concetto di domicilio

La Cassazione chiarisce il concetto di domicilio Per la Suprema Corte, il domicilio non può coincidere con qualsiasi ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza

Concetto di domicilio

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8593/2025, ha stabilito che il concetto di domicilio non può essere esteso a qualsiasi luogo che garantisca intimità e riservatezza. In particolare, la S.C. ha chiarito che non ogni ambiente destinato a garantire la privacy può essere considerato domicilio ai fini delle tutele previste dall’art. 14 della Costituzione italiana, che protegge l’inviolabilità del domicilio.

La vicenda

Nella vicenda, i ricorrenti, dichiarati colpevoli di concorso in tentato furto aggravato in luogo di privata dimora, per essersi introdotti all’interno di una farmacia compiendo atti diretti a impossessarsi delle cose mobili presenti all’interno, impugnano la sentenza della Corte d’appello di Roma che ha confermato la decisione di primo grado.

Il ricorso per cassazione è affidato al comune difensore di fiducia, il quale svolge un unico motivo, dolendosi della qualificazione giuridica data al fatto. Si sostiene, infatti, alla luce della evocata giurisprudenza, che la fattispecie concreta in esame non consenta di ritenere che i luoghi al cui interno i correi si sono introdotti siano configurabili quali luoghi di privata dimora, secondo le coordinate delineate dalla giurisprudenza. Il tentativo di furto è stato, infatti, perpetrato in orario notturno, in assenza di persone, e li foro di accesso è stato praticato in prossimità della parte retrostante alla cassa, zona esposta all’accesso del pubblico. Trattasi, dunque, a suo dire, di pertinenza non rientrante nei luoghi in cui possano svolgersi, neppure astrattamente, atti di vita privata connessi all’attività lavorativa.

Il luogo di privata dimora

Per la S.C., i ricorsi non sono fondati.

Come premesso, il ricorso svolge un’unica doglianza riferita all’errore giuridico circa la qualificazione del delitto quale tentativo di furto in abitazione, sostenendosi, sulla base di richiami giurisprudenziali, che il fatto andrebbe riqualificato in furto tentato ai sensi degli artt. 56-624 cod. pen., a cui conseguirebbe l’effetto della non procedibilità per carenza di querela.
Tuttavia, per i giudici di legittimità, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto che governato la materia.

Il domicilio

Gli elementi delineati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti il “domicilio” e ritenuti indefettibili per garantire la copertura costituzionale dell’art. 14 Cost.,, affermano dalla S.C., “sono stati evidenziati già nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26795/2006, secondo cui per « luogo di privata dimora», deve intendersi quello adibito ad esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente, senza turbativa da parte di estranei, precisando che il concetto di domicilio individua un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza. Questo non implica, peraltro, che tutti i locali dai quali li possessore abbia diritto di escludere le persone a lui non gradite possano considerarsi luoghi di privata dimora, in quanto lo ius excludendi alios rilevante ex art. 614 cod. pen., non è fine a se stesso, ma serve a tutelare li diritto alla riservatezza, nello svolgimento di alcune manifestazioni della vita privata della persona, che l’art. 14 Cost. garantisce, proclamando l’inviolabilità del domicilio, cosicchè, « il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con un qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza»”.

Nozione di privata dimora nei luoghi di lavoro

In un successivo approdo, le Sezioni Unite hanno esaminato specificamente la questione della applicabilità della nozione di privata dimora di cui all’art. 624 bis cod. pen. ai luoghi di lavoro, ed hanno affermato che «Ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale» (Sez. Un., n. 31345 del 23/03/2017).

Secondo tale ultima pronuncia, gli indici ai quali ancorare la classificazione di un luogo come di privata dimora sono tre: «a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare».
Potrà, quindi, essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte degli stessi, specificano dal Palazzaccio, “il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento – Sez. Un. “D’Amico”, cit.).

Furto ai danni di farmacie

Coerente con tali coordinate ermeneutiche, la giurisprudenza, pur se antecedente ai richiamati approdi del massimo consesso di legittimità, formatasi in casi analoghi a quello di specie, ovvero di furto ai danni di farmacie; si è, infatti, considerato che, in tanto la fattispecie di cui all’art. 624- bis cod. pen. può essere ritenuta in quanto la condotta di furto si indirizzi nei confronti di quelle parti dell’immobile che, avendo le caratteristiche evidenziate dalla giurisprudenza sopra richiamate, possono essere qualificate privata dimora, nel senso che è tale “la condotta del soggetto che, per commettere un furto, si introduca all’interno di una farmacia, soltanto quando l’introduzione clandestina avvenga nelle parti dell’immobile destinati, per l’uso che in concreto ne è fatto, a privata dimora, vale a dire quale luogo non pubblico in cui le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti di vita privata ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale politica”. (Sez. 4, n. 51749 del 13/11/2014, Rv. 261577).
Tale interpretazione, infatti, “aderisce alla nozione di privata dimora riferibile ai luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata – compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale – e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza li consenso del titolare ( Sez. 5, n. 34475 del 21/06/2018)”.

La decisione

Calando tali principi nella vicenda concreta in esame, ritiene la S.C. che la sentenza della Corte territoriale sia nel giusto, osservando come i luoghi presi di mira fossero, da un lato, destinati allo svolgimento di attività strumentali all’esercizio della farmacia e dall’altro pertinenze di abitazione privata. Per cui, ne consegue l’infondatezza del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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Allegati

maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia Maltrattamenti in famiglia: quando sia configura, analisi dell’art. 572 c.p, elementi del reato, pena, procedibilità e sentenze

Maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p.

Il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato dall’art. 572 del Codice Penale, tutela l’integrità fisica e psicologica delle persone all’interno del nucleo familiare o in rapporti assimilabili. Questa fattispecie punisce chiunque sottoponga un familiare o un convivente a sofferenze fisiche o morali in modo abituale, creando un clima di sopraffazione e paura.

Quando si configura il reato di maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti si configura quando vi è una condotta abituale di vessazioni, violenze fisiche o psicologiche, ingiurie, umiliazioni o privazioni nei confronti di un soggetto appartenente al nucleo familiare o convivente. Per l’integrazione del reato non è sufficiente un singolo episodio di violenza, ma è necessaria la reiterazione dei comportamenti vessatori nel tempo.

Le vittime possono essere:

  • il coniuge o il convivente;
  • i figli, anche adottivi;
  • gli ascendenti o gli altri parenti conviventi;
  • le persone sottoposte alla tutela, vigilanza o autorità dell’autore del reato (ad esempio, una badante nei confronti di un anziano assistito).

Cosa prevede l’art. 572 c.p.?

L’art. 572 c.p. punisce “chiunque (…) maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia”. Per la configurazione del reato è essenziale che i maltrattamenti siano continuativi e creino un perdurante stato di sofferenza nella vittima.

Elementi del reato: oggettivo e soggettivo

Analizziamo distintamente l’elemento oggettivo e quello soggettivo del reato.

Elemento oggettivo

Il reato di maltrattamenti si caratterizza per:

  • condotta abituale: comportamenti reiterati e non un singolo atto di violenza;
  • vessazioni fisiche o morali: umiliazioni, minacce, percosse, privazioni affettive, isolamento.

Elemento soggettivo

Il dolo richiesto è generico, ossia la consapevolezza e volontà di infliggere sofferenze alla vittima. Non è necessario che l’autore del reato abbia un fine specifico, ma è sufficiente che agisca intenzionalmente.

Pena prevista per i maltrattamenti in famiglia

L’art. 572 c.p. prevede una pena da 3 a 7 anni di reclusione, che viene aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o ai danni di minori, donne in stato di gravidanza, disabili o con l’uso delle armi. La pena della reclusione sale dai 4 ai 9 anni, se i maltrattamenti provocano lesioni gravi o gravissime. Se dai maltrattamenti deriva la morte della vittima, la pena può arrivare fino a 24 anni di reclusione.

Procedibilità del reato

Il reato di maltrattamenti in famiglia è procedibile d’ufficio, il che significa che l’azione penale viene avviata automaticamente non appena le autorità ne vengono a conoscenza, senza necessità di querela da parte della vittima.

Giurisprudenza rilevante

La Corte di Cassazione ha fornito diverse interpretazioni significative sul reato di maltrattamenti.

Cassazione n. 1268/2025: integra il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi il comportamento di chi impedisce alla vittima di raggiungere l’indipendenza economica, a condizione che tali condotte vessatorie provochino nella vittima uno stato di prostrazione psico-fisica e che le decisioni economiche e organizzative familiari, imposte unilateralmente e non condivise, siano il risultato di comprovati atti di violenza o prevaricazione psicologica.

Cassazione n. 20352/2024: le condotte vessatorie nei confronti del coniuge, che hanno avuto origine in ambito domestico e persistono dopo la separazione di fatto o legale, rientrano nel reato di maltrattamenti in famiglia, anziché in quello di atti persecutori, poiché il coniuge rimane parte della famiglia fino alla cessazione degli effetti civili del matrimonio o allo scioglimento del vincolo matrimoniale, indipendentemente dalla convivenza.

Cassazione n. 16543/2017: il reato di maltrattamenti configura un’ipotesi di reato necessariamente abituale, caratterizzato dalla presenza di una serie di azioni, prevalentemente commissive ma anche omissive, che, considerate singolarmente, potrebbero non essere punibili (come atti di infedeltà o umiliazioni generiche) o non perseguibili (come percosse o minacce lievi, perseguibili solo su querela), ma che nel loro insieme sono in grado di provocare nella vittima sofferenze fisiche e morali durature.

 

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processo penale

Processo penale: deposito telematico obbligatorio dal 1° aprile Dal 1° aprile 2025 scatta il deposito telematico obbligatorio per alcuni atti del processo penale, come previsto dal dm 206/2024

Deposito telematico processo penale

Il Decreto n. 206 del 27.12.2024 del Ministero della giustizia modifica il precedente regolamento sul processo penale telematico, introducendo importanti novità sui depositi telematici degli atti nei procedimenti penali.

In particolare, il provvedimento ha previsto il deposito telematico obbligatorio dal 1° gennaio 2025 negli uffici giudiziari penali (Procura della Repubblica presso il tribunale ordinario; Procura europea; Sezione del giudice per le indagini preliminari (GIP) del tribunale ordinario; Tribunale ordinario; Procura generale presso la corte d’appello (limitata ai procedimenti di avocazione)) contemplando tuttavia alcune deroghe temporanee.

Depositi telematici dal 1° aprile 2025

Tra queste rileva l’obbligo differito, appunto, al 1° aprile 2025, del deposito telematico per l’iscrizione delle notizie di reato (articolo 335 del codice di procedura penale) e per gli atti relativi ai procedimenti disciplinati dal libro VI, titoli I (abbreviato) III (direttissimo) e IV (immediato, del codice di procedura penale, impugnazioni comprese. Fino al 31 marzo tali atti potevano essere depositati non telematicamente. Dal 1° aprile, invece, le iscrizioni al Registro delle notizie di reato e i depositi relativi ai giudizi abbreviati, direttissimi e immediati dovranno avvenire esclusivamente in via telematica,

Le richieste dell’OCF

Tale adempimento ha messo in subbuglio l’avvocatura, che ha già evidenziato le criticità dei depositi telematici obbligatori nel processo penale, dati i malfunzionamenti e le sospensioni registrate nei mesi scorsi. Ad intervenire, nello specifico, è l’Organismo Congressuale Forense, con una nota del 31 marzo, esprimendo “forte preoccupazione per le numerose criticità ancora presenti, che rischiano di compromettere il diritto di difesa e il corretto funzionamento della giustizia”.

A gennaio, rammenta infatti l’OCF, “87 Presidenti di Tribunale hanno sospeso l’efficacia del DM nei rispettivi circondari a fronte di segnalazioni di malfunzionamento dai rispettivi RID (Referente Distrettuale per l’Innovazione) e MAGRIF (Magistrato di Riferimento per l’Innovazione)”. Alcuni decreti di sospensione sono stati prorogati nei giorni scorsi e altri potrebbero seguire. “Restano molte inefficienze, tra cui ritardi nelle iscrizioni al Registro Notizie di Reato, mancata annotazione delle nomine che impedisce il deposito di atti successivi, richiesta sistematica del certificato ex art. 335 CPP, mancata attivazione di funzionalità essenziali e rifiuto di accettazione dei depositi”. Queste le criticità evidenziate dall’Organismo. Senza contare che “l’assenza di un atto generico impedisce il deposito di richieste non previste espressamente, mentre le diverse interpretazioni della normativa da parte dei magistrati generano incertezza applicativa”.

Inoltre, rileva la nota, “alcuni uffici giudiziari escludono la costituzione di parte civile o la produzione documentale se non previamente depositata sul Portale depositi atti penali, altri richiedono il doppio deposito cartaceo e telematico nella stessa giornata, ignorando le difficoltà di accesso al fascicolo telematico da parte delle parti processuali”.

Da qui la richiesta di “interventi urgenti per risolvere le criticità evidenziate, garantendo uniformità e funzionalità al sistema telematico”.

 

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la denuncia

La denuncia La denuncia: cos'è, la normativa di riferimento, differenze con la querela e l’esposto, e giurisprudenza di rilievo

Cos’è la denuncia?

La denuncia è un atto giuridico formale con il quale una persona (denunciante) porta all’attenzione delle autorità competenti un fatto che ritiene essere un reato, che può essere stato commesso o che sta per essere commesso. È un atto con il quale si porta conoscenza di un crimine alle forze di polizia, al pubblico ministero o, nei casi previsti, anche al giudice.

Essa si distingue dalla querela in quanto non è necessaria che la persona che la presenta sia la parte lesa. La querela infatti è un atto giuridico che viene presentato solo dalla persona danneggiata, la denuncia invece può essere fatta anche da chi ha assistito al reato o ne è venuto a conoscenza in altro modo.

Normativa di riferimento

Questo atto è regolamentato principalmente dal Codice di Procedura Penale e da alcune leggi speciali che riguardano specifici ambiti, come il reato di estorsione, furto, truffa e violenza domestica. Ecco alcuni articoli importanti relativi alla denuncia:

  • 333 codice di procedura penale: stabilisce che chiunque venga a conoscenza di un reato possa denunciarlo alle autorità competenti. La norma prevede inoltre l’obbligo di denuncia per i pubblici ufficiali e per gli incaricati di un servizio pubblico, non per i soggetti privati, nei casi previsti dalla legge.
  • Art 334 bis del codice di procedura penale esonera dall’obbligo di denuncia gli avvocati e i soggetti indicati dall’articolo 391 bis c.p.p neppure per i reati di cui vengono a conoscenza nel corso delle attività di investigazione svolte.

Come si presenta una denuncia?

La denuncia può essere presentata oralmente o per iscritto. Se la denuncia avviene oralmente, verrà trascritta dalle forze dell’ordine o dall’autorità competente. La forma scritta è preferibile, poiché consente una maggiore chiarezza e consente al denunciante di esprimere dettagli in modo completo.

Le modalità di presentazione possono essere diverse:

  • Presso le forze di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza): le autorità di polizia sono sempre pronte ad accogliere una denuncia e avviare le indagini.
  • Direttamente al pubblico ministero: tramite la procura della Repubblica, se la denuncia riguarda reati particolarmente gravi o complessi.
  • In via telematica: alcuni reati possono essere denunciati online, tramite i portali dedicati, come quello della Polizia di Stato.

La denuncia deve contenere informazioni precise e dettagliate riguardo al reato e ai fatti che si intendono denunciare. Devono essere forniti tutti i dettagli rilevanti, inclusi i dati delle persone coinvolte, la descrizione dei fatti e, se disponibili, eventuali prove o documenti.

La denuncia anonima

Esiste anche la denuncia anonima, ovvero un atto in cui il denunciante non rivela la propria identità. Sebbene questa forma sia ammessa, ha delle limitazioni. Le autorità infatti, in base al quanto disposto dal comma 3 dell’art. 333 c.p.p non sono obbligate a prendere in considerazione una denuncia anonima, in quanto può risultare difficile da verificare o meno attendibile. Tuttavia, se il contenuto dell’atto porta a informazioni utili e concrete, le autorità possono comunque avviare un’indagine. Viceversa, nel caso in cui la denuncia anonima non fornisca elementi concreti, non obbliga le forze dell’ordine a intraprendere un’azione legale.

Differenza tra denuncia, querela ed esposto

La denuncia è spesso confusa con la querela e l’esposto, ma ci sono alcune differenze fondamentali tra questi atti.

  • Denuncia: è l’atto con cui si segnala alle autorità competenti un reato. Chiunque può denunciare un crimine, anche se non è direttamente coinvolto come parte lesa.
  • Querela: la querela invece è una denuncia fatta solo dalla parte lesa o da chi ha subito il danno direttamente dal reato. La querela è necessaria per procedere legalmente in casi come lesioni, diffamazione o stalking, in quanto sono reati che non sono perseguibili d’ufficio, ma su richiesta della persona danneggiata.
  • Esposto: un esposto, invece, è una segnalazione generica che non implica un atto accusatorio. Serve a far conoscere alle autorità competenti un fatto sospetto o illecito, ma non ha la finalità di avviare un procedimento penale o chiedere la punizione di un responsabile.

Differenze con querela ed esposto

Caratteristica Denuncia Querela Esposto
Scopo Segnalare un reato Iniziare un procedimento legale Segnalare un comportamento illecito, senza finalità accusatorie
Obbligo di presentazione Facoltativa  per i privati per reati perseguibili d’ufficio Necessaria per reati procedibili su querela Facoltativa, senza obbligo giuridico
Prosecuzione del reato Può avviare un’indagine d’ufficio Richiede il consenso della parte lesa Non avvia automaticamente un’indagine
Chi può presentarla Chiunque abbia conoscenza di un reato La persona danneggiata dal reato Chiunque, anche senza essere parte lesa

Giurisprudenza sulla denuncia

La giurisprudenza ha trattato vari aspetti di questo atto evidenziando come la stessa sia fondamentale per il buon funzionamento del sistema giuridico:

Cassazione n. 29319/2024: una denuncia anonima non può essere utilizzata come prova in un processo penale. Tuttavia, essa può innescare l’attività investigativa del Pubblico Ministero o della polizia giudiziaria, spingendoli a raccogliere informazioni utili per verificare se vi siano elementi sufficienti per avviare un’indagine formale. In altre parole, la denuncia anonima non ha valore probatorio, ma può servire come spunto per ulteriori accertamenti.

SU Cassazione n. 25932/2008:  una denuncia considerata irregolare e quindi equiparabile a una denuncia anonima, pur non potendo essere utilizzata come prova, può stimolare le indagini del Pubblico Ministero o della polizia giudiziaria. Questo avviene attraverso la raccolta di informazioni che potrebbero portare all’identificazione di un’ipotesi di reato, la quale verrebbe poi approfondita seguendo le procedure legali. In sostanza, anche se la denuncia in sé non ha valore probatorio, può comunque innescare un processo investigativo.

 

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notifica pec

Notifica pec fallita per causa ignota: va rinnovata La Cassazione ha chiarito che in caso di notifica pec fallita per causa ignota, la stessa va rinnovata dalla cancelleria

Notifica pec fallita

Notifica PEC non andata a buon fine per causa ignota. Va rinnovata dalla Cancelleria. Questo quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 8361/2025.

Il caso: notifica PEC non consegnata

La decisione è scaturita dal ricorso di un uomo condannato per stalking dalla Corte d’Appello di Brescia. Il ricorrente ha contestato la validità della notifica dell’avviso di udienza al difensore e quella effettuata presso il domicilio eletto. La causa del fallimento non era chiaramente individuabile. Dagli atti risultava, infatti, che l’avvocato di fiducia non aveva ricevuto nel domicilio elettronico indicato la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, risultante – del resto – dal fascicolo d’ufficio come non consegnato al destinatario. Di qui, a suo dire, “poiché non è stata individuata la causa della mancata consegna del messaggio di posta elettronica, non è possibile attribuirgli, in conformità ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità sulla questione, alcuna responsabilità per l’omesso recapito del predetto messaggio”.

Per la Corte, le doglianze suscettibili di valutazione unitaria, sono fondate.

Obbligo di ripetizione della notifica

La questione che si pone all’attenzione della S.C. è “se la notifica possa ritenersi valida anche in un’ipotesi come quella considerata, ossia nella quale non sia possibile stabilire se l’omessa consegna sia dipesa dalla responsabilità del destinatario del messaggio (ad es., per problemi correlati alla ‘saturazione’ della relativa cartella) ovvero da quella della Cancelleria” ragiona la Corte. In definitiva, “si tratta di individuare le conseguenze, in punto di validità della notifica dell’atto processuale a mezzo pec, dell’omessa consegna del messaggio inviato dalla cancelleria per una causa rimasta ignota”.
Nella giurisprudenza di legittimità, “è stato sancito il dovere del difensore di controllare il corretto funzionamento della propria casella di posta elettronica, con la conseguenza che, ove la mancata consegna dipenda da un malfunzionamento del sistema, le conseguenze restano a carico del difensore, in virtù della prescrizione espressa dall’art. 16, comma 6, del d.l. n. 179/2012, che impone il deposito dell’atto in cancelleria (ex multis, Cass. n. 41697/2019)”.

La decisione

Nel caso di specie, tuttavia, l’omessa consegna del messaggio trasmesso dalla cancelleria a mezzo posta elettronica certificata è rimasta ignota. E ciò in quanto la preminente importanza che, anche nella giurisprudenza costituzionale, è attribuita al diritto di difesa dell’imputato rispetto al principio della ragionevole durata del processo, comporta che, “nelle ipotesi di incertezza circa la responsabilità dell’omesso perfezionamento del procedimento notificatorio, questo non possa considerarsi validamente compiuto”.
“Il che impone alla cancelleria, in un caso siffatto, concludono dal Palazzaccio, “la rinnovazione della notifica, trattandosi, peraltro, di un adempimento semplificato proprio dalla possibilità di utilizzare l’agile strumento della posta elettronica certificata”.
Da qui l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio.

Allegati

giurista risponde

Furto con strappo e rapina Il contegno con cui il reo asporta una res particolarmente aderente al corpo della vittima è sussumibile nella fattispecie di furto con strappo o in quella più grave della rapina?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Il soggetto agente che, con violenza sulla cosa, sottrae un bene strettamente aderente al corpo della persona offesa e se ne impossessa commette il delitto di cui all’art. 628 c.p., indipendentemente dalla volontaria resistenza della vittima o dalle ecchimosi da questa subite, in quanto, per superare la fisiologica opposizione posta dal corpo e conseguire, quindi, il risultato atteso, la violenza sulla cosa si estende necessariamente alla persona e si sviluppa su di essa (Cass., sez. II, 17 ottobre 2024, n. 45589 (Furto con strappo e rapina).

Nel caso di specie i Giudici di legittimità sono stati chiamati a sciogliere i nodi circa la qualificazione di una peculiare fattispecie in cui l’imputato si è reso autore dell’impossessamento di una collana particolarmente stretta al collo di una signora ultrasessantenne e in condizioni di vulnerabilità, in quanto rimasta vittima di tale condotta criminosa all’interno del suo domicilio cui il reo ha avuto accesso mediante artifizi e raggiri.

In sede di giudizio abbreviato il soggetto agente è stato condannato con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Modena, riconosciuto il vincolo della continuazione e, quindi, della medesimezza del disegno criminoso, per il delitto di truffa aggravata e rapina aggravata, sentenza questa che è stata, tra l’altro, confermata dalla Corte d’appello di Bologna.

Contro la decisione del giudice di secondo grado il reo, per mezzo del suo difensore, ha esperito ricorso per cassazione per omessa motivazione e manifesta illogicità della stessa circa alcuni profili dedotti nell’atto di appello.

Il difensore, innanzitutto, ha contestato che il giudice di merito abbia, erroneamente e senza adeguata motivazione, privilegiato la seconda versione dei fatti resa con la querela, quest’ultima successiva all’annotazione della P.G rispetto alla quale risulta contraddittoria.

Infatti, nelle dichiarazioni fornite alla P.G. il giorno in cui si è perfezionato e consumato il reato la persona offesa – per come dedotto nella censura di legittimità – non ha fatto riferimento alcuno alla violenza perpetrata dal reo.

Inoltre, il ricorrente ha lamentato la mancata riqualificazione del fatto in furto con strappo ai sensi dell’art. 624bis c.p.

La violenza eventualmente cagionata dall’imputato – sostiene il difensore – era diretta nei confronti della res senza alcun coinvolgimento della persona offesa, in quanto quest’ultima non opponeva alcuna resistenza all’agire delittuoso.

La seconda sezione penale della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

In particolare, i giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto logica la motivazione della Corte d’appello circa l’accoglimento della seconda versione fornita dalla vittima mediante querela, in quanto risultante più circostanziata e maggiormente attendibile per la maggiore lucidità psicologica caratterizzante la persona offesa.

Inoltre, la Cassazione con il suo arresto ha ribadito il principio di diritto espresso in una sua precedente decisione Cass. pen., sez. II, 3 ottobre 2006, n. 34206, nella quale la linea di demarcazione tra furto con strappo e rapina è stata individuata nella direzione della violenza sprigionata dal soggetto agente.

In particolare, il furto con strappo si configura quando la violenza si rivolge direttamente alla cosa, indipendentemente dai riflessi indiretti e involontari che la vittima possa subire a causa della relazione fisica tra la stessa e il bene posseduto. Per contro, si realizza il delitto di rapina nel momento in cui la violenza è diretta alla persona o si sviluppa sulla medesima e, comunque, anche quando viene esercitata per vincere la sua resistenza attiva (così anche Cass. pen., sez. II, 19 dicembre 2014, n. 2553).

Ciò nonostante, con quest’illuminante sentenza gli Ermellini sono andati oltre e hanno approfondito con un’interessante argomentazione la vexata quaestio circa il confine tra le due tipologie di reato.

Nel caso specifico si è precisato che, quando la cosa che si intende asportare è particolarmente aderente al corpo del possessore, la violenza perpetrata sul bene si estende inevitabilmente anche alla persona (così anche Cass. pen., sez. II, 11 novembre 2010, n. 41464).

Icasticamente nella fattispecie in questione il soggetto attivo, per raggiungere il risultato criminoso atteso, ha dovuto superare non solo la forza di coesione inerente alla relazione fisica tra possessore e cosa sottratta, ma altresì la materiale opposizione determinata dal corpo della vittima, per cui qui lo strumento con cui si è realizzata la sottrazione non è tanto lo strappo, quanto la violenza stessa (così anche Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2019, n. 16899).

La configurazione della rapina, peraltro, non è ostacolata dalla circostanza che la persona offesa non abbia subito alcuna contusione o lesione, in quanto lo strappo della collana determina un inconfutabile esercizio di energia fisica sul collo della donna che si concretizza, quindi, in una violenza sulla persona, elemento quest’ultimo costitutivo ai sensi dell’art. 628 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Furto con strappo e rapina”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

cane dall'indole diffidente

Cane dall’indole diffidente al guinzaglio anche nell’area dedicata La Cassazione chiarisce che a prescindere da taglia e razza, il cane dall'indole diffidente va tenuto al guinzaglio anche nell'apposita area sgambamento

Cane dall’indole diffidente: guinzaglio obbligatorio

La quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 9620/2025, ha stabilito che anche nelle zone appositamente attrezzate per lo sgambamento, un cane dall’indole diffidente deve essere condotto con guinzaglio e museruola. Questo obbligo si applica indipendentemente dalla razza e/o dalla taglia. Si tratta, infatti, di una regola di prudenza che il proprietario deve rispettare per garantire la sicurezza di persone e animali.

Il caso: responsabilità del proprietario per lesioni colpose

Nel caso esaminato dalla S.C., il Tribunale aveva confermato la condanna della proprietaria di un pitbull per il reato ex art. 590 c.p. per aver cagionato alla vittima, entrata all’interno dell’area cani insieme al suo cucciolo di piccola taglia, lesioni personali colpose.

La condanna era stata motivata dalla mancata adozione di misure di sicurezza per imprudenza, imperizia e negligenza da parte della proprietaria, che, pur consapevole dell’indole diffidente dell’animale, non lo aveva assicurato al guinzaglio né dotato di museruola lasciandolo libero di circolare all’interno dell’area cani.

La donna ricorreva innanzi al Palazzaccio, lamentando che nelle aree appositamente attrezzate, i cani possono essere condotti senza guinzaglio e senza museruola, mentre tali accorgimenti vanno adottati per i cani di indole aggressiva. Da ciò deriva che nessun obbligo giuridico fosse configurabile a suo carico, non essendo certificato che il cane potesse essere definito ex ante come aggressivo, né potendo estendersi le limitazioni previste per gli animali aggressivi a quelli descritti come diffidenti.

La responsabilità del proprietario e le regole di condotta

Tuttavia, la Suprema Corte ha rigettato le argomentazioni della difesa, sottolineando che la natura colposa della condotta del ricorrente, “è da ricondurre all’inosservanza di norme cautelari afferenti al governo e alla conduzione dei cani”. Norme “volte a prevenire, neutralizzare o ridurre i rischi per la pubblica incolumità, specificamente declinate in relazione alle potenzialità lesive dell’animale, con richiamo alla norma di cui all’art. 672 c.p., che sanziona a livello amministrativo l’incauta custodia di animali e che positivizza il generale dovere di diligenza e prudenza che l’ordinamento pone in capo a chiunque abbia il dominio di un animale dotato di capacità lesiva”. Sancendo “l’assunzione di una posizione di garanzia rispetto alla possibilità del verificarsi di eventi dannosi, corredata da una serie di obblighi, divieti e modelli comportamentali la cui violazione determina responsabilità giuridica a vari livelli (amministrativo, civile e penale)”.

Nella sentenza di primo grado si è, con chiarezza, “affermata la violazione di regole di generica prudenza considerando che, in presenza di un altro animale nell’area di sgambamento nonché del relativo accompagnatore, la proprietaria del cane avrebbe dovuto fronteggiare la situazione con maggiore cura e cautela attuando una vigilanza stretta e una presenza dominante sul cane” aggiungono gli Ermellini.

“Il giudice di appello ha, per altro verso, addebitato all’imputata di aver lasciato il cane libero di circolare all’interno dell’area cani nonostante si trattasse di cane di indole da lei stessa definita ‘diffidente’ e nonostante un estraneo avesse manifestato l’intento di avvicinarsi e accarezzarlo”.

La “culpa in vigilando”

In definitiva, per la Cassazione, “la culpa in vigilando del proprietario del cane è stata correttamente identificata quale violazione di una regola cautelare non positivizzata desumibile da una massima di esperienza, legata non tanto alla razza del cane quanto piuttosto alla eventualità che un cane diffidente reagisca in maniera aggressiva all’avvicinamento di terzi estranei”. Si tratta di argomenti coerenti con il principio secondo il quale “in tema di colpa, allorquando risulti ex ante l’inefficacia preventiva delle regole cautelari positivizzate, il gestore del rischio è tenuto a osservare ulteriori regole cautelari non positivizzate, preesistenti alla condotta ed efficaci a prevenire l’evento, individuate alla luce delle conoscenze tecniche scientifiche e delle massime di esperienza (cfr. Cass. n. 32899/2021)”.

Da qui il rigetto delle doglianze avanzate dall’imputata nel ricorso che, tuttavia, viene accolto limitatamente al trattamento sanzionatorio, annullando la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Roma in diversa persona fisica per nuovo giudizio sul punto.

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ore d'aria al 41-bis

Ore d’aria al 41-bis: limite di due ore illegittimo Ore d’aria nel regime 41-bis: la Corte Costituzionale dichiara illegittimo il limite di due ore

Ore d’aria nel regime 41-bis

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 30/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera f), primo periodo, della legge sull’ordinamento penitenziario. In particolare, la Corte ha censurato la norma nella parte in cui imponeva un limite massimo di due ore al giorno per la permanenza all’aperto dei detenuti in regime speciale.

Ore d’aria nel 41-bis: cosa cambia dopo la sentenza?

La decisione della Corte Costituzionale è nata da una questione sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, il quale non ha messo in discussione l’intero regime differenziato 41-bis, ma ha esaminato un aspetto specifico della normativa: il diritto dei detenuti a trascorrere tempo all’aperto.

Con questa pronuncia, la permanenza all’aria aperta per i detenuti in regime speciale – non sottoposti a sorveglianza particolare – torna a essere regolata dall’articolo 10 dell’ordinamento penitenziario, che prevede:
Un minimo di quattro ore al giorno all’aperto.
La possibilità di riduzione a due ore solo per giustificati motivi.

Un trattamento ingiustificato

La Corte ha sottolineato che nel regime 41-bis le ore d’aria vengono trascorse all’interno del gruppo di socialità, un piccolo gruppo di detenuti (massimo quattro persone), accuratamente selezionato dall’amministrazione penitenziaria. Pertanto, la riduzione delle ore di permanenza all’aperto non offre alcun vantaggio in termini di sicurezza, che è già garantita dalla separazione dei gruppi e dalle misure di controllo adottate.

La restrizione, invece, risulta irragionevole e lesiva del principio di umanità della pena, poiché limita in misura sproporzionata la possibilità per i detenuti di beneficiare di aria e luce naturale, senza apportare benefici concreti alla collettività.

Verso un trattamento più conforme ai diritti umani

Secondo la Corte, l’estensione del tempo all’aperto per i detenuti del 41-bis rappresenta un passo avanti nel rispetto della dignità umana, contribuendo a migliorare le condizioni di detenzione non solo in termini oggettivi, ma anche nella percezione dei detenuti.

procura speciale

Procura speciale all’avvocato: deve emergere la volontà di patteggiare La Cassazione chiarisce che la procura speciale all'avvocato anche se ampia non prova automaticamente la volontà dell'imputato di patteggiare

Procura speciale avvocato e patteggiamento

La seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 6214/2025, ha chiarito che la procura speciale conferita al difensore non prova automaticamente la volontà dell’imputato di patteggiare.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, il GIP applicava la pena concordata a un imputato, per come proposta dal suo difensore, nel corso delle indagini preliminari. L’imputato, in udienza rendeva dichiarazioni spontanee, sostenendo di non aver prestato il proprio consenso consapevole. Essendo agli arresti domiciliari e non avendo avuto colloqui diretti col difensore, l’uomo dichiarava di non aver mai condiviso l’intenzione di patteggiare.

Il giudice riteneva che la sua dichiarazione non fosse rilevante. L’imputato adiva il Palazzaccio, deducendo che la volontà di accedere al patteggiamento, formulata dal primo avvocato, il cui mandato era stato revocato, era viziata.

La natura personalissima dell’assenso al patteggiamento

Per Gli Ermellini, il ricorso è fondato.

La Corte ha ribadito che, pur essendo l’accordo non ritrattabile una volta concluso, la volontà di patteggiare è un “atto personalissimo”. Al punto che, “nel caso di contestuale presenza in udienza del difensore e dell’imputato che manifestino volontà
diverse circa l’accesso al rito, si è ritenuto che debba prevalere la volontà di quest’ultimo”.

La rilevanza della volontà dell’imputato risulta anche dalla scelta del legislatore di prevedere che, “nell’ipotesi in cui la richiesta di applicazione di pena sia stata avanzata esclusivamente dal procuratore speciale con atto scritto o all’udienza in assenza dell’imputato, il giudice, per accertare la volontarietà della richiesta o del consenso, può disporre la comparizione dell’imputato (art. 446, comma 5, c.p.p.)”.

La decisione

Nel caso in esame, la richiesta di patteggiamento risulta essere stata effettuata
nel corso delle indagini preliminari dal difensore munito di una procura speciale,
strutturata in modo “aspecifico”. La stessa, infatti, era riferita in generale «ad ogni stato e grado del procedimento, compreso quello davanti agli organi di sorveglianza».
Tali caratteristiche, scrivono i giudici, “rendono l’atto non sufficientemente chiaro in ordine al suo valore di ‘delega’ al difensore per definire il processo con il patteggiamento”. E, dunque “per consentire di ritenere che la volontà del ricorrente fosse proprio quella di volere accedere a tale rito alternativo”.
In conclusione, la S.C. ritiene che la struttura della procura, che non risulta specificamente ed esclusivamente diretta a consentire al difensore di concludere il procedimento con l’accesso al rito ex artt. 444 e ss. c.p.p., unitamente alle dichiarazioni rese dal ricorrente, indichino che lo stesso non sia stato posto nelle condizioni di scegliere consapevolmente il rito alternativo.
La sentenza impugnata, pertanto, è annullata senza rinvio.

 

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rapina a mano armata

Il reato di rapina a mano armata Il reato di rapina a mano armata nel diritto penale italiano: quando si configura, la pena prevista e la giurisprudenza

Rapina a mano armata: art. 628 codice penale

La rapina a mano armata rappresenta una forma aggravata del reato di rapina, disciplinato dall’articolo 628 del Codice Penale italiano. Questo delitto si configura quando un individuo, mediante l’uso di un’arma, sottrae con violenza o minaccia un bene mobile altrui, al fine di trarne profitto per sé o per altri.

Quando si configura la rapina a mano armata

La rapina a mano armata si concretizza quando l’autore del reato utilizza un’arma per intimidire la vittima e ottenere la consegna del bene desiderato. L’arma può essere di vario tipo, inclusi oggetti atti a offendere che, per le loro caratteristiche, possono incutere timore nella vittima.

Pene previste per la rapina a mano armata

La legge italiana prevede pene severe per chi commette una rapina a mano armata. In particolare, l’articolo 628, terzo comma, n. 1) del Codice Penale stabilisce una reclusione da sei a venti anni e una multa da 2.000 a 4.000 euro. Questa sanzione è più elevata rispetto a quella prevista per la rapina semplice, a causa dell’uso dell’arma che aumenta la pericolosità del reato e l’allarme sociale.

Il caso della pistola giocattolo

La giurisprudenza ha chiarito che l’aggravante dell’uso dell’arma si applica anche quando l’arma utilizzata è una pistola giocattolo, purché questa non sia immediatamente riconoscibile come tale. In altre parole, se la pistola giocattolo appare reale e incute timore nella vittima, l’aggravante è configurabile. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39253/2021, ha ribadito questo principio, affermando che l’aggravante sussiste quando l’azione minatoria risulta aggravata dal ricorso a uno strumento che appare come un’arma da sparo. La riconoscibilità dipende sia alle circostanze oggettive dell’ambiente che incidono sulla visibilità dei segni presenti sul giocattolo come il tipico tappo rosso e caratteristiche similari, sia dalla percezione che la vittima ha avuto di quei segni specifici.

Giurisprudenza rilevante

Oltre alla sentenza sopra citata, è importante menzionare altre pronunce che hanno affrontato il tema della rapina a mano armata:

  • Cassazione Penale n. 32473/2024: in relazione all’aggravante dell’arma nel reato di rapina a mano armata tutti i partecipanti, inclusi gli autori materiali e coloro che hanno fornito assistenza necessaria (i cosiddetti basisti), sono responsabili anche del reato di porto illegale di armi e della relativa circostanza aggravante. Questo perché l’ideazione del crimine include l’uso delle armi e il loro porto abusivo, necessari per realizzare la minaccia o la violenza tipiche di tale reato.
  • Cassazione Penale n. 35953/2022: per la configurabilità dell’aggravante dell’arma in un delitto circostanziato, è sufficiente che il reo sia visibilmente armato, senza necessità che l’arma venga effettivamente impugnata per minacciare. L’aggravante sussiste quando l’arma è portata in modo tale da incutere timore, lasciando presagire un suo possibile utilizzo come strumento di violenza o minaccia per costringere la vittima a sottostare alle intimazioni.

 

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