diffamazione

Diffamazione: l’uso del condizionale non basta per evitarla Cassazione: non basta il condizionale per evitare la diffamazione se la notizia è falsa e non verificata

Diffamazione online

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 14196 del 2025, ha stabilito un principio rilevante in materia di diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca: l’impiego di forme verbali al condizionale non è sufficiente a escludere la lesione della reputazione altrui, qualora le informazioni diffuse siano false, offensive e prive di verifica.

Secondo i giudici di legittimità, non si può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca – neppure nella sua forma putativa – quando l’articolo diffonde insinuazioni suggestive e ambigue, presentando fatti non veri come se fossero plausibili, soprattutto se associati ad accadimenti reali.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, un giornalista era stato condannato per aver pubblicato un articolo in cui un appartenente alla Guardia di Finanza veniva indicato come “in combutta coi narcos” in relazione a un’operazione antidroga. La notizia, veicolata attraverso un blog, utilizzava il condizionale per insinuare il coinvolgimento dell’agente, ma non era fondata su riscontri oggettivi né su fonti attendibili.

La difesa aveva sostenuto che l’uso del condizionale escludesse l’intento diffamatorio, ma la Cassazione ha chiarito che tale forma linguistica non esclude la responsabilità, quando le espressioni sono idonee a indurre il lettore a ritenere veritiera una notizia falsa.

Cronaca e verità: i limiti dell’art. 21 Cost.

Il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, incontra limiti precisi, fissati dalla giurisprudenza consolidata:

  1. Verità oggettiva della notizia, o quantomeno verità putativa, purché frutto di adeguate verifiche;

  2. Interesse pubblico alla diffusione del fatto;

  3. Continenza espositiva, ovvero modalità sobrie e rispettose nella narrazione.

L’assenza di uno di questi presupposti rende il contenuto potenzialmente diffamatorio e non giustificabile. L’utilizzo di un linguaggio allusivo o insinuante – anche se formalmente prudente – non è idoneo a scriminare la condotta lesiva.

La posizione della Cassazione

Nel testo della pronuncia, la Corte sottolinea che la carica offensiva di un’esposizione redazionale che mescoli fatti veri e non veri, con l’uso di espressioni ambigue e condizionali, è persino superiore rispetto a forme dubitative o interrogative. L’ambiguità narrativa può infatti generare nel lettore medio la convinzione di trovarsi di fronte a una verità oggettiva.

In assenza di verifica delle fonti e di riscontri concreti, il condizionale non solo non attenua, ma rafforza la responsabilità del cronista, specialmente quando si attribuiscono fatti penalmente rilevanti a soggetti determinati.

patrocinio infedele

Patrocinio infedele Patrocinio infedele: quando l’avvocato risponde penalmente – guida completa all’art. 380 c.p.

Cos’è il patrocinio infedele

Il reato di patrocinio infedele si configura quando l’avvocato, agendo con dolo, viola consapevolmente i doveri di fedeltà e lealtà nei confronti del proprio assistito, arrecandogli un danno giuridicamente rilevante. Si tratta di una fattispecie che tutela l’integrità del rapporto fiduciario tra difensore e cliente, ponendosi al crocevia tra diritto penale, deontologia forense e responsabilità professionale.

Normativa di riferimento: art. 380 codice penale

Il testo dell’art. 380 c.p. recita: “Il patrocinatore (…) che,  rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516.”

Il legislatore con questa norma intende colpire penalmente le condotte scorrette e sleali del difensore, che tradiscono gli interessi del proprio cliente con comportamenti fraudolenti.

Quando si configura il reato di patrocinio infedele

Il reato si perfeziona quando sussistono due elementi fondamentali:

  • un comportamento sleale o doloso dell’avvocato nell’esercizio dell’attività difensiva o di assistenza;
  • la lesione dei diritti della parte assistita, cagionata da tale comportamento.

Non si tratta di una semplice negligenza o imperizia, ma di una vera e propria infedeltà dolosa, come ad esempio:

  • la mancata presentazione intenzionale a un’udienza rilevante;
  • l’acquiescenza consapevole a provvedimenti sfavorevoli;
  • l’omissione di atti fondamentali per interesse proprio (es. favorire la controparte);
  • la comunicazione fraudolenta di informazioni al cliente, al solo fine di indurlo a rinunciare a un diritto.

Elemento oggettivo del reato

Sul piano oggettivo, il reato di patrocinio infedele richiede:

  • un atto o comportamento attivo od omissivo del difensore;
  • che tale condotta abbia precluso o danneggiato i diritti della parte;
  • che la condotta sia fraudolenta, ossia accompagnata da un elemento di inganno o dissimulazione.

Elemento soggettivo: il dolo specifico

Affinché si configuri il reato è sufficiente la presenza del dolo generico, ovvero  la rappresentazione e la volontà, anche eventuale, delle conseguenze dell’evento.

L’avvocato non risponde penalmente se:

  • agisce in buona fede;
  • commette un errore tecnico con colpa;
  • svolge l’attività con imperizia o superficialità, ma senza volontà fraudolenta.

Il momento consumativo del reato

Il reato si consuma nel momento in cui si materializza la lesione degli interessi del cliente. Non è sufficiente che si realizzi la mera lesione dell’interesse al regolare funzionamento della giustizia.

Procedibilità, competenza e pena

  • Procedibilità: il reato è procedibile d’ufficio.
  • Competenza: spetta al Tribunale in composizione monocratica.
  • Pena prevista: reclusione da uno a tre anni e multa don inferiore a 516,00 euro.

Violazione grave del rapporto fiduciario

Il patrocinio infedele costituisce una delle violazioni più gravi che un avvocato possa commettere nei confronti del proprio cliente. La norma mira a tutelare la fiducia nella funzione difensiva, cardine del giusto processo. La responsabilità penale si affianca a quella disciplinare e civile, e può comportare radiazione dall’albo, sanzioni economiche e pregiudizi irreparabili per la parte lesa.

Giurisprudenza rilevante sul patrocinio infedele

La Cassazione penale è intervenuta più e più volte per chiarire alcuni aspetti importanti del reato.

Cassazione n. 13084/2025: Nell’accertare il reato di infedele patrocinio, il giudice non può limitarsi a esaminare singoli atti isolati. È invece essenziale contestualizzare l’intera attività professionale svolta dall’avvocato, inserendola nella linea difensiva complessiva e nella strategia processuale adottata per raggiungere gli obiettivi del cliente. Questo approccio permette di valutare se il patrocinatore abbia intenzionalmente tradito il suo obbligo di curare gli interessi della parte, in conformità con il mandato ricevuto, le regole professionali e le incombenze processuali.

Cassazione n. 341/2025: il reato di patrocinio infedele ai sensi dell’articolo 380 del Codice Penale non si configura con la sola violazione dei doveri professionali. È infatti necessario che si verifichi un nocumento agli interessi della parte, il quale può manifestarsi come il mancato ottenimento di risultati favorevoli o la creazione di situazioni processuali pregiudizievoli, anche se queste si presentano in una fase intermedia del procedimento, ritardandone o impedendone il prosieguo. Questo nocumento, inteso come conseguenza della violazione dei doveri professionali, costituisce l’evento del reato. Tale evento non è necessariamente un danno patrimoniale in senso civilistico, ma può consistere anche nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, inclusi quelli di natura morale, che sarebbero derivati da un esercizio corretto e leale del patrocinio legale.

Cassazione n. 25766/2023: Il delitto di patrocinio infedele, delineato dall’articolo 380 del Codice Penale, si perfeziona nel momento in cui il professionista compie un’azione o un’omissione che, oltre a rappresentare un’infedeltà ai suoi doveri professionali, risulta capace di arrecare un nocumento agli interessi della parte che sta rappresentando, assistendo o difendendo.

Leggi anche: La responsabilità professionale dell’avvocato

aggredire il capotreno

Aggredire il capotreno è reato di resistenza a pubblico ufficiale Aggredire il capotreno configura il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 20125/2025

La qualifica di pubblico ufficiale

Aggredire il capotreno è reato. Con la sentenza n. 20125/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che il capotreno, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, riveste la qualifica di pubblico ufficiale. La decisione trae origine da un episodio in cui un passeggero, giunto il treno a fine corsa, ha rifiutato di scendere e ha aggredito il capotreno e il macchinista con calci e pugni.

La difesa aveva contestato la qualifica di pubblico ufficiale, sostenendo che l’attività svolta dal capotreno – limitata alla verifica del termine della corsa – fosse di natura interna e priva di rilievo pubblicistico. La Suprema Corte ha però escluso tale interpretazione.

Poteri autoritativi anche senza coercizione

La Cassazione ha chiarito che il concetto di “potere autoritativo” non si esaurisce nelle sole attività coercitive, ma comprende ogni attività che implichi l’esercizio di una potestà pubblica in forma discrezionale. Il soggetto che si trova destinatario di tale potere assume una posizione non paritetica, ovvero non è sullo stesso piano dell’autorità che lo esercita.

In questo contesto, anche se esercitata da personale appartenente a una società per azioni – come Trenitalia S.p.A. – l’attività può essere qualificata come pubblicistica se regolata da norme di diritto pubblico e finalizzata alla tutela di interessi generali, come la sicurezza dei viaggiatori.

La funzione pubblica del capotreno

Nel caso di specie, il capotreno, giunto a fine corsa, ha invitato il passeggero a lasciare il convoglio. L’aggressione è avvenuta in risposta a tale invito. Secondo la Corte, il controllo effettuato in quel momento rientrava pienamente nei compiti di sicurezza e ordine pubblico previsti dal D.P.R. n. 753/1980, che impone ai viaggiatori il rispetto delle disposizioni impartite dal personale ferroviario per la regolarità e sicurezza del servizio.

La normativa affida al personale ferroviario poteri accertativi e certificativi, anche in assenza delle forze dell’ordine, in merito a condotte rilevanti ai fini sanzionatori. Ne consegue che il comportamento del capotreno – diretto a garantire la sicurezza dei passeggeri e la regolare chiusura del servizio – ha natura pubblicistica.

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 337 c.p., ritenendo legittima la qualifica di pubblico ufficiale attribuita al capotreno. È stata dunque respinta la tesi difensiva secondo cui la funzione esercitata sarebbe stata priva di rilievo pubblicistico.

Il ricorso è stato rigettato e l’imputato condannato anche al pagamento delle spese processuali.

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mantenimento dei figli maggiorenni

Mantenimento dei figli maggiorenni: il parziale adempimento è reato La Cassazione chiarisce che l'adempimento parziale dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni è reato

Omesso mantenimento figli maggiorenni reato

Con la sentenza n. 15264/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato un tema di rilievo in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570, comma 2, n. 2, c.p., chiarendo un punto controverso riguardante il mantenimento dei figli maggiorenni.

La Corte ha statuito che l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento non esclude la responsabilità penale, neppure quando i figli beneficiari siano divenuti maggiorenni, salvo che non sia comprovato uno stato di necessità, la cui valutazione, tuttavia, segue criteri diversi rispetto ai casi in cui il mantenuto sia minorenne.

Il fatto

Il procedimento trae origine dalla condanna inflitta a un padre per omesso versamento dell’assegno di mantenimento in favore della figlia, divenuta nel frattempo maggiorenne ma ancora non economicamente autosufficiente, in quanto impegnata in un regolare corso di studi universitari.

L’uomo si era difeso sostenendo di aver eseguito solo versamenti parziali a causa di gravi difficoltà economiche, legate alla perdita del lavoro e alla sopravvenienza di nuovi oneri familiari. Aveva quindi chiesto l’assoluzione per carenza dell’elemento soggettivo del reato, invocando lo stato di necessità.

Il principio affermato dalla Cassazione

La Corte ha confermato la condanna e ha affermato un principio di diritto destinato ad orientare futuri giudizi in casi analoghi:

“In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento in favore del figlio maggiorenne non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., anche se la condotta è determinata da difficoltà economiche, salvo che queste integrino un vero e proprio stato di necessità penalmente rilevante.”

In sostanza, non basta addurre genericamente problemi economici per escludere la punibilità, se i versamenti sono stati inferiori a quanto stabilito dal giudice. La Corte distingue chiaramente tra:

  • Figli minorenni, per i quali il giustificato stato di necessità può escludere l’elemento soggettivo del reato, purché provato.
  • Figli maggiorenni non autosufficienti, per i quali il debitore deve dimostrare compiutamente che l’inadempimento era assolutamente inevitabile, non potendo in alcun modo adempiere.

Le motivazioni

La Corte richiama precedenti conformi e ribadisce che il mantenimento è un obbligo legale, non una prestazione facoltativa, e che la maggiore età del figlio non lo fa venir meno, se il beneficiario non ha ancora raggiunto una indipendenza economica. Come precisato in motivazione:

“La responsabilità genitoriale non si esaurisce con il compimento del diciottesimo anno di età, ma persiste in relazione alle condizioni oggettive del figlio. Il debitore non può arbitrariamente ridurre quanto dovuto, né invocare mere difficoltà finanziarie senza dimostrare l’assoluta impossibilità di adempiere.”

Il parziale adempimento, se volontario e non accompagnato da iniziative giudiziali per la modifica dell’importo (es. ricorso ex art. 710 c.p.c.), non ha effetto scriminante, ma anzi può integrare gli estremi del reato se produce una situazione di effettiva privazione per il figlio.

Figlio maggiorenne e autosufficienza

Un altro passaggio chiave della sentenza riguarda la condizione del figlio:

“L’obbligo di mantenimento permane finché il figlio non abbia raggiunto una effettiva e stabile indipendenza economica. L’onere della prova su tale condizione spetta al genitore obbligato.”

Nel caso concreto, la figlia risultava ancora iscritta all’università, priva di redditi, e residente con la madre. L’uomo, pur lavorando saltuariamente, non aveva dimostrato di trovarsi in stato di indigenza assoluta né aveva attivato strumenti legali per modificare il quantum dovuto.

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dl sicurezza

Dl Sicurezza: legge in vigore Pubblicata in Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 10 giugno la legge di conversione del dl sicurezza: nuovi reati, pene più dure per violenze a pubblici ufficiali, stretta su cannabis light e occupazioni abusive

Legge sicurezza: 14 nuovi reati

E’ stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale, per entrare in vigore dal 10 giugno 2025, la legge n. 80/2025 di conversione del dl sicurezza, approvata definitivamente nei giorni scorsi dal Senato, nel testo identico a quello licenziato dalla Camera e originariamente approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 aprile 2025 (ricalcando in buona parte il testo originario del ddl sicurezza su cui c’erano stati anche i rilievi del Colle).

La nuova legge “recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonchè di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” introduce importanti novità normative, tra cui 14 nuove fattispecie di reato e diverse circostanze aggravanti, oltre a toccare temi come occupazioni abusive, ordine pubblico, cannabis light e tutela delle forze dell’ordine.

Nuovi reati contro la sicurezza e il terrorismo

La legge 80 introduce nuove figure criminose, come:

  • Detenzione di materiale con finalità di terrorismo (reclusione da 2 a 6 anni);

  • Diffusione telematica di istruzioni per atti violenti o sabotaggi (nuovo art. 270-quinquies.3 c.p.).

Estensione delle misure antimafia

Le verifiche antimafia si applicano anche alle imprese che aderiscono a contratti di rete. Inoltre, viene limitato il potere del prefetto di sospendere autonomamente alcuni effetti interdittivi per garantire i mezzi di sostentamento ai familiari del destinatario.

Contrasto all’usura e sostegno economico

L’art. 33 prevede il supporto di esperti incaricati per gli operatori economici vittime di usura, beneficiari di mutui agevolati (art. 14, legge n. 108/1996), con l’obiettivo di facilitarne il reinserimento nel circuito economico legale.

Reato di occupazione arbitraria di immobile

Viene istituito il reato specifico di occupazione arbitraria, con possibilità per la polizia giudiziaria di disporre il rilascio immediato dell’immobile, anche senza provvedimento del giudice, in caso di occupazioni illecite.

Maggiori tutele per forze dell’ordine

La legge:

  • Aggrava le pene per lesioni, violenza e resistenza a pubblico ufficiale;

  • Introduce aggravanti per atti commessi contro agenti di polizia giudiziaria o per impedire la realizzazione di infrastrutture (cd. “norma anti no-Tav/no-Ponte”);

  • Prevede l’uso di bodycam e videosorveglianza nei servizi di ordine pubblico e nei luoghi di detenzione;

  • Destina fino a 10.000 euro a copertura delle spese legali per agenti coinvolti in procedimenti penali connessi al servizio.

Nuovo reato di rivolta in carcere e nei Cpr

Si introduce il reato di rivolta in istituto penitenziario o centro per rimpatri (Cpr), con pene:

  • Da 1 a 5 anni per chi partecipa con violenza o minaccia;

  • Fino a 18 anni in caso di morte o lesioni gravi.

Misure contro blocchi stradali e proteste violente

Tra le novità:

  • Reato per chi impedisce la libera circolazione su strade e ferrovie (già illecito amministrativo);

  • Estensione del Daspo urbano per reati commessi in aree sensibili;

  • Aggravanti per reati gravi commessi presso stazioni, metropolitane o convogli;

  • Arresto in flagranza differita per lesioni a pubblici ufficiali durante manifestazioni.

Pene più severe per truffe e accattonaggio

Viene:

  • Inasprita la repressione dell’accattonaggio con impiego di minori;

  • Introdotta una nuova aggravante per truffe agli anziani, punita con reclusione da 2 a 6 anni e multa fino a 3.000 euro.

Stop alla cannabis light

La legge vieta ogni forma di:

  • Commercio, distribuzione, trasporto, invio e consegna delle infiorescenze di canapa, anche se semilavorate, essiccate o triturate;

  • Prodotti derivati (estratti, oli, resine), indipendentemente dal contenuto di THC.

Nuove disposizioni sulla pena per le detenute madri

Si supera il rinvio automatico della pena per le donne incinte o madri, che viene ora valutato caso per caso, soprattutto quando vi sia rischio concreto di reiterazione. Si distingue il trattamento per:

  • Figli fino a 1 anno di età;

  • Figli da 1 a 3 anni, con modalità differenziate nell’esecuzione.

 

Leggi anche: Ddl Sicurezza: dall’UE l’invito a modificare il testo e Cannabis light: il ddl sicurezza la vieta

abusi edilizi

Abusi edilizi: la sola demolizione non estingue il reato La Cassazione ha chiarito che in tema di abusi edilizi la sola demolizione del manufatto abusivo non determina l'estinzione automatica del reato

Abusi edilizi

La demolizione di un manufatto abusivo non determina l’estinzione automatica del reato edilizio, soprattutto se non è preceduta dall’accoglimento di un’istanza di sanatoria o dalla verifica giudiziale dei relativi presupposti. Lo ha chiarito la Cassazione penale con la sentenza n. 20661/2025, accogliendo il ricorso promosso dal Procuratore della Repubblica contro una decisione di non luogo a procedere emessa dal giudice di merito.

Demolizione postuma

Nel caso esaminato, l’imputato aveva proceduto alla rimozione dell’abuso edilizio durante il processo penale, sostenendo che tale comportamento fosse sufficiente per estinguere il reato. Tuttavia, la Corte ha stabilito che la demolizione successiva alla commissione dell’illecito – e in pendenza di giudizio – non può in alcun modo sostituirsi agli strumenti legali previsti per la regolarizzazione, quali il rilascio del permesso in sanatoria o l’accoglimento di un’istanza presentata nei termini.

Area archeologica e reato paesaggistico

Un aspetto centrale della pronuncia riguarda la localizzazione dell’opera abusiva in area soggetta a tutela archeologica, circostanza che impone l’applicazione dell’art. 181 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42/2004). Secondo tale norma, il reato paesaggistico può considerarsi estinto solo se l’intervento di ripristino dello stato dei luoghi è eseguito volontariamente dal responsabile prima dell’emanazione dell’ordine di rimessione in pristino da parte dell’autorità amministrativa competente.

Nel caso in esame, la demolizione è intervenuta successivamente, e dunque non ha prodotto alcun effetto estintivo ai fini penali. La Corte ha pertanto annullato la decisione del giudice di merito che aveva erroneamente ritenuto che l’intervento di rimozione dell’abuso potesse legittimare un esito processuale di tipo liberatorio.

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bullismo e cyberbullismo

Bullismo e cyberbullismo: cosa prevede il decreto attuativo Bullismo e cyberbullismo: il Consiglio dei Ministri ha approvato, in via definitiva, il decreto legislativo che rafforza il 114

Bullismo e cyberbullismo: il decreto approvato

Il Consiglio dei Ministri (dopo l’approvazione preliminare dei mesi scorsi) ha approvato in via definitiva il decreto legislativo per rafforzare la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo, in attuazione della legge n. 70/2024, con cui si pone quindi in una linea di continuità.

Bullismo e cyberbullismo: emergenza infanzia

Il nuovo decreto potenzia il servizio telefonico “emergenza infanzia 114”, estendendone l’operatività anche a questi fenomeni per tutelare i minori. Il 114, attivo 24 ore al giorno 7 giorni su 7, offrirà una prima assistenza psicologica e giuridica, oltreché una consulenza psicopedagogica e segnalerà i casi gravi alle autorità. L’app del 114 includerà anche la geolocalizzazione (previa acquisizione del consenso) e un servizio di messaggistica istantanea. Il tutto ovviamente nel rispetto della privacy. I dati anonimi sui fenomeni del bullismo e del cyberbullismo nelle scuole, raccolti dal 114, saranno trasmessi annualmente al Ministero dell’Istruzione e del Merito per programmare azioni di sensibilizzazione. Il sito web del 114 garantirà inoltre un’ ampia accessibilità ai servizi.

Indagini statistiche su bullismo e cyberbullismo

L’ISTAT condurrà rilevazioni biennali su questi fenomeni giovanili la fine di identificarne le caratteristiche, i soggetti a rischio, i fattori e le conseguenze psicologiche che producono. La Presidenza del Consiglio dei Ministri invierà alle Camere un rapporto di sintesi con i risultati ISTAT e lo stato di attuazione delle misure nelle scuole secondarie.

Più responsabilità genitoriale

Il decreto aggiorna inoltre le comunicazioni dei fornitori di servizi online, richiamando però sul punto anche la responsabilità genitoriale prevista dall’ articolo 2048 del codice civile per i danni causati dai figli minori nel mondo online.

Campagne su uso responsabile della rete

La Presidenza del Consiglio promuoverà campagne informative sull’uso consapevole della rete e sui suoi rischi. Il Ministero dell’Istruzione e le scuole promuoveranno infine la conoscenza del numero 114, strumento fondamentale per esternare il disagio e chiedere aiuto.

 

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ammenda

Ammenda: breve guida Ammenda: cos’è, differenze con multa e sanzione amministrativa, normativa e modalità di esecuzione

Cos’è l’ammenda

L’ammenda è una pena pecuniaria prevista dall’ordinamento penale italiano, applicata in caso di contravvenzioni, ossia violazioni meno gravi rispetto ai delitti. Si distingue nettamente dalla multa, dalla sanzione amministrativa e ha specifiche modalità di applicazione, pagamento, riscossione ed eventuale estinzione.

La corretta comprensione di questa pena e delle sue implicazioni è fondamentale per orientarsi nel sistema sanzionatorio penale italiano, anche in chiave difensiva e preventiva.

Definizione 

L’ammenda, ai sensi dell’art. 26 del codice penale, è una sanzione pecuniaria che si applica a seguito della commissione di contravvenzioni. La sua funzione è prevalentemente afflittiva e patrimoniale e non comporta restrizioni della libertà personale. L’importo è determinato dal giudice sulla base dei criteri indicati nell’art. 133 c.p., tenendo conto della gravità del fatto, delle modalità della condotta e delle condizioni economiche del reo.

Differenza tra ammenda, multa e sanzione amministrativa

Nel sistema sanzionatorio italiano, è essenziale distinguere tra:

  • ammenda: si applica per contravvenzioni (es. guida senza casco, violazioni minori del Codice della strada che costituiscono reato);
  • multa: prevista per i delitti, secondo l’art. 24 c.p;
  • sanzione amministrativa pecuniaria: disciplinata dalla legge n. 689/1981, si applica per illeciti non penalmente rilevanti, e viene irrogata da autorità amministrative (es. mancato pagamento di un pedaggio autostradale).

La differenza più rilevante tra ammenda e sanzione amministrativa è che la prima è una vera e propria pena afflittiva di natura penale, iscritta nel casellario giudiziale, mentre la seconda consegue alla commissione di un illecito di natura amministrativa, privo di rilevanza penale.

Normativa di riferimento

La disciplina di questa pena è contenuta in diverse disposizioni del codice penale, in particolare:

  • art. 26 c.p. – definizione della pena;
  • art. 133 e 133-bis c.p. – criteri per la determinazione della pena;
  • art. 136 c.p.  conversione pene pecuniarie non eseguite;
  • art. 460 c.p.p. – decreto penale di condanna, spesso applicabile alle contravvenzioni punite con ammenda.

Ammenda e oblazione

L’oblazione è un istituto che consente all’imputato l’estinzione anticipata del reato contravvenzionale, pagando una somma pari a una terza parte del massimo dell’ammenda prevista dalla legge per la contravvenzione. È regolata dagli articoli 162 e 162-bis c.p. e può essere:

  • obbligatoria: è prevista quando le contravvenzioni sono punite solo con la pena dell’ammenda;
  • facoltativa: quando le contravvenzioni sono punite in alternativa con l’arresto o l’ammenda.

L’oblazione evita la condanna e la conseguente iscrizione nel casellario giudiziale, ma è ammessa solo per le contravvenzioni punite con sola ammenda o congiuntamente con l’arresto.

Ammenda e casellario giudiziale

La condanna penale alla pena dell’ammenda è iscritta nel casellario giudiziale, salvo nei casi in cui l’ammenda venga applicata con il decreto penale di condanna e sia poi estinta per effetto di oblazione o altra causa estintiva del reato. Questa iscrizione può avere rilievo in ambito lavorativo, concorsuale o per il rilascio di certificazioni pubbliche.

Pagamento dell’ammenda e riscossione coattiva

Il pagamento deve avvenire nei termini stabiliti dal provvedimento di condanna.

In caso di inadempimento, si procede con:

  • la riscossione coattiva;
  • la conversione in libertà controllata o lavoro di pubblica utilità se il condannato è insolvente e sussistono le condizioni  previste.

La giurisprudenza chiarisce che la conversione non è automatica: il giudice valuta la situazione economica e può disporre misure alternative solo se sussiste l’assoluta impossibilità al pagamento.

Conversione pena detentiva in pena pecuniaria

Anche una pena detentiva per contravvenzione può essere convertita in pena pecuniaria.

Il tasso di conversione, in base a quanto previsto dall’articolo 135 c.p è di 250 euro per ciascun giorno di pena detentiva sostituita, salvo diversa determinazione del giudice. In questi casi, la pena si tramuta in ammenda, pur essendo stata originariamente prevista la pena dell’arresto.

 

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cellulare protetto

Reato rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto Per la Cassazione l'accesso a WhatsApp da un cellulare protetto da password integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico

Rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto

Rubare messaggi da cellulare protetto: con la sentenza n. 19421/2025, la Corte di cassazione ha chiarito che WhatsApp è a tutti gli effetti un sistema informatico protetto. Di conseguenza, accedervi abusivamente, anche solo per estrarre messaggi da utilizzare in giudizio, integra il reato previsto dall’articolo 615-ter del codice penale, punito con la reclusione fino a dieci anni nei casi più gravi.

Il principio assume particolare rilievo in un contesto in cui le chat private vengono spesso utilizzate come prova in ambito familiare, ad esempio nei giudizi di separazione o di addebito.

Il caso: accesso abusivo al telefono dell’ex moglie

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’imputato si era impossessato del telefono cellulare della ex moglie, dispositivo protetto da password, ed era riuscito a estrarre alcuni messaggi WhatsApp scambiati con un’altra persona. Successivamente, aveva consegnato quei messaggi al proprio avvocato, con l’obiettivo di utilizzarli nel giudizio di separazione.

Nonostante la Corte d’appello avesse ridotto la pena inflitta, è stata comunque confermata la responsabilità dell’imputato per i reati di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) e concorso formale di reati (art. 81 c.p.).

La motivazione

Secondo i giudici, la condotta dell’imputato ha violato il “domicilio informatico” della persona offesa, ossia quello spazio digitale tutelato dalla legge come estensione del domicilio fisico (ai sensi dell’art. 14 della Costituzione). Il dispositivo era nella esclusiva disponibilità della donna ed era protetto da password, a conferma della volontà di escludere terzi dall’accesso ai suoi dati personali.

Il reato di cui all’art. 615-ter c.p., introdotto dalla legge 547/1993, punisce chiunque si introduce abusivamente o si mantiene all’interno di un sistema informatico o telematico contro la volontà dell’avente diritto, proteggendo la riservatezza dei dati personali e la sicurezza delle informazioni digitali.

Anche WhatsApp è sistema informatico protetto

La Cassazione ha ritenuto che l’applicazione WhatsApp rientra nella nozione di sistema informatico, poiché combina componenti software, hardware e reti telematiche per consentire lo scambio di messaggi, immagini e video.

Come già chiarito in giurisprudenza in merito alle caselle e-mail, anche uno spazio di memoria protetto da password, come quello di WhatsApp, rappresenta una porzione riservata del sistema informatico, il cui accesso indebito costituisce un illecito penale.

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permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti: troppo breve il termine per il reclamo La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il termine di 24 ore per il reclamo contro i permessi negati ai detenuti

Permessi negati ai detenuti

Con la sentenza n. 78/2025, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittimo il termine di 24 ore previsto per la proposizione del reclamo da parte del detenuto contro il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza nega un permesso, anche nei casi di grave emergenza familiare, come il pericolo imminente di vita di un familiare o convivente.

Il giudizio di legittimità è scaturito da una questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, che ha espresso dubbi circa la compatibilità di tale termine con l’art. 24 della Costituzione, che tutela il diritto di difesa.

Il caso concreto esaminato dalla Corte

Nel procedimento oggetto della pronuncia, un detenuto aveva chiesto un permesso per visitare la sorella affetta da tumore. Il Magistrato di sorveglianza aveva respinto la richiesta e il detenuto aveva presentato reclamo lo stesso giorno della notifica del provvedimento, riservandosi però di motivarlo successivamente.

Solo dopo aver ottenuto la documentazione medica acquisita d’ufficio dal Magistrato, il difensore del detenuto aveva potuto reiterare il reclamo, corredandolo dei motivi. Tuttavia, il termine previsto dall’art. 30-bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975) per impugnare il diniego è di sole 24 ore.

Tutela effettiva del diritto di difesa

La Corte costituzionale ha accolto i dubbi di legittimità, osservando che il termine di 24 ore non consente al detenuto né di ottenere adeguata assistenza legale né di accedere alla documentazione necessaria per motivare il reclamo in modo efficace.

Richiamando un precedente orientamento (sentenza n. 113/2020, relativa ai permessi premio), la Corte ha stabilito che il termine debba essere elevato a 15 giorni, in analogia con quanto previsto dall’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario per altri reclami.

Il legislatore può intervenire

Pur fissando in via provvisoria un termine di 15 giorni, la Corte ha sottolineato che resta ferma la facoltà del legislatore di stabilire un termine diverso, purché questo rispetti il diritto alla difesa e sia coerente con la natura urgente del provvedimento.