fatto e iscrizione nel casellario giudiziale: la Cassazione chiarisce la rilevanza ai fini dell’abitualità

Particolare tenuità del fatto

Tenuità del fatto e iscrizione nel casellario giudiziale: con la sentenza n. 16666/2025, depositata il 6 maggio, la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha affrontato un nodo interpretativo rilevante in materia di particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis c.p., chiarendo che l’iscrizione del provvedimento di archiviazione per tenuità rileva esclusivamente ai fini dell’accertamento dell’abitualità del comportamento dell’imputato, e non ha altre conseguenze penali pregiudizievoli.

Il fatto oggetto del giudizio

Nel caso in esame, l’imputato era stato precedentemente destinatario di un provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, disposto ex art. 131-bis c.p. In un successivo procedimento penale, tale precedente era stato valorizzato per escludere la tenuità di un nuovo episodio, in quanto considerato elemento ostativo sotto il profilo dell’abitualità del comportamento, elemento preclusivo all’applicazione del medesimo istituto.

La difesa aveva eccepito l’illegittimità della valutazione, sostenendo che l’iscrizione del provvedimento di archiviazione non avrebbe dovuto produrre alcun effetto nel nuovo procedimento.

Tenuità del fatto e iscrizione: il principio della S.C.

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il principio secondo cui: “L’iscrizione nel casellario giudiziale del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. è rilevante esclusivamente ai fini della valutazione dell’abitualità del comportamento dell’imputato e non produce altri effetti negativi in termini di recidiva o di giudizio di colpevolezza”.

Tale orientamento si pone in linea con il tenore letterale dell’art. 131-bis, il quale prevede l’esclusione della non punibilità quando l’autore abbia commesso più reati della stessa indole, ovvero più condotte che denotino una tendenza delittuosa, anche se in precedenza giudicate di particolare tenuità.

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guida senza patente

Tenuità del fatto: esclusa per la guida senza patente Guida senza patente e particolare tenuità del fatto: la Cassazione esclude l'applicabilità dell’art. 131-bis c.p.

Guida senza patente e tenuità del fatto

Con la sentenza n. 16367/2025, la quarta sezione penale della Cassazione ha chiarito che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) non può essere applicata alla contravvenzione di guida senza patente, anche laddove il fatto risulti oggettivamente di minima offensività.

Il fatto

La vicenda trae origine dalla condanna inflitta dal Giudice di pace di Sassari per il reato di guida senza patente, di cui all’art. 116, comma 15, del Codice della strada. L’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, lamentando l’omessa valutazione da parte del giudice di merito della possibilità di applicare l’art. 131-bis c.p., sostenendo la lieve entità del fatto e l’assenza di pericolo concreto.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha ribadito che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non può trovare applicazione nel caso di guida senza patente, trattandosi di una contravvenzione che, per natura e struttura normativa, è incompatibile con l’istituto previsto dall’art. 131-bis c.p.

La motivazione: perché l’art. 131-bis c.p. non si applica

La Corte ha valorizzato il carattere formale e di pericolo astratto della contravvenzione di cui all’art. 116, comma 15, C.d.S. La norma incrimina la condotta indipendentemente dalla concreta idoneità a mettere in pericolo la sicurezza stradale, essendo diretta a tutelare un interesse pubblico rilevante: la certezza che chi guida veicoli a motore sia munito di adeguata abilitazione tecnica.

Secondo la motivazione della sentenza, l’elemento tipico della contravvenzione non consente una valutazione in termini di offensività concreta, in quanto l’illecito è fondato su una violazione amministrativa ad elevata disvalore sociale, che si presume per legge.

Di conseguenza, anche in presenza di condotte isolate e prive di danno effettivo, non è possibile ritenere il fatto di particolare tenuità, in quanto la normativa esclude un giudizio discrezionale sulla gravità concreta del reato.

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pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale Pubblico ufficiale: chi è, normativa, tipologie e differenze rispetto all’incaricato di pubblico servizio

Chi è il pubblico ufficiale

La figura del pubblico ufficiale riveste un ruolo centrale nel diritto penale e amministrativo italiano. Si tratta infatti di quei soggetti che, nell’esercizio delle loro funzioni, rappresentano direttamente la Pubblica Amministrazione, esercitando poteri autoritativi o certificativi. Capire chi è il pubblico ufficiale e quali sono le sue responsabilità è fondamentale per interpretare correttamente molte norme del nostro ordinamento.

Normativa di riferimento

La definizione giuridica di pubblico ufficiale è contenuta nell’articolo 357 del Codice Penale, che dispone:

“1. Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. 2. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.”

La norma specifica che la pubblica funzione implica l’esercizio di poteri autoritativi o certificativi, cioè la capacità di incidere direttamente nella sfera giuridica dei soggetti privati, manifestando la volontà della Pubblica Amministrazione.

Tipologie di pubblici ufficiali

In base all’attività svolta, i pubblici ufficiali possono essere suddivisi in varie categorie:

  • pubblici ufficiali legislativi: parlamentari, consiglieri regionali e comunali;
  • pubblici ufficiali giudiziari: magistrati, cancellieri, ufficiali giudiziari;
  • pubblici ufficiali amministrativi: sindaci, assessori, dirigenti pubblici, ufficiali di stato civile;
  • agenti di polizia giudiziaria: carabinieri, poliziotti, guardie di finanza, limitatamente a specifiche funzioni.

Anche i notai, nella redazione degli atti notarili, agiscono in qualità di pubblici ufficiali, attribuendo fede privilegiata ai documenti redatti.

Funzioni e poteri del pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale esercita:

  • poteri autoritativi, cioè può adottare provvedimenti che incidono unilateralmente sulle situazioni giuridiche dei privati (es. ordinanze, sanzioni);
  • poteri certificativi, ovvero può redigere atti pubblici che fanno piena prova fino a querela di falso (es. registrazione di nascite o decessi, verbalizzazioni ufficiali).

In virtù di questi poteri, il pubblico ufficiale gode di una particolare tutela penale, ma al contempo è soggetto a responsabilità aggravate in caso di reati contro la Pubblica Amministrazione.

Differenze tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio

Sebbene entrambe le figure collaborino con la Pubblica Amministrazione, vi sono differenze sostanziali:

Criterio

Pubblico ufficiale

Incaricato di pubblico servizio

Definizione

Soggetto che esercita pubbliche funzioni con poteri autoritativi o certificativi

Soggetto che svolge un’attività di pubblico interesse senza poteri autoritativi né certificativi

Funzione

Autoritativa e certificativa

Esecutiva o strumentale

Esempi

Sindaco, carabiniere, cancelliere, ufficiale di stato civile

Addetto a società di trasporti pubblici, personale sanitario convenzionato

Reati applicabili

Reati contro la Pubblica Amministrazione, inclusi quelli che presuppongono l’esercizio di pubblici poteri

Reati compatibili con l’assenza di pubblici poteri

Il pubblico ufficiale, dunque, ha una funzione più pregnante e rilevante dal punto di vista giuridico rispetto all’incaricato di pubblico servizio, proprio perché rappresenta in maniera diretta la volontà della Pubblica Amministrazione.

Responsabilità penale del pubblico ufficiale

I pubblici ufficiali sono destinatari di una disciplina penale speciale che riguarda i reati contro la Pubblica Amministrazione, tra cui:

  • Peculato (art. 314 c.p.).
  • Corruzione propria (art. 319 c.p.).
  • Concussione (art. 317 c.p.).
  • Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.).
  • Falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479 c.p.).

La qualità di pubblico ufficiale è una condizione soggettiva che aggrava la responsabilità penale e comporta conseguenze particolarmente rilevanti.

Giurisprudenza

Cassazione n. 11341/2022:  i consiglieri regionali, in quanto membri del gruppo partitico di riferimento, sono da considerarsi pubblici ufficiali per tutte le attività connesse all’esercizio della funzione legislativa pubblica all’interno dell’assemblea regionale. Questa qualifica si estende alle iniziative intraprese tramite il gruppo consiliare, in quanto espressione della loro partecipazione alla funzione legislativa. In sostanza, l’esercizio del mandato di consigliere regionale e l’operare attraverso il gruppo di appartenenza nell’ambito dell’attività legislativa regionale attribuiscono la qualifica di pubblico ufficiale.

Cassazione n. 5550/2022:  Per stabilire se una persona sia un pubblico ufficiale, non conta se lavora per un ente pubblico o privato, né che tipo di contratto abbia. L’elemento decisivo è il tipo di attività che svolge concretamente. Anche un privato può essere considerato pubblico ufficiale se la sua attività è di natura pubblica. Allo stesso modo, è incaricato di pubblico servizio chiunque svolga un servizio pubblico, indipendentemente dal fatto che sia un dipendente pubblico o meno. In sostanza, ciò che definisce la qualifica è la natura pubblica del servizio svolto, non la forma giuridica del datore di lavoro o del rapporto lavorativo.

Cassazione n. 17972/2019: riveste la qualifica di pubblico ufficiale il soggetto che, pur in forza di un contratto privatistico di collaborazione coordinata e continuativa per un incarico di consulenza e supporto alla direzione sanitaria regionale, partecipa alla formazione della volontà dell’ente e all’attuazione dei suoi obiettivi istituzionali. Ciò si verifica anche quando l’attività svolta ha una rilevanza interna al procedimento amministrativo. In sintesi, la natura pubblica della funzione esercitata prevale sulla forma privatistica del rapporto di lavoro, qualora l’attività del soggetto contribuisca concretamente alle decisioni e alle finalità dell’amministrazione.

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Riduzione o mantenimento in schiavitù Quando rileva la situazione di necessità della vittima ai fini della punibilità del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di riduzione o mantenimento in schiavitù, presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente è la situazione di necessità da porsi in relazione non con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto; la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo adatta a condizionarne la volontà personale, coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cassazione, sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2450).

La Corte di Assise ha dichiarato colpevoli tre imputati delle condotte rispettivamente loro ascritte di riduzione in schiavitù, di tentata alienazione della persona offesa, di tentata estorsione, di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e di cessione di sostanze stupefacenti. In sede di appello, la Corte di Assiste d’appello ha parzialmente riformato la decisione di primo grado oggetto di gravame, assolvendo uno degli imputati dal delitto di tentata alienazione perché il fatto non sussiste, rideterminando la pena, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, riducendo altresì la pena nei confronti di altro imputato, ferma restando l’acclarata responsabilità penale di costoro.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto ricorso in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi di ricorso presentati dagli imputati per il tramite dei loro difensori, l’insussistenza del delitto di riduzione in schiavitù posto che, secondo le argomentazioni del ricorrente, non sarebbe riscontrabile la mancanza di libertà di movimento da parte della persona offesa, l’impossibilità di comunicare con terze persone, la sottrazione del passaporto e la privazione dei mezzi di sussistenza, come formalmente contestato.

In merito al motivo di censura oggetto di interesse, la Suprema Corte, nel dichiarare il ricorso non fondato, ha analizzato la struttura nonché i presupposti del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all’art. 600 c.p. Il delitto in parola è un reato a fattispecie plurima ed è integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario – implicando così la reificazione della vittima ed ex se lo sfruttamento – ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa in relazione alla quale è richiesta la prova dell’imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio o comunque il compimento di attività illecite).

In particolare, la condizione personale della vittima del delitto di cui all’art. 600 c.p. qualificabile come “servitù” è caratterizzata da uno stato di soggezione continuativa, provocato e mantenuto con una delle modalità indicate al comma 2, ossia mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento della situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha l’autorità sulla persona, che si sostanza nel costringere o indurre la persona stessa a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.

Pertanto, ai fini della configurabilità del delitto di riduzione in stato di schiavitù o di servitù di una persona in stato di soggezione continuativa è richiesto, oltre la prova dell’imposizione alla persona offesa di prestazioni integranti una delle predette forme di sfruttamento di cui al comma 1 dell’art. 600 c.p., preliminarmente la dimostrazione che il soggetto agente ha ridotto o mantenuto la persona sfruttata in servitù tramite una delle modalità alternative indicate al comma 2.

Orbene, come espresso dalla Suprema Corte, il reato di riduzione in schiavitù non richiede la totale privazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione delle persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione richiesto dalla norma incriminatrice (Cass. 21 maggio 2020, n. 15662). Di conseguenza, la soggezione continuativa non viene meno in presenza di una limitata autonomia della vittima che non intacchi il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato.

Inoltre, i giudici di legittimità si sono espressi riguardo la “situazione di necessità” in cui deve versare la vittima ritenendo che costituisca presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente che essa non deve porsi in relazione con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata (art. 644, comma 5, n. 3 c.p.) e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto (art. 1418 c.c.); la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cass. 25 gennaio 2007, n. 2841).

Pertanto, si ha approfittamento della situazione di vulnerabilità della persona offesa anche quando l’autore del reato, conscio della condizione di debolezza fisica, psichica o esistenziale della persona offesa, se ne sia subdolamente avvalso per accedere alla sua sfera interiore, manipolandone la capacità critica e le tensioni emotive e per tale via inducendola in uno stato di remissività così da ridurla a mezzo per soddisfare più agevolmente il proprio proposito di sfruttamento sul piano lavorativo ovvero imponendo obblighi di facere.

Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, la Suprema Corte ha ritenuto che l’imputata si sia avvalsa della condizione oggettiva di vulnerabilità e inferiorità psichica della persona offesa, costringendola a prostituirsi, a lavorare fino a tarda notte e a consegnarle i proventi dell’attività di meretricio.

Alla luce delle argomentazioni esposte, la Suprema Corte ha, quindi, dichiarato l’infondatezza dei ricorsi presentati, rigettandoli e condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

(*Contributo in tema di “Riduzione o mantenimento in schiavitù”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)