processo penale telematico (PPT)

Processo penale telematico: cos’è e come funziona Processo penale telematico: l’informatizzazione della giustizia penale ha fatto un salto in avanti grazie alla normativa sul deposito degli atti

Cos’è il processo penale telematico

Il processo penale telematico (PPT) può essere definito molto semplicemente come un processo penale basato sulla informatizzazione delle procedure che la legge pone a carico degli Uffici Giudiziari che compongono la Giustizia Penale nel suo complesso e degli avvocati.

PPT: evoluzione normativa

Di processo penale telematico (PPT) si parla in maniera strutturata a partire dal 2009. La svolta normativa più importante però si è realizzata nel corso del 2020, per limitare gli accessi  alle cancellerie. Dopo questa fase pandemica di emergenza il processo penale telematico è diventato uno degli obiettivi più importanti della riforma Cartabia del 2022, grazie al dlgs n. 150/2022, anche per la necessità di ridurre i tempi del processo e renderlo più efficiente, come richiesto dal P.N.R.R.

Le ultime riforme del processo penale hanno avuto come comune denominatore la digitalizzazione della giustizia, progetto che nasce dalla consapevolezza del passaggio dall’analogico al digitale per rendere la giustizia penale più efficiente, trasparente, rapida e accessibile.

Tralasciando le questioni più squisitamente tecniche relative agli atti nativi digitali e al fascicolo elettronico vediamo come, al momento, funziona il deposito degli atti nel processo penale, in base al decreto ministeriale che è entrato in vigore il 1 gennaio del 2024, perché la disciplina del deposito coinvolge l’aspetto principale del processo ossia la circolazione degli atti e dei documenti.

Deposito telematico

Il DM n. 217 del 29 dicembre 2023, pubblicato sulla GU il giorno successivo ed entrato in vigore dal 14 gennaio 2024, ha stabilito le regole per il deposito degli atti processuali penali.

Il decreto, se così si può dire, è destinato agli utenti abilitati interni (magistrati, cancellieri, addetti agli uffici dell’amministrazione della Giustizia) e a quelli abilitati esterni che si distinguono in pubblici (avvocatura dello Stato, avvocature distrettuali, procuratori e dipendenti pubblici di tutti i livelli che possono intervenire nel portale depositi) e privati, ossia gli avvocati.

Il deposito degli atti ai sensi della legge può essere effettuato solo attraverso il portale dei depositi telematici a cui si può accedere con Smartcard o SPID.

Disciplina transitoria e tappe del deposito telematico

Il DM n. 206 del 27.12.2024, adottato dal Ministro della Giustizia, introduce modifiche significative al regolamento sul processo penale telematico. Le principali novità riguardano l’obbligo del deposito telematico degli atti, con specifiche eccezioni e proroghe.

Ecco i punti salienti:

Obbligo di deposito telematico

Dal 1° gennaio 2025, diventa obbligatorio depositare atti, documenti, richieste e memorie in formato telematico presso:

  • Procura della Repubblica presso il tribunale ordinario;
  • Procura europea;
  • Sezioni del GIP (giudice per le indagini preliminari);
  • Tribunale ordinario;
  • Procura generale presso la corte d’appello (solo per i procedimenti di avocazione).

Deposito telematico facoltativo

Fino al 31 dicembre 2025, è consentito il deposito non telematico presso specifici uffici e in alcuni specifici casi tra cui:

  • Atti relativi all’archiviazione (artt. 408-415 c.p.p.) e alla riapertura delle indagini (art. 4141 c.p.p.).

Fino al 31 marzo 2025, è ammesso il deposito non telematico per:

  • Iscrizione delle notizie di reato (art. 335 c.p.p.).
  • Procedimenti disciplinati dal libro VI, titoli I, III e IV del codice di procedura penale.

Dal 1° gennaio 2027, l’obbligo del deposito telematico si estenderà anche a nuovi uffici, tra cui:

  • Ufficio del giudice di pace;
  • Tribunale per i minorenni e relativa Procura;
  • Tribunale di sorveglianza;
  • Corte d’appello e Corte di Cassazione, incluse le relative procure generali.

Fino al 31 dicembre 2026, in alcuni uffici, il deposito telematico sarà facoltativo e in altri sarà subordinato alla funzionalità dei sistemi informatici. Gli avvocati potranno continuare a utilizzare la PEC nei casi in cui il deposito telematico non è obbligatorio, per garantire flessibilità nella fase di transizione.

 

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violenza sessuale

Violenza sessuale abbracciare e baciare l’ex moglie Integrato il reato di violenza sessuale nel tentativo di abbracciare e baciare l'ex moglie contro la sua volontà

Reato di violenza sessuale

Il reato di violenza sessuale commesso dall’ex marito che tenta di abbracciare e baciare la moglie contro la sua volontà non può essere assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia. Lo ha chiarito la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 30528/2024 dando ragione al pm.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Asti condannava alla pena di anni uno, mesi dieci di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 572 c.p. (capo A), in esso assorbite le condotte di cui all’art. 609-bis c.p.
Avverso la sentenza, il Procuratore della Repubblica proponeva ricorso per cassazione, lamentando inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lettera b), cod. proc. pen.
In sintesi, il ricorrente deduceva che il Tribunale di Asti avrebbe erroneamente assorbito le condotte di violenza sessuale contestate nel reato di maltrattamenti, essendo pacifico che i fatti descritti costituissero atti sessuali, idonei a compromettere la libera determinazione
della sessualità della persona e non potessero essere qualificati come una “forma di molestia, vessazione, fastidio”.

Il principio di assorbimento

Sosteneva ancora il ricorrente che “il principio di assorbimento può operare quando si ha identità degli scopi prevalenti perseguiti dalle norme concorrenti. E’ pacifico, invece, che le fattispecie di cui agli articoli 572 e 609-bis cod. pen. tutelano beni giuridici diversi e perseguono scopi differenti: l’oggetto giuridico del delitto di maltrattamenti in famiglia è la tutela dell’incolumità fisica e psichica delle categorie di persone indicate dalla norma, fra cui quelle di famiglia, mentre il delitto di violenza sessuale è preposto alla tutela della libertà di determinazione nella sfera sessuale”.
Evidenziava, infine, il ricorrente che il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti ni famiglia, attesa la diversità di beni giuridici offesi, “potendosi configurare l’assorbimento esclusivamente nel caso in cui vi sia piena coincidenza tra le due condotte, ovvero quando il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale; circostanza non verificatasi nel caso di specie in cui non vi è coincidenza tra le condotte
maltrattanti e quelle di cui all’art. 609-bis c.p.”.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

Il Tribunale di Asti è pervenuto a dichiarare l’assorbimento delle condotte di violenza sessuale contestate, affermando che dette condotte dovessero ritenersi non lesive della libertà sessuale della vittima, e, seppur contestate come violenze sessuali, integrassero piuttosto molestie e vessazioni tali da iscriversi nella sequela di atti maltrattanti, non idonee in concreto a ledere li bene giuridico tutelato dall’art. 609-bis cod. pen. lI ricorso del pubblico ministero sostiene, per contro, che le condotte descritte nei capi di imputazione integrino altrettante ipotesi di violenza sessuale, perché idonee a compromettere la libera determinazione della sessualità della
persona e ad invaderne la sfera sessuale attraverso una condotta insidiosa e rapida avente ad oggetto zone erogene.
La sentenza impugnata dà atto che l’imputato, in sede di interrogatorio di garanzia e del successivo interrogatorio reso al pubblico ministero, ha sostanzialmente ammesso tutti gli addebiti.

L’imputato ha, dunque, confermato di avere approcciato la donna nelle due occasioni descritte nei capi di imputazione, negando di avere tenuto un contegno violento o aggressivo e specificando di avere tentato di avere un rapporto intimo confidando sul fatto che pochi giorni prima imputato e parte offesa avevano giaciuto insieme. Ed in particolare, aveva confermato di avere afferrato al viso la donna, di averla baciata e stretta a sé, reiterando il tentativo di abbracciarla.

La giurisprudenza di legittimità

Tanto premesso, secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, affermano quindi dal Palazzaccio, “l’assorbimento di una fattispecie criminosa in un’altra, in base al rapporto di specialità di cui all’art. 15 cod. pen., si verifica solo quando tutti gli elementi previsti in quella di carattere generale siano compresi in quella di carattere speciale, la quale presenti, inoltre, un elemento specifico cosiddetto specializzante (Sez. 3, n. 5518 del 13/03/1984, Iacchini, Rv. 164788). La norma speciale, infatti, è quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che in più presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865)”.
Sulla base di queste corrette premesse, “è senz’altro giuridicamente errato affermare che episodi di violenza sessuale, possano essere assorbiti in condotte maltrattanti, considerata la diversità dei beni giuridici offesi e l’impossibilità di individuare nel delitto di maltrattamenti una fattispecie di reato con elementi specializzanti rispetto al delitto di violenza sessuale. Solamente nell’ipotesi inversa, in cui singole condotte maltrattanti siano sovrapponibili alle condotte con le quali sono stati perpetrati i reati di violenza sessuale, è invece ipotizzabile l’assorbimento delle condotte di maltrattamento nella fattispecie criminosa della violenza sessuale (cfr., Sez. 3, n. 35700 del 23/09/2020, C., Rv. 280818; Sez. 3, n. 40663 del 23/09/2015, dep. 2016, Z., Rv. 267595)”.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con rinvio per nuovo giudizio.

 

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il singolo condomino

Il singolo condomino può proporre querela Il singolo condomino è legittimato alla proposizione della querela, anche in via concorrente o surrogatoria rispetto all'amministratore

Singolo condomino e querela

Il singolo condomino è legittimato a proporre querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore del condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune. Lo ha ribadito la seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 44374/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli, dichiarava non doversi procedere nei confronti di una condomina in ordine al reato di cui all’art. 646 cod.pen. alla stessa ascritto per intervenuta remissione di querela. Avverso detta sentenza, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Napoli deducendo violazione di legge ni relazione all’art. 154 cod.pen. per essere stata dichiarata l’estinzione del reato benche la remissione di querela non fosse stata ratificata da due degli originali querelanti individuati nei condomini.

La decisione

Per la Cassazione, il ricorso è fondato e deve pertanto essere accolto. Invero, affermano dalla S.C., “ai sensi della disciplina dettata dall’art. 154 cod.pen., se la querela è stata proposta da più persone, il reato non si estingue se non interviene la remissione di tutti i querelanti”. E nel caso in esame nell’esposizione delle ragioni della decisione lo stesso tribunale da atto che, pur a fronte di una querela sporta da otto condomini dell’immobile solo sei avevano rimesso la querela, mentre altri non risultano avere operato detta scelta.
A proposito va innanzi tutto ricordato, ricordano dal Palazzaccio, come sia stato affermato che “il singolo condomino è legittimato ala proposizione della querela, anche in via concorrente o eventualmente surrogatoria rispetto all’amministratore del condominio, per i reati commessi in danno del patrimonio comune” (cfr. Cass. n. 45902/2021).
Ne consegue pertanto che in assenza di remissione da parte di tutti i condomini querelanti il giudice di primo grado non poteva dichiarare l’estinzione del reato. Né può ritenersi operare, cosi come prospettato dal procuratore generale e dalla difesa dell’imputata, un’ipotesi di remissione tacita da parte dei due condomini non remittenti. La parola va al giudice del rinvio.

Allegati

giurista risponde

Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 L.F. Con riferimento ai reati in materia fallimentare, quali elementi vanno valorizzati al fine di individuare i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267)?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

In tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 l. fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Cass., sez. V, 2 ottobre 2024 n. 36582).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della scelta di attribuire all’imputato la qualità di amministratore di fatto di una società poi fallita, alla quale è seguita, in primo e secondo grado, la condanna per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (art. 216 l. fall.), di bancarotta impropria (art. 223 l. fall), nonché di rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000).

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea attribuzione all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita.

In particolare, si obiettava la mancata considerazione di elementi ritenuti di valore decisivo ai fini della esclusione del riconoscimento di tale qualità in capo all’imputato.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha ricordato gli elementi alla luce dei quali poter dedurre, in tema di reati fallimentari, la sussistenza in capo al reo della qualifica di amministratore di fatto, tutti fondati sulle funzioni e sulle attività concretamente esercitate dal soggetto agente, a prescindere dalla veste formalmente assunta.

Tra questi, a titolo esemplificativo, si è citato l’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, nell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione di beni e servizi; la gestione dei rapporti di lavoro con i dipendenti, dei rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, i fornitori e i clienti; ovvero, l’ideazione e l’organizzazione di un sistema fraudolento basato sull’utilizzo di una società quale schermo per realizzare condotte truffaldine, finalizzate al reperimento di risorse poi distratte.

La Suprema Corte ha, in primo luogo, ritenuto che il giudice di secondo grado abbia fatto buon governo degli elementi fin qui richiamati, attribuendo correttamente all’imputato la qualifica di amministratore di fatto della società poi fallita, e, in secondo luogo, ricordando un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che non è censurabile in sede di legittimità la sentenza che indichi con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice e che consentano l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata.

Nel caso di specie, avendo ritenuto corretta l’attribuzione, operata dai giudici di merito, all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita, utilizzata quale schermo per commettere i reati fallimentari e tributari a lui ascritti, la Cassazione ha rigettato il ricorso.

 

(*Contributo in tema di “Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 Legge Fallimentare”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

notifica al difensore

Notifica al difensore e non al detenuto: nullità sanabile La notifica al difensore è possibile ex art. 161 comma 4 c.p.p. se la notifica al domicilio dichiarato è impossibile

Notifica al difensore e non al detenuto

La notifica effettuata al difensore non al detenuto integra una nullità sanabile (cfr. art. 161 comma 4 c.p.p.). Questo si ricava dalla sentenza n. 35786/2024 della sesta sezione penale della Cassazione.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di appello di Potenza confermava la condanna emessa a carico del ricorrente in ordine al reato di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., commesso mediante l’omesso versamento dell’assegno mensile di mantenimento disposto in favore del figlio minore.
Avverso tale sentenza, il ricorrente adiva il Palazzaccio lamentando tra le altre cose, oltre allo stato di disoccupazione, l’omesso riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in relazione alla quale era positivamente valutabile il suo stato di indigenza, nonchè l’omessa notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello, posto che la notifica presso il domicilio eletto non si perfezionava, né andava a buon fine la notifica agli ulteriori indizi presso i quali si riteneva che l’imputato potesse essere rintracciato.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è manifestamente infondato. Rigettate tutte le doglianze correttamente valutate dalla Corte di merito, sul fronte della corretta vocatio in iudicium per il giudizio di appello, i giudici della S.C. evidenziano che la doglianza, tuttavia, risulta del tutto generica e non si confronta con la puntuale specificazione contenuta nella sentenza d’appello, dove si dà atto che il tentativo di notifica del decreto di citazione a giudizio presso il domicilio dichiarato è risultato impossibile. A fronte dell’inidoneità del domicilio dichiarato, pertanto, la notifica è stata correttamente eseguita ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod, proc. pen.

Il ricorso è quindi dichiarato inammissibile e il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

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braccialetto elettronico

Braccialetto elettronico: carcere per chi impedisce il funzionamento Braccialetto elettronico: il giudice può disporre la custodia cautelare in carcere per chi lo manomette o ne impedisce il funzionamento

Braccialetto elettronico: le novità del decreto giustizia

Braccialetto elettronico: il decreto legge n. 178/2024 contenente misure urgenti sulla giustizia torna ad occuparsene. L’articolo 7 del decreto interviene su alcune norme del codice di procedura penale. L’obiettivo è quello di rendere più efficace questo strumento di controllo a tutela soprattutto delle donne vittime di violenza e di stalking.

Fattibilità del controllo con il  braccialetto elettronico

A questo scopo dopo l’articolo 97 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale la riforma inserisce ex novo l’articolo 97 ter. La norma è incentrata sulle modalità di accertamento della fattibilità tecnica e operativa del controllo tramite braccialetto elettronico.

L’accertamento della fattibilità tecnica e operativa, disciplinato dagli articoli 275-bis, 282-bis e 282-ter del codice, riguarda, in particolare, la verifica preliminare necessaria per stabilire le modalità di controllo che il giudice prescrive. La polizia giudiziaria, eventualmente supportata da operatori specializzati della società incaricata dei servizi tecnici o elettronici, deve effettuare questa verifica senza ritardi e comunque entro 48 ore.

Detta verifica comprende:

  • la possibilità di attivare e far funzionare i mezzi elettronici o tecnici previsti;
  • l’analisi delle caratteristiche specifiche del luogo di applicazione (es. distanza, copertura di rete, qualità della connessione, tempi di trasmissione dei segnali);
  • la gestione operativa degli strumenti e altre circostanze rilevanti per valutare l’efficacia del controllo sulle prescrizioni imposte all’

Concluse queste operazioni, la polizia giudiziaria deve redigere un rapporto tecnico. Questo documento certifica la fattibilità del controllo e lo trasmette senza ritardi, entro ulteriori 48 ore, all’autorità giudiziaria competente. Il giudice, sulla base di questo rapporto, valuta eventuali misure cautelari, inclusa l’applicazione congiunta o la sostituzione con misure più restrittive. 

Carcere per chi ne impedisce il funzionamento regolare

Per rendere più efficace il controllo con il braccialetto elettronico il decreto giustizia interviene anche sull’art. 276 c.p.p, che si occupa dei provvedimenti che il giudice può adottare in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte.

La nuova versione prospettata dal decreto del comma 1 ter dell’art. 276 c.p.p prevede che in caso di violazione delle disposizioni relative agli arresti domiciliari, come il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da un altro luogo di dimora privata, oppure in caso di manomissione o di comportamenti gravi o reiterati che compromettono o ostacolano il corretto funzionamento dei dispositivi elettronici e degli strumenti tecnici di controllo previsti dall’articolo 275-bis, anche quando utilizzati ai sensi degli articoli 282-bis e 282-ter, il giudice procede alla revoca della misura e alla sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere, salvo che il fatto risulti di lieve entità.

 

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giurista risponde

Appropriazione indebita: quando si consuma il reato Ai fini della individuazione del tempus commissi delicti con riferimento al reato di appropriazione indebita, a rilevare è il momento in cui viene realizzata la prima condotta appropriativa o il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Cass., sez. II, 27 settembre 2024 n. 36177).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se il reato ascritto all’imputato si fosse estinto, prima dell’emanazione della sentenza di primo grado, per intervenuta prescrizione.

In primo e secondo grado i giudici di merito avevano considerato il reato non estinto per prescrizione, individuando quale data di commissione del medesimo quella in cui l’imputato aveva negato alle parti civili la restituzione delle somme di denaro richiestegli, ritenendo inoltre, alla luce di tale data, tempestiva la proposizione della querela.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando l’erronea individuazione del tempus commissi delicti, nonché la tardività nella proposizione della querela.

In particolare, si obiettava che il reato di appropriazione indebita doveva considerarsi perfezionato alla data della scadenza del contratto di deposito irregolare, dovendo ritenersi, in primo luogo, tardiva la proposizione della querela da parte dei titolari delle somme di denaro di cui si chiedeva la restituzione e, in secondo luogo, il reato estinto per intervenuta prescrizione, già prima della emanazione della sentenza di primo grado.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando inammissibile il ricorso alla luce della manifesta infondatezza delle censure proposte, ha ricordato quando stabilito da una risalente ma sempre attuale pronunzia di legittimità (Cass. pen., sez. II, 2 febbraio 1972, n. 6872), secondo cui l’inutile scadenza del termine di adempimento di una obbligazione civilistica che imponga la restituzione di una cosa altrui non determina, né prova, di per sé, la consumazione del reato di appropriazione indebita; perché ciò avvenga è necessario che, in base a concludenti circostanze di fatto (che possono anche essere diverse dal dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo del suo precedente e legittimo possesso, e possono consistere anche nel rifiuto ingiustificato della restituzione), sia rivelato il carattere intenzionale (caratterizzante l’elemento soggettivo del reato) della omessa restituzione, nel senso che in quest’ultima coincida, in uno con l’elemento materiale del reato (intrinsecamente inerente alla protrazione non più giustificata del possesso nella persona dell’agente), anche l’elemento soggettivo, inerente alla volontà di invertire il titolo del possesso medesimo appropriandosi della cosa al fine di trarne ingiusto profitto.

Nel caso di specie, il tempus commissi delicti, come correttamente valutato dai giudici di merito, era coinciso con la data in cui l’imputato aveva spedito una lettera raccomandata alle parti civili, ricusando la loro richiesta di restituzione degli importi detenuti e con la quale veniva di fatto esteriorizzato l’animus domini dell’odierno imputato in merito alle somme di denaro detenute, restando del tutto irrilevante, ai fini penalistici, la scadenza del termine entro la quale andava adempiuta l’obbligazione civilistica restitutoria.

Ritenendo quindi corrette le valutazioni operate dai giudici di merito, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e infondate le censure prospettate.

(*Contributo in tema di “Appropriazione indebita: quando si consuma il reato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

pitbull senza museruola

Pitbull senza museruola sul bus: è reato Interruzione di pubblico servizio quando il passeggero pretende di salire su un autobus con un pitbull senza guinzaglio e museruola

Interruzione di pubblico servizio

Pitbull senza museruola sul bus è reato di interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del Codice penale. La norma punisce chiunque cagioni un’interruzione o un turbamento del regolare svolgimento di un servizio pubblico o di pubblica necessità. La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 45289/2024 ha chiarito che chi pretende di salire su un autobus con un cane senza guinzaglio e museruola anche in presenza del volere contrario e legittimo del conducente dellautobus, commette questo reato.

Autobus fermo per un cane senza museruola

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un utente che ha preteso di salire su un autobus con un pit bull di grossa taglia senza museruola e senza guinzaglio. Il conducente, conformemente al regolamento del trasporto pubblico, ha impedito l’accesso all’animale. Ne è scaturita una lunga discussione, che ha ritardato la partenza dellautobus di circa quarantacinque minuti. Il padrone del cane, peraltro, ha mantenuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dell’autista e degli altri passeggeri. La Corte di Cassazione per queste ragioni ha confermato la condanna per interruzione di pubblico servizio, rigettando ogni pretesa difensiva. Il ricorrente aveva lamentato l’assenza di un regolamento esposto all’interno del mezzo e invocato l’attenuante della provocazione. Questi argomenti però sono stati respinti.

Obbligo di rispettare il regolamento di viaggio

Il conducente di un autobus ha il dovere di far rispettare il regolamento di viaggio. Questo include prescrizioni specifiche sull’accesso con animali domestici, come l’uso obbligatorio del guinzaglio e della museruola per i cani di grossa taglia o considerati potenzialmente pericolosi. Il regolamento ha una base giuridica solida e tutela la sicurezza di tutti i passeggeri. In questa vicenda, il conducente ha agito quindi nel rispetto dei propri obblighi e non ha assunto una condotta provocatoria. La Cassazione ha chiarito infatti che non si può configurare l’attenuante della provocazione quando il soggetto “provocatore” esercita un dovere istituzionale con equilibrio e senza intenti vessatori.

Esclusa l’attenuante della provocazione

La difesa aveva invocato l’attenuante della provocazione, sostenendo che il comportamento del conducente avesse scatenato la reazione dell’imputato. La Suprema Corte però ha respinto questa tesi, ricordando i criteri applicativi dell’attenuante. Secondo l’articolo 62 del Codice penale, essa sussiste infatti solo se il comportamento del provocatore è oggettivamente ingiusto e compiuto con intenti di dispetto o di faziosità. Nel caso concreto, l’autista ha svolto solo il proprio dovere, facendo rispettare una norma regolamentare. Non si tratta, dunque, di un comportamento ingiusto, ma di un’azione lecita e doverosa.

Irrilevanza dell’errore sulle attenuanti

Un ulteriore punto sollevato dalla difesa riguardava la mancata esposizione del regolamento sul mezzo pubblico. L’imputato riteneva di essere stato tratto in errore e che l’assenza della regola visibile giustificasse la sua reazione. La Cassazione ha ribadito l’irrilevanza di questo errore ai fini delle attenuanti. Ai sensi dell’articolo 59, comma 3, del Codice penale, le circostanze attenuanti erroneamente supposte dall’autore non possono essere valutate a suo favore. Di conseguenza, anche l’ignoranza del regolamento non esime dalla responsabilità penale.

Cassazione sul reato di interruzione di pubblico servizio

Dalla decisione emerge in conclusione che il reato di interruzione di pubblico servizio si configura quando un soggetto impedisce o turba il normale svolgimento di un servizio pubblico, causando un ritardo significativo o una sospensione temporanea. Nel caso del pit bull senza museruola, la discussione prolungata e latteggiamento intimidatorio del padrone hanno impedito la ripartenza dell’autobus, causando un disagio ai passeggeri e al servizio stesso. Questa condotta integra quindi pienamente il reato previsto dall’articolo 340 del Codice penale.

foglio di via

Foglio di via, nessuna convalida del giudice Per la Corte Costituzionale, il foglio di via del Questore non richiede la convalida da parte del giudice

Foglio di via e convalida

La misura di prevenzione del foglio di via, disposta dal questore nei confronti di persone pericolose per la sicurezza pubblica, non restringe la libertà personale dell’interessato, ma limita la sua libertà di circolazione. Pertanto, essa non richiede l’intervento di un giudice, come prescritto invece dall’articolo 13 della Costituzione per ogni misura restrittiva della libertà personale. Spetterà poi al giudice amministrativo e al giudice penale verificarne la legittimità e proporzionalità nel singolo caso concreto, rispettivamente quando l’interessato proponga ricorso contro il provvedimento del questore, o sia imputato in sede penale per la violazione degli obblighi stabiliti nel provvedimento. Lo ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza numero 203/2024, con la quale sono state dichiarate non fondate le questioni sollevate dal Tribunale di Taranto sull’articolo 2 del codice antimafia.

Il caso

Nel caso in esame, un uomo era stato rinviato a giudizio per avere fatto più volte ritorno nel Comune di Taranto, dal quale era stato allontanato mediante foglio di via, motivato dal questore sulla base della sua pericolosità sociale. Prima di pronunciarsi sulla responsabilità penale dell’imputato per la violazione delle prescrizioni imposte con la misura, il giudice si è però interrogato sulla legittimità costituzionale dell’articolo 2 del codice antimafia. Quest’ultimo attribuisce al questore il potere di disporre la misura senza prevedere la sua necessaria convalida da parte di un giudice.

La restrizione della libertà personale

La Corte ha anzitutto ricordato che una restrizione della libertà personale si verifica quando la persona subisce una coazione nel proprio corpo, come nel caso di arresto o di detenzione, o ancora nel caso di un trattamento medico coattivo. Si ha, inoltre, restrizione della libertà personale quando il soggetto venga sottoposto a misure che presuppongano un giudizio di “degradazione giuridica” e impongano obblighi di intensità tale da poter essere equiparati all’assoggettamento della persona all’altrui potere. In numerose decisioni, a partire dal 1956, la Corte ha ritenuto che quest’ultima situazione si verifichi in conseguenza di misure di prevenzione che impongano all’interessato obblighi di rimanere in un luogo determinato, ovvero di recarsi periodicamente presso un ufficio di polizia.

La giurisprudenza

Viceversa, la Corte ha sinora sempre escluso che il semplice divieto di recarsi in un luogo determinato ponga in causa le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. In questo caso, infatti, la persona resta libera di andare in qualsiasi altro luogo desideri, tranne quello dal quale è interdetta. Con la sentenza in esame, la Consulta ha ritenuto di dover confermare la propria costante giurisprudenza, alla quale del resto il legislatore si è da tempo orientato nel configurare la disciplina delle misure di prevenzione e dei cosiddetti “DASPO”.

E ciò nella consapevolezza che il tendenziale rispetto dei propri precedenti è una delle condizioni essenziali per l’autorevolezza delle decisioni di ogni giurisdizione superiore, compresa la Corte costituzionale.

La decisione

Peraltro, la Consulta ha sottolineato che”gli effetti del foglio di via possono risultare assai gravosi per il destinatario, ad esempio quando gli venga vietato l’ingresso nell’intero capoluogo di provincia nella quale risiede”. Tuttavia, l’ordinamento italiano dispone “di strumenti efficaci per garantire una tutela effettiva ai diritti fondamentali del destinatario contro i pericoli di uso arbitrario di queste misure, ad esempio quale strumento di repressione del dissenso politico e delle legittime forme di protesta protette dalla Costituzione”.

Da un lato, il ricorso al giudice amministrativo è certamente idoneo ad assicurare una tutela immediata ed effettiva contro eventuali provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali dell’interessato.

Dall’altro, lo stesso giudice penale, nei procedimenti per violazione degli obblighi inerenti a una misura di prevenzione, ha il dovere di verificarne preliminarmente la legittimità.

La verifica di legittimità compiuta dall’uno e dall’altro giudice, infine, comprende necessariamente anche una valutazione di proporzionalità tra le finalità di tutela perseguite dall’autorità di polizia e la concreta incidenza della singola misura sulla libertà di circolazione dell’interessato, nonché sull’intera gamma dei suoi diritti fondamentali comunque incisi dal provvedimento.

ddl sicurezza

Ddl Sicurezza: dall’UE l’invito a modificare il testo Ddl Sicurezza: il Commissario per i Diritti Umani Europeo invita i senatori a rivedere il testo, troppi limiti alla libertà di pensiero

Ddl Sicurezza: l’invito dell’UE

Il Ddl Sicurezza continua a sollevare polemiche e opposizioni, con rilievi significativi provenienti dal Consiglio d’Europa e dalla politica italiana. Michael O’Flaherty, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, ha espresso preoccupazioni in una lettera indirizzata al Presidente del Senato, Ignazio La Russa.

O’Flaherty sottolinea come diversi articoli del Ddl limitino il diritto alla manifestazione e alla libertà di espressione ed esorta i senatori a modificare profondamente il testo prima di procedere all’approvazione.

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Le disposizioni sotto accusa del Ddl Sicurezza

Gli articoli contestati includono:

  • Articolo 11: introduce un’aggravante per reati commessi vicino a infrastrutture ferroviarie.
  • Articolo 13: estende il Daspo urbano e amplia l’arresto in flagranza differita.
  • Articolo 14: trasforma in reato penale il blocco stradale o ferroviario attuato con il corpo.
  • Articolo 24: aggrava le pene per imbrattamento di beni pubblici, con reclusione fino a tre anni in caso di recidiva.
  • Articolo 26: introduce un’aggravante per istigazione a disobbedire alle leggi e nuovi reati per disordini in carceri e centri di accoglienza.
  • Articolo 27: colpisce le proteste violente di stranieri irregolari nei centri di trattenimento.

Secondo il Consiglio d’Europa, queste norme, formulate in termini vaghi, potrebbero portare a un’applicazione arbitraria, minando il legittimo esercizio dei diritti fondamentali.

La risposta istituzionale e le reazioni

La Russa ha trasmesso la lettera alle commissioni competenti. La sua reazione pubblica ha definito l’intervento di O’Flaherty come un’ingerenza inaccettabile. Intanto, le opposizioni si sono schierate contro il Ddl, con oltre 1.500 emendamenti presentati e manifestazioni che hanno visto migliaia di partecipanti. La Rete nazionale “No Ddl Sicurezza” annuncia ulteriori proteste.

Ddl sicurezza: un percorso accidentato

Il Ddl, composto da 38 articoli, è stato approvato alla Camera nel settembre 2023, ma incontra difficoltà al Senato. Restano da discutere i due terzi del testo, comprese norme controverse come il divieto di vendere SIM ai migranti senza permesso di soggiorno e lo stop al rinvio della pena per madri con figli minori. Segnalazioni critiche sono giunte anche dal Quirinale, rendendo necessario un rinvio della discussione a gennaio 2025.

Il Ddl Sicurezza rappresenta un banco di prova per il Governo, che cerca di bilanciare misure restrittive e rispetto dei diritti fondamentali. Le pressioni del Consiglio d’Europa e le critiche interne rendono indispensabile una revisione del testo per garantire la conformità agli standard democratici e costituzionali.

 

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