scambio elettorale politico mafioso

Scambio elettorale politico mafioso Scambio letterale politico-mafioso: guida al reato che punisce l'accettazione di voti promessi da appartenenti ad associazioni mafiose

Scambio elettorale politico mafioso: cos’è

Il delitto di scambio elettorale politico mafioso è un reato cruciale nella lotta contro le infiltrazioni mafiose nella vita democratica del Paese. Esso è previsto e punito dall’articolo 416 ter del Codice penale.

Cosa prevede l’articolo 416 ter c.p

La norma stabilisce che chiunque accetta la promessa di voti da parte di soggetti appartenenti ad associazioni mafiose (ai sensi dell’art. 416-bis c.p.) o tramite le modalità tipiche del metodo mafioso, in cambio di denaro, di altre utilità, o della disponibilità a soddisfare gli interessi dell’associazione, è punito con la stessa pena prevista per l’associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), ovvero la reclusione da 10 a 15 anni.. La medesima pena si applica anche a chi promette tali voti. Se il politico che ha accettato la promessa viene eletto, la pena è aumentata della metà, e in caso di condanna scatta sempre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Bene giuridico tutelato

Il bene giuridico tutelato da questa fattispecie non è solo l’ordine pubblico, ma anche il sistema democratico, con particolare riferimento al libero esercizio del diritto di voto, elemento fondamentale della sovranità popolare.

I soggetti dello scambio elettorale politico mafioso

Il soggetto attivo del reato può essere di due tipi. Da un lato, c’è chi accetta la promessa di voti, un “reato comune” che può essere commesso da “chiunque” purché non sia un membro dell’associazione mafiosa stessa (che annullerebbe il carattere sinallagmatico dello scambio). Sebbene il reato sia incentrato sul fenomeno elettorale, non è richiesta la qualifica formale di candidato, anche se l’effettiva elezione costituisce un’aggravante.

Dall’altro lato, c’è il procacciatore di voti. Originariamente, si richiedeva l’uso del “metodo mafioso”. La riforma del 2019 ha affiancato a questa ipotesi quella in cui la promessa provenga da soggetti appartenenti ad associazioni mafiose, anche per contrastare il fenomeno delle “mafie silenti” dove l’intimidazione è meno evidente. Anche in questo caso si tratta di un reato comune, poiché può essere commesso anche da chi non è un associato, ma agisce con metodi mafiosi.

Il soggetto passivo del reato invece è soprattutto lo Stato e, secondo parte della dottrina, anche l’ente territoriale interessato dalle elezioni.

Condotta criminosa: in cosa consiste

La condotta criminosa consiste nell’accordo tra il candidato e i soggetti mafiosi (o che agiscono con metodo mafioso), direttamente o tramite intermediari. In virtù di questo patto, i soggetti si impegnano a procurare voti in cambio di denaro, altre utilità, o la disponibilità del politico a soddisfare gli interessi della mafia.

Oggetto dello scambio elettorale politico mafioso

Come specificato anche dalla sentenza della Cassazione n. 23810/2025 “Il reato di scambio elettorale politico mafioso ha per oggetto la – promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416 bis o mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416 bis- e si consuma con la mera stipulazione dell’intesa illecita.”

Tipologia di reato

È un reato di pericolo, perché è sufficiente la “promessa” di procurare voti, non è richiesto l’effettivo procacciamento o l’erogazione di denaro. Le vicende successive all’accordo non incidono sul perfezionamento del reato, ma possono aggravarne la pena. Per “altra utilità” si intendono tutti i vantaggi, economici o meno, diversi dal denaro (es. posti di lavoro, appalti, provvedimenti amministrativi).

Elemento soggettivo dello scambio  elettorale politico mafioso

L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico: la volontà dell’accordo delittuoso. Il reato è istantaneo e si consuma nel momento dell’accettazione della promessa da parte del politico e della formulazione della promessa da parte del procacciatore di voti, indipendentemente dalla loro realizzazione. Essendo un reato di pericolo, non è configurabile il tentativo.

Aggravante a effetto speciale

Infine, il comma 3 dell’art. 416-ter c.p. prevede un’aggravante a effetto speciale che aumenta la pena della metà se il politico, a seguito dell’accordo mafioso, viene effettivamente eletto. Questa circostanza, pur rilevante, è spesso complessa da dimostrare in giudizio, soprattutto nel determinare l’effettivo impatto del contributo mafioso sul risultato elettorale.

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autoriciclaggio

Autoriciclaggio: reato anche con il solo versamento in banca La Cassazione afferma che basta il deposito in banca di denaro illecito per integrare il reato di autoriciclaggio

Autoriciclaggio: basta il semplice deposito in banca

Secondo la Corte di cassazione, con la sentenza n. 25348/2025, integra il reato di autoriciclaggio anche la condotta consistente nel versamento in banca di somme di denaro provenienti da reato, senza necessità di ulteriori operazioni complesse.

Alla base della decisione vi è la considerazione che, essendo il denaro un bene fungibile, il solo deposito presso un istituto bancario determina automaticamente una sostituzione del denaro illecito con quello “pulito”, poiché l’istituto ha l’obbligo di restituire al cliente non le stesse banconote, ma un equivalente economico (tantundem).

Tracciabilità e titolarità formale non escludono il reato

Nel caso esaminato, l’imputato – condannato a 3 anni di reclusione e 7mila euro di multa – aveva sostenuto la tracciabilità delle operazioni bancarie (tra cui acquisto titoli, trasferimenti tra conti e operazioni immobiliari), ritenendo che l’assenza di un mutamento della titolarità formale escludesse l’intento dissimulatorio.

La Suprema Corte ha respinto questa tesi, affermando che non è necessario un occultamento totale: basta qualsiasi attività concretamente idonea anche solo ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni, indipendentemente dalla tracciabilità apparente delle operazioni.

L’effetto dissimulatorio delle operazioni bancarie

Le “plurime e articolate” operazioni effettuate dall’imputato sono state considerate dalla Corte indicative di un disegno strategico volto alla reimmissione dei proventi illeciti nel circuito economico. Acquisti di titoli azionari, trasferimenti tra conti deposito e impieghi immobiliari rappresentano una trasformazione progressiva della somma iniziale, con effetti dissimulatori evidenti.

La Cassazione ha ricordato che è irrilevante la mancanza di dispersione del denaro e la persistenza della stessa intestazione dei conti: ciò che rileva è la difficoltà concreta nell’identificare l’origine del denaro, elemento che distingue il godimento personale (non punibile) da una condotta penalmente rilevante.

Il concetto di “attività speculativa” e il richiamo all’art. 648-ter.1 c.p.

La Corte ha fatto riferimento anche alla formulazione estensiva dell’art. 648-ter.1 c.p., che include attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Il concetto di “attività speculativa”, volutamente non tipizzato dal legislatore, ricomprende ogni operazione economica svolta per trarne un profitto, anche se apparentemente lecita, ma che in realtà consente l’infiltrazione di capitali illeciti nell’economia legale.

Si tratta quindi di azioni che, pur formalmente lecite, alterano il mercato e mascherano la provenienza del denaro, rendendolo apparentemente legittimo.

Quando l’autoriciclaggio non è punibile

La Cassazione ha precisato che l’unica circostanza in cui non si configura autoriciclaggio è quella in cui l’autore utilizzi direttamente il profitto del reato presupposto per un consumo personale o un uso che non comporti ostacoli alla tracciabilità.

Nel caso contrario, anche il semplice impiego in operazioni che ostacolano, anche solo parzialmente, l’individuazione della fonte illecita integra il reato.

Allegati

ricorso per saltum

Ricorso per saltum: il ricorso immediato in Cassazione Ricorso per saltum: cos'è, come è disciplinato, come funziona, quali sono gli esiti possibili, vantaggi e svantaggi

Ricorso per saltum: cos’è

Il sistema processuale penale italiano prevede diversi strumenti per contestare le decisioni del giudice. Tra questi, spicca il ricorso immediato in Cassazione, noto anche come ricorso “per saltum”. Questo strumento consente a una parte di impugnare direttamente una sentenza di primo grado davanti alla Corte di Cassazione, saltando il tradizionale giudizio di appello. La giurisprudenza richiede però l’accordo di tutte le parti.

L’articolo 569 del codice di procedura penale 

La norma che disciplina il ricorso per saltum nei processi penali è l’articolo 569 c.p.p, che così dispone:

1. La parte che ha diritto di appellare la sentenza di primo grado può proporre direttamente ricorso per cassazione.

2. Se la sentenza è appellata da una delle altre parti, si applica la disposizione dell’articolo 580. Tale disposizione non si applica se, entro quindici giorni dalla notificazione del ricorso, le parti che hanno proposto appello dichiarano tutte di rinunciarvi per proporre direttamente ricorso per cassazione. In tale caso, l’appello si converte in ricorso e le parti devono presentare entro quindici giorni dalla dichiarazione suddetta nuovi motivi, se l’atto di appello non aveva i requisiti per valere come ricorso.

3. La disposizione del comma 1 non si applica nei casi previsti dall’articolo 606 comma 1 lettere d) ed e). In tali casi, il ricorso eventualmente proposto si converte in appello.

4. Fuori dei casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado, la corte di cassazione, quando pronuncia l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata a norma del comma 1, dispone che gli atti siano trasmessi al giudice competente per l’appello.”

Ricorso per saltum: come funziona?

Dalla lettura dell’articolo 569 c.p.p emerge che chi ha il diritto di appellare una sentenza di primo grado può presentare, in via alternativa, il ricorso immediato per Cassazione. Questa opzione si applica però solo alle sentenze che normalmente sarebbero appellabili. Le sentenze inappellabili, infatti, si possono impugnare solo con il ricorso ordinario per Cassazione.

Il ricorso per saltum non può però pregiudicare i diritti delle altre parti a un processo su tre gradi. Difatti se una parte propone ricorso immediato in Cassazione e le altre parti appellano la medesima sentenza, il ricorso”per saltum” si trasforma in appello. Questa conversione avviene secondo l’articolo 580 c.p.p.

Alle altre parti però non può essere negato il diritto di riflettere sulla convenienza del ricorso “per saltum”. Se, entro quindici giorni dalla notifica del ricorso, tutte le parti che hanno proposto appello dichiarano di voler rinunciare, l’appello si converte in ricorso. In questo caso però le parti devono presentare nuovi motivi entro quindici giorni dalla dichiarazione, se l’atto di appello iniziale non rispettava i requisiti necessari per valere come un ricorso in Cassazione.

Ricorso immediato: in quali casi non si applica

Il ricorso “per saltum” però non è sempre possibile. Esso non si può utilizzare se i motivi di impugnazione riguardano:

  • la mancata assunzione di una prova decisiva richiesta durante l’istruzione dibattimentale;
  • la mancanza, la contraddittorietà o l’illogicità manifesta della motivazione. Questo vale quando il vizio emerge dal testo del provvedimento o da altri atti specificamente indicati.

In queste situazioni, il ricorso “per saltum” eventualmente proposto si trasforma in appello.

Esiti possibili del ricorso per saltum

La Cassazione può accogliere il ricorso o rigettarlo.

Quando lo accoglie è regola che disponga l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice dell’appello, fuori dai casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado.

Se invece la Cassazione rigetta il ricorso, la sentenza di primo grado impugnata viene confermata.

Vantaggi e svantaggi

Il ricorso “per saltum” offre il vantaggio di far risparmiare tempo e ridurre i costi.

Tuttavia, presenta anche degli svantaggi. Le parti perdono l’opportunità di presentare nuovi argomenti o prove in un eventuale secondo grado di giudizio.

Da precisare infine che il ricorso “per saltum” si ammette generalmente solo per motivi di diritto. Si può contestare cioè la corretta applicazione delle norme, mentre non si può ricorrere per questioni relative all’acquisizione o alla valutazione delle prove.

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diffamazione militare

Diffamazione militare: inammissibile la qlc sulla pena detentiva La Corte costituzionale dichiara inammissibile la questione sull’art. 227 del codice penale militare di pace. Il giudice non era chiamato ad applicare la pena e mancava la motivazione sulla rilevanza

La Consulta si pronuncia sulla pena per la diffamazione militare

Con la sentenza n. 127/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Napoli in merito all’articolo 227 del codice penale militare di pace, che prevede la pena detentiva per il reato di diffamazione militare, senza contemplare un’alternativa pecuniaria.

Il nodo giuridico: pena detentiva e libertà di espressione

Secondo il giudice rimettente, la previsione esclusiva della reclusione per il reato di diffamazione militare sarebbe in contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
La Corte EDU, infatti, ha più volte affermato che la pena detentiva per la diffamazione è sproporzionata, a meno che non si tratti di discorsi d’odio o incitamento alla violenza.

La decisione: la questione è prematura e irrilevante

La Corte costituzionale ha respinto la questione per inammissibilità, senza entrare nel merito.
La motivazione principale è che la censura era prematura e priva di rilevanza concreta: il giudice che ha sollevato la questione non era chiamato a decidere sulla responsabilità dell’imputato, trattandosi solo di udienza preliminare, e non vi era un’applicazione immediata della norma censurata.

Mancanza di motivazione sull’esercizio del diritto sindacale

La Corte ha inoltre rilevato d’ufficio un ulteriore vizio di inammissibilità: l’ordinanza di rimessione non ha motivato adeguatamente la rilevanza della norma impugnata alla luce del contesto sindacale in cui si era verificata la condotta contestata.
Non è stato spiegato se e come l’attività sindacale potesse configurare l’esercizio di un diritto, e quindi costituire causa di giustificazione, con possibile esclusione della punibilità.

giurista risponde

Divieto di prevalenza dell’attenuante e circostanza aggravante della recidiva reiterata È legittimo il divieto di prevalenza della circostanza attenuante ex art. 625 bis c.p. sulla recidiva reiterata (art. 99, comma 4 c.p.)?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4 c.p. nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza dell’attenuante della collaborazione del reo, prevista dall’art. 625bis dello stesso codice, sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata. – Corte cost. 22 aprile 2025, n. 56 (Divieto di prevalenza dell’attenuante).

La questione veniva sollevata con ordinanza dal Tribunale di Perugia, il quale era stato chiamato a decidere su un furto in abitazione. Nel caso trattato dal giudice a quo l’imputato veniva fermato dal proprietario dell’immobile in cui stava effettuando il furto dopo aver tentato la fuga, trovando refurtiva di poco valore. Nel corso dell’interrogatorio reso in occasione dell’udienza di convalida dell’arresto, l’imputato ammetteva l’addebito e consentiva l’identificazione del correo.

Il riconoscimento del fatto così come contestato è indubbio: sussistenti erano tutti gli elementi del furto in abitazione, così come la circostanza attenuante ad effetto speciale prevista all’art. 625bis c.p. e la contestata recidiva. Infatti, l’imputato aveva collaborato con le autorità per l’individuazione dei correi e, al contempo, era gravato da due precedenti specifici. Il Giudice remittente aggiungeva considerazioni sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione: la prima sulla base della ben inferiore sanzione irrogabile, la seconda per manifesta irragionevolezza rispetto alla ratio della circostanza attenuante, parametrandolo all’art. 3 Cost.. La circostanza attenuante di cui all’art. 625bis c.p. sarebbe «espressione di una scelta di politica criminale di tipo premiale, volta a incentivare, mediante una sensibile diminuzione di pena, il ravvedimento post-delittuoso dell’imputato, rispondendo, sia all’esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati contro il patrimonio». A ciò si aggiunga che per il riconoscimento dell’attenuante non è richiesta la spontaneità della collaborazione, ma solo il ruolo effettivamente avuto nell’individuazione dei correi. La norma posta al vaglio di legittimità della Consulta fornisce una rilevanza quasi insuperabile della condotta criminosa, anche rispetto alla collaborazione successiva del reo. Sistematicamente, questo aspetto si rivela scorretto su più fronti: da una parte, la collaborazione rappresenterebbe un disconoscimento del fatto illecito e un allontanamento dalla condizione di illegalità; dall’altra, la condotta contemporanea o susseguente al reato è indice di valutazione della capacità a delinquere del reo ai sensi dell’art. 133 c.p. e il Giudice di merito deve tenerne conto anche nella comparazione di circostanze eterogenee concorrenti.

La norma censurata, inoltre, ad avviso del giudice a quo, sarebbe costituzionalmente illegittima in un’ottica comparativa. In primo luogo, risulta incompatibile con il trattamento della circostanza attenuante a effetto speciale per i delitti di stampo mafioso, la quale non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee ed è obbligatoria. In secondo luogo, rispetto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4 c.p. come sostituito dalla dall’art. 3 della L. 251/2005 nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante a effetto speciale di cui all’art. 73, comma 7 D.P.R. 309/1990 sulla recidiva reiterata (Corte cost. 74/2016).

La Corte dichiara la fondatezza della questione prospettata, riferendosi a ben dodici pronunce antecedenti che hanno colpito il divieto di prevalenza di date circostanze attenuanti rispetto alla suddetta recidiva reiterata. Infatti, scopo del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee è quello di permettere al giudice di “valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono” (Corte cost. 38/1985). D’altra parte, deroghe al regime del bilanciamento sono ammissibili e rientranti nella discrezionalità del legislatore, purché non travalichino i confini della manifesta irragionevolezza o dell’arbitrio anche con riferimento ai principi costituzionali. Sulla base di queste considerazioni, la Consulta ha rinvenuto alterazioni degli equilibri in relazione a circostanze espressive di un minor disvalore del fatto. I filoni argomentativi si suddividono in tre tipologie.

Secondo il primo, la ratio della illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza è stata individuata nella centralità del fatto oggettivo rispetto alla qualità soggettiva del colpevole, in base alla quale deve escludersi che aspetti relativi alla maggiore colpevolezza o pericolosità dell’agente possano assumere nel processo di individualizzazione della pena una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo (Corte cost. 141/2023).

Proseguendo con il secondo, tali pronunce hanno fatto venire meno il divieto di prevalenza anche rispetto a circostanze inerenti alla persona del colpevole per la circostanza attenuante del vizio parziale di mente (Corte cost. 73/2020) e per quella di cui all’art. 116 c.p. (Corte cost. 55/2021). Una terza ratio, infine, attiene all’incentivo alla collaborazione del reo post delictum (Corte cost. 74/2016 e, da ultimo, Corte cost. 201/2023); scopo di quest’ultima è quella di incentivare, mediante una sensibile riduzione di pena, il ravvedimento dell’imputato rispetto alla condotta criminosa attuata rispondendo alle esigenze di tutela del bene giuridico e di prevenzione o repressione di condotte delittuose.

A conclusione, viene rimarcato dalla Consulta che il divieto assoluto di operare la diminuzione di pena consentita dall’attenuante, in presenza di recidiva reiterata, impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e ne frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio. Tale circostanza può in tal modo essere percepita come ingiusta dal cittadino, impedendo l’assolvimento della finalità rieducativa a cui deve aspirare la sanzione penale. Inoltre, in relazione al furto in abitazione, la scelta di incentivare la collaborazione non è venuta meno neppure nei successivi interventi legislativi. Pertanto, la suddetta norma veniva dichiarata costituzionalmente illegittima.

(*Contributo in tema di “Divieto di prevalenza dell’attenuante e circostanza aggravante della recidiva reiterata”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

lieve entità

Rapina e lieve entità: illegittimo il divieto di prevalenza dell’attenuante sull’aggravante La Corte costituzionale dichiara illegittimo il divieto di prevalenza dell’attenuante della lieve entità sul reato di rapina in presenza di recidiva reiterata

Divieto di prevalenza dell’attenuante della lieve entità

Rapina e lieve entità: con la sentenza n. 117/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui impedisce la prevalenza dell’attenuante della lieve entità del fatto — introdotta con la precedente sentenza n. 86 del 2024 — rispetto alla circostanza aggravante della recidiva reiterata nel reato di rapina.

Lieve entità: la questione sollevata da giudici e Cassazione

La legittimità del divieto era stata messa in discussione da più autorità giudiziarie, tra cui i Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali di Sassari e di Cagliari, oltre alla Corte di cassazione, che avevano rilevato un contrasto tra la rigidità normativa e il principio di uguaglianza.

Le motivazioni della Corte costituzionale

Richiamando la propria giurisprudenza in materia, la Corte ha ritenuto fondate le censure, evidenziando che il divieto assoluto di prevalenza:

  • viola l’articolo 3 della Costituzione, poiché compromette la funzione di “valvola di sicurezza” dell’attenuante stessa e

  • impedisce di differenziare le sanzioni in base alla gravità concreta del fatto, tradendo così il principio di eguaglianza tra situazioni diverse.

Rapina: fattispecie eterogenea, serve flessibilità nella pena

La Consulta ha sottolineato che il reato di rapina, pur previsto come fattispecie unitaria, può manifestarsi in forme anche molto diverse tra loro per livello di offensività. Mantenere il divieto di prevalenza in modo assoluto, senza lasciare margine di valutazione al giudice, contrasta con i principi di personalizzazione della pena, proporzionalità e finalità rieducativa, sanciti dall’art. 27, commi 1 e 3, della Costituzione.

sequestro di persona

Il sequestro di persona Sequestro di persona: cos'è, condotta tipica, natura del reato, elemento soggettivo, pena base, aggravanti, attenuanti e Cassazione

Sequestro di persona: cos’è

L’articolo 605 del Codice Penale regola il sequestro di persona, un crimine che difende la libertà personale. La Costituzione, all’articolo 13, garantisce la libertà di movimento e spostamento come un diritto inviolabile. Solo lo Stato, attraverso i suoi organi giurisdizionali, può legittimamente limitare questa libertà fondamentale.

Condotta del sequestro di persona

Il reato di sequestro di persona si concretizza quando qualcuno priva o restringe illegittimamente la libertà fisica di un individuo. La condotta tipica comprende azioni che tolgono a una persona la sua libertà personale, sia in modo commissivo (per esempio, chiudendo qualcuno in una stanza) sia in modo omissivo (per esempio, non rilasciando un soggetto e prolungandone la detenzione).

È cruciale che la condotta sia illegittima, ovvero non autorizzata dalla legge o da una causa di giustificazione (come un arresto legale o l’esercizio di un dovere professionale). L’errore sulla legittimità dell’azione può scusare, come previsto dall’articolo 47 del codice penale, purché l’azione non costituisca un altro reato. Il consenso della persona offesa (articolo 50 del codice penale) può escludere l’illiceità della condotta.

Natura del reato

Il sequestro di persona è un reato permanente: la condotta deve protrarsi per un periodo di tempo apprezzabile per configurare il crimine. Il reato si consuma nel momento in cui la libertà personale viene privata per un tempo sufficiente a superare la soglia di offensività. Per la sua configurazione, la vittima non deve poter riacquistare autonomamente la libertà in modo immediato, facile e senza rischi, anche se non tenta attivamente di farlo. È sempre ammesso il tentativo di sequestro.

Elemento soggettivo del sequestro di persona

Il reato richiede l’elemento soggettivo del dolo generico. Il soggetto agente deve avere cioè la coscienza e la volontà di privare o restringere la libertà personale del soggetto passivo. La Cassazione, con la sentenza n. 10357/2025, lo ha confermato stabilendo che l’autore del reato deve essere consapevole di privare illegittimamente la vittima della sua libertà fisica, intesa come libertà di movimento.

Attenzione però, perchè il fine specifico del soggetto agente può cambiare la qualificazione del reato. Se il sequestro infatti è finalizzato all’ottenimento di un riscatto, si configura il sequestro di persona a scopo di estorsione (articolo 630 del codice penale), un reato autonomo.

Pena base e circostanze aggravanti

La pena per il sequestro di persona prevede la reclusione da sei mesi a otto anni. Tuttavia, la sussistenza di diverse circostanze aggravanti specifiche aumentano la pena.

  • La pena sale infatti da uno a dieci anni di reclusione se il fatto viene commesso a danno di un ascendente, un discendente o il coniuge.
  • La stessa pena si applica se un pubblico ufficiale commette il sequestro abusando dei suoi poteri.
  • Se il fatto è commesso a danno di un minore, la pena va da tre a dodici anni di reclusione.
  • La pena è la detenzione da tre a quindici anni se il fatto è commesso in presenza delle circostanze precedenti (parenti stretti o pubblico ufficiale) o in danno di un minore di anni quattordici, oppure se il minore sequestrato viene portato o trattenuto in un paese estero.
  • Se il colpevole provoca la morte del minore sequestrato, la pena da applicare è l’ergastolo.

Circostanze attenuanti

L’articolo 605 prevede anche una circostanza attenuante specifica basata sul “ravvedimento operoso” da parte dell’autore del delitto. Le pene previste per il sequestro di minore (terzo comma) possono diminuire fino alla metà se l’imputato si adopera concretamente per:

  • far riacquistare la libertà al minore;
  • evitare ulteriori conseguenze del reato, fornendo un aiuto concreto all’autorità di polizia o giudiziaria per raccogliere prove decisive, ricostruire i fatti e individuare o catturare uno o più autori di reati;
  • evitare che vengano commessi ulteriori sequestri di minore.

Procedibilità

Nell’ipotesi prevista dal primo comma dell’art. 605 c.p, il reato è punibile a querela della persona offesa. La querela però non è necessaria se il fatto è commesso nei confronti di una persona incapace, per età o per infermità. In questo caso, il reato è perseguibile d’ufficio.

Differenza tra sequestro di persona e a scopo di estorsione

Di recente la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 21241 ha chiarito la differenza tra il sequestro di persona semplice rispetto a quello commesso a scopo di estorsione.

La differenza fondamentale tra il sequestro di persona a scopo di estorsione (Art. 630 del Codice Penale) e il sequestro di persona semplice risiede nel dolo specifico dell’agente, piuttosto che nell’intensità della violenza o delle minacce utilizzate. Il sequestro di persona a scopo di estorsione è caratterizzato dalla finalità specifica di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione della vittima. Questo “scopo estorsivo” è l’elemento centrale che lo differenzia dal sequestro di persona semplice.

Pertanto:

  • Se il fine perseguito dall’autore è quello di far valere una pretesa illegittima, il reato configurabile sarà il sequestro di persona con finalità estorsiva.
  • Se l’agente priva la persona offesa della libertà di locomozione con l’intento di conseguire, attraverso tale forma di costrizione violenta, una pretesa legittima, si dovrà ritenere integrato il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso formale con il reato di sequestro di persona semplice.

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gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: legittima la richiesta di certificazione consolare allo straniero La Corte costituzionale conferma la legittimità della norma che impone ai cittadini extraeuropei di presentare una certificazione consolare sui redditi prodotti all’estero per accedere al patrocinio gratuito

Certificazione consolare: non viola la Costituzione

Gratuito patrocinio: con la sentenza n. 119 depositata il 22 luglio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Firenze in merito alla disciplina del patrocinio a spese dello Stato per i cittadini non appartenenti all’Unione europea. In particolare, è stata confermata la legittimità dell’obbligo di allegare all’istanza una certificazione consolare che attesti la veridicità dei redditi prodotti all’estero.

Il caso: il dubbio sollevato dal Tribunale di Firenze

Il giudice remittente aveva ritenuto che tale obbligo potesse violare gli articoli 3 e 24 della Costituzione, in quanto avrebbe comportato una discriminazione ingiustificata tra cittadini italiani o dell’UE e cittadini extra UE, pur se residenti stabilmente in Italia. A detta del giudice, la richiesta documentale aggiuntiva si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e con il diritto alla difesa, rendendo l’accesso alla giustizia più oneroso per una sola categoria di persone.

La ratio dell’obbligo di certificazione

La Corte costituzionale ha respinto le censure, ribadendo quanto già affermato in precedenti pronunce: la previsione ha una finalità di certezza e rapidità nella verifica della condizione economica dei richiedenti non europei, i quali possono produrre redditi in Paesi terzi non direttamente accessibili dall’amministrazione italiana. La certificazione consolare è funzionale ad accertare in modo unitario e rapido la complessiva situazione reddituale dell’istante, senza dover ricorrere a più amministrazioni estere per ottenere documenti separati.

La residenza in Italia non esonera dall’obbligo

Secondo la Corte, il fatto che un cittadino extra UE sia residente in Italia, anche da tempo, non elimina l’interesse statale a verificare i redditi eventualmente prodotti all’estero. La nozione di “non abbienza” – requisito per accedere al patrocinio gratuito – include tutte le risorse economiche, non solo i redditi da lavoro dipendente o autonomo, e richiede una valutazione complessiva della capacità finanziaria del richiedente.

Tutela della parità e dell’efficienza del sistema

La Corte ha quindi confermato che l’obbligo di certificazione consolare non viola i diritti costituzionali, perché risponde a una esigenza di controllo equo e oggettivo sullo stato economico del richiedente. Inoltre, la previsione non ostacola l’accesso alla difesa, poiché è possibile rivolgersi direttamente agli uffici consolari presenti in Italia, senza dover affrontare costi o procedure sproporzionate.

norme imperative o cogenti

Norme imperative o cogenti Norme imperative o cogenti: cosa sono, che caratteristiche hanno, quali sono e come si distinguono dalle norme relative o derogabili

Norme giuridiche: tipologie in base all’efficacia

Le norme imperative o cogenti fanno parte del nostro ordinamento giuridico, un sistema complesso, composto da un insieme di regole che disciplinano la vita sociale. Non tutte le norme, però, hanno la stessa forza o lo stesso grado di obbligatorietà.

In base alla loro efficacia, infatti, le norme giuridiche possono essere distinte in:

  • norme assolute (o cogenti o imperative);
  • norme relative (o derogabili).

Comprendere questa distinzione è fondamentale per capire come funziona il nostro sistema legale e quali margini di manovra hanno i cittadini nel regolare i propri rapporti.

Norme imperative o cogenti o assolute o inderogabili

Le norme cogenti, dette anche imperative o assolute, sono quelle disposizioni a cui non è possibile sottrarsi. La loro forza vincolante è tale che la volontà dei privati non può in alcun modo modificarle o disapplicarle. Esse esprimono principi fondamentali e valori essenziali per l’ordinamento, la cui violazione comporterebbe un danno per la collettività o per diritti irrinunciabili.

Norme imperative o cogenti: diritto penale

Un esempio lampante è rappresentato dalle norme di diritto penale, che impongono precetti quali “non uccidere”, “non rubare”, “non truffare”. È impensabile che due individui possano accordarsi per rendere legale un omicidio o un furto; la legge vieta tali azioni in modo categorico, e la loro violazione comporta sanzioni penali.

Norma imperative o cogenti di diritto civile

Ma le norme imperative non si limitano al diritto penale. Anche nel diritto civile ne troviamo molte. Si pensi alle norme che regolano la validità di un contratto. L’articolo 1418 c.c., tanto per fare un esempio, prevede la nullità del contratto quando questo viola una norma inderogabile.

Un altro esempio molto chiaro è rappresentato dalla norma che vieta l’applicazione di tassi usurari nei prestiti. Anche se le parti fossero d’accordo, un interesse superiore al limite legale renderebbe la clausola nulla. Questo perché la norma contro l’usura è imperativa e tutela un interesse pubblico.

Riassumendo, le norme imperative contengono un comando che si deve rispettare obbligatoriamente, senza che i privati vi possano derogare. In caso di mancatosi può incorrere in una sanzione penale o nella nullità dell’atto compiuto.

Norme relative o derogabili 

Le norme relative o derogabili si suddividono in due sotto categorie: le norme dispositive e le norme suppletive.

Norme dispositive

Le norme dispositive disciplinano una certa fattispecie, ma permettono alle parti di accordarsi per l’applicazione di una disciplina diversa. Un esempio classico è la norma del Codice Civile che prevede il pagamento degli interessi in un contratto di mutuo. Questa norma è dispositiva perché le parti possono stabilire di comune accordo che il mutuo sia gratuito e che, di conseguenza, non siano dovuti interessi. La norma è presente nell’ordinamento, ma la sua applicazione può essere “disattivata” dalla volontà concorde delle parti.

Norme suppletive

Le norme suppletive invece, sono quelle che si applicano solo qualora le parti non abbiamo disposto nulla in relazione a una certa circostanza. In altre parole, mentre le norme dispositive devono essere espressamente derogate dalle parti, le norme suppletive intervengono solo per “supplire” (cioè “sostituire” o “integrare”) una lacuna lasciata dall’accordo tra i privati.

Un esempio chiarificatore è quello relativo al luogo di esecuzione di una prestazione. Se le parti non hanno specificato nel contratto dove deve essere eseguita la prestazione, o se il luogo non può desumersi dalla natura della prestazione o dagli usi, allora si applicano le norme stabilite dalla legge. Il codice, quindi, dà prevalenza alla volontà delle parti; solo in sua assenza interviene la norma suppletiva per evitare che la situazione rimanga priva di regolamentazione.

 

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reati ostativi

Pene sostitutive escluse per i reati ostativi La Consulta conferma la legittimità dell’esclusione dei condannati per reati ostativi dalle pene sostitutive, ma richiama il dovere costituzionale di garantire condizioni carcerarie rispettose della dignità e della rieducazione

Reati ostativi: legittima l’esclusione dalle pene sostitutive

Con la sentenza n. 139 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’articolo 59 della legge n. 689/1981, come modificata dalla riforma Cartabia. La norma preclude l’applicazione delle pene sostitutive alla detenzione per i soggetti condannati per i cosiddetti reati ostativi, ovvero quelli elencati all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario.

La discrezionalità del legislatore e i limiti della riforma

Secondo la Corte, rientra nella discrezionalità del legislatore decidere quali reati escludere dalle misure alternative alla detenzione, purché la scelta rispetti i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Non è quindi irragionevole, né costituzionalmente censurabile, escludere in via generale l’applicazione delle pene sostitutive per reati di maggiore gravità e allarme sociale, come quelli oggetto dei giudizi da cui è nata la questione: violenza sessuale e pornografia minorile.

La riforma Cartabia e la coerenza con la legge delega

La sentenza chiarisce che il decreto legislativo attuativo della riforma non ha violato i criteri stabiliti dalla legge delega, che prevedeva espressamente il coordinamento con le preclusioni già previste dall’ordinamento penitenziario. Il legislatore ha dunque rispettato il mandato ricevuto dal Parlamento.

Nessuna violazione dell’eguaglianza

La disparità di trattamento denunciata dai rimettenti – tra condannati per reati ostativi e non ostativi – è stata esclusa. Per la Consulta, non si tratta di una discriminazione, poiché la gravità del reato può giustificare un trattamento differenziato in fase esecutiva, anche in relazione all’accesso alle misure alternative al carcere.

La pena resta strumento di rieducazione, ma non solo

Il principio della funzione rieducativa della pena, sancito dall’art. 27, comma 3, della Costituzione, non esclude che essa possa rispondere anche a finalità di prevenzione generale e speciale. Pertanto, l’esecuzione della pena detentiva può risultare legittima anche nei confronti di soggetti non più considerati pericolosi, se ciò risponde a esigenze di tutela sociale.

Il carcere deve restare conforme ai principi costituzionali

La Corte ha tuttavia ribadito che la detenzione deve svolgersi nel rispetto della dignità umana e in condizioni tali da favorire comunque il percorso rieducativo del condannato, indipendentemente dalla tipologia di reato. La compatibilità tra esecuzione penale e diritti fondamentali deve essere sempre garantita, anche in presenza di reati particolarmente gravi.

La riforma penale è un passo avanti, ma graduale

Pur legittimando le scelte del legislatore, la Corte costituzionale ha riconosciuto che l’ampliamento del catalogo delle pene sostitutive introdotto dalla riforma Cartabia costituisce un importante progresso nel rispetto dei principi costituzionali. Le pene alternative – come il lavoro di pubblica utilità, la semilibertà o la detenzione domiciliare – sono più funzionali alla rieducazione del condannato rispetto alla detenzione tradizionale.

Tuttavia, l’estensione dell’accesso a tali misure deve avvenire in modo graduale, partendo dai reati meno gravi e lasciando ai margini quelli che il legislatore considera, con giudizio non arbitrario, maggiormente offensivi.

Il problema strutturale del sistema penitenziario

In conclusione, la Corte ha espresso preoccupazione per lo stato delle carceri italiane, ricordando che il sovraffollamento ostacola gravemente l’attuazione della finalità rieducativa della pena e mina il rispetto dei minimi standard di umanità. L’effettiva conformità dell’esecuzione penale ai principi costituzionali dipende anche dalle condizioni materiali e organizzative del sistema penitenziario.