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Delitto di concussione e mancanza di coercizione psicologica È configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta intimidatoria del pubblico agente non determini uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo (Cass., sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 36951).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’applicazione del regime dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., in luogo della fattispecie di concussione ex art. 317 c.p.

La Corte d’Appello territoriale, invero, aveva confermato la condanna del ricorrente per i delitti di concussione tentata e consumata, dichiarando inammissibile l’appello proposto dalla parte civile. L’imputato, all’epoca dei fatti appuntato scelto dai Carabinieri, era stato ritenuto responsabile di detti reati in relazione alle condotte tenute al fine di ottenere il risarcimento dei danni della propria autovettura, commessi da minori non identificati. Tali condotte sono consistite nel convocare i genitori dei minori sospettati di essere tra i possibili autori del danneggiamento, presentandosi, in una occasione, in divisa, nel chiedere loro con insistenza di individuare i colpevoli o di contribuire tutti alla riparazione dell’auto, sulla base di preventivi presentati dallo stesso ricorrente, richiesta cui aderivano solo alcuni dei genitori, raccogliendo una somma di danaro che, tuttavia, veniva rifiutata dall’imputato, poiché inferiore all’importo richiesto dallo stesso nei preventivi predetti.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo, in primo luogo, la mancanza della condizione di coazione psicologica delle vittime. Egli, infatti, aveva agito in qualità di privato cittadino e senza provocare nei genitori – come riferito da un teste – alcuna forma di timore riverenziale.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati il primo e il terzo motivo, cui assorbiva gli altri.

La Corte, preliminarmente, evidenziava che il delitto di concussione richiede una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, commessa con abuso dei suoi poteri o delle sue qualità, che incida in modo significativo sulla libertà di autodeterminazione del destinatario, costringendolo alla dazione o alla promessa indebita.

È fondamentale, dunque, ai fini della configurabilità del reato, che l’agente pubblico si sia avvalso della posizione di preminenza sul privato, per cercare di prevaricarne le scelte e le decisioni (Cass., sez. VI, 4 giugno 2021, n. 24560), atteso che l’avverbio “indebitamente”, utilizzato nell’art. 317 c.p., qualifica non già l’oggetto della pretesa del pubblico ufficiale, la quale può anche non essere oggettivamente illecita, quanto le modalità della sua richiesta e della sua realizzazione (Cass., sez. VI, 1° febbraio 2011, n. 27444).

Le Sezioni Unite hanno chiarito che il delitto di concussione è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius”, da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita; inoltre, si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319quater c.p., la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228).

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, perimetrato il confine tra le due modalità di realizzazione della condotta del pubblico agente chiarendo, in primo luogo, che l’abuso della qualità – c.d. abuso soggettivoconsiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute. In secondo luogo, le Sezioni Unite evidenziavano che tale abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva (rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 319quater c.p.), deve sempre concretizzarsi in un facere” (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato che deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta. In terzo luogo, l’abuso dei poteri – c.d. abuso oggettivo – consiste invece nella strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalità, imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa. Infine, tale abuso può essere realizzato in forma sia commissiva che omissiva, potendo il pubblico funzionario deliberatamente astenersi dall’esercizio dei propri poteri, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo o di ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altre utilità in cambio del sollecito compimento dell’atto richiesto.

Affinché possa configurarsi il delitto di concussione, occorre, dunque, che, attraverso tale abuso, dei poteri o delle qualità, il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, eserciti forme di pressione di tale intensità da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato.

Nel caso di specie, pertanto, ad avviso dei giudici di legittimità, la Corte territoriale, formulando una valutazione che esulava da tali coordinate ermeneutiche, si era limitata a porre l’accento su alcuni particolari di per sé non determinanti, quali la qualifica pubblicistica del ricorrente -indipendentemente da una sua effettiva strumentalizzazione, ma solo in quanto nota a tutti i genitori – e il fatto che lo stesso si sia presentato ad una riunione in divisa.

Invero, secondo quanto emerge dalle due sentenze di merito, l’imputato si era sostanzialmente limitato ad una generica pressione, prospettando le possibili ragioni di convenienza legate a eventuali indagini sui danneggiamenti o di carattere socio-familiare da parte dei servizi sociali, qualora non fossero stati individuati gli autori dei danneggiamenti ovvero non si fosse provveduto, in ogni caso, alla riparazione dell’auto privata del ricorrente.

Tale richiesta, sebbene posta in essere nei confronti di soggetti che ne conoscevano l’appartenenza all’Arma dei Carabinieri, non appare in alcun modo attuata con modalità tali da configurare quella indebita strumentalizzazione della qualifica o del potere idonea a coartare la volontà dei destinatari. Egli, infatti, si era limitato a chiedere loro di individuare i colpevoli o, comunque, di attivarsi al fine di risarcirlo del danno, pretesa quest’ultima che, sebbene censurabile sotto un profilo civilistico, non risulta accompagnata da alcuna prospettazione di un male ingiusto che ne giustifichi una rilevanza agli effetti penali (tale non potendosi intendere il generico riferimento alle indagini che sarebbero state svolte in caso di denuncia riguardante minorenni).

Siffatta condotta esorbita dal perimetro della “costrizione”, come sopra definita, trattandosi di una mera pressione che, oltre a non apparire correlata ad un abuso né dei poteri né della qualità del ricorrente, per le modalità con le quali è stata esercita non appare idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione dei destinatari della richiesta.

Deve, dunque, ribadirsi che non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo.

 

(*Contributo in tema di “Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

reato maternità surrogata

Il reato di maternità surrogata Cosa prevede la nuova legge che introduce il reato di maternità surrogata commesso all’estero da un cittadino italiano pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 18 novembre e in vigore dal 3 dicembre 2024

Maternità surrogata: reato universale

Nella giornata del 16 ottobre 2024 è arrivato il sì definitivo del Senato, al ddl n. 824 proposto da Fratelli d’Italia che ha reso la maternità surrogata un reato universale.

La nuova legge n. 169/2024, recante “Modifiche all’art. 12 della legge n. 40/2004, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano”, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 18 novembre per entrare in vigore il 3 dicembre.

Modifica della legge 40/2004

Il testo va a modificare l’articolo 12 della legge n. 40 del 19 febbraio del 2004, che punisce la realizzazione, la commercializzazione, l’organizzazione o pubblicizza il commercio dei gameti e degli embrioni o la surrogazione di maternità.

Al comma 6 dell’articolo 12 di detta legge il ddl aggiunge il seguente periodo: se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi allestero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana”. 

Condotte in paese straniero

Il provvedimento prevede in pratica l’applicazione della legge italiana anche quando le condotte punite dal comma 6 relative alla maternità surrogata vengono commesse in un paese straniero.

In questo modo si potranno perseguire penalmente anche le condotte, già punite dalla legge n. 40/2004, anche se poste in essere in un paese estero e anche qualora questo paese estero non le consideri un illecito penale.

Pene previste per reato di maternità surrogata

Il testo della nuova legge è lo stesso che era già stato approvato dalla Camera durante la prima lettura avvenuta nel luglio del 2023.

Durante l’iter la Lega aveva proposto un inasprimento ulteriore delle sanzioni derivanti dal reato portando la reclusione a 10 anni e la multa fino a 2 milioni di euro, ma la proposta è stata respinta.

Al reato di surrogazione di maternità si applicheranno, di conseguenza, le pene previste dallo stesso comma 6 ossia la reclusione da tre mesi a due anni e la multa da 600.000 euro fino a 1 milione di euro.

indulto

Indulto: guida completa Indulto: disciplinato dall’art. 174 c.p. è un provvedimento generale che condona in tutto o in parte la pena o la trasforma in un’altra specie

Cos’è l’indulto

L’indulto è una misura di clemenza che può essere concessa dallo Stato per ridurre, estinguere o commutare le pene inflitte a chi ha commesso reati, ma solo in determinate circostanze. Trattasi di un provvedimento di clemenza che consente infatti la riduzione, l’estinzione  e la commutazione della pena inflitta per determinati reati in un’altra specie di pena.

Esso è concesso dal Presidente della Repubblica ma, a differenza della grazia, che viene concessa  in relazione a casi singoli, l’indulto ha un carattere collettivo e si applica a categorie di detenuti.

Art. 79 della Costituzione: votazione e limiti di legge

L’istituto è previsto dall’articolo 79 della Costituzione, che definisce le modalità di approvazione della legge che lo contempla e i limiti applicativi. La norma recita infatti testualmente: “Lamnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione. In ogni caso l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge.” 

Articolo 174 c.p.: disciplina

L’indulto  disciplinato dall’articolo 174 del Codice penale, che stabilisce le modalità di applicazione e le condizioni necessarie per il suo utilizzo. Per prima cosa lo stesso può essere concesso per le pene detentive e pecuniarie. Esso non estingue infatti le pene accessorie e neppure gli altri effetti penali della sentenza di condanna, a mano che la legge che lo prevede non disponga diversamente.

Esso ha inoltre efficacia per:

  • reati non gravi: esclusi quindi quelli più gravi come i crimini legati a terrorismo, mafia, omicidi, ecc.;
  • pene detentive e pecuniarie: nel senso che il beneficio può riguardare sia le pene privative della libertà che quelle pecuniarie, riducendole o estinguendole in determinate proporzioni. Non vengono meno invece le misure di sicurezza e le pene accessorie.

Condizioni per la concessione dell’indulto

Questo beneficio non viene mai concesso in modo automatico. Le condizioni sono stabilite da apposite leggi, che determinano chi può beneficiarne. La legge deve infatti indicare nel dettaglio:

  • quali reati che sono esclusi dall’applicazione dell’indulto;
  • i limiti di pena per cui può essere concesso beneficio;
  • le categorie di detenuti a cui si può applicare.

Inoltre, la sua concessione deve essere preceduta da una valutazione politica, che prende in considerazione le circostanze storiche, sociali e giuridiche del momento.

Giurisprudenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha più volte esaminato l’indulto, con particolare attenzione agli ambiti di applicazione e alle modalità di calcolo delle pene. Una delle questioni più dibattute è se l’indulto possa estinguere completamente una pena, anche se il condannato ha commesso reati di grave entità.

In una sentenza del 2018, la Cassazione ha chiarito che l’indulto si applica solo se la pena inflitta è compatibile con la misura dell’indulto, stabilita dalla legge. La Corte ha ribadito che l’indulto non può mai essere applicato ai reati di terrorismo e mafia, come previsto espressamente dalla legge.

Un altro aspetto trattato dalla giurisprudenza riguarda la sospensione condizionale della pena: se la pena è già sospesa, l’indulto non può essere applicato automaticamente. In questo caso, il condannato potrebbe perdere il beneficio della sospensione se non adempie a determinati requisiti previsti dal giudice.

 

Leggi anche la guida Amnistia

servizi sociali

Servizi sociali anche per violenza sessuale La Cassazione chiarisce che può essere concesso l'affidamento ai servizi sociali anche per il reato ex art. 609-bis c.p.

Affidamento ai servizi sociali

Sì all’affidamento ai servizi sociali al soggetto che si è macchiato del reato di violenza sessuale (ex art. 609 bis c.p.). Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 17374/2024.

La vicenda

Nella vicenda, iI Tribunale di sorveglianza di Torino respingeva l’istanza di differimento pena ai sensi dell’art. 147 cod. pen. e dell’affidamento in prova al servizio sociale formulate. Ciò a ragione della gravità dei reati commessi, tra cui quello di cui all’art. 609-bis cod. pen., nonchè dell’assenza di una seria e verificabile attività lavorativa e della sperimentazione, allo stato, di altre forme trattamentali (permessi premio), infine della mancanza di elementi sulla base dei quali superare la diagnosi di pericolosità derivante dal reato commesso.

Il ricorso

Avverso tale ordinanza l’imputato adiva il Palazzaccio, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale.
A dire della difesa, il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto dirimente e preponderante, rispetto agli elementi positivi pur evidenziati dalla relazione di sintesi dell’equipe e, comunque, emergenti dagli atti, la gravità del reato commesso e i plurimi precedenti di cui risulta gravato, sottostimando, invece, plurimi elementi positivi, quali il parere ampiamente favorevole dell’equipe.

Affidamento in prova ai servizi sociali: presupposti

Per la S.C., il ricorso è fondato.
L’art. 47, comma 2, ord. pen. consente l’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale ove si possa ritenere che la misura, «anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati».
Nel caso di specie, il giudice specializzato ha reso una motivazione contraddittoria e, comunque, carente. Benché “nella stringata parte espositiva avesse dato atto dell’assenza di precedenti penali e carichi pendenti, senza minimamente confrontarsi con quanto emergente dalla relazione dell’equipe trattamentale – spiegano dalla S.C. – ha concentrato in via esclusiva la sua attenzione sulla condanna per il delitto di cui all’art. 609-bis c.p., sull’asserita mancata sperimentazione di permessi premio e sulla mancanza di prospettive lavorative”. Invece, la relazione dell’equipe della casa circondariale aveva espresso parere favorevole al riconoscimento della misura alternativa, valorizzando il fatto che l’uomo avesse aderito volontariamente ad un programma specifico rivolto ai condannati per reati di violenza di genere e che, compatibilmente con le condizioni di salute (che non rendevano possibile una partecipazione più ampia alle attività trattamentali), avesse svolto un percorso detentivo positivo.
Il giudice specializzato, in definitiva, secondo i giudici di piazza Cavour, ha fondato il provvedimento di rigetto sul solo argomento della gravità dei reati commessi, facendo di essi una considerazione assoluta e ponendoli da soli a sostegno della decisione, senza considerazione adeguata di diversi altri fattori riguardanti l’evoluzione della personalità del ricorrente, successiva alla consumazione della condotta sanzionata e senza fare congrua valutazione delle risultanze indicate nella relazione dell’equipe.
Al riguardo, dunque, la Corte ribadisce i principi ormai consolidati, secondo i quali “in tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine alla realizzazione delle prospettive cui è finalizzato l’istituto, e, quindi, dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza, non possono, di per sé, da soli, assumere decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo sufficiente che, dai risultati dell’osservazione della
personalità, emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato (Sez. 1, n. 1410 del 30/10/2021, M., Rv. 277924; Sez. 1, n. 773 del 03/12/2013, dep. 2014, Naretto, Rv. 258402)”.

Il principio di diritto

Il Tribunale non ha fatto, dunque, buon governo del principio di diritto secondo cui «ai fini della concessione di una misura alternativa alla detenzione, si deve tener conto del grado di consapevolezza e di rieducazione raggiunto dal condannato, nonché dell’evoluzione della sua personalità successivamente al fatto, al fine di consentire un’ulteriore evoluzione favorevole e un ottimale reinserimento sociale» (cfr. Cass. n. 10586/2019).

Il profilo che deve essere valorizzato non è se abbia o meno l’interessato ammesso le sue colpe ovvero, pur avendole ammesse, ne abbia depotenziato li valore, ma se abbia accettato la sentenza e quindi la sanzione a lui inflitta, prestando la dovuta collaborazione nel percorso rieducativo.

La decisione

Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata relativamente al diniego dell’affidamento in prova al servizio sociale, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Torino per nuovo esame che, libero negli esiti, sia ossequiante dei principi sopraesposti.

Allegati

lavori di pubblica utilità

Lavori di pubblica utilità: disciplina e funzionamento I lavori di pubblica utilità sono attività non retribuite che vengono svolte per la collettività da soggetti liberi, condannati e detenuti

Lavori di pubblica utilità: definizione

I lavori di pubblica utilità sono attività non retribuite che vengono svolte a beneficio della collettività presso enti pubblici, organizzazioni sociali o di volontariato. Il lavoro di pubblica utilità si configura come uno strumento efficace di giustizia riparativa, offrendo al condannato la possibilità di compensare la collettività attraverso attività concrete e costruttive.

Riferimenti normativi

  1. Decreto 27 luglio 2023 – Modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità – art. 71 comma 1 lett. d) decreto legislativo n. 150/2022
  2. Decreto 8 giugno 2015 n. 88 – Regolamento recante disciplina delle convenzioni in materia di pubblica utilità ai fini della messa alla prova dell’imputato – art. 8 legge n. 67/2014
  3. Decreto 26 marzo 2001 – Norme per la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità applicato – art. 54, c. 6 del decreto legislativo n. 274/2000

Lavori di pubblica utilità: applicazione

Il lavoro di pubblica utilità rappresenta una sanzione alternativa nel sistema giuridico italiano e consiste nella prestazione non retribuita di attività a favore della collettività. Può essere svolto presso enti pubblici, organizzazioni sociali o di volontariato, ed è previsto sia per soggetti liberi sia per detenuti o internati.

  1. In favore dei soggetti liberi, può sostituire pene detentive o pecuniarie in vari contesti tra i quali figurano:
  • le violazioni del Codice della Strada (articoli 186 e 187): per guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, il lavoro può sostituire pene tradizionali, purché richiesto dall’imputato o disposto dal giudice;
  • legge sugli stupefacenti (art. 73, comma 5-bis): in casi di lieve entità, il giudice può sostituire la pena detentiva con questa sanzione. L’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) monitora il rispetto dell’obbligo.
  1. Secondo l’ 20-ter dell’ordinamento penitenziario, anche i detenuti possono svolgere lavoro di pubblica utilità, in conformità al d.m. 26 marzo 2001 e ad apposite convenzioni. Tale misura favorisce il reinserimento sociale attraverso attività a beneficio della comunità.
  2. Il lavoro di pubblica utilità può essere anche impiegato come pena sostitutiva o accessoria.
  • Sospensione del processo con messa alla prova (art. 168-bis c.p.): il lavoro diventa parte del programma di trattamento, definito in base alle esigenze personali dell’imputato;
  • Sospensione condizionale della pena (art. 165 c.p.): il condannato deve svolgere attività non retribuita come condizione per ottenere la sospensione;
  • Sostituzione di pene detentive brevi (art. 56-bis L. 689/1981): per reati con pene inferiori a tre anni, il lavoro di pubblica utilità può essere applicato come pena sostitutiva.

Modalità di svolgimento del lavoro per pubblica utilità

Il lavoro di pubblica utilità può svolgersi in diversi settori come:

  • l’assistenza sociale (anziani, malati, disabili).
  • la protezione civile e tutela ambientale;
  • le attività pertinenti alla professionalità del condannato.

La durata della misura varia tra 6 e 15 ore settimanali, ma può essere estesa fino a 8 ore giornaliere su richiesta. Un giorno di lavoro equivale a due ore di attività, garantendo la compatibilità con esigenze di vita, studio o salute del condannato.

Cosa accade se si violano le modalità di svolgimento

Il mancato rispetto degli obblighi può comportare la revoca della misura, con ripristino della pena originaria. In caso di risarcimento dei danni o eliminazione delle conseguenze del reato, è possibile la revoca della confisca, salvo i casi obbligatori.

Portale Nazionale per i lavori di pubblica utilità

Il Portale Nazionale per i lavori di pubblica utilità, disponibile online, è uno strumento innovativo che semplifica la gestione e la ricerca di opportunità per l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità. Destinato a cittadini, tribunali e uffici di esecuzione penale esterna, il portale velocizza il processo di abbinamento tra le caratteristiche del condannato o imputato, la natura del reato commesso e l’attività lavorativa non retribuita da svolgere. Questo approccio favorisce il reinserimento sociale e contribuisce a ridurre il rischio di recidiva.

Sviluppato con il contributo di diversi dipartimenti del Ministero della Giustizia, il portale è un progetto in continua evoluzione. I tribunali alimentano la piattaforma aggiornando le convenzioni locali e garantendo la pubblicazione delle informazioni sul sito del Ministero. L’obiettivo è semplificare le procedure e migliorare l’accesso alle informazioni per tutti gli attori coinvolti.

Il portale offre tre modalità di ricerca: tramite infografica, per individuare rapidamente i posti disponibili; ricerca avanzata, con filtri dettagliati; e ricerca semplice, basata su parole chiave.

 

Leggi anche: Lavori pubblica utilità: al via il portale nazionale

dl anti-violenze

Dl anti-violenze ai medici: legge in vigore In vigore dal 26 novembre 2024 la nuova legge per contrastare i fenomeni di violenza nei confronti dei sanitari che prevede pene fino a 5 anni e arresto nelle 48 ore

Pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 25 novembre 2024, la nuova legge n. 171/2024, di conversione del Dl anti-violenze ai medici, n. 137/2024, varato dal Consiglio dei Ministri il 27 settembre scorso e approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati il 13 novembre.

Il testo, recante “misure urgenti per contrastare i fenomeni di violenza nei confronti dei professionisti sanitari, socio-sanitari, ausiliari e di assistenza e cura nell’esercizio delle loro funzioni nonché di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria“, è in vigore dal 26 novembre 2024.

Contrasto violenza medici: cosa prevede la nuova legge

La nuova legge che si compone di quattro articoli, nasce per arginare i gravi episodi di violenza nei confronti del personale sanitario e prevede un aumento delle pene fino a 5 anni e l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, con possibilità di differimento a determinate condizioni.

L’articolo 1 (modificato dal Senato) interviene sugli artt. 583-quater e 635 c.p., estendendo l’ambito di applicazione delle sanzioni previste per le lesioni procurate agli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni al personale che si occupa di “servizi di sicurezza complementare”.

Inoltre, aggiungendo un altro comma dopo il terzo all’art. 635 c.p., disciplina la fattispecie del danneggiamento di “cose mobili o immobili destinate al servizio sanitario o socio-sanitario”, punendolo con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa fino a 10mila euro. La pena è aggravata se il fatto è commesso da più persone riunite.

L’articolo 2, modifica gli articoli 380, 382-bis e 550 cpp, prevede l’arresto obbligatorio in flagranza e, in particolari condizioni, l’arresto differito per i delitti di lesioni personali commessi nei confronti di chi esercita una professione sanitaria, socio-sanitaria e attività ausiliare, nonché per il reato di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria ex terzo comma art. 635 c.p.

Gli articoli 3 e 4 recano, infine, la clausola d’invarianza finanziaria (criticata dalle opposizioni) e l’entrata in vigore del testo.

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oblazione

Oblazione: guida all’istituto L’oblazione è un istituto di diritto penale e processuale penale che consente di estinguere i reati minori pagando una somma di denaro

Oblazione: definizione

L’oblazione è una misura prevista dal sistema giuridico italiano, che consente di estinguere il reato in cambio di un pagamento di una somma di denaro, senza il bisogno di affrontare il processo penale.

Riferimenti normativi

L’oblazione è quindi una forma di estinzione della punibilità prevista e disciplinata dagli articoli 162 e 162-bis del Codice Penale. L’art. 141 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale si occupa invece del procedimento che la riguarda.

In questo articolo, esamineremo le caratteristiche di questo istituto, la sua applicabilità, i limiti e le interpretazioni giuridiche più rilevanti.

Cos’è l’oblazione?

L’oblazione è un istituto giuridico che consente all’imputato di estinguere il reato, riducendo la propria responsabilità penale attraverso il pagamento di una somma di denaro o l’adempimento di altre obbligazioni. Questo meccanismo è previsto per i reati di natura contravvenzionale e, in alcuni casi, anche per reati di carattere più grave. L’oblazione consente di evitare il procedimento penale e, in molti casi, la condanna.

La normativa prevede che l’oblazione possa essere applicata solo a determinati tipi di reati, che devono essere di minor gravità rispetto ai crimini più gravi (ad esempio, i delitti). Inoltre, la somma da pagare varia in base alla pena prevista per il reato e deve essere versata prima dell’apertura del dibattimento o del decreto penale di condanna.

L’oblazione nelle contravvenzioni: art. 162 c.p.

L’articolo 162 del Codice Penale regola l’istituto per i reati contravvenzionali. Esso prevede che, per una serie di contravvenzioni punite solo con la pena dell’ammenda, il colpevole possa estinguere il reato mediante un pagamento di una somma di denaro, pari alla terza parte della pena massima prevista per quel reato, oltre le spese del procedimento. L’imputato che paga prima dell’apertura del dibattimento del decreto di condanna non è sottoposto a procedimento penale, né a pena detentiva.

L’articolo 162-bis del Codice Penale

L’articolo 162-bis del Codice Penale amplia le possibilità di applicazione dell’oblazione, permettendo di estinguere anche reati di natura contravvenzionale puniti con pene alternative.

La norma si applica in particolare ai reati contravvenzioni per i quali la legge stabilisce la pena alternativa dell’arresto o dellammenda. Il contravventore in questo caso, sempre prima del dibattimento e del decreto penale di condanna può pagare “una somma corrispondente alla metà del massimo della ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento.” Il pagamento della somma prevista comporta l’estinzione del reato.

Limiti applicativi dell’oblazione

L’oblazione non è consentita quando è presente una recidiva reiterata nella commissione della contravvenzione e quando l’imputato è un contravventore abituale o professionale ai sensi degli articoli 104 e 105 del codice penale. Il giudice comunque può respingere la domanda di oblazione quando il fatto commesso è grave.

Procedimento di oblazione

La procedura per l’ammissione all’oblazione segue un iter specifico delineato dall’art. 141 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale.

La norma dispone che durante le indagini preliminari, l’indagato può presentare domanda di oblazione al pubblico ministero. Quest’ultimo è tenuto a trasmettere la richiesta, insieme agli atti del procedimento, al giudice per le indagini preliminari. Il pubblico ministero, inoltre, può informare l’indagato, qualora sussistano i presupposti, della possibilità di richiedere l’oblazione e degli effetti estintivi del reato che derivano dal suo pagamento.

Se l’indagato non è stato avvisato di questa facoltà prima dell’emissione del decreto penale, nel decreto deve essere comunque indicata la possibilità di richiedere l’oblazione. Quando la domanda viene presentata, il giudice valuta il parere del pubblico ministero. Se ritiene che la richiesta non sia fondata, rigetta l’istanza con un’ordinanza e, se necessario, restituisce gli atti al pubblico ministero. Al contrario, se accoglie la domanda, stabilisce l’importo da versare e informa l’interessato. Dopo il pagamento, se la richiesta è avvenuta in fase di indagini preliminari, gli atti vengono rinviati al pubblico ministero; negli altri casi, il giudice dichiara il reato estinto con sentenza.

In situazioni in cui l’imputazione viene modificata in una che consente l’oblazione, o in caso di nuove contestazioni, l’imputato ha la possibilità di presentare domanda. Se accolta, il giudice stabilisce un termine, non superiore a dieci giorni, per il pagamento. Con l’avvenuto pagamento, il reato è dichiarato estinto tramite sentenza.

Ratio e natura preventiva dell’oblazione

La Corte di Cassazione ha chiarito diversi aspetti legati all’applicabilità dell’istituto. In una sentenza del 2020, la Cassazione ha ribadito che l’oblazione non può essere applicata nei reati gravi come quelli associati a criminalità organizzata o terrorismo, in quanto il fine di questa misura è esclusivamente quello di estinguere reati di minor entità.

Inoltre, la Corte ha evidenziato che l’oblazione è incompatibile con il procedimento penale già avviato, se l’imputato non adempie alla condizione di pagamento prima dell’inizio del processo. L’oblazione è quindi una soluzione preventiva, che deve essere adottata prima che il procedimento giuridico prenda il via.

 

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Reati tributari e sequestro preventivo di beni immobili In tema di reati tributari può essere disposta la confisca su di un ammontare superiore al valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dell’amministrazione finanziaria per le imposte evase?

Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini

 

In tema di reati tributari, i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venire meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo o profitto di tale delitto (Cass. pen., sez. III, 13 agosto 2024, n. 32578).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della confisca disposta su beni aventi un valore superiore a quella della imposta la cui riscossione è stata resa inefficace.

Il Tribunale, in qualità di giudice del riesame, con ordinanza, aveva annullato il decreto di sequestro preventivo disposto a carico di tre indagati in relazione al reato di cui all’art. 11 D.Lgs. 74/2000.

In particolare, il sequestro era stato disposto dal Gip in relazione a una provvisoria imputazione avente a oggetto la violazione dell’art. 11 predetto, per avere i tre indagati compiuto atti simulati o fraudolenti dismissivi del patrimonio della società allo scopo di rendere vana o inefficace la procedura di riscossione coattiva delle imposte. Il Gip, ritenuta la sussistenza del fumus delicti, aveva ritenuto di assoggettare alla misura cautelare, strumentale a una eventuale confisca ex art 12bis del citato decreto legislativo, non solamente i beni aventi il valore del debito tributario gravante sulla società, ma l’intero valore dei beni oggetto delle transazioni fraudolente, sebbene questo fosse superiore all’importo dei carichi tributari.

L’impostazione è stata ritenuta non corretta dal Tribunale del riesame, il quale ha affermato che in tal modo si giungerebbe al risultato di ipotizzare la possibilità di disporre la confisca di beni aventi un valore superiore a quella della imposta la cui riscossione è stata resa inefficace, facendo assumere alla predetta confisca carattere sanzionatorio.

Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il P.M. deducendo la violazione degli artt. 11 e 12bis D.Lgs. 74/2000 in cui il Tribunale sarebbe incorso nell’affermare che il principio per cui il profitto del reato di cui al menzionato art. 11 è rappresentato dal valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti dell’amministrazione finanziaria per le imposte evase, e non dall’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, debba applicarsi limitatamente ai casi in cui tale ammontare superi il valore dei beni oggetto delle operazioni fraudolente.

Nell’impostazione del Tribunale del riesame, la limitazione del profitto del reato sequestrabile alla soglia del valore del debito tributario inadempiuto sarebbe imposta: dal principio di proporzionalità di cui agli artt. 3, 25 e 27 Cost, 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; dall’interpretazione teleologica delle disposizioni del D.Lgs. 74/2000, improntato alla tutela dell’adempimento delle obbligazioni tributarie e al recupero delle somme dovute all’erario, quindi dalla necessaria configurazione della confisca ivi prevista come misura ristorativa dell’interesse violato con il reato; dal rilievo che il sequestro finalizzato alla confisca non possa avere a oggetto cose di cui non sia consentita la misura ablatoria finale; dal principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’estinzione del debito tributario determina l’illegittimità del decreto di sequestro preventivo emesso in relazione al reato ex art. 11 D.Lgs. 74/2000 negando in tal modo che il profitto del reato in esame debba sempre essere ancorata al solo valore dei beni fraudolentemente sottratti alla garanzia dell’amministrazione finanziaria.

A confutazione di tale impostazione, il Pm ricorrente ha osservato che: l’individuazione del profitto di cui all’art. 11 D.Lgs. 74/2000 nella riduzione, pur eccedente l’ammontare del debito tributario inadempiuto, del patrimonio dell’agente su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi sarebbe coerente con la struttura di reato di pericolo della fattispecie in parola; che i beni di cui sia contestata la sottrazione fraudolenta alla garanzia dei crediti dell’amministrazione finanziaria sarebbero confiscabili ex art. 240, comma 1, c.p. in quanto strumenti della consumazione del reato, a prescindere dalla relativa qualificazione come profitto dello stesso; infine, che l’illegittimità di un sequestro preventivo disposto nonostante l’intervenuto adempimento del debito tributario non dipenderebbe dal venir meno del reato o del profitto da esso derivante, bensì dal venir meno della stessa esigenza cautelare giustificativa della misura reale.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha affermato, preliminarmente, che sebbene l’art. 12bis D.Lgs. 74/2000 prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena per uno dei reati previsti dal decreto legislativo in esame, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, deve, tuttavia, rilevarsi che l’art. 240, comma 1 c.p. consente, nel caso di condanna, al giudice di procedere alla confisca, oltre delle cose che costituiscono il profitto o il prodotto del reato, anche di quelle che “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Fra queste devono essere ricompresi, secondo il Collegio, i beni che sono stati l’oggetto delle transazioni simulate o fraudolente che costituiscono la materiale condotta attraverso la quale si è determinato il reato.

In tal senso la Corte ha richiamato il principio di diritto secondo cui in tema di reati tributari, i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venir meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo profitto di tale delitto.

Il Collegio ha evidenziato che, seppure sia vero che, il profitto del reato di cui all’art. 11 del D.Lgs. 74/2000 sia rapportabile oggettivamente al valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti dell’Amministrazione finanziaria per le imposte evase e non già al debito tributario rimasto inadempiuto, una tale regola deve, tuttavia, essere declinata coerentemente con la finalità la cui disposizione precettiva e sanzionatoria è preposta: cioè quella di assicurare agli organi pubblici una più agevole forma di esazione coattiva delle imposte interessate dalla normativa in esame il cui versamento sia stato, anche in un secondo momento rispetto al compimento degli atti simulati o fraudolenti, omesso dal contribuente.

Ebbene, nel caso di specie la Corte ha ritenuto che la confisca, e lo strumentale sequestro preventivo, siano riconducibili, quanto a sua causale normativa, non all’art. 12bis D.Lgs. 74/2000, ma all’art. 240, comma 1, c.p., cioè alle cose che “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Invero, ricorrendo a una tale accezione normativa non vi è più la necessità di contenere l’ammontare del valore dei beni soggetti alla misura ablativa alla ratio dell’illiceità penale della condotta attribuita all’agente (l’esistenza di un possibile debito erariale in ordine al quale rendere ragionevole l’azione esecutiva fiscale) considerato che ora la confisca non sarebbe relativa al profitto del reato ma allo strumento utilizzato per la sua perpetrazione.

Tale principio deve essere inteso in termini rigidi, vale a dire che laddove l’attività di fraudolenta dismissione dei beni si sia articolata attraverso non un solo atto depauperativo del patrimonio del contribuente ma attraverso una pluralità di essi, ciascuno riferito a beni diversi o a porzioni diverse di un medesimo bene, gli atti effettivamente rilevanti dal punto di vista penale sono quelli che hanno determinato un concreto pericolo di inefficacia dell’azione esecutiva dell’Erario volta alla riscossione delle imposte. Risulta, pertanto, necessario che anche l’oggetto di tali ulteriori atti costituisca corpo del reato, cioè che anche questi atti siano stati in grado di ledere ex se il bene giuridico tutelato dalla norma.

Infine, la Corte ha ritenuto superata la problematica che il Tribunale del riesame ha posto in relazione alla necessità dell’esistenza di un rapporto di proporzionalità fra la misura ed il valore del bene oggetto di essa. Invero, secondo la Corte, siffatta problematica risulta essere ultronea ove si riporti la ratio della confisca non alla ipotesi della ablazione del profitto del reato ma a quella della confisca degli strumenti per mezzo dei quali il reato è stato consumato. Ipotesi per la quale non è determinante che i beni abbiano un valore economico proporzionato all’imposta alla cui evasione è finalizzata l’attività simulata o fraudolenta di dismissione patrimoniale.

Alla luce di tali argomentazioni, il Collegio annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale competente.

Contributo in tema di “Reati tributari e sequestro preventivo di beni immobili”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

amnistia

Amnistia: guida completa Amnistia: atto di clemenza concesso da una legge specifica che estingue il reato o fa cessare l’esecuzione della pena e delle pene accessorie

Cos’è l’amnistia?

L’amnistia è un atto di clemenza previsto dall’ordinamento giuridico italiano, che può comportare l’estinzione di reati e delle pene ad essi connessi. La sua regolamentazione è contenuta nell’articolo 151 del Codice Penale.

Articolo 151 c.p: cosa prevede

L’articolo 151 c.p stabilisce che l’istituto comporta l’estinzione del reato e della pena per i fatti commessi, ma solo se è prevista da una legge ad hoc. In altre parole, l’amnistia non è applicabile automaticamente, ma deve essere concessa attraverso una legge speciale, approvata dal Parlamento.

Essa può avere effetti retroattivi, ciò significa che può estinguere reati commessi anche prima della sua promulgazione, purché questi siano compatibili con i criteri stabiliti dalla legge stessa.

Caratteristiche dell’amnistia

L’istituto presenta alcune caratteristiche principali.

  • Una volta concessa, il reato non viene più considerato tale, e la pena viene completamente eliminata.
  • Non tutti i crimini possono beneficiare dell’ In genere, reati particolarmente gravi, come omicidi o crimini di terrorismo, sono esclusi dal beneficio.
  • La sua concessione può essere sottoposta a condizioni o obblighi.
  • Questo atto di clemenza non è applicabile ai recidivi (art. 99 c.p) ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, salvo eccezioni.

Condizioni e limiti dell’amnistia

La legge che la dispone può stabilire alcuni limiti specifici all’amnistia.

  1. Tipologia di reati: non tutti i reati possono beneficiare dell’amnistia, in particolare quelli di terrorismo, omicidio e crimini contro l’umanità.
  2. Periodo di applicazione: l’amnistia può avere effetti retroattivi, ma solo entro i limiti stabiliti dalla legge che la dispone.
  3. Efficacia legale: una volta concessa, l’amnistia estingue ogni effetto penale, ma non necessariamente quelli civili o amministrativi legati al reato.

Giurisprudenza della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha fornito diverse interpretazioni sull’applicazione di questo istituto, in particolare in relazione all’estinzione del reato e delle pene.

In una sentenza del 2016, la Cassazione ha chiarito che l’amnistia non solo estingue la pena, ma elimina anche il reato sotto il profilo giuridico. Ciò significa che un soggetto che ne beneficia non avrà più alcuna condanna penale a suo carico, e non potrà essere sottoposto a misure penali future relative a quel reato.

La Cassazione ha inoltre ribadito che l’amnistia può essere applicata anche a procedimenti in corso, a condizione che i reati siano compatibili con la legge che l’ha introdotta. Tuttavia, l’eventuale amnistia non cancella gli effetti civili del reato, come il risarcimento danni alle vittime.

Differenze con l’indulto

Sebbene amnistia e indulto siano spesso confusi, le differenze tra i due provvedimenti sono significative. La prima è un provvedimento che ha l’effetto di estinguere i reati e le pene connesse a determinati comportamenti criminali. Il secondo invece riduce la pena, ma non elimina il reato. L’amnistia può essere concessa dallo Stato per motivi politici, sociali o di particolare necessità, ma non è applicabile a tutti i reati.

Ecco le differenze principali tra i due istituti.

Estinzione del reato vs. riduzione della pena:

  • Amnistia: elimina completamente il reato e la pena, annullando ogni effetto penale. La persona non viene più considerata condannata.
  • Indulto: riduce o estingue la pena, ma il reato rimane formalmente tale. La persona non è più sottoposta alla pena detentiva, ma il reato rimane nel suo casellario giudiziario e può avere altre implicazioni legali.

Effetto retroattivo:

  • Amnistia: ha effetti retroattivi, il che significa che può estinguere reati commessi anche prima dell’entrata in vigore della legge.
  • Indulto: generalmente si applica solo alle pene future, anche se può ridurre le pene già in corso.

Reati esclusi:

  • Amnistia: tende a escludere i reati più gravi, come quelli legati a terrorismo, mafia, omicidi, ecc.
  • Indulto: non esclude necessariamente i reati più gravi, ma la sua applicazione dipende dalla legge speciale che lo autorizza. In genere, l’indulto non si applica a crimini gravi come quelli di terrorismo, ma può essere esteso ad altri reati meno gravi.

Procedura di concessione:

  • Amnistia: viene concessa tramite una legge speciale approvata dal Parlamento. Ha una portata generale e collettiva, riguardando categorie di detenuti.
  • Indulto: viene anch’esso concesso dal Parlamento tramite una legge speciale, ma ha una portata più limitata. Esso di solito si applica a specifici gruppi di reati o detenuti.

 

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particolare tenuità del fatto

Particolare tenuità del fatto: la guida Particolare tenuità del fatto: istituto che esclude la punibilità per esiguità del danno, del pericolo o per la condotta del soggetto agente

Particolare tenuità del fatto: cos’è

La “particolare tenuità del fatto” contemplata dall’articolo 131-bis del Codice Penale rappresenta una novità significativa nell’ordinamento giuridico italiano. La norma ha infatti introdotto questo concetto come causa di esclusione della punibilità in determinati casi.

Ratio dell’istituto

Questo istituto, introdotto con  dal Dlgs n. 28/2015 e modificato dal Dlgs n. 150/2022, si pone l’obiettivo di evitare che il sistema penale si sovraccarichi di procedimenti per reati di lieve entità, riservando le risorse giuridiche ai reati più gravi. Questo principio consente di applicare una giustizia più equa, adattando la risposta penale alla reale pericolosità sociale del fatto.

Inoltre, la tenuità del fatto può rappresentare una forma di risoluzione più rapida ed efficace per i casi in cui il danno causato è irrilevante, contribuendo a ridurre il carico sulle corti e a focalizzare l’attenzione su reati di maggiore allarme sociale.

Analisi dell’art. 131-bis c.p

L’articolo 131-bis del Codice Penale stabilisce che quando il fatto non è di particolare gravità, il giudice può escludere la punibilità dell’imputato. La valutazione della tenuità del fatto si basa su criteri oggettivi, come la scarsa entità del danno o del pericolo causato, e criteri soggettivi, come la personalità dell’imputato e il comportamento successivo al reato.

Valutazione della tenuità del fatto

L’articolo 131-bis indica quindi due fattori fondamentali nella valutazione della tenuità:

  • la modesta entità del danno o del pericolo derivante dal reato;
  • la personalità dellimputato, con riferimento alla sua condotta e alle circostanze in cui è avvenuto il fatto.

Questi criteri consentono al giudice di valutare se il fatto possa essere considerato di scarsa gravità, escludendo la necessità di una punizione penale, ma lasciando la strada aperta alla possibilità di applicare misure alternative come la sanzione pecuniaria o altre forme di risarcimento.

Valutazione della non tenuità del fatto

L’offesa non può essere considerata invece di particolare tenuità quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, con crudeltà, anche verso animali, oppure usando sevizie o approfittando della condizione di minorata difesa della vittima, ad esempio a causa dell’età e quando dalla condotta sono derivate, anche non volute, la morte o lesioni gravissime a una persona.

L’offesa non è di particolare tenuità anche in presenza di reati

  • puniti con una pena massima superiore a due anni e sei mesi di reclusione, se commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;
  • commessi contro pubblici ufficiali o agenti di pubblica sicurezza e polizia giudiziaria nell’esercizio delle loro funzioni, come previsti dagli articoli 336, 337, 341-bis e 343;
  • di particolare gravità, consumati o tentati, previsti dagli articoli indicati (es. corruzione, omicidio, violenze sessuali, lesioni aggravate, stalking, rapina aggravata, riciclaggio);
  • previsti in ambiti specifici, come interruzione illegale di gravidanza (art. 19, comma 5, della legge n. 194/1978), traffico di stupefacenti (art. 73 del DPR n. 309/1990, escluse alcune ipotesi minori), reati in materia finanziaria (articoli 184 e 185 del D.Lgs. n. 58/1998);
  • legati alla violazione del diritto d’autore, salvo quelli meno gravi di cui all’ 171 della legge n. 633/1941.

Particolare tenuità del fatto: giurisprudenza Cassazione

La Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sull’applicazione dell’articolo 131-bis, fornendo importanti chiarimenti interpretativi.

Gli Ermellini, in diverse sentenze, hanno ribadito che la tenuità del fatto deve essere valutata in modo rigoroso, tenendo conto non solo della gravità oggettiva del reato, ma anche del contesto complessivo in cui si è svolto il fatto.

In una sentenza del 2018 (Cass. Pen. n. 21060), la Corte ha sottolineato che l’applicazione dell’articolo 131-bis richiede una valutazione complessiva, che prenda in considerazione non solo l’entità del danno, ma anche la condotta successiva dellimputato, la sua sincerità e il suo atteggiamento di responsabilizzazione.

In un altro caso (Cass. Pen. n. 30247/2017), la Corte ha evidenziato che non è sufficiente un mero danno economico modesto per escludere la punibilità, ma bisogna anche considerare l’effettivo pericolo creato dall’illecito penale.

 

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