appropriazione indebita

Appropriazione indebita: incostituzionali 2 anni di carcere La Corte Costituzionale ha ritenuto illegittimo l'innalzamento della pena minima per il reato di appropriazione indebita

Pena minima appropriazione indebita

Il brusco innalzamento della pena minima per l’appropriazione indebita, portata da quindici giorni a due anni di reclusione dalla legge n. 3 del 2019 è sprovvisto di qualsiasi plausibile giustificazione ed è, già per questa ragione, costituzionalmente illegittimo. Così ha deciso la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 46-2024, accogliendo la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, di fronte al quale pendeva un processo per appropriazione indebita del valore di 200 euro, commessa da un agente immobilitare che aveva restituito soltanto in parte al proprio cliente la somma ricevuta a titolo di cauzione per un contratto di locazione, poi non conclusosi.

Discrezionalità del legislatore

La Corte ha ricordato che il legislatore gode di ampia discrezionalità “nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato”. Tuttavia, “discrezionalità non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona
deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”.
Il controllo sul rispetto di questi limiti – prosegue la sentenza – spetta alla Corte costituzionale, che “è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”.

Aumento pena minima appropriazione indebita

Alla luce di questi principi, la Consulta ha osservato che l’aumento della pena minima per l’appropriazione indebita deciso nel 2019 è stato voluto da una legge la cui finalità essenziale era quella di combattere in modo più efficace la corruzione. “Resta però del tutto oscura – ha osservato il giudice del leggi – la ragione che ha indotto il legislatore a innalzare a due anni la pena minima, che dal 1931 al 2019 era stata pari a quindici giorni di reclusione. Ciò “a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti”.

E i fatti meno gravi di appropriazione indebita, ai quali deve applicarsi la pena minima, “nella gran maggioranza dei casi nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione di ‘fondi neri’ dai quali poter attingere per tale scopo”.
Una pena simile, d’altra parte, appare manifestamente sproporzionata rispetto a quella minima (di sei mesi di reclusione) oggi prevista per un furto e una truffa che, in ipotesi, producano esattamente lo stesso danno patrimoniale di 200 euro.

Cancellazione pena minima

Il rimedio appropriato alla violazione della Costituzione riscontrata – ha sottolineato infine la Corte – è  semplicemente, la cancellazione della pena minima, che resterà così automaticamente fissata in quella prevista in generale dal codice penale per la reclusione, pari appunto a quindici giorni.
Resterà poi libero il legislatore di valutare se stabilire un nuovo minimo di pena, nel rispetto del principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena.

Allegati

lavori pubblica utilità

Lavori pubblica utilità: al via il portale nazionale Partita in 12 tribunali e relativi UEPE la sperimentazione della piattaforma sui lavori di pubblica utilità

Portale nazionale LPU

Una piattaforma che indica dove si può fare domanda per svolgere lavori di pubblica utilità e in quali settori. E’ partita la sperimentazione del portale nazionale dedicato che, tramite un sistema di geolocalizzazione, renderà la ricerca più veloce ed efficiente per operatori del settore giustizia e cittadini. Ne dà notizia gNews, il quotidiano online del ministero della giustizia.

Per la fase iniziale sono 12 i tribunali e relativi uffici di esecuzione penale esterna coinvolti: Ancona, Bari, Lucca, Castrovillari, Marsala, Milano, Pescara, Roma, Sassari, Savona, Torre Annunziata e Udine.

LPU: i dati

Il portale, presentato il 21 marzo presso la sede del dicastero, è stato sollecitato dalla crescente diffusione del ricorso a questa forma di esecuzione penale esterna. I dati mostrano che al 15 marzo, impegnati in lavori di pubblica utilità sono 27.102 imputati beneficiari della messa alla prova; 9.787 condannati per violazioni del codice della strada e 844 per violazione della legge sugli stupefacenti; 2.157 condannati a una pena sostitutiva di pena detentiva breve, introdotta dalla riforma Cartabia. Migliaia le convenzioni locali sottoscritte dai tribunali ordinari e decine gli enti del terzo settore con cui via Arenula ha stipulato convenzioni nazionali al fine di ospitare nelle proprie sedi imputati e condannati.

giurista risponde

Natura fidefacente atto pubblico e aggravante falsità materiale In quali casi un atto pubblico può avere, agli effetti della legge penale, natura fidefacente per la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Nei delitti di falso, l’elemento che caratterizza l’atto pubblico dotato di fede privilegiata è la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta cioè alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui. – Cass., sez. V, 13 marzo 2023, n. 10675.

Con la decisione in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata in relazione al ricorso proposto avverso una sentenza di appello da due imputati, condannati per una serie di delitti di falso fidefacente, ideologico e materiale, commessi nelle rispettive qualità di comandante dei vigili urbani e di agente dello stesso corpo di polizia.

Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, i due pubblici ufficiali avevano falsificato il registro di protocollo interno del Comando dei vigili urbani, attestando falsamente la spedizione del provvedimento di archiviazione di una contravvenzione elevata nei confronti di un privato e l’avvenuta ricezione della richiesta di archiviazione della stessa presentata dall’interessato, apponendo sulla relativa istanza, registrata solo in seguito al protocollo generale del Comune, il timbro dell’ufficio e il numero del protocollo interno.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, deducendo l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui confermava il giudizio di penale responsabilità in relazione alle condotte contestate, riconoscendo natura di atto pubblico a un mero registro interno, rispetto al quale, a parere della difesa, sarebbe mancata l’attribuzione del potere attestativo in capo al pubblico ufficiale circostanza che avrebbe impedito la considerazione di tale documento alla stregua di atto pubblico fidefacente.

La Corte ha ritenuto il ricorso fondato limitatamente alla natura di atto pubblico fidefacente del protocollo interno, non riconoscendo l’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p.

In via preliminare, ha precisato che le condotte contestate erano riferite a due diverse annotazioni apposte dagli imputati sul registro interno del corpo dei vigili urbani, attestanti una l’archiviazione del verbale di contravvenzione elevato nei confronti del privato, l’altra l’avvenuta ricezione dell’istanza di annullamento in autotutela presentata dallo stesso, con apposizione del timbro dell’ufficio e attribuzione del numero di protocollo. Quanto alla qualificazione giuridica, a parere della Corte le due condotte decettive integrano gli estremi del delitto di falso ideologico, estrinsecandosi in enunciati idonei ad assumere un significato descrittivo o constatativo non corrispondente ai fatti, ben potendo ritenersi sussistente la materialità della fattispecie di reato contestata. Quanto all’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p., prima di valutare se il registro di protocollo interno abbia natura fidefacente, la Corte si è interrogata sulla possibilità di qualificare lo stesso come atto pubblico. Come noto, il concetto di atto pubblico agli effetti della tutela penale è più ampio di quello civilistico e ricomprende ogni documento formato dal pubblico ufficiale nell’esercizio della sua funzioni avente l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione. Ne consegue che è atto pubblico ogni documento redatto dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni, rientrando nella tutela prevista dalla norma non solo gli atti destinati a spiegare efficacia nei confronti dei terzi, ma anche gli atti meramente interni, formati dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni per documentare fatti inerenti all’attività da lui svolta e alla regolarità delle operazioni amministrative cui è addetto. Nel caso di specie, dal momento che il registro di protocollo interno ha avuto la funzione di documentare fatti inerenti alla attività dei pubblici ufficiali e alla regolarità delle operazioni amministrative, a parere della Corte lo stesso è espressione di un potere di autonomia organizzativa dell’amministrazione e deve essere considerato atto pubblico.

Tanto chiarito in relazione alla nozione di atto pubblico rilevante ai fini penali, la Corte ha scrutinato l’ulteriore profilo attinente alla natura fidefacente degli atti incriminati.

Secondo il Consiglio ciò che caratterizza l’atto pubblico dotato di fede privilegiata è la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta, cioè, alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui. Si tratta di atti espressivi di una speciale potestà documentatrice, attribuita sulla base di una legge, di un regolamento, anche interno, o desumibile dal sistema, in forza della quale l’atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l’accoglimento della querela di falso o con sentenza penale.

Ne consegue che, quanto alla delimitazione dell’ambito operativo della circostanza aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p. in tema di falso ideologico la natura di atto pubblico di fede privilegiata necessita del concorso di un duplice requisito dovendo, da un lato provenire da un pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della p.a. ad attribuire all’atto pubblica fede, dall’altro contenere un’attestazione dell’autore di verità circa i fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza e della formazione dell’atto nell’esercizio del potere di pubblica certificazione. Per tali ragioni, sono documenti dotati di fede privilegiata solo quelli che, emessi dal pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della P.A., attestino quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza.

Ciò premesso, a parere della Corte, quanto al registro generale di protocollo, è ormai jus receptum che lo stesso sia atto di fede privilegiata, trattandosi di verificare piuttosto se lo sia anche il registro interno, quale risulta essere quello in rilievo nel caso di specie.

A tale proposito, la Corte ritiene che il protocollo interno istituito presso il settore dei Vigili Urbani non risponde all’esigenza di attestare la ricezione a una certa data di un dato atto proveniente dall’esterno e, dunque, di tutelare l’affidabilità dell’informazione pubblica, possedendo al contrario una capacità rappresentativa solo a livello interno e per meri fini di migliore organizzazione amministrativa. Pertanto, nel caso di specie, mancando l’attribuzione del potere attestativo e certificativo in capo al pubblico ufficiale, non può dirsi ricorrente la speciale fede privilegiata, con la conseguenza che la contestata aggravante deve essere esclusa.

Per tali ragioni, la Corte ha annullato la sentenza impugnata senza rinvio relativamente all’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p. esclusa, e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello territoriale per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, rigettando i ricorsi nel resto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 17 dicembre 2018, n. 3542; Cass., sez. V, 15 febbraio 2021, n. 15901; Cass., sez. V, 8 settembre 2021, n. 37880; Cass., sez. V, 10 maggio 2019, n. 38455; Cass., sez. V, 11 aprile 2019, n. 28047
giurista risponde

Infanticidio e condizione di abbandono morale e materiale Nel delitto di infanticidio è necessario che la gestante si trovi in una oggettiva condizione di abbandono morale e materiale o è sufficiente anche la soggettiva percezione di totale abbandono avvertita dalla stessa?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

L’integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto. – Cass., sez. V, 10 marzo 2023, n. 10284. 

Con la decisione in esame la quinta Sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a individuare uno degli elementi attinenti la tipicità del delitto di infanticidio.

Nel caso di specie, la Corte si è pronunciata sul ricorso proposto dall’imputata avverso la sentenza con cui la Corte d’Assise d’Appello aveva parzialmente riformato la pronuncia di condanna, confermando la penale responsabilità della stessa in relazione al delitto di omicidio aggravato dall’essere stato compiuto dalla madre nei confronti della neonata appena partorita.

Avverso la richiamata decisione proponeva impugnazione la ricorrente, deducendo l’errata applicazione dell’art. 578 c.p. quanto alla mancata derubricazione del fatto nel delitto di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.

Nel merito, la difesa richiamava una serie di elementi della condotta materiale valorizzabili nel senso della qualificazione del fatto ai sensi di infanticidio e non di omicidio doloso aggravato, quali la circostanza che la gravidanza fosse indesiderata e temuta, poiché non generata in un rapporto affettivo legittimo e palese; la strana ignoranza – al limite della credibilità – da parte delle persone vicine alla donna circa lo stato di gravidanza; la contrarietà dell’ambiente familiare ad una gravidanza e a un figlio derivanti da una relazione adulterina; la grave difficoltà dell’imputata a parlare della sua condizione in famiglia, tanto da non riferire nulla neppure quando i genitori si recarono a prenderla nel luogo ove aveva partorito. A sostegno della tesi difensiva, si menzionava pure l’ambiente familiare povero e carente culturalmente, all’origine dell’angoscia vissuta dalla donna durante la gravidanza a causa del pensiero del giudizio negativo dei parenti e del contesto sociale che, di conseguenza, aveva caratterizzato anche il momento del travaglio, vissuto con senso di solitudine.

Tali considerazioni, secondo la difesa, avrebbero inequivocabilmente dimostrato la sussistenza della condizione di abbandono materiale e morale indicativa del delitto di infanticidio.

Invero, la ricorrente richiama un orientamento di legittimità appena successivo alla decisione di appello, per cui lo stato di abbandono morale e materiale costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva, essendo sufficiente a integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna, collegata ad un ambiente familiare non comunicativo ed incapace di cogliere l’evidenza dello stato di gravidanza e di avvertire l’esigenza di aiuto e sostegno, in relazione alle delicate esperienze della gravidanza e del parto.

La Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, osservando che la questione della derubricazione del fatto nel diverso delitto di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale non è stata oggetto dei motivi di appello risultando, pertanto, preclusa al Supremo Collegio una qualificazione giuridica corretta. Nondimeno, la Corte ha condiviso le argomentazioni difensive nella parte in cui hanno valorizzato la nuova e diversa giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di infanticidio che ha individuato nello stato di abbandono per come soggettivamente percepito dalla vittima la situazione tipica necessaria a integrare la fattispecie in esame.

Il nuovo orientamento ermeneutico va, a parere della Corte, condiviso, avendo oculatamente superato il precedente indirizzo, caratterizzato da un certo grado di rigidità esegetica, che valorizzava l’assoluta mancanza di assistenza in cui era necessario che venisse a trovarsi l’autrice del reato, che in sostanza avrebbe dovuto vivere una situazione di disperante abbandono ed isolamento, senza neppure poter pensare di contare su una qualche forma di aiuto da parte delle persone vicine.

Alla stregua di tali obsoleti precedenti, per la configurabilità dell’infanticidio era necessario che la madre fosse lasciata in balia di sé stessa, senza alcuna assistenza e nel completo disinteresse dei familiari, in modo da trovarsi in uno stato di isolamento totale che non lasciasse prevedere alcuna forma di soccorso o di aiuto finalizzati alla sopravvivenza del neonato.

Nel caso in esame, la Corte ha condiviso la tesi difensiva, ritenendo che tale esegesi fosse ormai superata da una diversa elaborazione ermeneutica che, probabilmente al fine di adeguare l’opera di nomofilachia svolta da questa Corte alle diverse condizioni di vita sociale ed individuale in cui tali episodi avvengono, ha posto l’accento maggiormente sulla condizione soggettiva della donna e sulla sua percezione della realtà circostante nel momento in cui è realizzata la condotta delittuosa.

Secondo il nuovo orientamento, cui aderisce la Corte chiamata a pronunciarsi nel caso di specie, l’integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto.

La Corte ha evidenziato a tale proposito come già in risalenti pronunce è stata ritenuta irrilevante la disponibilità da parte dell’imputata di mezzi di sussistenza, essendo sufficiente la condizione di solitudine esistenziale e di abbandono determinata anche da un ambiente familiare indifferente alla vicenda umana e incapace di avvertire ogni esigenza di aiuto e sostegno necessari alla donna.

Corretta è parsa alla Corte la valorizzazione da parte della difesa delle condizioni di estremo disagio in cui è stata posta in essere la condotta materiale e dalle quali sarebbero potuti emergere elementi valorizzabili per qualificare il fatto ai sensi dell’art. 578 c.p., inteso non nel senso dell’accertamento di una oggettiva ed assoluta condizione di abbandono ma come la percezione di questa condizione sulla base di dati di fatto riscontrabili obbiettivamente e che caratterizzarono la vita familiare e sociale dell’imputata, tanto da indurre una convinzione di solitudine esistenziale e di derelizione.

Tuttavia, nonostante le ben sviluppate argomentazioni difensive, la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, poiché la questione della qualificazione giuridica della condotta materiale è stata proposta per la prima volta in sede di legittimità. Come noto, al giudice di legittimità è preclusa una nuova valutazione del fatto basata su elementi già presenti nel giudizio di merito, potendo la questione della qualificazione giuridica essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità unicamente nel caso in cui per la sua soluzione non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 23 maggio 2013, n. 26663; Cass., sez. I, 22 gennaio 2021, n. 28252; Cass., sez. I, 3 maggio 2022, n. 14713
Difformi:      Cass., sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41889; Cass., sez. I, 17 aprile 2007, n. 24903;
Cass., sez. I, 10 febbraio 2000, n. 2906; Cass., sez. V, 26 maggio 1993, n. 7756
giurista risponde

Truffa online e aggravante minorata difesa È configurabile l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. in relazione alle ipotesi delittuose di truffa online?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Nelle fattispecie di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on-line, sussiste l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. con riferimento alle circostanze di luogo note all’autore del reato e delle quali egli abbia approfittato poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. – Cass., sez. II, 13 marzo 2023, n. 10570.

Con la sentenza in esame, la seconda sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla configurabilità dell’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. nelle ipotesi di truffa commesse on-line.

La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare un ricorso proposto dall’indagato avverso l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame confermava la misura cautelare degli arresti domiciliari, già applicata dal giudice per le indagini preliminari in relazione a svariate ipotesi di truffa commesse on-line e avvinte dal vincolo della continuazione.

Nel caso di specie, il ricorrente deduceva l’inosservanza e la falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 640, comma 2, n. 2bis), c.p.p. e dell’art. 61, n. 5), c.p., facendo valere l’insussistenza dell’aggravante della minorata difesa nelle ipotesi criminose contestate di truffa on-line. Più precisamente, lo stesso rilevava l’erronea configurazione della fattispecie concreta, dal momento che non si sarebbe trattato di un’ipotesi di vendita, bensì di noleggio di veicoli on-line o, al più, di acquisto di un’area di parcheggio. Inoltre, rilevava l’oggettiva inesistenza dei presupposti fondanti la minorata difesa sì come evincibili dalle modalità della condotta e dagli strumenti impiegati per la commissione dell’illecito. Nella fattispecie in esame, infatti, a parere del ricorrente avrebbe ostato alla configurazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c.p. la diretta menzione dell’indagato nella contrattualistica come intestatario del “camper” proposto per il noleggio, come titolare dei conti correnti beneficiati, oltre che come diretto interlocutore, telefonico e via e-mail, con i potenziali interessati. Secondo le argomentazioni difensive, nel caso concreto non rappresentava e non avrebbe potuto rappresentare aggravante costitutiva della condotta criminosa l’omessa esibizione del bene, tipica della compravendita on-line, prassi ignota al noleggio di veicoli e impossibile per l’acquisto di un’area di parcheggio, non essendo in contestazione la sua presunta inesistenza o la non rispondenza qualitativa, bensì l’originario intendimento di disattendere l’obbligazione assunta, né, parimenti, una mera e generica difficoltà di rintraccio, evidentemente inconferente rispetto alla diversa ipotesi di anonimato, nel caso in esame, assolutamente non ravvisabile, per la diretta ed esplicita riconducibilità del presunto illecito e dei suoi strumenti funzionali all’indagato.

La Corte ha considerato il motivo di ricorso non fondato, osservando come, secondo la giurisprudenza di legittimità, nelle ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on line sussiste l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5), c.p., abbia approfittato, poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. A tale proposito, la Corte rileva come il presupposto della minorata difesa sia identificato da tale condivisibile giurisprudenza nella costante distanza tra i contraenti, i quali conducono le trattative interamente su piattaforme web, e valorizza il fatto che tale modalità di contrattazione richiede un particolare affidamento dell’acquirente nella buona fede del venditore, atteso che il primo si trova in una condizione di debolezza per una pluralità di ragioni che possono sussistere, in tutto o in parte, nelle diverse fattispecie concrete – in particolare, le possibilità per il venditore di: vendere sotto falso nome, schermando la propria vera identità (così da rendere più difficile la sua identificazione); non sottoporre il prodotto a controllo preventivo; rendere più difficile il controllo della sua affidabilità (controllo che è più agevole nel caso di contrattazione de visu); sottrarsi più agevolmente alle conseguenze della propria azione.

Sulla base delle predette argomentazioni, la Corte, ha ritenuto che l’ordinanza impugnata abbia dato adeguatamente conto, con una motivazione logica e non contraddittoria, di come l’indagato avesse consapevolmente approfittato delle particolari opportunità decettive offerte dalla distanza che caratterizza il commercio on-line, avendo evidenziato come, proprio per il fatto che i contratti avevano a oggetto il noleggio (e non la vendita) di un mezzo, le controparti contrattuali, ricevuta la documentazione relativa, avessero senz’altro confidato nella buona fede del medesimo, astenendosi dall’effettuare trasferte per visionare lo stesso mezzo, così da potere intrattenere anche un’interlocuzione de visu con lo stesso indagato, il quale, inoltre, avrebbe poi più facilmente potuto rendersi irreperibile e sottrarsi alle recriminazioni delle persone offese.

Per tali ragioni, i giudici di legittimità rigettano il ricorso, condannando di conseguenza il ricorrente al pagamento delle spese procedimentali ai sensi dell’art. 616, comma 1, c.p.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 22 marzo 2017, n. 17937; Cass., sez. II, 29 settembre 2016, n. 43706
giurista risponde

Maltrattamenti in famiglia e condotte non abituali È configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia nell’ipotesi in cui le condotte contestate non siano abituali?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. postula, da un lato, l’abitualità di condotte omogenee reiterate per un periodo di tempo apprezzabile e, dall’altro, una vessazione fisica o soltanto mentale che può essere realizzata anche in forma omissiva a condizione, però, che il soggetto agente rivesta una posizione di garanzia nei confronti della persona offesa. –
Cass., sez. VI, 14 marzo 2023, n. 10940.

La Corte di Cassazione, con la sentenza annotata, è chiamata a pronunciarsi in merito alla corretta configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia.Nel caso in esame il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame relativa alla misura degli arresti domiciliari disposta dal Giudice per le indagini preliminari nei confronti dell’odierna ricorrente, indagata per i delitti di maltrattamenti in famiglia – ex art. 572 c.p. – e di abbandono di persone minori o incapaci – ex art. 591 c.p. – per aver, in qualità di dipendente di una casa famiglia, realizzato atti vessatori nei confronti degli ospiti della struttura e per aver abbandonato gli stessi, incapaci di provvedere a se stessi per malattia di mente o corpo o vecchiaia.

Il ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale prospetta mere censure in fatto relative alla gravità indiziaria e alle lacune motivazionali del provvedimento impugnato.

Il Collegio, nell’accogliere i motivi di doglianza proposti dalla difesa, richiama gli episodi descritti nell’ordinanza ritenendoli non idonei ad integrare l’ipotesi di maltrattamenti in famiglia.

Prima di proceder alla disamina della pronuncia di legittimità, è opportuno ricordare alcuni aspetti essenziali della fattispecie in questione.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà e del decoro del soggetto passivo nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione e assoggettamento. Tali condotte, trattandosi di reato abituale, non possono essere rare od occasionali ma devono essere connotate da abitualità, ovvero devono essere reiterate per un periodo di tempo apprezzabile. L’abitualità, peraltro, non è esclusa nel caso in cui gli atti lesivi siano alternati con periodi di normalità che abbiano una durata tale da non interrompere la fattispecie criminosa.

Quanto all’elemento soggettivo è, invece, sufficiente il dolo generico, ossia la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività vessatoria. Invero, le singole azioni assurgo a delitto di maltrattamenti in quanto l’agente consapevolmente reitera, con frequenza e continuità, le condotte offensive.

Ciò premesso, la Suprema Corte ritiene che le condotte contestate all’indagata non siano suscettibili di concretare l’ipotesi di maltrattamenti poiché dagli episodi descritti nell’ordinanza non emerge il necessario requisito dell’abitualità.

Per altro verso, la Corte riconosce la possibilità che la vessazione fisica o mentale possa essere realizzata in forma omissiva ma a condizione che il soggetto agente rivesta una posizione di garanzia nei confronti delle persone offese, altrimenti la responsabilità penale finirebbe con il trascendere in una mera responsabilità morale o per il tipo di autore.

Nel caso di specie l’indagata, pur ricoprendo un ruolo primario, non era formalmente riconosciuta nella gestione del centro ma era una mera dipendente e, pertanto, non possono esserle attribuiti i poteri tipici di chi riveste una posizione di garanzia.

Alla luce delle esposte ragioni la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza con rinvio al Tribunale affinché chiarisca quali condotte siano suscettibili di integrare la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 7 febbraio 2019, n. 6126; Cass., sez. III, 12 febbraio 2018, n. 6724
giurista risponde

Rottamazione e procedure art. 13 D.Lgs. n. 74/2000 Gli accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie (c.d. “rottamazioni”) rientrano nel novero delle speciali procedure di cui all’art. 13, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Le speciali procedure conciliative di cui al D.L. 13 ottobre 2018, n.119, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2018, n.136 (e quelle analoghe previste dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 e dal D.L. 16 ottobre 2017, n. 148) sono comprese tra quelle indicate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000 in quanto, trattandosi di accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie, assicurano all’Erario il recupero delle somme dovute. A ciò deve aggiungersi che, fermo restando la concessione di un termine di tre mesi «per il pagamento del debito residuo», la causa di non punibilità di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 opera se entro la dichiarazione di apertura del dibattimento interviene non l’accordo tra contribuente e Fisco, ma l’integrale pagamento del debito. – Cass., sez. III, 14 marzo 2023, n. 10730.

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione è chiamata a valutare l’ambito applicativo della causa di non punibilità prevista dall’art.13, D.Lgs. 74/2000.

Nel caso di specie la Corte di appello, in conferma della decisione del giudice di prime cure, ha condannato l’imputato – quale amministratore unico di una società – per il reato di omesso versamento di IVA, di cui all’art. 10ter, D.Lgs. 74/2000.

Avverso tale sentenza la difesa ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, quale unico motivo, l’erronea applicazione degli artt. 51, c.p. e 13, D.Lgs. 74/2000 in relazione all’art. 10ter del medesimo decreto. In particolare, si contesta l’evidente contrasto tra l’attuale formulazione dell’art. 13, D.Lgs. 74/2000 e i nuovi strumenti posti a disposizione del contribuente per l’adempimento dei debiti tributari in quanto all’imputato, impossibilitato ad estinguere il debito prima dell’apertura del dibattimento, era stata concessa la possibilità di accedere alla definizione agevolata con riferimento alla totalità delle imposte da versare (tra cui l’IVA oggetto di imputazione). Secondo la tesi difensiva, quindi, l’accordo tra il contribuente e l’Amministrazione avrebbe costituito uno strumento idoneo all’estinzione del debito tributario, ossia una delle speciali procedure menzionate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000. Rimarcata la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata del citato art. 13, la difesa lamenta anche la mancata possibilità di estinzione del debito secondo le formalità previste dal D.Lgs. 74/2000 poiché, con l’apertura della procedura di fallimento, l’imprenditore è vincolato alle modalità delle procedure concorsuali e non può procedere liberamente al pagamento integrale dei debitori.

La Suprema Corte, nel disattendere le censure sollevate, condivide l’impostazione dei giudici di merito, ritenendola immune da censure data la mancanza del presupposto dell’invocata causa di non punibilità.

Invero, l’art. 13, comma 1, D.Lgs. 74/2000 stabilisce che «i reati di cui agli artt. 10bis, 10ter e 10quater, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso».
Il mancato pagamento integrale del debito tributario, dunque, è ostativo all’operatività della disposizione in questione e il piano concordato con l’Amministrazione finanziaria rappresenta un mero elemento da valutare positivamente in relazione alla condotta dell’imputato.
La Corte di legittimità, in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, precisa che le speciali procedure conciliative di cui al D.L. 13 ottobre 2018, n.119, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2018, n.136 (e quelle analoghe previste dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 e dal D.L. 16 ottobre 2017, n.148) sono comprese tra quelle indicate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000 in coerenza con la finalità deflattiva della norma (in tal senso anche Cass. 9 dicembre 2020, n. 34940).

Il legislatore, infatti, nel disciplinare i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ha richiamato, al fine di incentivare la riscossione delle entrate tributarie, le «speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento» previste dalle norme tributarie. Più precisamente, gli accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie (c.d. “rottamazioni”) sono pacificamente inclusi nel novero delle procedure di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 poiché assicurano all’Erario il recupero delle somme dovute. A ciò deve aggiungersi che lo stesso art. 13, nel tentativo di garantire la ragionevole durata del processo e assicurare al contribuente il tempo necessario per definire l’adempimento del debito, prevede espressamente che sia concesso un termine di tre mesi (prorogabile una sola volta per non oltre tre mesi) per il pagamento del debito residuo nel caso in cui, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il debito sia in fase di estinzione mediante rateizzazione. La rateizzazione, però, comporta la semplice rimodulazione della scadenza, ma non esclude la configurabilità del reato in caso di mancata soddisfazione totale del debito allo scadere del termine prestabilito.

Giova ricordare, infatti, che la causa di non punibilità di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 opera se entro la dichiarazione di apertura del dibattimento interviene non l’accordo tra contribuente e Fisco, ma l’integrale pagamento del debito.

La causa di non punibilità del reato, tra l’altro, non incide sulla struttura del reato né sulla illiceità della condotta, con la conseguenza che l’accordo tra contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito rimane circoscritto all’ambito tributario e non produce conseguenze sul piano penale.

Accertato il meccanismo di operatività dell’art. 13, D.Lgs. 74/2000 e la conformità ai principi costituzionali (ossia un equo contemperamento tra il diritto di difesa dell’imputato, ragionevole durata del processo e necessità di tutela dell’Erario), la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso in quanto la mancata applicazione della causa di non punibilità invocata dalla difesa non è affetta da alcuna criticità formale e sostanziale. Quanto alla doglianza relativa alle procedure concorsuali, invece, il Collegio osserva che non sussiste alcuna incompatibilità tra la dichiarazione di fallimento e la prosecuzione del pagamento dei debiti accumulati precedentemente con il Fisco.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 9 dicembre 2020, n. 34940; Cass., sez. III, 24 ottobre 2018, n. 48375
giurista risponde

Integrazione reato di scambio elettorale politico-mafioso Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso può ritenersi integrato anche nel caso in cui il sostegno elettorale non produca un risultato positivo?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

L’art. 416ter, c.p., secondo la vigente formulazione cui bisogna far riferimento ratione temporis, incrimina l’accordo in forza del quale due o più soggetti si scambiano la promessa del procacciamento di voti presso l’elettorato – con modalità tipicamente mafiose – e l’erogazione di un corrispettivo in denaro o in altre utilità. Trattandosi di un reato di pericolo non è rilevante se il sostegno elettorale porti, o meno, ad un risultato positivo e, peraltro, l’esistenza dell’intesa per il procacciamento di consensi elettorali può desumersi anche mediante la valorizzazione di indici fattuali, sintomatici della natura dell’accordo. – Cass., sez. I, 14 marzo 2023, n. 10704.

La questione posta al vaglio della Suprema Corte riguarda la configurabilità del reato di scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416ter c.p., con particolare riferimento alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito.

Nel caso di specie il Tribunale in funzione di giudice del riesame aveva rigettato la richiesta presentata nell’interesse dell’indagato in relazione al provvedimento con il quale il Giudice per le indagini preliminari aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari.

La vicenda trae origine da un accordo, concluso tra l’odierno ricorrente e un esponente di un’associazione criminale di tipo mafioso, avente ad oggetto la promessa del procacciamento di voti in occasione delle elezioni amministrative in cambio della promessa di una sistemazione lavorativa e di altre utilità a beneficio del figlio dell’esponente del clan in questione.

L’imputato, a mezzo del suo difensore, ha presentato ricorso per cassazione denunciando un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito. La difesa ha censurato la decisione del Tribunale anche per aspetti strettamente processuali, quali la manifesta illogicità della motivazione in punto di gravità indiziaria, l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali per insussistenza della connessione qualificata ex art. 12, c.p.p., nonché la carenza della motivazione in tema di esigenze cautelari.

La Corte di Cassazione, pur ritenendo alcune deduzioni difensive non ammissibili in sede di legittimità in quanto integralmente versate in fatto, ha analizzato l’ambito applicativo dell’art. 416ter, c.p. richiamando, inevitabilmente, le varie formulazioni che si sono susseguite nel tempo.
Come anticipato, l’art. 416ter, c.p. punisce l’accordo in forza del quale più soggetti si scambiano la promessa del procacciamento di voti presso l’elettorato e l’erogazione di un corrispettivo in denaro o altra utilità, avvalendosi del vincolo di assoggettamento ed intimidazione derivante dall’appartenenza ad un sodalizio di tipo mafioso.

L’art. 416ter, c.p. è stato introdotto nel codice penale dal D.L. 8 giugno 1992, n.306, sotto la spinta emergenziale delle stragi di mafia, al fine di colpire già nella fase genetica l’insaturazione di rapporto tra il mondo della politica e quello dei sodalizi criminali. Tale disposizione è stata oggetto di significative modifiche, dapprima con la L. 17 aprile 2014, n. 62 e, da ultimo, con la L. 21 maggio 2019, n. 43.

La L. 62/2014 è intervenuta sia sul piano della condotta incriminata (notevolmente ampliata rispetto alla formulazione previgente), sia su quello della pena edittale comminata. In particolare, è stato espressamente specificato che l’oggetto della pattuizione illecita debba includere le modalità di acquisizione del consenso elettorale, tramite metodo mafioso come descritto nell’art. 416bis, comma 3, c.p., non essendo sufficiente il mero accordo sulla promessa di voti in cambio di denaro (in tal senso Cass. 31 agosto 2016, n. 36079). Il legislatore, quindi, ha introdotto un requisito modale dell’accordo che deve essere specificatamente accertato, ossia il vincolo di assoggettamento ed intimidazione derivante dall’appartenenza al sodalizio mafioso.

La novella legislativa, incriminando anche la condotta del soggetto che promette di procacciare i suffragi, ha trasformato il reato da plurisoggettivo improprio a plurisoggettivo proprio e, infine, ha ampliato l’oggetto della prestazione che non è più circoscritto al solo denaro, ma è esteso «ad altre utilità».
Applicando tali principi al caso di specie, il Collegio ha così motivato l’infondatezza dei primi motivi di ricorso, con i quali la difesa ha contestato un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito e la manifesta illogicità della motivazione in punto di gravità indiziaria.
Più precisamente, la Prima Sezione, tenendo conto dell’epoca in cui si colloca il fatto ascritto all’indagato, ha precisato che ai fini della configurabilità dell’art. 416ter c.p. rileva la mera promessa. Inoltre, nel richiamare un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ribadito che l’esistenza dell’intesa per il procacciamento di consensi elettorali con ricorso a modalità mafiose può desumersi anche in via indiziaria, mediante la valorizzazione di indici fattuali, quali la fama criminale del procacciatore, l’assoggettamento alla forza intimidatrice e l’utilità di tale apporto per il reclutamento elettorale nella zona d’influenza (così anche Cass. 14 giugno 2019, n. 26426).
La Corte, quindi, ha ritenuto il provvedimento impugnato non affetto da manifesta illogicità soprattutto alla luce della prova della consapevolezza del metodo mafioso. Invero, trattandosi di un reato di pericolo, è sufficiente che il procacciatore eserciti un condizionamento diffuso, fondato sulla prepotenza e sopraffazione – risultando irrilevante il raggiungimento di un risultato positivo – e che il politico sia consapevole dell’appartenenza dell’interlocutore a un sodalizio di tipo mafioso.
Da ultimo, la difesa ha contestato anche l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali per insussistenza della connessione qualificata – ex art. 12, c.p.p. – tra il reato di cui all’art. 416bis c.p. e quello di cui all’art. 416ter c.p.

I giudici di legittimità hanno invocato il principio affermatosi con le Sezioni Unite Cavallo (Cass. Sez. Un. 2 gennaio 2020, n. 51) secondo cui il divieto imposto dall’art. 270, c.p.p. non opera quando tra i reati vi sia connessione qualificata, con la conseguenza che il provvedimento autorizzativo delle intercettazioni può essere validamente ricondotto ad un reato diverso da quello per cui è stato espressamente rilasciato (fermo restando che si tratti di fattispecie inclusa nel novero di cui all’art. 266 c.p.p.).

Ciò premesso, nel disattendere questo motivo di doglianza, è stato ribadito che quando si parla di reato si fa riferimento non al “titolo di reato”, ma al “fatto-reato” (inteso come determinato accadimento storico inquadrabile in una fattispecie criminosa) e che il rapporto di connessione qualificata riguarda i “fatti-reato” nella loro espressione oggettiva.

In particolare, essendo applicabile la previgente formulazione dell’art. 270 c.p.p., i risultati delle intercettazioni autorizzate per un determinato fatto-reato sono utilizzabili anche per gli ulteriori fatti-reati, legati al primo dal vincolo della continuazione ex art. 12, lett. b), c.p.p., senza la necessità che il disegno criminoso sia comune a tutti i correi (in tal senso Cass. 29 settembre 2021, n. 37697).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 14 giugno 2019, n. 26426
giurista risponde

Mobbing verticale e maltrattamenti A quali condizioni il cosiddetto “mobbing verticale” rientra nella fattispecie tipica di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.? Quale rilevanza assume ai fini della configurazione del reato la condotta posta in essere dalla vittima?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private; mentre, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con la abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell’accertamento della consumazione del delitto. – Cass. VI, 19 settembre 2023, n. 38306.

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la questione inerente alla configurabilità del delitto di maltrattamenti ad opera del datore di lavoro nei confronti della propria dipendente nell’ambito di un rapporto lavorativo sfociato nel licenziamento per giusta causa di quest’ultima. Come si evince dall’analisi della vicenda fattuale, infatti, l’imputato condannato in primo grado ma assolto dalla Corte d’Appello, aveva posto in essere una serie di vessazioni in danno di una sua dipendente all’epoca in cui questa versava in una condizione di particolare vulnerabilità stanti sia il suo stato di gravidanza e sia le difficili condizioni economiche.

Nell’accogliere il ricorso di quest’ultima, costituitasi parte civile nel processo, la Corte di Cassazione, censura la sentenza di secondo grado per un duplice ordine di ragioni.

In primis, viene cassato, sotto il profilo processuale, l’iter motivazionale che aveva condotto la Corte d’Appello a ribaltare il verdetto di primo grado. In particolare, viene ritenuta non sufficientemente motivata la sentenza di secondo grado in merito al vaglio delle risultanze istruttorie poste alla base del verdetto assolutorio. A tal riguardo, la Suprema Corte richiama, invero, il granitico orientamento ermeneutico della giurisprudenza di legittimità a mente del quale, pur non occorrendo la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in caso di ribaltamento in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado, nondimeno è necessario che il giudicante del secondo grado fornisca adeguata giustificazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella svolta dal giudice di prime cure; dando altresì atto del percorso logico argomentativo che ha condotto a tale soluzione (anche Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748, “Mannino”).

Sempre sotto il profilo procedurale, poi, la Suprema Corte censura la sentenza di secondo grado in merito al vaglio di attendibilità della persona offesa, nonché, in modo particolare, alla qualificazione della denuncia querela presentata da quest’ultima che la Corte d’Appello aveva svalutato, ritendendola strumentale. Sotto tale profilo, viene di fatti ribadito, sulla scorta di un risalente indirizzo interpretativo, che la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati (così Cass., sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553). Di talché, nessun rilievo ai fini della configurazione del delitto in esame poteva assumere la circostanza, negativamente valorizzata dal giudice di secondo grado, per cui la denuncia querela era stata proposta dalla dipendente solo a seguito del licenziamento spiccato nei suoi confronti dal datore di lavoro.

In secundis, sotto il profilo sostanziale, i giudici di Piazza Cavour affermano che mentre il licenziamento per giusta causa, collocandosi in un rapporto relazionale tra le parti private (datore-dipendente), presuppone condotte di grave inadempimento del lavoratore tali da minare il rapporto di fiducia, integra l’illecito penale di mera condotta dei maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, la condotta tenuta dal datore nei confronti del dipendente concretantesi in atti abituali di prevaricazione ed umiliazione.

La perseguibilità d’ufficio di tale reato, del resto, supera tranchant ogni rilievo che era stato svolto dalla Corte di Appello in punto di tardività e, dunque, di strumentalità della querela; rilievo che la Suprema Corte ritiene, difatti, di censurare.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 18 gennaio 2023, n. 8729
giurista risponde

Turbata libertà degli incanti e concorsi P.A. Nella nozione di “gara”, oggetto della fattispecie di turbata libertà degli incanti punita ai sensi dell’art. 353 c.p., rientrano anche i concorsi per il reclutamento del personale di cui si avvale la Pubblica Amministrazione?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

La lettera della legge, pur interpretata nel senso estensivo indicato dalla giurisprudenza, nondimeno restringe l’area di tutela e delimita il perimetro operativo della fattispecie di cui all’art. 353 c.p. alle sole procedure indette per la cessione di un bene ovvero per l’affidamento all’esterno della esecuzione di un’opera o della gestione di un servizio. Dunque, non vi è nessun riferimento ai concorsi per il reclutamento del personale. – Cass. VI, 24 maggio 2023, n. 38127.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la condotta di un Segretario comunale, nonché Presidente della commissione e Responsabile unico del procedimento, il quale avrebbe agevolato con collusioni e/o mezzi fraudolenti, in relazione al concorso per titoli ed esami per la copertura di un posto a tempo indeterminato e part time di istruttore direttivo, il superamento di detto concorso di una dipendente del comune, con la quale aveva, peraltro, una frequentazione anche di carattere sessuale.

In particolare, il Tribunale di prime cure, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico Ministero avverso l’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la domanda di applicazione della custodia in carcere, applicava nei confronti dell’imputato la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio per la durata di sei mesi, in relazione al reato di cui all’art. 353 c.p. Invero, secondo il Tribunale, la nozione di “gara” richiesta dalla fattispecie incriminatrice della turbata libertà degli incanti, comprenderebbe qualsiasi procedura pubblica finalizzata alla scelta del contraente e, dunque, anche la procedura concorsuale per titoli ed esami per la copertura di un posto di istruttore direttivo in seno all’amministrazione comunale.

Avverso detta sentenza proponeva, quindi, ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato il quale, tra i motivi di ricorso, contestava la erronea qualificazione del fatto che, secondo il ricorrente, sarebbe al più sussumibile nel delitto di abuso d’ufficio previsto ai sensi dell’art. 323 c.p piuttosto che nella fattispecie contestata di turbata libertà degli incanti.

La Corte di Legittimità, chiamata a decidere al riguardo, evidenzia preliminarmente che l’intervenuto ampliamento della portata della fattispecie della turbata libertà degli incanti non discende affatto dalla genericità della descrizione del fatto da parte del legislatore, ma dalla interpretazione data nel corso del tempo dalla giurisprudenza. Infatti, la Corte di Cassazione ha ricordato che la precedente giurisprudenza di legittimità, privilegiando una operazione di tipo estensiva, ha in molteplici occasioni ritenuto che nella nozione di “gara” rientra qualsivoglia procedura di gara, anche informale o atipica, a condizione che l’avviso informale o il bando e comunque l’atto equipollente indichino previamente i criteri di selezione e di presentazione delle offerte, ponendo i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto e i criteri in base ai quali formulare le proprie (in questo senso, Cass. 6 dicembre 2018, n. 2795). Tuttavia, con la sentenza in commento, la Corte di legittimità, discostandosi dai precedenti giurisprudenziali, ricorda che l’attività ermeneutica trova un limite nel significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore a cui il giudice non può assegnare un significato diverso da quello proprio, da quello semantico, al fine di ricercare profili ulteriori in grado di colorare in senso estensivo il perimetro dell’illecito. Ciò sulla scorta dei principi che regolano l’ordinamento giuridico tra cui quello della certezza del diritto, della tipicità della fattispecie incriminatrice nonché il principio del divieto di analogia in malam partem, da ultimo ricordato dalla Corte costituzionale con la recente sent. 98/2021.

In virtù di tali principi, la Corte di Cassazione, ritenendo fondato il ricorso, conclude che i concorsi per il reclutamento del personale non possono essere ricondotti alla fattispecie di turbata libertà degli incanti, ma al più al reato di abuso di ufficio, ove ne siano sussistenti i presupposti e ciò anche alla luce delle modifiche apportate all’art. 323 c.p. dalla L. 16 luglio 2020, n. 176.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Cass. pen., 13 aprile 2017, n. 9385