violenza sessuale

La violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) Le forme di violenza sessuale previste dal legislatore traggono origine dalla riforma epocale avvenuta con la legge n. 66/1996

Il reato di violenza sessuale

L’art. 609bis, sotto la generica rubrica «violenza sessuale», prevede e punisce come reato:

  • il fatto di chi, con violenza o minaccia, o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali; il fatto di chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • il fatto di chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali, traendo in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

In forza di tale previsione è possibile distinguere due tipi di violenza sessuale: una violenza sessuale posta in essere mediante azione diretta (violenza, minaccia, abuso di autorità) sulla persona offesa; e una violenza sessuale posta in essere mediante induzione (comma 2).

Il problema della responsabilità per omissione

Occorre ricordare, quanto alla possibilità di rispondere di violenza sessuale per omissione, che la giurisprudenza ha giustamente affermato che il genitore esercente la potestà sui figli minori, come tale investito, a norma dell’art. 147 c.c., di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell’integrità psico-fisica dei medesimi, risponde, a titolo di causalità omissiva di cui all’art. 40 cpv. c.p., degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli allorquando sussistano le condizioni rappresentate:

a) dalla conoscenza o conoscibilità dell’evento;

b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul «garante»;

c) dalla possibilità oggettiva di impedire l’evento (in tal senso, Cass. 30-1-2008, n. 4730). Si è, per converso, escluso che sussista tale obbligo di garanzia a carico dei nonni (Cass. 27-9-2011, n. 34900).

Violenza sessuale mediante azione diretta: soggetto attivo e passivo

Il comma 1 dell’art. 609bis prevede il fatto di chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali.

Soggetto attivo del reato può essere «chiunque»: si tratta, pertanto, di un reato comune, ed in particolare, di un reato ad esecuzione personale, in quanto l’autore principale è sempre il soggetto che compie l’atto sessuale con la vittima; nel caso in cui la violenza, minaccia od abuso di autorità siano opera di un terzo sarà configurabile un concorso di persona nel reato (artt. 110 e ss. c.p.).

In ordine al soggetto passivo, il legislatore non opera alcuna restrizione, né di sesso, né di altra natura: può trattarsi di qualunque essere umano, uomo o donna.

Nell’ambito dei soggetti tutelati, rientrano anche:

  • il coniuge: il concetto di violenza sessuale, come già quello di violenza carnale, non è, infatti, suscettibile di connotazioni diverse tra estranei o nei rapporti tra coniugi, godendo, senza alcun dubbio, anche il coniuge del diritto (insopprimibile ed inviolabile) di disporre liberamente del proprio corpo a fini sessuali. Ed in tal senso si è espressa, in modo constante la giurisprudenza della Cassazione, sostenendo, fra l’altro che, in tema di violenza sessuale, l’esistenza di un rapporto di «coniugio» non esclude, di per sé, la configurabilità del reato, dovendo ritenersi, alla luce di quanto stabilito dall’art. 143 c.c. in materia di diritti e doveri dei coniugi, che non sussista un diritto assoluto del coniuge al compimento di atti sessuali come mero sfogo dell’istinto sessuale anche contro la volontà dell’altro coniuge, tanto più in un contesto di sopraffazioni, infedeltà e violenze, ponendosi queste in contrapposizione rispetto ai sentimenti di rispetto, affiatamento e vicendevole aiuto e solidarietà fra le cui espressioni deve ricomprendersi anche il rapporto sessuale (Cass. 8-10-2007, n. 36962). E ciò anche quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali;
  • il soggetto dedito alla prostituzione: le condizioni e le qualità personali della persona offesa non legittimano la riconduzione del fatto all’ipotesi di minore gravità, in quanto il diritto al rispetto della libertà sessuale trova eguale riconoscimento nei confronti di chiunque, a prescindere dal motivo e dal numero dei rapporti usualmente intrattenuti (Cass. 18-1-2017, n. 2469).

Soggetto passivo può essere unicamente un essere umano vivente: ne consegue che:

  • la cd. necrofilia (sfogo di libidine commesso con cadaveri) esula dall’ambito dell’art. 609bis, e può assumere rilievo penale unicamente nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 410 c.p. (vilipendio di cadavere);
  • i rapporti sessuali con animali esulano, a loro volta, dall’ambito dell’art. 609bis e possono assumere rilievo penale unicamente nell’ambito delle fattispecie previste dagli artt. 638 (uccisione o danneggiamento di animali altrui) e 544ter c.p. (maltrattamento di animali).

L’elemento oggettivo: violenza, minaccia od abuso

Sotto il profilo oggettivo assumono rilievo la violenza, minaccia od abuso di autorità poste in essere per costringere la vittima al compimento di un atto sessuale non voluto.

La violenza consiste nell’esercizio di una qualsiasi forza fisica, anche se non spinta al massimo della brutalità ed irresistibilità, diretta a vincere la resistenza opposta della vittima. Ed infatti integra il requisito oggettivo della condotta violenta non solo quella che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da realizzare un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, così venendosi a superare la contraria volontà del soggetto passivo (Cass. 14-7-2010, n. 27273). In altri termini la condotta vietata consiste sia nella violenza fisica in senso stretto, sia nella intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinataria, o comunque prevenendone la manifestazione di dissenso.

La minaccia, a sua volta, consiste nel manifestato proposito di arrecare un danno alla vittima, ad altre persone o alle cose, al fine di coartare la volontà della vittima e farle accettare l’atto voluto di mira dall’agente.

Rientra nella nozione di minaccia impiegata dall’art. 609bis c.p. anche la prospettazione, da parte del soggetto agente, di esercitare un diritto quando essa sia finalizzata al conseguimento dell’ulteriore vantaggio di tipo sessuale, non giuridicamente tutelato, ottenendosi per tale via un profitto ingiusto e contra ius.

Come visto l’abuso di autorità costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609bis c.p. Ad avviso della Cassazione, esso presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Cass. Sez. Un. 1-10-2020, n. 27326). Naturalmente, perché possa parlarsi di abuso di autorità, occorre che l’atto sessuale non sia stato voluto dalla vittima ma che l’abusante abbia approfittato della propria condizione di superiorità per indurre la persona offesa a subire. In altri termini l’abuso di autorità deve determinare una vera e propria costrizione al compimento degli atti sessuali.

Si pone anche il problema di stabilire se la relazione di dipendenza tra il soggetto agente e la vittima debba essere attuale (sussistente, cioè, al momento dell’atto sessuale), o possa essere anche cessata, purché si protragga il timore riverenziale provocato dalla stessa relazione: se, tuttavia, si ha riguardo agli elementi che costituiscono la fattispecie oggetto di incriminazione, ed alla ratio della stessa che va individuata nel possibile timore riverenziale che può ingenerarsi nella vittima, risulta chiaro che la relazione di dipendenza non attuale non assumerà alcun rilievo, soltanto se essa sia venuta meno anche di fatto, se, cioè, il soggetto agente non conserva alcun potere concreto sulla vittima.

Per quanto riguarda il problema della necessità, o meno, che la relazione di dipendenza che origina l’abuso intercorra tra l’autore del fatto e la vittima, si impone il rilievo che ben potrà, in concreto, l’abuso essere posto in essere per favorire il compimento di un atto sessuale tra la vittima ed un terzo: rileva, pertanto, non soltanto la relazione diretta (quella intercorrente tra il soggetto agente e la persona offesa), ma anche quella indiretta (sussistendo, in tal caso, una ipotesi di concorso di persone nel reato, tra il soggetto che abusa della propria autorità, ed il terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla vittima).

È opportuno precisare che, qualora l’abuso sia rivolto in danno di persona sottoposta a limitazioni della libertà personale, si versa nell’ipotesi aggravata di cui all’art. 609ter, comma 1, n. 4).

Sia la violenza, sia la minaccia, sia l’abuso di autorità devono essere tali da poter concretamente coartare la volontà della persona offesa.

In particolare, la violenza e la minaccia devono essere poste in essere con connotati che ne esteriorizzino la gravità e la serietà. L’idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima nei reati di violenza sessuale vanno esaminate non secondo criteri astratti aprioristici, ma tenendosi conto, in concreto, di ogni circostanza oggettiva (di tempo, di luogo) e soggettiva (personalità del soggetto attivo e della vittima); sicché anche una semplice minaccia o intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, può esser sufficiente ad integrare, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase della condotta tipica dei reati in esame, gli estremi della violenza.

L’atto sessuale

Il concetto di «atto sessuale» costituisce una delle più importanti innovazioni apportate dalla nuova normativa.

La precedente disciplina era incentrata sulla distinzione tra:

  • congiunzione carnale, che si ha ogni qualvolta avvenga una qualsiasi compenetrazione, anche abnorme, tra organi genitali, ovvero tra un organo genitale ed un altro organo: la nozione ricomprendeva sia il coito anale che quello orale;
  • atti di libidine violenti, che si concretizzano in ogni forma di contatto corporeo (pur non inerente agli organi genitali, o a parti nude del corpo), diversa della penetrazione, che, per le modalità con cui si svolge, costituisca inequivoca manifestazione di ebbrezza sessuale.

Proprio in virtù di tale distinzione, ai fini della qualificazione giuridica dei fatti di volta in volta oggetto di indagine, assumeva in passato decisivo rilievo l’accertamento della qualità dell’atto compiuto (e cioè il quantum di penetrazione, la completa congiunzione carnale, o l’atto idoneo a procurare una diversa soddisfazione sessuale): ciò giustificava odiose indagini (ed odiose domande, poste da taluni difensori con spregio assoluto di ogni etica professionale, e più ancora morale), che costringevano le vittime a raccontare (e ricordare) la sequenza di oltraggiose infamie subìte; il processo si risolveva, spesso, in un ulteriore supplizio per la vittima, tratta al cospetto di imputati talora arroganti e sprezzanti (le cronache processuali sono piene di simili episodi).

Avuto riguardo alla diversa oggettività giuridica del reato di violenza sessuale (che, nella nuova configurazione, offende la libertà individuale della vittima), oltre che all’esigenza di toglier rilievo a distinzioni atte ad offendere ulteriormente la dignità della vittima, il legislatore ha incentrato il disvalore della nuova fattispecie nel compimento di un atto sessuale non voluto dalla vittima.

Il concetto di atto sessuale, definibile come ogni condotta che si concretizza nella manifestazione esteriore di un istinto sessuale ricomprende, pertanto, sia la congiunzione carnale (ed, in particolare, ogni forma, anche abnorme, di coito) sia gli atti di libidine, e, quindi, oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest’ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale.

La fattispecie criminosa di violenza sessuale è integrata, pur in assenza di un contatto fisico diretto con la vittima, quando gli «atti sessuali», quali definiti dall’art. 609bis c.p., coinvolgano oggettivamente la corporeità sessuale della persona offesa e siano finalizzati ed idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale, nella prospettiva del reo di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale. In giurisprudenza si è giunti ad affermare che, in tema di reati contro la libertà sessuale, gli atti sessuali «non convenzionali» possono essere ritenuti leciti nella misura in cui si svolgano in base ad un consenso dei partecipanti che deve protrarsi per tutta la durata degli stessi (Cass. 26-11-2021, n. 43611). Quanto al bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata, allorquando, in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della vittima (Cass. 23-10-2019, n. 43423).

In conclusione, dunque, ed alla luce anche della più recente giurisprudenza, possiamo affermare che devono includersi nella nozione di atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene e che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica; tra questi vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica: la prevalenza dell’aspetto oggettivo e non di quello soggettivo, come avveniva in precedenza per gli atti di libidine, discende dalla differente collocazione e dal diverso bene giuridico protetto dai reati introdotti dalla L. 15-2-1996, n. 66 rispetto a quelli in precedenza contemplati dal codice del 1930.

Non è richiesto, per la sussistenza del reato, che gli atti sessuali siano compiuti dall’autore della violenza: come ha precisato la giurisprudenza, infatti, la condotta vietata dall’art. 609bis comprende, se connotata da costrizione, sia ogni forma di congiunzione carnale tra autore del reato e soggetto passivo, sia qualsiasi atto che offende in modo diretto ed univoco la libertà sessuale della vittima (requisito oggettivo), attraverso l’eccitazione dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del suo istinto sessuale (requisito soggettivo); di conseguenza, il delitto di violenza sessuale è configurabile non solo nei casi in cui avvenga un contatto fisico diretto tra soggetto attivo e soggetto passivo, ma anche quando il soggetto attivo, al fine del soddisfacimento del proprio piacere sessuale, costringa due soggetti diversi, da considerare entrambi soggetti passivi, a compiere o subire atti sessuali solo tra loro.

Il dissenso della persona offesa

È opportuno ricordare che il dissenso della persona offesa al compimento dell’atto sessuale è elemento costitutivo del reato di cui all’art. 609bis (al pari di quelli dianzi indicati). Ciò significa che il consenso del partner non assume il ruolo di elemento scriminante ex art. 50 c.p. ma esclude la tipicità del fatto. In altre parole l’atto sessuale con persona consenziente fa si che il soggetto agente non compia una violenza sessuale scriminata, ma tenga una condotta diversa da quella tipica.

Al riguardo, la giurisprudenza ha ricordato che il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609bis c.p. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga meno in itinere a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso (in tal senso, Cass. 21-1-2008, n. 4532).

Ad avviso della Cassazione, in tema di violenza sessuale, la sussistenza del consenso all’atto, che esclude, come detto, la configurabilità del reato, deve essere verificata in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass. 4-3-2022, n. 7873). Si è, altresì, affermato che l’assunzione, da parte della persona offesa, di sostanze alcoliche o stupefacenti in quantità tali da comportare l’assoluta incapacità di esprimere il proprio consenso, rende configurabile, nei suoi confronti, il delitto di violenza sessuale per costrizione, di cui all’art. 609bis, comma 1, c.p. e non quello di violenza sessuale per induzione di cui all’art. 609bis, comma 2, c.p. (Cass. 4-3-2022, n. 7873).

L’elemento soggettivo

Sotto il profilo soggettivo è richiesto il dolo generico caratterizzato dalla volontà dell’atto sessuale, con la coscienza di tutti gli elementi essenziali del fatto.

Tra questi, come si è detto, rientra (oltre che la violenza sessuale, la minaccia, l’abuso di autorità) il dissenso della persona offesa: ne consegue che l’erroneo convincimento che il partner sia consenziente, integrando gli estremi dell’errore sul fatto che costituisce reato, ex art. 47, comma 1, esclude la punibilità dell’agente in quanto esclude il dolo necessario. Ciò vale anche nell’ipotesi in cui l’errore sul consenso della persona offesa sia determinato da colpa, in quanto il reato di cui all’art. 609bis non è previsto dalla legge come delitto colposo.

Qualora, invece, il soggetto agente ignori l’esistenza del consenso del partner e, dunque, creda per errore di compiere una violenza sessuale, trova applicazione l’art. 49, comma 1, c.p. (cd. reato putativo) in forza del quale è esclusa la punibilità per il reato erroneamente ritenuto esistente, fermo restando la punibilità per un diverso reato (ad esempio, violenza o minaccia) del quale concorrano gli elementi costitutivi (art. 49, comma 3).

In giurisprudenza si afferma che, in tema di violenza sessuale, costituendo il dissenso della persona offesa un elemento costitutivo, sia pure implicito, della fattispecie, necessario perché sussista la condotta tipica, l’errore su di esso rileva come errore di fatto, sicché incombe sull’imputato l’onere di fornire la prova del relativo assunto (Cass. 31-1-2022, n. 33326).

Consumazione e tentativo

Ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 609bis è sufficiente il compimento dell’atto sessuale come prima inteso, risultando priva di rilievo l’eventuale concupiscenza (emissio seminis) o soddisfazione che può derivarne.

Nessun dubbio può nutrirsi sulla configurabilità del tentativo: è opportuno tener presente, però, che, a seguito dell’unificazione, nel più ampio concetto di atto sessuale, della violenza carnale e degli atti di libidine violenti, sarà configurabile il tentativo in presenza di atti che, pur diretti all’atto sessuale, non si concretizzino in alcun approccio fisico, pur se sia stata già posta in essere la violenza, la minaccia o l’abuso di autorità.

In tal senso, in giurisprudenza si afferma che è configurabile il tentativo del reato previsto dall’art. 609bis c.p. in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l’agente non ne ha raggiunto le zone genitali o erogene ovvero non ha provocato un contatto tra le proprie parti intime e la vittima (Cass. 24-3-2022, n. 10626). Si è ritenuto il tentativo, altresì, nella condotta di colui che, all’esplicito rifiuto di consumare un rapporto sessuale, reitera più volte la richiesta ponendo in essere violenze o minacce che, sebbene non comportino una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, siano comunque chiaramente finalizzate a vincerne la resistenza (Cass. 14-10-2015, n. 41214). In sintesi, ai fini dell’integrazione del tentativo di reati a sfondo sessuale sono necessarie, sul piano soggettivo, l’intenzione dell’agente di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e, sul piano oggettivo, l’idoneità della condotta a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale, anche, eventualmente, ma non necessariamente, attraverso contatti fisici, sia pure di tipo superficiale e-o fugace, non indirizzati verso zone cd. erogene (Cass. 1-6-2011, n. 21840).

La violenza sessuale presunta

Il comma 2 dell’art. 609bis disciplina due fattispecie di violenza sessuale mediante induzione (o, come talvolta è chiamata nella prassi, violenza sessuale presunta), poste in essere (non secondo generici e non definiti comportamenti idonei a suggestionare la volontà della vittima, bensì) secondo modalità specificamente descritte e che sono:

  • l’abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • l’aver tratto in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

In entrambe le figure la persona offesa consente all’atto sessuale, ma il suo consenso è viziato dall’inganno o dall’abuso che il soggetto agente compie giovandosi dello stato di inferiorità fisica o psichica della stessa persona offesa: in esse, quindi, il consenso si configura quale elemento strutturale della fattispecie criminosa, e non può essere conseguentemente valutato quale circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62, n. 5) (concorso del fatto doloso della persona offesa).

Esaminiamo le due forme di induzione:

a) L’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima

La prima delle due forme di induzione fa riferimento, con formulazione generica, ad una strumentalizzazione di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, da qualunque causa siano esse state cagionate, anche se si tratta di causa indipendente dal fatto del colpevole, purché le stesse siano sussistenti al momento dell’atto sessuale: non sussisterà alcun reato nel caso di «intervalla insaniae», in cui cioè la persona offesa, pur fisicamente o psichicamente inferma, abbia riacquistato per intero il pieno possesso delle proprie capacità fisiche e psichiche, prestando validamente il proprio consenso all’atto sessuale nel corso di un «lucido intervallo».

In giurisprudenza si afferma che tra le condizioni di inferiorità psichica rilevanti a norma dell’art. 609bis, comma 2, n. 1), c.p. rientrano tutte quelle che siano tali da determinare una posizione vulnerabile della vittima, indipendentemente dall’esistenza di patologie mentali, comprese quelle determinate da credenze esoteriche in grado di suggestionare la persona offesa, delle quali l’agente approfitti spingendo o convincendo quest’ultima ad aderire ad atti sessuali che, diversamente, non avrebbe compiuto (Cass. 11-11-2020, n. 31512). Quanto all’induzione, in particolare, si è affermato che essa si realizza anche quando, con un’opera di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge, istiga o convince la persona che si trova in stato di inferiorità ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (Cass. 3-6-2010, n. 20766).

Questo speciale stato non deve, tuttavia, assumere rilievo soltanto sotto un profilo astratto, ma va posto in necessario raffronto con la situazione di fatto concretamente esistente al momento dell’atto sessuale, con riferimento sia al contesto esterno nel quale i fatti sono inseriti (per accertare l’eventuale esistenza di modifiche intervenute nel tempo, che abbiano causato una positiva evoluzione della personalità della vittima, eliminando la condizione di inferiorità psichica), sia alla persona del soggetto agente (onde accertare se quest’ultimo abbia, o meno, avuto consapevolezza dell’esistenza di una condizione di menomata resistenza della vittima).

In un esaustivo pronunciamento in materia, in sintesi, la Cassazione ha avuto modo di affermare che per la sussistenza del reato di cui all’art. 609bis, comma 2, n. 1), c.p., è necessario accertare che:

1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto;

2) il consenso dell’atto sia viziato da tale condizione;

3) il vizio sia riscontrato caso per caso e non presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona, quando non sia tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento, se necessario, fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi;

4) il consenso sia frutto dell’induzione;

5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato;

6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedano (Cass. 23-11-2018, n. 52835).

Tra i casi di inferiorità fisiopsichica ben possono rientrare, secondo una consolidata giurisprudenza che la dottrina recente ritiene ancor oggi valida:

  • lo stato di tossicodipendenza, in quanto il soggetto, pur di procurarsi gli stupefacenti, è disposto a qualsiasi azione, anche cedere il proprio corpo (Cass. 6173/1999);
  • l’assunzione di psicofarmaci (cosiddetti tranquillanti), quando da esso derivi una sospensione della attenzione e dei poteri di controllo che renda il soggetto medesimo incapace di normale resistenza all’azione del colpevole ed a quest’ultimo consenta di commettere violenza carnale (Cass. 624/1996);
  • l’assunzione di una quantità di bevande alcoliche tale da determinare un evidente indebolimento psichico di cui era pienamente consapevole il soggetto attivo per essere stato presente all’assunzione delle bevande stesse (Cass. 39800/2016).

b) L’inganno mediante sostituzione di persona

La fattispecie di cui al n. 2) dell’art. 609bis fa riferimento al caso, tradizionalmente discusso in dottrina, in cui il soggetto agente, attraverso l’impiego di mezzi fraudolenti, si sostituisca alla persona in relazione alla quale soltanto la vittima avrebbe prestato il consenso all’atto sessuale (si pensi al caso di chi, avvalendosi dell’oscurità, approfitti di una donna sostituendosi al di lei marito).

Si ritiene (AMBROSINI) che la «sostituzione di persona» di cui parla la norma è quella tipica prevista dall’art. 494; ne consegue che integra la fattispecie in esame l’attribuirsi falsamente la qualità di «medico» per compiere atti lascivi su una donna.

Elemento soggettivo

Vale quanto detto per il comma 1 dell’art. 609bis. Va solo precisato che per le ipotesi in esame il soggetto deve essere consapevole della particolare condizione della vittima (per il n. 1) o deve volere l’inganno (per il n. 2).

Pena ed istituti processuali per le due figure di violenza sessuale

Per effetto dei correttivi al sistema sanzionatorio, dovuti alla L. 19-7-2019, n. 69 (cd. «Codice rosso»), la pena è la reclusione da sei a dodici anni (ante riforma era la reclusione da cinque a dieci anni), pena diminuita in misura non eccedente i due terzi nei casi di minore gravità. L’arresto in flagranza è obbligatorio (facoltativo nelle ipotesi di minore gravità), ed il fermo consentito. Si procede a querela della persona offesa (d’ufficio nei casi previsti dall’art. 609septies, comma 4, nonché in presenza delle aggravanti di cui agli artt. 270bis.1, comma 1 e 416bis.1, comma 1 c.p.) e la competenza spetta al Tribunale collegiale.

L’attenuante di cui all’art. 609bis, comma 3

La circostanza attenuante prevista nel comma 3 dell’art. 609bis consente, nei casi di minore gravità, una riduzione della pena da applicare, nella misura massima di due terzi.

Si tratta di una circostanza attenuante:

  • speciale (in quanto prevista solo per i reati in oggetto);
  • oggettiva (concernendo casi di minore gravità, da individuare avendo riguardo alla natura, l’oggetto, la specie, i mezzi, il tempo, il luogo ed ogni altra modalità dell’azione, od anche la gravità del danno: essa, come tale, ai sensi dell’art. 118 c.p., in caso di concorso di persona nel reato, risulterà applicabile a tutti i concorrenti per il solo fatto di sussistere);
  • obbligatoria (sussistendo i presupposti per la sua concessione, il giudice dovrà necessariamente operare la diminuzione di pena, conservando ampia discrezionalità soltanto in ordine alla quantificazione della diminuzione, da un terzo a due terzi);
  • ad effetto speciale (ex art. 63, comma 3, c.p.), comportando una diminuzione di pena in misura superiore ad un terzo della pena base;
  • ad efficacia comune (operando la diminuzione rispetto alla pena base);
  • compatibile con il tentativo (art. 56 c.p.): in proposito, si è affermato in giurisprudenza che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità nel tentativo di violenza sessuale, non si deve tenere conto dell’azione effettivamente compiuta dall’agente, ma di quella che lo stesso aveva intenzione di porre in essere e che non è stata realizzata per cause indipendenti dalla sua volontà (Cass. 18-4-2017, n. 18793).

Il vero problema che pone l’attenuante in esame è quello di dare un contenuto concreto all’espressione «minore gravità» usata dal legislatore e, quindi, di individuare parametri oggettivi cui ancorare la maggiore o minore gravità del fatto.

In concreto, ed alla luce dell’esperienza dottrinaria e giurisprudenziale maturata con riguardo ad analoghe figure, può ritenersi che ai fini della concessione dell’attenuante per i «casi di minore gravità» dovrà considerarsi il nocumento che il reato, ove consumato, avrebbe cagionato alla persona offesa, in rapporto all’oggetto materiale del reato stesso, ed al grado di compressione dell’altrui libertà personale (sessuale) che avrebbe caratterizzato il reato consumato, senza aver riguardo all’effetto conseguente al mero fatto materiale del tentativo; ricorrono, quindi, gli estremi per l’applicazione dell’attenuante in esame in tutti quei casi in cui, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà personale (sessuale) della vittima sia stata compressa in maniera meno grave (ad esempio, l’atto sessuale compiuto fruendo dell’iniziale consenso del partner nonostante la successiva ed immotivata revoca del consenso stesso).

Più volte chiamata ad esprimersi in merito al senso da attribuire alla locuzione «minore gravità», la Cassazione ha avuto modo di affermare quanto segue: il riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità del fatto non è impedito dalla commissione di una pluralità di episodi illeciti in danno di diverse persone offese, la cui libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave (Cass. 20-6-2016, n. 25434); la mancanza di contatto fisico tra l’autore del reato e la vittima non è determinante ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di minore gravità (Cass. 2-5-2013, n. 19033); non può essere concessa nell’ipotesi di reato di violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609octies c.p., in quanto trattasi di attenuante specifica prevista soltanto per la violenza sessuale individuale ed essendo peraltro incompatibile logicamente con la maggiore gravità di una violenza sessuale di gruppo (Cass. 15-11-2007, n. 42111); ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante della «minore gravità» non rileva la semplice assenza di un rapporto sessuale con penetrazione, in quanto è necessario valutare il fatto nella sua complessità (Cass. 6-3-2009, n. 10085); l’attenuante di cui all’art. 609bis, ultimo comma, c.p. non può essere di per sé esclusa per la sussistenza di una o più circostanze aggravanti, occorrendo in tal caso valutare se queste ultime, in relazione al bene giuridico tutelato, incidano sui parametri che rilevano ai fini dell’accertamento della minore gravità del fatto, costituiti dal grado di compressione della libertà sessuale subito dalla vittima e dalla consistenza del danno arrecatole (Cass. 19-2-2020, n. 6502); in tema di violenza sessuale, non è di ostacolo al riconoscimento della circostanza attenuante speciale del fatto di minore gravità di cui all’art. 609bis, comma 3, c.p., il fatto che il reato sia commesso da un docente, all’interno di un istituto scolastico, in danno di allievi, posto che l’abuso di autorità è già stato considerato dal legislatore come elemento integrativo della fattispecie incriminatrice, nonché ai fini della procedibilità d’ufficio del reato (Cass. 30-5-2023, n. 35303); in tema di violenza sessuale, il riconoscimento dell’attenuante della minore gravità, nel caso di più fatti in continuazione ai danni della medesima persona offesa minorenne, richiede che ogni singolo fatto sia inquadrato in una valutazione globale, posto che anche un fatto, ritenuto di modesta gravità se valutato singolarmente, può, ove replicato, comportare un aggravamento di intensità della lesione del bene giuridico così da comportare l’esclusione dell’attenuante speciale (Cass. 24-11-2022, n. 9308); in tema di reati sessuali, non ricorre l’attenuante della minore gravità del fatto, di cui all’art. 609bis, comma 3, c.p., nel caso in cui la violenza sessuale sia perpetrata dal genitore ai danni del proprio figlio, trattandosi di condotta che, profanando gravemente la sfera sessuale della vittima, determina uno sviamento dalla funzione di accudimento e protezione propria della figura genitoriale (Cass. 17-12-2021, n. 23078); in tema di violenza sessuale, anche in caso di solo sopravvenuto dissenso della vittima al rapporto sessuale è legittimo il diniego della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, quando, per i mezzi, le modalità esecutive della condotta, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, e le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, si realizzi una significativa compromissione della libertà sessuale (Cass. 22-1-2020, n. 16440).

La violenza sessuale aggravata (artt. 609ter e duodecies)

L’art. 609ter (oggetto di numerosi correttivi succedutisi nel tempo) prevede, nei suoi due commi, una serie di circostanze aggravanti.

In particolare il comma 1, dispone che la pena stabilita dall’art. 609bis è aumentata di un terzo se i fatti ivi previsti sono commessi:

  • nei confronti di persona della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il tutore;
  • con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa.

Ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’arma, è necessario che il reo sia palesemente armato, ma non che l’arma sia addirittura impugnata per minacciare, essendo sufficiente che essa sia portata in modo da poter intimidire (Cass. 26-2-2021, n. 7754). Quanto all’uso di sostanze narcotiche, si verifica quando lo stato di incoscienza della vittima sia stato provocato mediante la somministrazione di farmaci anestetici allo scopo di consentire all’agente di porre in essere la condotta vietata;

  • da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricati di pubblico servizio;
  • su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale;

Tale circostanza include anche le ipotesi nelle quali lo stato del soggetto passivo non discenda da un potere pubblicistico ed abbia natura illecita, comprensiva del sequestro di persona.

  • nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto;
  • all’interno o nelle immediate vicinanze di istituto d’istruzione o di formazione frequentato dalla persona offesa;
  • nei confronti di donna in stato di gravidanza;
  • nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza.

Sussiste «relazione affettiva» quando il soggetto attivo possieda o abbia posseduto determinate qualità soggettive che, indipendentemente sia dalla convivenza con la vittima, sia dalla stabilità e/o durata della «relazione», facilitino il delitto consentendo all’agente lo sfruttamento del rapporto di fiducia della vittima nei suoi confronti e l’accesso violento o abusivo nella sfera più intima di quest’ultima;

  • se il reato è commesso da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività.

Sia questa aggravante, che la successiva, introdotte dal D.Lgs. 4-3-2014, n. 39, costituiscono la traduzione normativa di taluni dei precetti contenuti nell’art. 9 della direttiva 2011/93/ UE, sostitutiva della decisione quadro 2004/68/ GAI, nel quale gli Stati destinatari si impegnano ad adottare le misure necessarie affinché possano essere considerate figure circostanziali dei delitti oggetto della direttiva il fatto che «[…] d) il reato è stato commesso nel contesto di un’organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24-10-2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata; […] g) il reato è stato commesso ricorrendo a violenze gravi o ha causato al minore un pregiudizio grave»;

  • se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

La figura prevede due distinte ipotesi, di cui solo la seconda prende in considerazione l’età della vittima, limitandosi la prima a considerare le «violenze gravi», a prescindere dal fatto che la vittima del reato sia maggiorenne o minorenne;

  • se dal fatto deriva pericolo di vita per il minore.

Tale configurazione aggravata rientra fra le novità disciplinari dovute alla L. 23-12-2021, n. 238 (nota come Legge europea 2019-2020). Nello specifico, la modifica appare volta a recare attuazione a quanto previsto nell’art. 9, lett. f) della Direttiva 2011/93/UE, il quale dispone che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché sia considerata quale aggravante, con riferimento ai reati sessuali su minori (specificamente indicati negli artt. da 3 a 7 della direttiva stessa) la circostanza per la quale «l’autore del reato, deliberatamente o per negligenza, ha messo in pericolo la vita del minore».

Ai sensi del comma 2 della medesima previsione, la pena stabilita dall’art. 609bis è aumentata della metà se i fatti ivi previsti sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici. La pena è raddoppiata se i fatti di cui all’art. 609bis sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci.

Si evidenzia che l’aggravante in commento è stata oggetto di numerosi correttivi, il più recente dei quali operato dalla L. 19-7-2019, n. 69, cd. «Codice rosso». La prima delle modifiche effettuate si traduce in un correttivo di coordinamento rispetto all’incremento sanzionatorio della fattispecie di riferimento (la violenza sessuale, ex art. 609bis, la cui risposta sanzionatoria, come visto, è stata elevata, passando dalla reclusione da cinque a dieci anni alla reclusione da sei a dodici anni). Di qui l’esigenza di richiamare direttamente la figura-base e prevederne un aumento di pena. Inoltre, attraverso le coordinate innovazioni concernenti la prima e la quinta di tali previsioni, si è, poi, disposto che la violenza sessuale commessa dall’ascendente, dal genitore anche adottivo o dal tutore sia sempre aggravata, a prescindere dall’età della vittima (prima del correttivo era aggravata solo la violenza commessa da questi soggetti in danno di minorenne, per tal via ritenendo di apprestare una maggior tutela nell’ambito delle relazioni familiari, spesso sede di turpi episodi criminosi del genere tipizzato dalla norma). Si è, infine, provveduto ad una rimodulazione delle aggravanti quando la violenza sessuale sia commessa in danno di minore. Si prevede, infatti, un aumento di pena progressivamente maggiore, quanto meno elevata sia l’età della vittima (un terzo della pena-base della violenza sessuale per gli infradiciottenni, la metà per gli infraquattordicenni ed il doppio per coloro che non abbiano compiuto i dieci anni). Prima del correttivo, si prevedeva esclusivamente una aggravante per il fatto commesso in danno di minore di anni dieci.

Per effetto, infine, dell’art. 609duodecies (introdotto dal decreto del 2014 di cui si è appena detto) la violenza sessuale, ma anche le fattispecie di reato di cui agli artt. 609quater, quinquies, octies ed undecies, sono aggravate (con incremento di pena non eccedente la metà) se commesse con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche (per tal via disincentivando l’impiego della telematica quale strumento di approccio alle vittime).

Si è affermato in giurisprudenza che, in tema di reati sessuali, è configurabile l’aggravante dell’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di acceso alle reti telematiche, di cui all’art. 609duodecies c.p., nel caso in cui l’agente ponga in essere una qualsiasi azione volta a rendere maggiormente difficoltosa la propria identificazione, eludendo le normali modalità di riconoscimento (Cass. 23-11-2022, n. 44453).

 

Vedi le altre guide e articoli di diritto penale

ordine carcerazione

Ordine di carcerazione: cos’è e come funziona L’ordine di carcerazione è il provvedimento con cui il PM dispone la carcerazione di un soggetto condannato, ma non detenuto 

Ordine di carcerazione: definizione

L’ordine di carcerazione è un provvedimento di competenza del Pubblico Ministero. L’articolo 656 c.p.p al comma 1 dispone infatti che quando una sentenza di condanna deve essere eseguita il PM emette un ordine di esecuzione con cui dispone la carcerazione del condannato, se non ancora detenuto. Qualora il condannato si trovi già in stato di detenzione l’ordine di esecuzione viene comunicato al Ministero della Giustizia e notificato all’interessato.

Contenuto dell’ordine di carcerazione

Il comma 3 dell’articolo 656 c.p.p stabilisce il contenuto dell’ordine di carcerazione, che deve essere notificato sia al condannato che al suo difensore. Il provvedimento deve contenere in particolare i seguenti dati:

  • le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e qualsiasi altra informazione utile a identificarla;
  • l’imputazione;
  • il dispositivo del provvedimento di condanna e le disposizioni necessarie a darvi esecuzione;
  • l’avviso al condannato che ha il diritto di accedere ai programmi di giustizia riparativa;
  • l’avviso al condannato (se il processo si è svolto in sua assenza) del diritto di chiedere, entro 30 giorni dalla conoscenza della sentenza, la restituzione dei termini per poter impugnare la decisione o chiedere la rescissione del giudicato.

Ordine di carcerazione per madre di figli minori

Qualora l’ordine di esecuzione venga emanato nei confronti di una madre con figli minori il provvedimento stesso deve essere comunicato anche al Procuratore della Repubblica che opera presso il Tribunale dei Minorenni che ha la competenza nel luogo in cui deve essere eseguita la sentenza.

Modalità di esecuzione dell’ordine di carcerazione

Il comma 4 dell’articolo 656 c.p.p, per quanto riguarda  le modalità di esecuzione dell’ordine di carcerazione, rinvia all’art. 277 c.p.p. La norma, prevista per le misure cautelari, ma estensibile anche all’ordine di carcerazione, stabilisce che l’esecuzione debba avvenire nel rispetto della salvaguardia dei diritti della persona che vi è sottoposta. L’esercizio dei diritti della persona però non deve essere incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto.

Liberazione anticipata

Quando il PM deve emettere l’ordine di carcerazione deve prima effettuare dei controlli.

Qualora il PM rilevi che il soggetto nei cui confronti si deve eseguire l’ordine  di carcerazione, tranne che in casi particolari, computando le detrazioni di cui all’art. 54 Legge n. 354/1975 (che vengono applicate se il detenuto partecipi all’opera di rieducazione), debba ancora scontare una pena detentiva di 4, 5 e 6 anni nei casi e per i reati indicati nel comma 5 dell’art. 656 c.p.p, previa verifica dell’esistenza di periodi di custodia cautelare o di pena fungibile, trasmette gli atti al Magistrato di Sorveglianza. Quest’ultimo, in presenza di presupposti di legge, provvede con ordinanza alla liberazione anticipata del soggetto. Il PM può trasmettere gli atti al Magistrato di Sorveglianza per la decisione sulla libertà anticipata anche se il condannato si trova in stato di custodia cautelare in carcere.

Detenzione domiciliare: in quali casi?

Il PM, prima di emettere l’ordine di esecuzione può chiedere al Magistrato di Sorveglianza di disporre in via provvisoria, fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, la detenzione domiciliare se:

  • il condannato ha un’età pari o superiore a 70 anni e la pena residua da espiare è compresa tra i due e i 4 anni,
  • il condannato si trova agli arresti domiciliari per gravissimi motivi di salute.

Sospensione dell’esecuzione

Il PM, tranne che in casi particolari, se rileva che la pena detentiva da applicare al condannato, anche come residuo di una pena maggiore non supera i 3, 4 e 6 anni, nei casi specificati dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p, può sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione.  Se però il condannato si trova agli arresti domiciliari, in presenza dei presupposti specificati dal comma 10, il PM può chiedere al Tribunale di Sorveglianza di applicare una misura alternativa alla detenzione (articolo 47, 47 ter e 50 comma 1 legge n. 354/1975).

 

Leggi anche: “Decreto carceri: in vigore la legge di conversione

Decreto Sicurezza 2024: cosa prevede Il decreto sicurezza, approvato dalla Camera, interviene sul codice penale e prevede novità per detenuti e istituti penitenziari

Decreto sicurezza: novità per detenuti, personale e vittime di usura

Il decreto sicurezza così ribattezzato perché contenente “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” è stato approvato il 19 settembre 2024 dall’assemblea di Montecitorio con 162 voti favorevoli, 91 contrari e tre astenuti.

Il provvedimento A.C 1660-A è stato presentato il 22 gennaio 2024 e dopo una prima lettura alla Camera è passato all’esame delle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia, conclusosi il 6 agosto 2024. Ora, il provvedimento passa al vaglio del Senato.

Il testo si compone di 38 articoli che spaziano dalle modifiche al codice penale, ai benefici per le vittime dell’usura, passando per le norme che tutelano le Forze armate, quelle di Polizia e i Vigili del Fuoco.

Vediamo in concreto che cosa prevede il decreto.

Come cambia il codice penale con il decreto sicurezza

Il decreto introduce nel codice penale l’articolo 270 quinquies 3 che prevede il reato di detenzione di materiale con finalità di terrorismo.

Punito con la reclusione da due a sei anni chi si procura o detiene consapevolmente materiale con relative istruzioni per preparare o usare ordigni bellici o altre “armi”, tecniche o metodi per compiere atti di violenza o sabotare servizi pubblici con finalità terroristiche.

Il procedimento vuole introdurre nel codice penale un nuovo reato attraverso l’articolo 634 bis, che punisce l’occupazione arbitraria degli immobili e delle loro pertinenze, destinati all’altrui domicilio.  Sul punto c’è già stato l’ok della Camera.

Cambiano i reati di truffa. Il decreto sicurezza introduce nell’art. 61 una nuova aggravante comune, che consiste nella commissione del fatto all’interno o nelle immediate vicinanze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri.

Nuova aggravante per il reato di danneggiamento commesso in occasione di manifestazioni, che consiste nel danneggiamento commesso con violenza o minaccia alle persone.

Il differimento obbligatorio dell’esecuzione della pena di cui all’art. 146 c.p. per le donne incinta e le madri di minori viene abrogato. Questa possibilità permane per le donne incinta o con figli minori di 1 anno.

Pene più severe per chi impiega i minori nell’accattonaggio. Si rischia da uno a 5 anni di reclusione.

Il decreto rafforza le tutele previste per le Forze dell’ordine e le Forze Armate introducendo una nuova aggravante in caso di minaccia o violenza a pubblico ufficiale (art. 336) o di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337).

Il provvedimento introduce una nuova fattispecie di reato, che punisce chi provoca lesioni a un pubblico ufficiale o a un soggetto esercente una professione sanitaria.

Pene più severe per chi deturpa o imbratta cose altrui, con la finalità di tutelare gli immobili pubblici.

Contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata

Il decreto interviene sull’articolo 17 comma 1 del dl n. 113/2018, disponendo l’obbligo per chi noleggia auto, di comunicare i dati del richiedente per il raffronto. Questa operazione viene effettuata dal Centro elaborazione dati istituito presso la Direzione centrale della polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno. La norma, pensata in origine per contrastare i reati di terrorismo, viene estesa anche ad altri reati di particolare gravità (art. 51 comma 3 bis c.p.p criminalità di tipo mafioso e traffico di sostanze stupefacenti).

Anche le associazioni, le imprese, le società, i consorzi e i raggruppamenti temporanei di imprese devono acquisire e poi fornire la documentazione antimafia.

Il Tribunale in composizione monocratica può vietare l’utilizzo degli strumenti informatici e dei cellulari ai soggetti maggiorenni se il Questore ha disposto nei loro confronti un avviso orale.

Il decreto amplia la casistica dei benefici previsti dall’art. 4 della legge n. 302/1990, che riguardano le vittime della criminalità organizzata.

Il documento di copertura per i collaboratori di giustizia è esteso anche ai familiari agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare.

Detenuti e istituti penitenziari

Il decreto mira a rafforzare la sicurezza allinterno degli istituti penitenziari, introducendo un’aggravante al reato di istigazione a disobbedire alle leggi di cui all’art. 415 c.p e introduce un nuovo reato che punisce le rivolte all’interno degli istituti penitenziari.

In relazione ai suddetti reati il provvedimento riconosce tuttavia il diritto di accedere ai benefici previsti per i detenuti come il lavoro all’estero, i permessi premio e altre misure alternative, previo accertamento dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, eversiva o terroristica.

La novella legislativa estende le agevolazioni contributive (art. 4 comma 3 bis legge n. 381/1991) anche alle aziende, pubbliche o private, che impieghino detenuti anche all’esterno degli istituti penitenziari.

L’art. 36 estende l’assunzione in apprendistato professionalizzante ai condannati e agli internati ammessi alle misure alternative e ai detenuti assegnati al lavoro esterno.

Delega al Governo per l’organizzazione del lavoro

Il Governo, entro 12 mesi dall’entrata in vigore del decreto dovrà, con regolamento, modificare l’organizzazione del lavoro dei soggetti sottoposti a trattamento penitenziario.

Il decreto sicurezza per le vittime dell’usura

Per sostenere le vittime dell’usura l’articolo 33 del decreto dispone, nel percorso finalizzato a reinserire gli operatori economici vittime di usura che beneficiano dei di mutui a carico del Fondo di solidarietà la presenza un consulente esperto per assistere  i beneficiari da quando il mutuo viene concesso. Il consulente deve ovviamente essere in possesso di specifiche competenze, ogni anno deve presentare una relazione sul suo operato. Al momento della presentazione della relazione annuale il consulente riceve il compenso per l’attività svolta.

Norme dedicate al personale in servizio

L’articolo 21 dispone che le Forze di polizia, compresa quella ferroviaria, possano dotarsi di dispositivi di videosorveglianza indossabili, per registrare l’attività operativa e il suo svolgimento.

Dal 2024 gli ufficiali, gli agenti di pubblica sicurezza, gli agenti di polizia giudiziaria appartenenti alle Forze di polizia e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco e coloro che fanno parte delle forze armate, se indagati o imputati per fatti collegati al servizio, possono ottenere una somma non superiore a euro 10.000 per ogni fase del procedimento, se vogliono avvalersi di un libero professionista di fiducia (così come i loro familiari). Prevista la rivalsa se viene accertata la responsabilità dell’ufficiale o dell’agente a titolo di dolo.

Gli agenti di pubblica sicurezza possono portare alcuni tipi di armi, anche senza licenza, quando non sono in servizio.

 

In materia di sicurezza leggi anche: “Ammonimento del Questore

giurista risponde

Reato di diffamazione e relativi elementi essenziali È offensiva l’espressione ‘pezzente’ proferita nel corso di un’udienza di un processo civile in presenza degli avvocati dell’offeso?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

Difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione quando non è ravvisabile indicatore alcuno circa l’idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, a incidere sulla reputazione del destinatario, da intendersi come patrimonio di stima, fiducia e credito accumulato nella società e nell’ambiente in cui quotidianamente vive. – Cass., sez. V, 25 giugno 2024, n. 25026.

Premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività dell’espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata, la portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, e, in caso di esclusione dell’offensività predetta può pronunziare sentenza di assoluzione dell’imputato; si rammenta che il reato di diffamazione attiene alla tutela del bene giuridico della reputazione intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile.

Il principio di offensività, di rango costituzionale, costituisce, dunque, il criterio interpretativo-applicativo per il giudice nella verifica della riconducibilità di un determinato comportamento al paradigma di una norma incriminatrice al fine di circoscrivere la punibilità ai casi in cui esso presenti concreta efficacia o potenzialità lesiva (così come precisato dalla Corte costituzionale con sent. 211/2022 e 225/2008). L’applicazione di tale principio, in tema di diffamazione, richiede che la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento; elemento non sussistente nel caso di specie, ove la parola “pezzente” risulta pronunciata isolatamente, in modo improvviso e occasionale e, pertanto, non dà adito ad alcun un effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita della persona offesa e sul riconoscimento della sua dignità nella realtà socio-culturale circostante.

Contributo in tema di “Reato di diffamazione ed elementi essenziali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

Stalking su Facebook: bastano due post Stalking su Facebook integrato anche con la pubblicazione di due soli post se il profilo dell’autore è aperto e quindi accessibile

Stalking su Facebook

Il reato di stalking su Facebook è integrato anche dalla pubblicazione di due soli post sul profilo aperto dell’imputato se il passato è caratterizzato da condotte persecutorie e se dal contenuto dei post emerge chiaramente a chi sono diretti tanto che persona offesa vien informata del contenuto da persone vicine. La Cassazione lo ha chiarito nella sentenza n. 33986-2024.

Reato di stalking pubblicare due post sul profilo Facebook

La Corte d’appello condanna un soggetto per il reato di atti persecutori art. 612 bis c.p. L’imputato ricorre in Cassazione contestando gli addebiti nei suoi confronti. Il soggetto lamenta l’affermazione di responsabilità anche per fatti anteriori all’inoltre dei due post su Facebook. Questi eventi sono stati infatti oggetto di un procedimento penale relativo sempre al reato di stalking dal quale però era stato assolto. L’imputato rileva inoltre un potenziale contrasto tra giudicati. Costui  infine contesta la sussistenza dell’elemento soggettivo in relazione al reato di atti persecutori che gli è stato contestato.  Lo stesso si sarebbe realizzato con l’inoltro di due post sulla propria bacheca personale di Facebook a un destinatario privo di un profilo sullo stesso social, sul quale tra l’altro non è mai entrato. Alla luce di questo, l’imputato non comprende in che modo abbia potuto colpire la vittima con i suoi post.

Stalking su Facebook: sufficienti due condotte moleste e lesive

La Cassazione respinge il ricorso, ritenendo le censure in parte inammissibili e in parte infondate.

Dai precedenti penali per il reato di stalking la Corte di appello ha dedotto l’oggettiva capacità persecutoria dell’inoltro dei post su Facebook. La stessa ha fatto una corretta applicazione dei principi in materia affermati dalla giurisprudenza di legittimità. Quest’ultima ritiene in particolare che integrano li delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la “reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale.” Gli Ermellini ricordano inoltre come “il delitto di atti persecutori sia integrato da un’opera di reiterata delegittimazione della persona offesa realizzata dal soggetto attivo attraverso una serie protratta di condotte diffamatorie e moleste realizzate attraverso l’invio di numerosi “post” diffamatori su “social network.” 

Elemento soggettivo: dolo generico

L’elemento soggettivo di questo reato abituale e di evento è rappresentato dal dolo generico. Lo stesso si traduce nella volontà di porre in essere plurime condotte di minaccia e di molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi richiesti dalla norma come lo stato d’ansia e il cambio di abitudini. Non occorre la preordinazione da parte del reo, ma l’abitualità, che è integrata anche con la mera occasionalità e casualità. La consapevolezza delle più condotte di minaccia o di molestia a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, implica necessariamente la cognizione che tali condotte siano percepibili dai destinatari della minaccia o della molestia.”

Consapevolezza a produrre uno degli eventi ex art. 612 bis c.p.

Il reato di atti persecutori è quindi integrato anche dal reiterato e assillante invio di messaggi persecutori, ingiuriosi, enfatizzanti, minatori e irridenti la persona offesa se diretti a destinatari plurimi legati alla stessa da un rapporto di vicinanza. Tutto purché il reo agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza, della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice.” 

Conoscibilità scontata se il profilo è accessibile

La Cassazione ritiene che, se è vero che occorre distinguere il caso in cui i messaggi persecutori vengono inviati sul profilo della persona offesa da quello in cui vengono pubblicati sul profilo dell’imputato, nel caso di specie a rilevare è la conoscibilità, certamente scontata quando il profilo sia ampiamente accessibile”.

L’imputato ha fatto uso del proprio profilo Facebook per pubblicare due contenuti diretti chiaramente alle due persone offese. Le modalità utilizzate sono tali da fondare la conoscibilità da parte loro o comunque anche di altre persone a loro legate.” Il contenuto dei post è stato infatti rivelato alla persona offesa da sua sorella, dopo che questa ne è venuta a conoscenza dal social network.

 

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Allegati

ammonimento del questore

Ammonimento del Questore Ammonimento del Questore: misura preventiva applicata in presenza di atti idonei a realizzare i reati di stalking, revenge porn e violenza 

Ammonimento del Questore: cos’è

L’ammonimento è una misura preventiva che viene essere adottata dal Questore. La misura ha l’obiettivo di tutelare la vittima dalle conseguenze derivanti dalla commissione di certi reati.

L’ammonimento entra in gioco infatti quando un soggetto è vittima di reati specifici:

  • atti persecutori o stalking (art. 612 bis c.p.);
  • violenza domestica (una o più condotte gravi di violenza fisica, sessuale, economica e psicologica commesse in presenza di minori all’interno della famiglia, del nucleo famigliare o tra soggetti legati da vincoli affettivi);
  • diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn).

In cosa consiste l’ammonimento?

Dal punto di vista pratico l’ammonimento si traduce in un’intimazione che il Questore rivolge al presunto autore delle condotte illecite. Con l’ammonimento il soggetto  viene intimato a non tenere più condotte violente, minacciose, moleste e intrusive della vita altrui. Il soggetto inoltre viene invitato e indirizzato presso centri specializzati presenti sul territorio per aiutarlo a comprendere il disvalore sociale e penale del suo comportamento.

Disciplina

La disciplina di riferimento per l’istituto dell’ammonimento del Questore è la legge n. 38/2009, che ha contenuto il decreto legge n. 11/2009. Essa ha convertito in legge il decreto legge n. 11/2009 recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto ai reati di violenza sessuale e atti persecutori.

L’articolo 8 del decreto n. 11/2009, dedicato all’ammonimento del Questore, stabilisce nello specifico che, fino a quando non è proposta querela per il reato di atti persecutori di cui all’articolo 612 bis del codice penale, la persona offesa (o chi ne ha interesse) può rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza esponendo i fatti e chiedendo al Questore di ammonire l’autore della condotta.

La richiesta deve essere suffragata da prove che dimostrino la natura illecita della condotta del soggetto agente.

Il Questore, una volta assunte le necessarie informazioni dagli organi investigativi, sentite le persone informate sui fatti o dopo aver messo a confronto vittima e accusato, se ritiene che l’istanza sia fondata, ammonisce oralmente il soggetto responsabile invitandolo a tenere una condotta più rispettosa delle norme di legge e redigendo apposito verbale. Una copia del verbale viene quindi rilasciata alla vittima che ha richiesto l’ammonimento e una al soggetto ammonito. In questa sede il Questore può anche valutare se è il caso di procedere con provvedimenti in materia di armi e munizioni eventualmente detenuti dal soggetto ammonito.

Reato di stalking: conseguenze dell’ammonimento

L’articolo 8 del decreto n. 11/2009 ai commi 3 e 4 ricollega all’ammonimento del Questore due conseguenze di rilievo:

  • se un soggetto che è già stato ammonito commette il reato di atti persecutori contemplato dall’articolo 612 bis c.p la pena applicata nei suoi confronti è aumentata;
  • quando un soggetto è già stato ammonito dal Questore per il reato di atti persecutori di quell’articolo 612 bis c.p si procede d’ufficio.

Vantaggi dell’ammonimento del Questore

L’ammonimento del Questore presenta tutta una serie di vantaggi importanti per le vittime dei reati per i quali può essere richiesto.

  • Si tratta prima di tutto di una misura preventiva finalizzata ad ammonire il soggetto e a dissuaderlo dal reiterare certe condotte. Il Questore infatti quando ammonisce il soggetto lo informa anche su quali saranno le conseguenze, anche di natura penale a cui andrà incontro, se dovesse persistere nel tenere certi comportamenti.
  • In genere per ottenere l’ammonimento non è necessario attendere molto tempo. In questo modo si offre alla vittima una tutela rapida.
  • Chi si rivolge al Questore per ottenere l’ammonimento non deve sostenere alcuna spesa.
  • Per la presentazione dell’istanza non occorre l’assistenza di un legale.
  • La segnalazione può essere presentata presso uno dei tanti Uffici della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri.
  • La presentazione della segnalazione non avvia un procedimento penale, perché si tratta di una misura nata per agire con gradualità per scongiurare l’escalation di certe condotte.

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assegno di mantenimento figli

Assegno di mantenimento figli: l’impossibilità non è indigenza totale Assegno di mantenimento figli: l’impossibilità di adempiere gli obblighi di assistenza esclude il dolo, ma non equivale all’indigenza totale 

Assegno mantenimento figli e indigenza totale

Il padre che non versa l’assegno di mantenimento per la figlia, violando gli obblighi di assistenza familiare commette reato se non dimostra che la dichiarata impossibilità è esente da colpa. L’impossibilità assoluta di adempiere gli obblighi di assistenza familiare (art. 570 bis c.p) e che esclude il dolo “non può essere assimilata allindigenza totale.” Lo ha specificato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34032-2024.

Assegno di mantenimento: reato non versarlo per la figlia

Il giudice di primo grado condanna un padre per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’’art. 570 bis c.p. La Corte d’appello riduce la pena, ma conferma il reato. Per i giudici l’uomo è responsabile del mancato versamento del mantenimento mensile di 900,00 euro per la figlia. La Corte rileva che lo stesso ha versato somme inferiori rispetto a quelle fissate dal giudice, ma non ha dimostrato condizioni tali da non poter disporre di somme superiori.

Manca il dolo del reato contestato

L’imputato nel ricorrere in Cassazione contesta l’elemento soggettivo del reato di cui è stato ritenuto responsabile. Lo stesso dichiara di essersi trovato in una condizione di ristrettezze economiche. Questo non gli ha impedito di  versare quanto poteva per la figlia. Lo stesso inoltre si è riconciliato con la ex moglie e La ripresa della convivenza gli ha consentito di ripianare la propria posizione debitoria.

L’impossibilità di versare il mantenimento non è indigenza totale

La Cassazione, esaminati i motivi di doglianza, dichiara il ricorso manifestamente infondato. L’imputato si limita infatti a reiterare la tesi in base alla quale il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non può essere attribuito a chi si trova in una condizione di impossibilità ad adempiere ai propri obblighi.

La sentenza pronunciata nei confronti dell’imputato però è perfettamente in linea con la tesi affermata da giurisprudenza oramai consolidata, per la quale “in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’impossibilità assoluta dell’obbligato di far fronte agli adempimenti sanzionate dall’articolo 570 bis CP, che esclude il dolo, non può essere assimilata all’indigenza totale, dovendosi valutare se, in una prospettiva di bilanciamento dei beni in conflitto, ferma restando la prevalenza dell’interesse dei minori e degli eventi di diritto alle prestazioni, il soggetto avesse  effettivamente la possibilità di assolvere i propri obblighi senza rinunciare a condizioni di dignitosa sopravvivenza.”

Impossibilità totale e priva di colpa non dimostrata

L’imputato non è totalmente incolpevole e quindi non è esonerato dall’obbligo di contribuzione. La difesa ha dichiarato che l’uomo si è trovato in condizioni di difficoltà economica e quindi impossibilitato ad adempiere le obbligazioni a suo carico, ma tale assunto difensivo è generico e non è idoneo a dimostrare l’incapacità contributiva assoluta ed esente da colpa. L’imputato ha omesso di versare l’assegno di mantenimento, ma non ha dimostrato che l’inadempimento era dovuto a una condizione di impossibilità assoluta e priva di colpa.

 

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Allegati

processo penale telematico militare

Processo penale telematico militare in vigore dal 13 settembre Processo penale telematico militare: in Gazzetta il decreto ministeriale n. 123/2024 che disciplina anche il periodo transitorio

Processo penale telematico militare: il decreto in Gazzetta

Il processo penale telematico militare approda in Gazzetta. Il Decreto ministeriale n. 123 del 19 luglio 2024 è stato pubblicato infatti sulla Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 202 del 29 agosto 2024. Il testo, composto da 26 articoli, contiene il “Regolamento di definizione delle disposizioni transitorie al processo penale militare telematico di cui all’articolo 87, comma 7, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150.”

Il decreto stabilisce infatti le regole tecniche del processo penale telematico nell’ambito della Giustizia militare, alcune destinate a regolamentare la fase transitoria e il periodo sperimentale di applicazione.

La gestione delle modalità informatiche del processo penale miliare sono affidate al Sigmil il Sistema Informativo della Giustizia Militare.

Atti del giudizio penale militare

Gli atti del giudizio penale militare hanno la forma del documento informatico nei formati (compresi quelli compressi) previsti dalle specifiche tecniche.

Gli atti e i provvedimenti emessi dai magistrati militari sono redatti e depositati come documenti informatici e sono sottoscritti con firma digitale.

Stesse regole per gli atti del personale amministrativo.  Gli atti dei magistrati vengono sottoscritti anche dal personale amministrativo e depositati nel fascicolo informatico. La formazione dell’atto e il suo deposito in modalità analogica sono consentiti solo in caso di mancato funzionamento del sistema. Il deposito analogico invece è sempre consentito quando gli atti e i documenti non possono essere acquisiti in copia informatica.

Gli atti della polizia giudiziaria hanno la forma del documento informatico, sono sottoscritti con firma digitale, vengono conservati e poi trasmessi a mezzo pec anche tramite il portale della Giustizia Militare. La trasmissione a mezzo pec è consentita in modalità frazionata se il singolo documento supera la dimensione massima consentita.

Gli atti dei soggetti terzi abilitati sono redatti nella forma del documento informatico, sottoscritti con firma digitale e depositati insieme agli allegati in modalità telematica nell’ambito del Sigmil. La ricezione viene documentata dalla generazione di una ricevuta di accettazione, che ne attesta il deposito nell’ufficio competente. Dopo il rilascio della ricevuta il documento viene scaricato nel fascicolo informatico.

Mandato difensivo

Il mandato che il cliente conferisce all’avvocato per la difesa deve essere autenticato dal difensore con firma digitale e depositato telematicamente. Se il mandato è cartaceo il difensore lo deposita in modalità telematica in formato immagine e lo assevera inserendo la dichiarazione sul documento stesso o in un documento separato e sottoscritto con firma digitale.

Regole diverse sono previste se l’atto di nomina avviene con dichiarazione resa all’autorità di polizia giudiziaria o all’autorità giudiziaria militare procedente.

Fascicolo informatico

Il fascicolo telematico contiene gli atti e i documenti in formato multimediale ed è formato tramite il Sigmil. Il fascicolo deve contenere precise indicazioni dell’ufficio titolare del procedimento, dell’oggetto, degli atti e dei documenti conservati al suo interno. La trasmissione del fascicolo da un ufficio giudiziario militare all’altro avviene tramite il Sigmil, la trasmissione ad altri uffici giudiziari invece avviene attraverso canali telematici sicuri o tramite cooperazione applicativa.

I soggetti abilitati interni accedono ai fascicoli tramite il Sigmil, pi soggetti esterni invece attraverso il portale della giustizia militare. L’accesso è consentito anche tramite delega nelle modalità previste dall’art. 11 del decreto. Possono accedere al fascicolo informatico anche i difensori muniti di procura, gli avvocati domiciliatari e le parti personalmente purché autorizzati con le modalità stabilite dalle specifiche tecniche.

I soggetti esterni abilitati che hanno accesso al fascicolo possono anche estrarre copia degli atti e dei documenti contenuti al loro interno, previo pagamento.

Comunicazioni e notificazioni telematiche

Le notificazioni e le comunicazioni si eseguono a mezzo pec. Le stesse si intendono perfezionate quando il gestore genera la ricevuta del destinatario. Le ricevute di avvenuta consegna così come gli avvisi di mancata consegna vengono conservati nel fascicolo informatico.

I soggetti abilitati all’utilizzo della posta elettronica certificata devono utilizzare servizi di gestori in possesso dei particolari requisiti tecnici (art. 14).

Intercettazioni

I verbali e le registrazioni delle intercettazioni sono conservate su infrastrutture informatiche separate gestite e tenute nel rispetto di precise specifiche tecniche.

Documentazione dell’attività processuale

Quando la legge impone di documentare l’attività giurisdizionale penale militare con modalità diverse dalla forma scritta si procede con apparecchiature di registrazione audiovisiva o di fonoregistrazione che ne consentono la memorizzazione in forma informatica.

Partecipazione da remoto al processo penale militare

La partecipazione da remoto alle attività del giudizio penale militare si effettua tramite piattaforme di videoconferenza in uso presso la Giustizia Militare. Per partecipare da remoto occorre che il dispositivo rispetti certi requisiti. I magistrati militari utilizzano per il collegamento telematico gli indirizzi di posta elettronica istituzionale e i dispositivi del Ministero della difesa. In caso di partecipazione da remoto ad udienze, pubbliche o in camera di consiglio, il giudice militare verifica la funzionalità del collegamento e le presenze e dà atto nel processo verbale delle modalità con cui e’ stata accertata l’identità dei soggetti ammessi a partecipare e la loro libera volontà di dar corso all’udienza da remoto. La registrazione delle udienze pubbliche e camerali e’ ammessa solo nei casi previsti dalla legge da parte dell’autorità giudiziaria. E’ vietato l’uso della messaggistica istantanea degli applicativi per la videoconferenza.

Processo penale militare: periodo transitorio

Il periodo transitorio del processo penale telematico decorre dal 15° giorno successivo a quello di pubblicazione del decreto sino al 15° giorno successivo alla data in cui il Sigmil è pienamente operativo.

Durante il periodo transitorio, il deposito con valore legale dei difensori, delle parti e degli altri soggetti del giudizio penale militare, degli atti, dei documenti e delle istanze, è consentito tramite posta elettronica certificata.

Regole ulteriori sono previste per garantire la continuità della tenuta del fascicolo cartaceo.

 

 

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mediazione penale

Mediazione penale La mediazione penale è una procedura che consente a regola la vittima di riconciliarsi grazie all’aiuto del mediatore penale

Mediazione penale: cos’è

La mediazione penale è una procedura che consente alla vittima e all’autore del reato di gestire il conflitto.

Il Consiglio d’Europa ha definito la mediazione penale come il “procedimento che permette alla vittima e al reo di partecipare attivamente, se vi consentono liberamente, alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo indipendente”.

Come accade per la mediazione civile quindi, nella mediazione penale le parti ricevono il supporto di un mediatore.

L’obiettivo della mediazione penale è la riappacificazione tra l’autore del reato e la vittima dello stesso. Le ripercussioni positive però non riguardano solo questi soggetti positive, ma la società nel suo complesso.

Come funziona la mediazione penale

Grazie all’istituto della mediazione penale la vittima e il reo, in quanto soggetti coinvolti direttamente dall’illecito penale possono incontrarsi per gestire con responsabilità le conseguenze del reato e riconciliarsi. Questo istituto offre quindi un luogo di incontro in cui sia la vittima che il reo possono dare voce al disagio emotivo e alle conseguenze negative che ne sono scaturite. Grazie al mediatore è possibile infatti trasformare i sentimenti distruttivi per riattivare una comunicazione che non è mai esistita o che si è interrotta e per riparare le conseguenze negative del reato.

Tipologie

Il nostro ordinamento prevede l’applicazione dell’istituto della mediazione penale nell’ambito della giustizia minorile e in quella ordinaria degli adulti.

Per quanto riguarda i minori la mediazione penale mira a valorizzare la finalità educativa per consentire ai giovani di responsabilizzarsi, crescere e costruirsi un’identità. La mediazione penale in ambito minorile persegue infatti l’obiettivo rieducativo e pedagogico tipico della giurisdizione penale minorile e mira a riconosce il dolore della vittima e il suo diritto alla riparazione per la violazione subita.

La procedura di mediazione che riguarda i reati commessi dagli adulti mira invece a  favorire il dialogo, il confronto, e il racconto del disagio per individuare le possibili modalità di riparazione.

Novità riforma Cartabia

L’istituto della mediazione penale è stato valorizzato dalla riforma Cartabia. Il decreto legislativo n. 150/2022 ha riformato il processo penale per renderlo più efficiente e celere anche attraverso il rafforzamento della giustizia riparativa (restorative iustice).

Mediazione penale: avvio facoltativo

La norma procedurale di maggiore interesse in materia è l’articolo 129 bis c.p.p. Essa prevede che il giudice possa disporre d’ufficio l’invio delle parti ad un centro di mediazione. Tale decisione presuppone la preventiva valutazione di vari elementi. Il primo è la natura del reato, c’è poi il rapporto tra responsabile e vittima e infine l’adeguatezza della riparazione rispetto alle conseguenze del reato.

Giustizia riparativa: avviso delle parti

All’art. 129 bis c.p.p è collegato l’articolo 419 c.p.p. Esso  prevede infatti che il giudice debba informare l’imputato e la vittima del reato circa la possibilità di accedere alla giustizia riparativa.

Mediatore penale: cosa fa

Il decreto legislativo n. 150/2022 che ha attuato la riforma del processo penale prevede regole particolari anche per il mediatore. Il mediatore penale deve infatti essere presente  già durante il primo incontro tra i soggetti che hanno deciso di partecipare al programma di giustizia riparativa.

L’incontro è preceduto da diversi contatti e incontri con altri mediatori o con i partecipanti alla procedura per raccogliere il consenso, verificarne la fattibilità e acquisire determinate informazioni.

Il programma può concludersi con un esito riparativo di natura simbolica, come la presentazione delle scuse formali da parte del reo o con una riparazione materiale attraverso il risarcimento del danno.

Quando la mediazione penale giunge al termine il mediatore è tenuto a redigere una relazione e ad inviarla all’autorità giudiziaria per informarla delle attività svolte e dell’esito  del programma.

Obblighi formativi

Per svolgere al meglio le funzioni richieste dai programmi di giustizia riparativa il mediatore esperto  deve assolvere a determinati obblighi formativi.  Costui inoltre deve essere in possesso dei requisiti necessari per l’esercizio dell’attività.

La formazione iniziale prevede la frequentazione di un corso della durata minima di 240 ore, quella continua invece  la frequentazione di corsi d’aggiornamento teorico pratico della durata non inferiore di 30 ore annuali.

La formazione è finalizzata all’acquisizione di competenze multidisciplinari, di natura teorico pratica anche in ambito di hard e soft skills.

 

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giurista risponde

Competenza delitto di lesioni personali dopo la riforma Cartabia Delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta: chi è competente?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

 

Se la competenza per materia per il delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta, dopo le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, permanga in capo al tribunale ovvero sia stata attribuita dalla stessa norma al giudice di pace.

Appartiene al giudice di pace, dopo l’entrata in vigore delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia in ordine al delitto di lesione personale nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento. – Cass., Sez. Un., 28 marzo 2024, n. 12759.

Nel caso di specie, la Corte d’appello territoriale confermava la sentenza con cui il Tribunale, sul presupposto della sua competenza, aveva dichiarato la responsabilità dell’imputato per il delitto di cui all’art. 582 c.p., per aver cagionato lesioni personali alla persona offesa, giudicate guaribili in trenta giorni.

Investita del ricorso, la Quinta Sezione della Corte di cassazione ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto in ordine alla individuazione del giudice competente, relativamente al delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore ai venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, quando il fatto è perseguibile a querela, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Secondo un primo orientamento, il giudice di pace è competente per il delitto di lesioni personali, anche nel caso di malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, sempre che la perseguibilità sia a querela a norma dell’art. 582 c.p. attualmente in vigore.

A fondamento di questo indirizzo, una interpretazione estensiva, o “parzialmente analogica” dell’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 274/2000, coerente con la finalità deflattiva della Riforma e con la persistente vigenza del D.Lgs. 274/2000, istitutivo della competenza penale del giudice di pace.

Secondo un diverso orientamento, fondato sulla interpretazione letterale del combinato disposto del “nuovo” art. 582, comma 2, c.p. e dell’art. 4 D.Lgs. 274/2000, il giudice di pace non ha più alcuna competenza in materia di lesioni personali, poiché le ipotesi perseguibili a querela sono ora previste tutte nel primo comma dell’art. 582 c.p. e dall’art. 4, limite di ogni altro metodo ermeneutico, ivi compreso quello dell’interpretazione estensiva.

La Suprema Corte, dichiarato inammissibile il ricorso, ha ritenuto che nella interpretazione delle citate disposizioni occorra farsi guidare da una interpretazione letterale, limite insuperabile anche qualora si proceda a una interpretazione estensiva, ai sensi degli artt. 12 preleggi e 101, comma 2, Cost. Tuttavia, il rispetto della lettera della legge impone di esaminare la singola disposizione in modo sistematico, per individuare il preciso significato e l’ambito applicativo della stessa, ovvero considerando tutte le norme riferite alla disciplina dell’identica vicenda che si pongano tra loro in rapporti di reciproca interferenza, dal momento che le disposizioni normative non possono mai essere prese in considerazione isolatamente, dovendo sempre essere valutate come componenti di un “insieme” tendenzialmente unitario, in coordinamento con le altre riferite alla disciplina dell’identica vicenda. Per tale ragione, la Suprema Corte afferma che l’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, va letto in combinato disposto con l’art. 15, comma 1, L. 24 novembre 1999, secondo una interpretazione sistematica, che valorizza il dato testuale risultante dal combinato disposto delle due previsioni normative.

In questa prospettiva, è possibile ritenere che, tra i possibili significati attribuibili al dato testuale del combinato disposto delle due previsioni normative, rientra senz’altro anche quello secondo cui sono devoluti alla competenza del giudice di pace i delitti consumati o tentati di lesione personale, quando la procedibilità per gli stessi sia a querela e fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento.

*Contributo in tema di “Delitto di lesioni personali e competenza”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica