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Legittimità costituzionale art. 538 c.p.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 538 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice – quando pronuncia sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto – decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile a norma degli artt. 74 e ss. c.p.p.?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 538 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131bis c.p., decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno proposta dalla parte civile a norma degli artt. 74 e ss. c.p.p. – Corte Cost. 12 luglio 2022, n. 173.

Il fatto di particolare tenuità ha ad oggetto una condotta offensiva costituente reato che il legislatore preferisce non punire a causa della lievità dell’offesa. La sentenza che esclude la punibilità per la particolare tenuità del fatto non è pertanto una pronuncia tipicamente assolutoria; al contrario, questa accerta in via definitiva che il reato è stato commesso dalla persona che viene dichiarata non punibile. Per questo motivo il giudicato di tale pronuncia, nel giudizio civile di danno, ex art. 651bis c.p.p., è modellato su quello tipico delle sentenze di condanna (art. 651 c.p.p.) e non su quello delle sentenze di assoluzione (art. 652 c.p.p.). Questo parallelismo con le sentenze di condanna disvela un deficit di tutela per la parte civile nel momento in cui si prevede all’art. 538 c.p.p. che il giudice decida sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno solo in presenza di una sentenza di condanna. Tale difetto di tutela giurisdizionale per la parte civile non è stato invece ravvisato dalla Consulta nell’ipotesi di assoluzione per vizio totale di mente, venendo in questo caso in rilievo un accertamento penale riconducibile a quello delle sentenze assolutorie di cui all’art. 652 c.p.p. (Corte Cost. 29 gennaio 2016, n. 12). Inoltre, il codice di procedura penale contempla delle ipotesi in cui vi può essere una statuizione sulle pretese civili risarcitorie o restitutorie (artt. 576, 578 e 622 c.p.p.), dando in questo modo una risposta di giustizia alla domanda della parte civile, nonostante il mancato accertamento, con effetto di giudicato, circa la sussistenza del fatto, la sua illiceità penale e l’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Al contrario, pur in presenza del suddetto accertamento, una risposta di giustizia manca nell’ipotesi di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131bis c.p. Questa disparità di trattamento fra le ipotesi esaminate e la fattispecie di cui all’art. 538 c.p.p. comporta la violazione, da parte di quest’ultima, del principio di uguaglianza (art. 3, comma primo, Cost.). L’art. 538 c.p.p. è inoltre in contrasto con il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, comma 2, Cost.), in quanto la parte civile non ottiene una decisione in ordine alla sua pretesa risarcitoria o restitutoria, anche quando essa appare fondata e meritevole di accoglimento. Infine, la norma collide con il canone della ragionevole durata del processo (art. 111, comma secondo, Cost.), poiché nel caso in esame il giudizio penale subisce un arresto e la parte civile è tenuta a promuovere una nuova azione davanti al giudice civile, anche solo per recuperare le spese sostenute nel processo penale.

La riconduzione a legittimità della disposizione censurata richiede, dunque, di riconoscere al giudice penale la possibilità di pronunciarsi anche sulla domanda di risarcimento del danno quando accerti la sussistenza dei presupposti per dichiarare la non punibilità dell’imputato per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131bis c.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Corte Cost. 12/2016
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Patteggiamento e “pena illegale” Configura “pena illegale”, ai fini del sindacato di legittimità sul patteggiamento, quella fissata sulla base di un’erronea applicazione del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, in violazione del criterio unitario previsto dall’art. 69, comma 3, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

La pena determinata a seguito dell’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e ss., 65 e 71 e ss., c.p., oppure i limiti edittali previsti, per le singole fattispecie di reato, dalle norme incriminatrici che si assumono violate, a nulla rilevando il fatto che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge. – Cass. Sez. Un. 12 gennaio 2023, n. 877.

Nel caso di specie, veniva proposto ricorso avverso una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, deducendo l’illegalità della pena applicata perché il giudice aveva errato nel calcolarla, avendo omesso di porre in bilanciamento le circostanze aggravanti del reato contestato con le riconosciute circostanze attenuanti generiche, così violando il disposto di cui all’art. 69 c.p.

Investita del ricorso, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione ha rilevato l’esistenza di un contrasto interpretativo in ordine alla nozione di “pena illegale, rilevante ai fini della delimitazione dell’ambito del sindacato di legittimità sulle sentenze che applicano la pena su richiesta delle parti, disponendone la rimessione alle Sezioni Unite.

Invero, secondo un primo indirizzo interpretativo, nel c.d. “patteggiamento”, la legalità della pena deve essere valutata considerando non soltanto la pena finale applicata, ma anche i passaggi intermedi che hanno portato alla sua determinazione.

In applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione ha, in più occasioni, avuto modo di precisare che “deve ritenersi illegale la pena applicata dal giudice che operi il giudizio di bilanciamento tra le circostanze in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 69 c.p.” (Cass., sez. II, 8 febbraio 2021, n. 4798).

Altro orientamento sostiene che l’illegalità della pena va valutata avendo riguardo alla sola pena finale applicata e non anche ai passaggi intermedi che portano alla sua determinazione.

Le Sezioni Unite condividono tale ultima impostazione, partendo dal presupposto che, secondo un principio costantemente affermato dalle stesse Sezioni, la pena può definirsi illegale “quando non corrisponde, per specie ovvero per quantità (sia in difetto che in eccesso), a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale” (Cass. Sez. Un. 28 luglio 2015, n. 33040).

Le Sezioni Unite hanno inoltre ricordato come la giurisprudenza abbia, in plurime decisioni, chiarito che non configura un’ipotesi di illegalità della pena il trattamento sanzionatorio che risulti complessivamente legittimo, anche se frutto di un vizio nell’iter di determinazione della sua entità.

Ne consegue che la pena potrà dirsi illegale solo se non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata.

Alla luce delle esposte considerazioni, in linea con il principio di legalità della pena così come delineato dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali, le Sezioni Unite hanno conclusivamente affermato che, sebbene determinata attraverso un erroneo procedimento di bilanciamento tra circostanze, effettuato in violazione della disciplina stabilita dall’art. 69 c.p., “la pena deve considerarsi illegale soltanto nei casi in cui non rispetti i limiti edittali previsti per ciascun genere o specie di pena dagli artt. 23 e ss., 65 e ss., e 71 e ss. del c.p., oppure quelli previsti dalle singole norme incriminatrici per ciascuna fattispecie di reato”.

Ne consegue che non potrà considerarsi illegale la pena finale corrispondente per genere, specie e quantità a quella legale, anche se determinata attraverso un percorso argomentativo viziato, potendo considerare privi di rilievo eventuali errori relativi ai singoli passaggi interni.

Le Sezioni Unite hanno pertanto dichiarato inammissibile il ricorso, in quanto proposto per un motivo non consentito, ovvero fuori dai casi di cui all’art. 448, comma 2bis, c.p.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 20 luglio 2021, n. 28031; Cass., sez. V , 8 maggio 2019, n. 19757
Difformi:      Cass., sez. II, 8 febbraio 2021, n. 4798; Cass., sez. V, 9 giugno 2014, n. 24054
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Rilevanza penale omesso versamento ritenute sostituto d’imposta Può ritenersi costituzionalmente legittimo l’art. 7, comma 1, lett. b) del D.L. 158/2015 nella parte in cui, modificando l’art. 10bis del D.L. 74/2000, attribuisce rilevanza penale alla condotta del sostituto d’imposta che ometta di versare le ritenute dovute sulla base della propria dichiarazione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

Il legislatore delegato, introducendo nell’art. 10bis del D.L. 74/2000 una nuova fattispecie incriminatrice costituita dall’omesso versamento delle ritenute dovute sulla scorta della dichiarazione presentata e a prescindere dal rilascio delle certificazioni ai sostituiti, ha esorbitato dal perimetro indicato dalla legge delega in aperta violazione degli artt. 76 e 77, comma 1, Cost. ed ha creato ex novo una fattispecie incriminatrice, frustrando il principio di stretta legalità previsto dall’art. 25, comma 2, Cost. – Corte Cost. 14 luglio 2022, n. 175.

La Corte Costituzionale è chiamata a scrutinare la legittimità dell’art. 10bis del D.L. 74/2000 limitatamente alle parole “dovute sulla base della dichiarazione o” ivi inserite dall’art. 7, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 158/2015 in riferimento agli artt. 25, comma 2, 76 e 77, comma 1 della Cost.

Detto altrimenti, il giudice rimettente lamenta che il Governo, nel dare attuazione alla delega parlamentare di razionalizzazione del sistema sanzionatorio previsto per i reati tributari, abbia ecceduto i limiti stabiliti nella legge e abbia ampliato la fattispecie incriminatrice di omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, frustrando conseguentemente il principio costituzionale della riserva di legge in materia penale.

La risoluzione della questione di costituzionalità prospettata dalla Consulta impone una necessaria premessa riguardante l’evoluzione normativa della fattispecie.

La prima disciplina organica del sistema sanzionatorio penale tributario è contenuta nel D.L. 429/1982, quale insieme di norme finalizzate alla repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto. In particolare, con riguardo alle condotte illecite attribuibili al sostituto di imposta, l’art. 2 del decreto aveva previsto una disciplina sanzionatoria articolata in reati di natura sia contravvenzionale, quali l’omessa e infedele dichiarazione del sostituto di imposta, sia delittuosa, sanzionando con la reclusione da due mesi a tre anni e con la multa da un quarto alla metà della somma non versata, chiunque non pagava all’erario le ritenute effettivamente operate a titolo di acconto o di imposta sulle somme pagate.

La disciplina penale richiamata è stata, poi, oggetto di una serie di modifiche nel corso del tempo.

La più risalente è stata operata dal D.L. 83/1991 che, pur mantenendo ferma la previsione dell’omessa dichiarazione annuale del sostituto di imposta, quale illecito penale di natura contravvenzionale, ha disciplinato l’omesso versamento delle ritenute secondo due distinte fattispecie incriminatrici: la prima, di natura contravvenzionale, con cui si sanzionava, con la pena dell’arresto fino a tre anni o con l’ammenda fino a lire sei milioni, l’omesso versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di ritenute alle quali il sostituto di imposta era obbligato per legge relativamente a somme pagate per un ammontare complessivo per ciascun periodo di imposta superiore a cinquanta milioni di lire; la seconda, di natura delittuosa, che puniva con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire tre milioni a lire cinque milioni il mancato versamento, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare complessivo superiore a lire venticinque milioni per ciascun periodo d’imposta.

Su tale assetto sanzionatorio è successivamente intervenuto il D.Lgs. 74/2000, con lo scopo di fornire una prima razionalizzazione del sistema sanzionatorio previsto per i reati tributari, depenalizzando le fattispecie di minore disvalore sociale. In buona sostanza, il legislatore del 2000 ha limitato la rilevanza penale delle fattispecie in materia tributaria alle sole condotte caratterizzate da un comportamento fraudolento, richiedendo un quid pluris rispetto al semplice sottrarsi all’obbligazione tributaria. In quest’ottica, pertanto, ha escluso la rilevanza penale di tutti i comportamenti del sostituto d’imposta, degradando quelle fattispecie incriminatrici, ivi incluso l’omesso versamento delle ritenute, a meri illeciti amministrativi.

Tale più mite disciplina, per gli illeciti commessi dal sostituto di imposta, è rimasta inalterata fino all’entrata in vigore della L. 311/2004 che, introducendo l’art. 10bis nel D.Lgs. 74/2000, ha reinserito nell’assetto penalistico il delitto di omesso versamento da parte del sostituto d’imposta delle ritenute certificate.

Detto altrimenti, la legge finanziaria del 2005 ha nuovamente introdotto, sia pure con alcune modifiche, il delitto di omesso versamento di ritenute certificate già disciplinato dal D.L. 429/1982, (come sostituito dalla novella di cui al D.L. 83/1991), lasciando però immuni da sanzione penale i casi di mancato versamento all’erario di ritenute che non fossero state certificate e, quindi, delle ritenute risultanti sulla base delle dichiarazioni fiscali presentate dal sostituto de quo.

Da ultimo, con la L. 23/2014, il Parlamento ha conferito un’ulteriore e ampia delega al Governo finalizzata a ridisegnare l’ordinamento tributario per la costruzione di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita, con specifico riferimento alla revisione del sistema sanzionatorio.

Infatti, l’art. 8 della legge-delega ha demandato al Governo di procedere alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, prevedendo, tra le altre, la punibilità con la pena detentiva dei comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa; l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie; la revisione del regime della dichiarazione infedele e del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti; la possibilità di ridurre le sanzioni per le fattispecie meno gravi o di applicare sanzioni amministrative anziché penali, tenuto anche conto di adeguate soglie di punibilità.

In attuazione di tale delega, l’art. 7, comma 1, lett. a) e b), del D.Lgs. 158/2015 ha modificato la previsione di cui all’art. 10bis del D.Lgs. 74/2000, rispettivamente nella rubrica e nella descrizione della fattispecie, prevedendo la sanzione penale per i comportamenti di omesso versamento delle ritenute “dovute sulla base della dichiarazione o” certificate commessi dal sostituto d’imposta per importi superiori alla soglia di punibilità, fissata in euro 150.000,00 per ciascun periodo di imposta.

In altri termini, il Governo, oltre ad innalzare la soglia di punibilità da euro 50.000 ad euro 150.000, ha previsto la possibilità di ricavare la prova dell’avvenuta consumazione del reato anche sulla base di quanto risultasse dalla mera dichiarazione del sostituto d’imposta (c.d. modello 770) e non, invece come era richiesto dalla previgente disciplina, unicamente sulla base delle risultanze delle certificazioni rilasciate ai sostituiti.

Delineata in questi termini l’evoluzione normativa della fattispecie di omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, appare già evidente l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 158/2015.

Infatti, rileva la Corte Costituzionale che le linee direttive contenute nella delega al Governo erano chiare e ben delineate, prevedendo in modo perentorio che la revisione del sistema sanzionatorio avvenisse in due direzioni: da un lato, il legislatore delegato era facoltizzato a rivedere il trattamento sanzionatorio di tutte le fattispecie incriminatrici tributarie, tuttavia potendo intervenire con la modifica della pena esclusivamente tra il massimo e il minimo edittale previsto nella delega e rigorosamente in modo proporzionato all’effettiva gravità del comportamento; dall’altro lato, la possibilità di configurare nuove fattispecie penali era strettamente limitata alle gravi condotte insidiose per il fisco, poste in essere con frode o falsificazione di documenti.

Sulla scorta di queste indicazioni, è di solare evidenza che la condotta di chi non versa le ritenute indicate nella relativa dichiarazione come sostituto d’imposta non è certo ascrivibile a comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa, né è riconducibile al regime della dichiarazione infedele, atteso che ciò che rileva è unicamente l’omesso versamento delle ritenute dovute in base alla dichiarazione, a prescindere dal fatto che essa sia fedele o infedele. Pertanto, secondo le previsioni della legge-delega, tale condotta – già annoverata tra le contravvenzioni anche quando considerata penalmente rilevante nella normativa precedente – avrebbe potuto riacquistare rango di reato, esclusivamente come fattispecie meno grave e, in quanto tale, la relativa pena avrebbe comunque dovuto subire una mitigazione o una degradazione a sanzione amministrativa.

Di contro, il legislatore delegato ha introdotto nell’art. 10bis del D.L. 74/2000 una vera e propria fattispecie incriminatrice nuova costituita dall’omesso versamento delle ritenute dovute sulla scorta della dichiarazione presentata e a prescindere dal rilascio delle certificazioni ai sostituiti, così esorbitando dal perimetro indicato dalla legge delega.

Va da sé che un tale modus operandi è apertamente in contrasto con gli artt. 76 e 77, comma 1 della Cost.: il Governo, nell’esercizio del potere legislativo ad esso delegato dal Parlamento, ha violato i principi e i criteri direttivi dettati dalle Camere, introducendo fattispecie di rilevanza penale non ricomprese in quest’ultima.

Non solo.

La scelta governativa operata nel d.lgs. 158/2015 si pone in contrasto anche con gli artt. 25, comma 2 e 3 della Costituzione, norme fondamentali del nostro ordinamento penalistico.

Segnatamente, per ciò che concerne la prima, occorre ricordare che il principio di stretta legalità sancisce il divieto categorico di punire un fatto se esso non è previsto espressamente da una legge penale, di fatto attribuendo esclusivamente al Parlamento la funzione legislativa in ambito penale. Nel caso di specie invece, come si è visto, il legislatore delegato si è arrogato scelte di politica criminale che non avrebbe potuto compiere, con la conseguenza che l’introduzione della nuova fattispecie penale nell’art. 10bis del D.L. 74/2000, prima non prevista e non oggetto di delega, viola l’art. 25, comma 2, Cost.

Analoghe considerazioni possono essere svolte anche in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost. Infatti, il legislatore delegato, pur avendo innalzato lo standard della tutela per il bene giuridico di categoria, prevedendo il presidio penale per una condotta di omesso versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione del sostituto d’imposta, non ha tuttavia previsto tra i più gravi illeciti dichiarativi previsioni delittuose in materia di dichiarazioni fraudolente o infedeli del sostituto di imposta, così giungendo al paradosso che, in difetto del rilascio delle certificazioni, sarà punito il contribuente che presenti un modello 770 veritiero e ometta di versare le ritenute per un importo superiore a 150.000 euro, mentre andrà esente da pena il sostituto di imposta che, rendendosi ugualmente inadempiente a un debito tributario di pari entità, abbia presentato una dichiarazione falsa, indicando un debito inferiore alla soglia di punibilità.

Posto quanto precede, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lett. b) del D.L. 158/2015 (Revisione del sistema sanzionatorio in attuazione dell’art. 8, comma 1, della L. 23/2014), nella parte in cui ha inserito le parole “dovute sulla base della stessa dichiarazione o” nel testo dell’art. 10bis del D.Lgs. 74/2000, prevedendo l’esplicita abrogazione della novella legislativa (con conseguente reviviscenza della precedente disciplina).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 142/2020; Corte Cost. 96/2020; Corte Cost. 10/2018
giurista risponde

Legittimità art. 168bis comma 4 c.p. Può ritenersi costituzionalmente legittimo l’art. 168bis, comma 4, c.p. nella parte in cui, disponendo che la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non possa essere concessa più di una volta, non prevede che l’imputato ne possa usufruire per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p. con altri reati per i quali tale beneficio è stato concesso?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

L’art. 168bis, comma 4, c.p. è costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede che l’imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova nelle ipotesi in cui si proceda per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p., con altri reati per i quali detto beneficio sia stati già concesso. – Corte Cost. 12 luglio 2022, n. 174.

La questione di costituzionalità rimessa al vaglio della Consulta trae origine dal procedimento penale avviato a carico di due soggetti, imputati ex art. 73, comma 5 del D.P.R. 309/1990 per aver effettuato una serie di cessioni di sostanza stupefacente. All’udienza preliminare, la difesa degli imputati ha chiesto la sospensione del procedimento penale con messa alla prova ai sensi dell’art. 168bis c.p. Beneficio, questo, che non è stato accordato dal giudicante perché, secondo il tenore letterale del quarto comma della disposizione, “la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta: infatti, il Gup ha rilevato come gli imputati si erano già avvalsi del beneficio dell’art. 168bis c.p. in altro procedimento penale, relativo ad episodi di spaccio, commessi in epoca coeva a quelli contestati nel giudizio a quo e ad essi avvinti dal vincolo della continuazione, con conseguente impossibilità di nuova concessione della messa alla prova.

Sulla scorta di quanto precede, il Giudice rimettente ha riscontrato un’irragionevole disparità di trattamento sottesa alla norma in commento: sebbene l’art. 168bis citato ammetta pacificamente che, in caso di simultaneus processus avente ad oggetto più fatti di reato, il Giudice possa riconoscere il vincolo della continuazione e giungere all’estinzione di tutte le fattispecie penali commesse nell’ambito del medesimo disegno criminoso per esito positivo della messa alla prova, a soluzione opposta si giunge nei casi in cui, per scelta processuale del Pubblico Ministero o per tempistica processuale, i reati commessi in continuazione vengano contestati in procedimenti differenti e uno di essi si concluda con l’estinzione ex art. 168bis c.p.

Detto altrimenti, secondo l’applicazione letterale del quarto comma della norma, la sentenza che dichiara l’estinzione di un procedimento penale per esito positivo della messa alla prova consuma definitivamente ed irrimediabilmente l’unica possibilità di usufruire di detto benefico, con la conseguenza che, in caso di parcellizzazione dei procedimenti penali, eventuale nuova richiesta ai sensi dell’art. 168bis c.p. sarà destinata all’inevitabile declaratoria di inammissibilità, a nulla rilevando neppure la presenza di ipotesi di connessione ex art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p. tra i due procedimenti.

Di qui la questione legittimità costituzionale dell’art. 168bis c.p. in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

La Consulta è, dunque, chiamata a verificare se l’attuale tenore letterale della norma richiamata contempli una disparità di trattamento tra l’imputato sottoposto a simultaneus processus in relazione a reati connessi ex art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p. – il quale potrebbe usufruire della sospensione del procedimento con messa alla prova per tutti i reati contestatigli – e l’imputato che affronta giudizi distinti (ancorché connessi), che invece avrebbe diritto a richiedere il beneficio solo la prima (e unica) volta.

Esaminata la propria giurisprudenza, la Corte Costituzionale rileva come preclusioni analoghe a quella in esame sono state già dichiarate costituzionalmente illegittime da sentenze risalenti. Si pensi, fra tutte, all’ipotesi della sospensione condizionale della pena prevista dagli artt. 164, comma 2, n. 1) e 168 c.p. che, nella precedente formulazione, prevedevano che il giudice non potesse esercitare il potere di concedere o negare il beneficio in parola, ovvero dovesse revocarne il diritto di esercizio qualora fosse stato già concesso, quando il secondo reato fosse legato dal vincolo della continuazione a quello punito con pena sospesa.

La Consulta già allora aveva osservato la presenza di un’illegittima disparità di trattamento: la circostanza che il primo giudice non aveva notizia che l’imputato aveva, in continuazione, ancora violato la legge penale, non poteva impedire al secondo giudice di compiere gli apprezzamenti che avrebbe fatto il primo e imporgli di sostituire, al suo libero convincimento, una presunzione legale di inopportunità della sospensione (Corte Cost. 10 giugno 1970, n. 86).

Il principio richiamato produce significative conseguenze anche per la soluzione della questione in esame.

Infatti, la preclusione posta dall’art. 168bis, comma 4, c.p. non osta a che uno stesso imputato possa essere ammesso al beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova qualora gli vengano contestati più reati nell’ambito del medesimo procedimento (sempre che i limiti edittali di ciascuno di essi siano compatibili con la concessione del beneficio).

Ciò vale anche nel caso specifico in cui tali reati siano avvinti dalla continuazione, essendo stati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso: in una tale situazione, poiché l’ordinamento considera unitariamente i reati ai fini sanzionatori, prevedendo l’inflizione di una sola pena che tenga conto del loro complessivo disvalore, appare logico che, ove tutti i singoli reati siano compatibili con il beneficio della messa alla prova, l’imputato possa essere ammesso ad un percorso unitario di risocializzazione e riparazione, nel quale si sostanzia il beneficio medesimo e il cui esito positivo comporta l’estinzione dei reati contestati.

In buona sostanza, in ipotesi come quella verificatasi nel giudizio a quo, se tutti i reati commessi in continuazione fossero stati contestati nell’ambito di un unico procedimento, i relativi imputati ben avrebbero la possibilità di chiedere e – sussistendone tutti i presupposti – di ottenere il beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova in relazione a tutti i reati, il cui esito positivo avrebbe determinato l’estinzione dei reati medesimi; al contrario, ove per scelta del pubblico ministero o per altre evenienze processuali i reati avvinti dalla continuazione vengano contestati in distinti procedimenti, gli imputati non avrebbero più la possibilità, nel secondo procedimento, di chiedere ed ottenere la messa alla prova, allorché siano stati già ammessi al beneficio nel primo.

Ciò equivarrebbe a far dipendere la possibilità di accedere a uno dei riti alternativi previsti dal legislatore dalle scelte contingenti del pubblico ministero o da circostanze casuali, sulle quali l’imputato stesso non può in alcun modo influire, di fatto determinando un’irragionevole disparità di trattamento.

È evidente allora l’irragionevolezza del quarto comma dell’art. 168bis, comma 4, c.p.

Non solo.

L’irragionevolezza della disposizione in esame, secondo le rilevazioni della Corte Costituzionale, emergerebbe anche sotto un altro profilo. Infatti, la preclusione prevista dal quarto comma citato, applicata ad ipotesi di contestazione “asincrona” di reati avvinti dal vincolo della continuazione finirebbe per frustrare sia la ratio dell’istituto del reato continuato, sia la ratio del beneficio della messa alla prova.

Per ciò che riguarda il primo aspetto, la Corte osserva che l’intento legislativo sotteso alla previsione dell’art. 81 cpv. c.p. è proprio quello di sanzionare in maniera unitaria il reato continuato con una mitigazione della risposta sanzionatoria giustificata dal minor disvalore sociale attribuito alla commissione di più fattispecie criminose in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Mitigazione, questa, che ai sensi dell’art. 671 c.p.p. può essere riconosciuta anche nelle ipotesi in cui i reati siano stati giudicati separatamente con sentenze o decreti penali irrevocabili.

Va da sé che la preclusione posta dall’art. 168bis, comma 4, c.p., impedendo di riconoscere il beneficio della sospensione del procedimento penale con messa alla prova nell’ambito del secondo giudizio pendente per fattispecie delittuose connesse ad altri reati dichiarati estinti per concessione ed esito positivo della messa alla prova, è in aperto contrasto con la funzione e lo scopo dell’intera disciplina del reato continuato.

Analoghe conclusioni devono trarsi anche in riferimento al secondo aspetto, concernente la contrarietà della preclusione alla funzione specialpreventiva della stessa messa alla prova: infatti, l’impossibilità di accedere due volte al beneficio, esclusivamente con riferimento alle ipotesi di continuazione o concorso formale di reati, cozza con lo scopo stesso dell’istituto, teso al bilanciamento tra l’esigenza di punire un soggetto che ha commesso un reato, con quella di risocializzare, rieducare e restituire al mondo una personalità non più deviata.

Il tutto senza considerare che il limite alla concedibilità una tantum del beneficio non era previsto nell’impianto normativo originario dell’art. 168bis e non è oggi previsto nella parallela disciplina della messa alla prova dell’imputato minorenne.

Sulla base delle considerazioni svolte, la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 168bis, comma 4, c.p. per contrasto con il principio di eguaglianza perché, così formulato, importerebbe un’inaccettabile disparità di trattamento tra l’imputato a cui tutti i reati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso vengano contestati nell’ambito di un unico procedimento, nel quale egli ha la possibilità di accedere al beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova, e l’imputato nei cui confronti l’azione pena venga inizialmente esercitata solo in relazione ad alcuni reati e che si veda contestare gli altri, per effetto di una scelta discrezionale del pubblico ministero o per altre evenienze processuali, nell’ambito di un diverso procedimento penale, dopo che egli abbia già avuto accesso alla messa alla prova, con conseguente impossibilità di ottenere una seconda volta il beneficio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 86/1970; Corte Cost. 108/1973; Corte Cost. 267/1987; Cass. 14112/2015
estinzione del reato

Estinzione del reato: riparazione entro il dibattimento La Consulta ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell'art. 35, comma 1, D.Lgs. n. 274/2000

Estinzione del reato e riparazione del danno

Ai fini dell’estinzione del reato, l’imputato può procedere alla riparazione del danno entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento. Lo ha dichiarato la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 45-2024, dichiarando l’illegittimità dell’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’estinzione del reato, le condotte riparatorie
debbano essere realizzate «prima dell’udienza di comparizione», anziché «prima della dichiarazione di apertura del dibattimento».

La qlc

Il giudice di pace di Forlì, nel sollevare la questione, aveva censurato lo sbarramento temporale che imponeva, prima dell’udienza di comparizione, l’adempimento delle condotte risarcitorie e riparatorie del danno conseguente al reato, da lui commesso, deducendo che il predetto limite temporale fosse in sé irragionevole e tale da determinare una disparità di trattamento rispetto agli imputati dei reati di competenza del Tribunale, per i quali la riparazione integrale del danno è ammessa fino alla dichiarazione
di apertura del dibattimento (art. 162-ter c.p.).

Incoerenza del termine innanzi al giudice di pace

La Consulta ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione del principio di ragionevolezza, osservando, in particolare, l’incoerenza del termine finale previsto dalla disposizione censurata rispetto al peculiare ruolo di “mediatore” del giudice di pace, il quale giudica reati di ridotta gravità, espressivi di conflitti interpersonali a carattere privato e alla finalità di semplificazione, snellezza e rapidità che connota il procedimento che innanzi a lui si svolge.
In particolare, ha sottolineato la Corte, “la funzione conciliatoria del giudice di pace (sancita come principio generale dall’art. 2 del d. lgs n. 274 del 2000), il cui luogo di fisiologica esplicazione è proprio l’udienza di comparizione, risultava impedita dal termine perentorio che, previsto prima di tale udienza, frustrava la stessa funzione del giudice non consentendogli di avviare l’imputato e la persona offesa ad un accordo sulla entità e sulle modalità degli adempimenti riparatori e risarcitori”.
La Corte ha evidenziato altresì che la rigida preclusione temporale determinava ricadute negative sul carico giudiziario, riducendo i casi di definizione anticipata del processo attraverso la dichiarazione di estinzione del reato, per l’esito positivo delle condotte riparatorie.
Invece, ha concluso il giudice delle leggi, “la fissazione del termine ad quem nella dichiarazione di apertura del dibattimento è coerente con la finalità deflattiva del carico giudiziario e, al tempo stesso, consente un evidente risparmio di attività istruttorie e di spese processuali, non dandosi corso – nel caso in cui risulti integrata la fattispecie estintiva del reato conseguente a condotte riparatorie – alla fase dibattimentale”.

Allegati

omicidio colposo prossimo congiunto

Omicidio colposo prossimo congiunto: no alla “pena naturale” La Consulta ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 529 c.p.p. nella parte in cui non prevede una causa di non procedibilità per l'omicidio colposo del prossimo congiunto

Art. 529 c.p.p.

Con la sentenza n. 48-2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze nei confronti dell’art. 529 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un’ipotesi di non procedibilità riguardo all’omicidio colposo del prossimo congiunto.

La qlc

Chiamato a giudicare dell’imputazione per omicidio colposo con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro nei confronti di uno zio per la morte del nipote suo dipendente, il Tribunale aveva denunciato la violazione dei principi costituzionali di necessità, proporzionalità e umanità della pena, non prevedendo la norma censurata che il giudice possa emettere sentenza di non doversi procedere quando l’autore del reato abbia patito, per la morte del familiare da lui stesso provocata, una sofferenza, tale da rendere inutile ogni ulteriore sanzione.

La pena naturale

Dopo aver sottolineato che l’istituto della pena naturale, pur noto in alcuni ordinamenti europei, non appartiene alla tradizione normativa italiana, la Corte ha escluso la sussistenza di un vincolo costituzionale che ne esiga l’introduzione, in quanto “questa si rivela eccessivamente ampia sotto tre distinti aspetti, ognuno dei quali sufficiente ad inficiarne la fondatezza”.
In primis, nel riferimento generico alla colpa, senza alcuna distinzione tra le sue varie declinazioni, che “possono viceversa corrispondere a ipotesi molto diverse tra loro sotto il profilo criminologico e della protezione dei beni”.

In secondo luogo, per il rimando alla troppo larga nozione di prossimo congiunto, che, secondo la definizione dell’art. 307 del codice penale, «si estende ben oltre la famiglia nucleare».
Infine, poiché «non vi sono ragioni costituzionali in base alle quali la pena naturale da omicidio colposo del prossimo congiunto debba integrare una causa di non procedibilità, anziché, in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva».

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appropriazione indebita

Appropriazione indebita: incostituzionali 2 anni di carcere La Corte Costituzionale ha ritenuto illegittimo l'innalzamento della pena minima per il reato di appropriazione indebita

Pena minima appropriazione indebita

Il brusco innalzamento della pena minima per l’appropriazione indebita, portata da quindici giorni a due anni di reclusione dalla legge n. 3 del 2019 è sprovvisto di qualsiasi plausibile giustificazione ed è, già per questa ragione, costituzionalmente illegittimo. Così ha deciso la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 46-2024, accogliendo la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, di fronte al quale pendeva un processo per appropriazione indebita del valore di 200 euro, commessa da un agente immobilitare che aveva restituito soltanto in parte al proprio cliente la somma ricevuta a titolo di cauzione per un contratto di locazione, poi non conclusosi.

Discrezionalità del legislatore

La Corte ha ricordato che il legislatore gode di ampia discrezionalità “nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato”. Tuttavia, “discrezionalità non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona
deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”.
Il controllo sul rispetto di questi limiti – prosegue la sentenza – spetta alla Corte costituzionale, che “è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”.

Aumento pena minima appropriazione indebita

Alla luce di questi principi, la Consulta ha osservato che l’aumento della pena minima per l’appropriazione indebita deciso nel 2019 è stato voluto da una legge la cui finalità essenziale era quella di combattere in modo più efficace la corruzione. “Resta però del tutto oscura – ha osservato il giudice del leggi – la ragione che ha indotto il legislatore a innalzare a due anni la pena minima, che dal 1931 al 2019 era stata pari a quindici giorni di reclusione. Ciò “a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti”.

E i fatti meno gravi di appropriazione indebita, ai quali deve applicarsi la pena minima, “nella gran maggioranza dei casi nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione di ‘fondi neri’ dai quali poter attingere per tale scopo”.
Una pena simile, d’altra parte, appare manifestamente sproporzionata rispetto a quella minima (di sei mesi di reclusione) oggi prevista per un furto e una truffa che, in ipotesi, producano esattamente lo stesso danno patrimoniale di 200 euro.

Cancellazione pena minima

Il rimedio appropriato alla violazione della Costituzione riscontrata – ha sottolineato infine la Corte – è  semplicemente, la cancellazione della pena minima, che resterà così automaticamente fissata in quella prevista in generale dal codice penale per la reclusione, pari appunto a quindici giorni.
Resterà poi libero il legislatore di valutare se stabilire un nuovo minimo di pena, nel rispetto del principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena.

Allegati

lavori pubblica utilità

Lavori pubblica utilità: al via il portale nazionale Partita in 12 tribunali e relativi UEPE la sperimentazione della piattaforma sui lavori di pubblica utilità

Portale nazionale LPU

Una piattaforma che indica dove si può fare domanda per svolgere lavori di pubblica utilità e in quali settori. E’ partita la sperimentazione del portale nazionale dedicato che, tramite un sistema di geolocalizzazione, renderà la ricerca più veloce ed efficiente per operatori del settore giustizia e cittadini. Ne dà notizia gNews, il quotidiano online del ministero della giustizia.

Per la fase iniziale sono 12 i tribunali e relativi uffici di esecuzione penale esterna coinvolti: Ancona, Bari, Lucca, Castrovillari, Marsala, Milano, Pescara, Roma, Sassari, Savona, Torre Annunziata e Udine.

LPU: i dati

Il portale, presentato il 21 marzo presso la sede del dicastero, è stato sollecitato dalla crescente diffusione del ricorso a questa forma di esecuzione penale esterna. I dati mostrano che al 15 marzo, impegnati in lavori di pubblica utilità sono 27.102 imputati beneficiari della messa alla prova; 9.787 condannati per violazioni del codice della strada e 844 per violazione della legge sugli stupefacenti; 2.157 condannati a una pena sostitutiva di pena detentiva breve, introdotta dalla riforma Cartabia. Migliaia le convenzioni locali sottoscritte dai tribunali ordinari e decine gli enti del terzo settore con cui via Arenula ha stipulato convenzioni nazionali al fine di ospitare nelle proprie sedi imputati e condannati.

giurista risponde

Natura fidefacente atto pubblico e aggravante falsità materiale In quali casi un atto pubblico può avere, agli effetti della legge penale, natura fidefacente per la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Nei delitti di falso, l’elemento che caratterizza l’atto pubblico dotato di fede privilegiata è la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta cioè alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui. – Cass., sez. V, 13 marzo 2023, n. 10675.

Con la decisione in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata in relazione al ricorso proposto avverso una sentenza di appello da due imputati, condannati per una serie di delitti di falso fidefacente, ideologico e materiale, commessi nelle rispettive qualità di comandante dei vigili urbani e di agente dello stesso corpo di polizia.

Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, i due pubblici ufficiali avevano falsificato il registro di protocollo interno del Comando dei vigili urbani, attestando falsamente la spedizione del provvedimento di archiviazione di una contravvenzione elevata nei confronti di un privato e l’avvenuta ricezione della richiesta di archiviazione della stessa presentata dall’interessato, apponendo sulla relativa istanza, registrata solo in seguito al protocollo generale del Comune, il timbro dell’ufficio e il numero del protocollo interno.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, deducendo l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui confermava il giudizio di penale responsabilità in relazione alle condotte contestate, riconoscendo natura di atto pubblico a un mero registro interno, rispetto al quale, a parere della difesa, sarebbe mancata l’attribuzione del potere attestativo in capo al pubblico ufficiale circostanza che avrebbe impedito la considerazione di tale documento alla stregua di atto pubblico fidefacente.

La Corte ha ritenuto il ricorso fondato limitatamente alla natura di atto pubblico fidefacente del protocollo interno, non riconoscendo l’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p.

In via preliminare, ha precisato che le condotte contestate erano riferite a due diverse annotazioni apposte dagli imputati sul registro interno del corpo dei vigili urbani, attestanti una l’archiviazione del verbale di contravvenzione elevato nei confronti del privato, l’altra l’avvenuta ricezione dell’istanza di annullamento in autotutela presentata dallo stesso, con apposizione del timbro dell’ufficio e attribuzione del numero di protocollo. Quanto alla qualificazione giuridica, a parere della Corte le due condotte decettive integrano gli estremi del delitto di falso ideologico, estrinsecandosi in enunciati idonei ad assumere un significato descrittivo o constatativo non corrispondente ai fatti, ben potendo ritenersi sussistente la materialità della fattispecie di reato contestata. Quanto all’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p., prima di valutare se il registro di protocollo interno abbia natura fidefacente, la Corte si è interrogata sulla possibilità di qualificare lo stesso come atto pubblico. Come noto, il concetto di atto pubblico agli effetti della tutela penale è più ampio di quello civilistico e ricomprende ogni documento formato dal pubblico ufficiale nell’esercizio della sua funzioni avente l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione. Ne consegue che è atto pubblico ogni documento redatto dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni, rientrando nella tutela prevista dalla norma non solo gli atti destinati a spiegare efficacia nei confronti dei terzi, ma anche gli atti meramente interni, formati dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni per documentare fatti inerenti all’attività da lui svolta e alla regolarità delle operazioni amministrative cui è addetto. Nel caso di specie, dal momento che il registro di protocollo interno ha avuto la funzione di documentare fatti inerenti alla attività dei pubblici ufficiali e alla regolarità delle operazioni amministrative, a parere della Corte lo stesso è espressione di un potere di autonomia organizzativa dell’amministrazione e deve essere considerato atto pubblico.

Tanto chiarito in relazione alla nozione di atto pubblico rilevante ai fini penali, la Corte ha scrutinato l’ulteriore profilo attinente alla natura fidefacente degli atti incriminati.

Secondo il Consiglio ciò che caratterizza l’atto pubblico dotato di fede privilegiata è la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta, cioè, alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui. Si tratta di atti espressivi di una speciale potestà documentatrice, attribuita sulla base di una legge, di un regolamento, anche interno, o desumibile dal sistema, in forza della quale l’atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l’accoglimento della querela di falso o con sentenza penale.

Ne consegue che, quanto alla delimitazione dell’ambito operativo della circostanza aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p. in tema di falso ideologico la natura di atto pubblico di fede privilegiata necessita del concorso di un duplice requisito dovendo, da un lato provenire da un pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della p.a. ad attribuire all’atto pubblica fede, dall’altro contenere un’attestazione dell’autore di verità circa i fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza e della formazione dell’atto nell’esercizio del potere di pubblica certificazione. Per tali ragioni, sono documenti dotati di fede privilegiata solo quelli che, emessi dal pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della P.A., attestino quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza.

Ciò premesso, a parere della Corte, quanto al registro generale di protocollo, è ormai jus receptum che lo stesso sia atto di fede privilegiata, trattandosi di verificare piuttosto se lo sia anche il registro interno, quale risulta essere quello in rilievo nel caso di specie.

A tale proposito, la Corte ritiene che il protocollo interno istituito presso il settore dei Vigili Urbani non risponde all’esigenza di attestare la ricezione a una certa data di un dato atto proveniente dall’esterno e, dunque, di tutelare l’affidabilità dell’informazione pubblica, possedendo al contrario una capacità rappresentativa solo a livello interno e per meri fini di migliore organizzazione amministrativa. Pertanto, nel caso di specie, mancando l’attribuzione del potere attestativo e certificativo in capo al pubblico ufficiale, non può dirsi ricorrente la speciale fede privilegiata, con la conseguenza che la contestata aggravante deve essere esclusa.

Per tali ragioni, la Corte ha annullato la sentenza impugnata senza rinvio relativamente all’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p. esclusa, e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello territoriale per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, rigettando i ricorsi nel resto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 17 dicembre 2018, n. 3542; Cass., sez. V, 15 febbraio 2021, n. 15901; Cass., sez. V, 8 settembre 2021, n. 37880; Cass., sez. V, 10 maggio 2019, n. 38455; Cass., sez. V, 11 aprile 2019, n. 28047
giurista risponde

Infanticidio e condizione di abbandono morale e materiale Nel delitto di infanticidio è necessario che la gestante si trovi in una oggettiva condizione di abbandono morale e materiale o è sufficiente anche la soggettiva percezione di totale abbandono avvertita dalla stessa?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

L’integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto. – Cass., sez. V, 10 marzo 2023, n. 10284. 

Con la decisione in esame la quinta Sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a individuare uno degli elementi attinenti la tipicità del delitto di infanticidio.

Nel caso di specie, la Corte si è pronunciata sul ricorso proposto dall’imputata avverso la sentenza con cui la Corte d’Assise d’Appello aveva parzialmente riformato la pronuncia di condanna, confermando la penale responsabilità della stessa in relazione al delitto di omicidio aggravato dall’essere stato compiuto dalla madre nei confronti della neonata appena partorita.

Avverso la richiamata decisione proponeva impugnazione la ricorrente, deducendo l’errata applicazione dell’art. 578 c.p. quanto alla mancata derubricazione del fatto nel delitto di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.

Nel merito, la difesa richiamava una serie di elementi della condotta materiale valorizzabili nel senso della qualificazione del fatto ai sensi di infanticidio e non di omicidio doloso aggravato, quali la circostanza che la gravidanza fosse indesiderata e temuta, poiché non generata in un rapporto affettivo legittimo e palese; la strana ignoranza – al limite della credibilità – da parte delle persone vicine alla donna circa lo stato di gravidanza; la contrarietà dell’ambiente familiare ad una gravidanza e a un figlio derivanti da una relazione adulterina; la grave difficoltà dell’imputata a parlare della sua condizione in famiglia, tanto da non riferire nulla neppure quando i genitori si recarono a prenderla nel luogo ove aveva partorito. A sostegno della tesi difensiva, si menzionava pure l’ambiente familiare povero e carente culturalmente, all’origine dell’angoscia vissuta dalla donna durante la gravidanza a causa del pensiero del giudizio negativo dei parenti e del contesto sociale che, di conseguenza, aveva caratterizzato anche il momento del travaglio, vissuto con senso di solitudine.

Tali considerazioni, secondo la difesa, avrebbero inequivocabilmente dimostrato la sussistenza della condizione di abbandono materiale e morale indicativa del delitto di infanticidio.

Invero, la ricorrente richiama un orientamento di legittimità appena successivo alla decisione di appello, per cui lo stato di abbandono morale e materiale costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva, essendo sufficiente a integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna, collegata ad un ambiente familiare non comunicativo ed incapace di cogliere l’evidenza dello stato di gravidanza e di avvertire l’esigenza di aiuto e sostegno, in relazione alle delicate esperienze della gravidanza e del parto.

La Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, osservando che la questione della derubricazione del fatto nel diverso delitto di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale non è stata oggetto dei motivi di appello risultando, pertanto, preclusa al Supremo Collegio una qualificazione giuridica corretta. Nondimeno, la Corte ha condiviso le argomentazioni difensive nella parte in cui hanno valorizzato la nuova e diversa giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di infanticidio che ha individuato nello stato di abbandono per come soggettivamente percepito dalla vittima la situazione tipica necessaria a integrare la fattispecie in esame.

Il nuovo orientamento ermeneutico va, a parere della Corte, condiviso, avendo oculatamente superato il precedente indirizzo, caratterizzato da un certo grado di rigidità esegetica, che valorizzava l’assoluta mancanza di assistenza in cui era necessario che venisse a trovarsi l’autrice del reato, che in sostanza avrebbe dovuto vivere una situazione di disperante abbandono ed isolamento, senza neppure poter pensare di contare su una qualche forma di aiuto da parte delle persone vicine.

Alla stregua di tali obsoleti precedenti, per la configurabilità dell’infanticidio era necessario che la madre fosse lasciata in balia di sé stessa, senza alcuna assistenza e nel completo disinteresse dei familiari, in modo da trovarsi in uno stato di isolamento totale che non lasciasse prevedere alcuna forma di soccorso o di aiuto finalizzati alla sopravvivenza del neonato.

Nel caso in esame, la Corte ha condiviso la tesi difensiva, ritenendo che tale esegesi fosse ormai superata da una diversa elaborazione ermeneutica che, probabilmente al fine di adeguare l’opera di nomofilachia svolta da questa Corte alle diverse condizioni di vita sociale ed individuale in cui tali episodi avvengono, ha posto l’accento maggiormente sulla condizione soggettiva della donna e sulla sua percezione della realtà circostante nel momento in cui è realizzata la condotta delittuosa.

Secondo il nuovo orientamento, cui aderisce la Corte chiamata a pronunciarsi nel caso di specie, l’integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto.

La Corte ha evidenziato a tale proposito come già in risalenti pronunce è stata ritenuta irrilevante la disponibilità da parte dell’imputata di mezzi di sussistenza, essendo sufficiente la condizione di solitudine esistenziale e di abbandono determinata anche da un ambiente familiare indifferente alla vicenda umana e incapace di avvertire ogni esigenza di aiuto e sostegno necessari alla donna.

Corretta è parsa alla Corte la valorizzazione da parte della difesa delle condizioni di estremo disagio in cui è stata posta in essere la condotta materiale e dalle quali sarebbero potuti emergere elementi valorizzabili per qualificare il fatto ai sensi dell’art. 578 c.p., inteso non nel senso dell’accertamento di una oggettiva ed assoluta condizione di abbandono ma come la percezione di questa condizione sulla base di dati di fatto riscontrabili obbiettivamente e che caratterizzarono la vita familiare e sociale dell’imputata, tanto da indurre una convinzione di solitudine esistenziale e di derelizione.

Tuttavia, nonostante le ben sviluppate argomentazioni difensive, la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, poiché la questione della qualificazione giuridica della condotta materiale è stata proposta per la prima volta in sede di legittimità. Come noto, al giudice di legittimità è preclusa una nuova valutazione del fatto basata su elementi già presenti nel giudizio di merito, potendo la questione della qualificazione giuridica essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità unicamente nel caso in cui per la sua soluzione non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 23 maggio 2013, n. 26663; Cass., sez. I, 22 gennaio 2021, n. 28252; Cass., sez. I, 3 maggio 2022, n. 14713
Difformi:      Cass., sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41889; Cass., sez. I, 17 aprile 2007, n. 24903;
Cass., sez. I, 10 febbraio 2000, n. 2906; Cass., sez. V, 26 maggio 1993, n. 7756