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Servizio di guardia medica e visita domiciliare Commette reato il sanitario in servizio di guardia medica che si rifiuti di eseguire una visita domiciliare?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

Integra il delitto di rifiuto di atti di ufficio la condotta del sanitario in servizio di guardia medica che, pur richiesto, decida di non eseguire l’intervento domiciliare urgente per accertarsi delle effettive condizioni di salute del paziente, nonostante gli venga prospettata una sintomatologia grave, trattandosi di un reato di pericolo per il quale a nulla rileva che lo stato di salute del paziente si riveli in concreto meno grave di quanto potesse prevedersi. – Cass., sez. VI, 15 marzo 2024, n. 11085.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è intervenuta in merito al reato di rifiuto di atti di ufficio, vagliando la responsabilità penale del medico in servizio di guardia medica che si rifiuti di eseguire una visita domiciliare urgente richiesta dal paziente.

In particolare, la Corte di Appello confermava la pronuncia con la quale il Tribunale, previa assoluzione per il delitto di omicidio colposo, aveva condannato un medico per il reato di omissioni in atti di ufficio, perché, nella qualità di medico di guardia dell’Asl, aveva rifiutato di eseguire una visita domiciliare, nonostante le riferite gravi condizioni di salute del paziente, limitandosi a diagnosticare telefonicamente una gastroenterite che, successivamente, risultava essere un infarto che portava al decesso dell’uomo.

Avverso tale sentenza il medico ha presentato ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione con atto sottoscritto dal proprio difensore.

In particolare, il ricorrente denunziava la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di cui all’ art. 328 c.p. attesa la mancanza sia dell’indebito rifiuto – posto che la scelta del medico di provvedere o meno a visita domiciliare costituisce un atto discrezionale – sia del dolo del reato – in quanto il ricorrente, avendo colposamente errato la diagnosi, non era consapevole delle reali condizioni del paziente e, quindi, non si era rappresentato una situazione che imponesse il dovere di attivarsi.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso parzialmente fondato e ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio.

In relazione alla configurabilità del reato di rifiuto di atti di ufficio, la Suprema Corte ha evidenziato che l’art. 13, D.P.R. 41/1991 stabilisce che il medico in servizio di guardia deve rimanere a disposizione «per effettuare gli interventi domiciliari a livello territoriale che gli saranno richiesti» e durante il turno «è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che gli siano richiesti direttamente dagli utenti». È di tutta evidenza che, in base alla norma citata, la necessità e l’urgenza di effettuare una visita domiciliare spetti alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sia sulla base della sintomatologia riferitagli che sulla base della propria esperienza. Tale valutazione, però, è sindacabile dal giudice di merito, in forza degli elementi di prova sottoposti al suo esame, per accertare se la valutazione del sanitario sia stata correttamente effettuata sulla base di dati di ragionevolezza, desumibili dallo specifico contesto e dai protocolli sanitari applicabili, oppure costituisca un pretesto per giustificare l’inadempimento dei propri doveri (Cass., sez. VI, 29 luglio 2019, n. 34535; Cass., sez. VI, 30 ottobre 2012, n. 23817).

Costituisce, pertanto, consolidato orientamento interpretativo di questa Corte quello secondo il quale integra il delitto di rifiuto di atti di ufficio la condotta del sanitario in servizio di guardia medica che, pur richiesto, decida di non eseguire l’intervento domiciliare urgente per accertarsi delle effettive condizioni di salute del paziente, nonostante gli venga prospettata una sintomatologia grave, trattandosi di un reato di pericolo per il quale a nulla rileva che lo stato di salute del paziente si riveli in concreto meno grave di quanto potesse prevedersi. In sostanza, il delitto è integrato ogniqualvolta il medico di turno, pubblico ufficiale, a fronte ad una riferita sintomatologia ingravescente e alla richiesta di soccorso, che presenti inequivoci connotati di gravità e di allarme, neghi un atto non ritardabile, quale appunto quello di un accurato esame clinico volto ad accertare le effettive condizioni del paziente (Cass., sez. VI, 23 maggio 2023, n. 29927; Cass., sez. VI, 30 ottobre 2012, n. 23817; Cass., sez. VI, 5 giugno 2007, n. 31670).

Nel caso in esame, la motivazione della sentenza di secondo grado, dopo aver correttamente escluso che la condotta di tipo omissivo della ricorrente avesse causalmente determinato la morte del paziente, ha spiegato che l’ostinato rifiuto del medico di eseguire la visita domiciliare andasse qualificato come rifiuto di atti di ufficio. Nonostante la perizia disposta in primo grado avesse ritenuto che i sintomi rappresentati telefonicamente dovessero indurre ragionevolmente a considerare la possibilità teorica che fosse in atto una patologia cardio-vascolare di natura ischemica, la dottoressa aveva diagnosticato una semplice gastroenterite (ritenuta dai periti «francamente erronea»), e non aveva ritenuto necessario eseguire la visita domiciliare sebbene solo il rilevamento di parametri obiettivi (quali la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, il ritmo cardiaco, la cianosi) avrebbe consentito di comprendere, in concreto, la patologia del paziente.

Quanto alla doglianza riguardante l’insussistenza del dolo del reato, la Suprema Corte ha ritenuto le argomentazioni esposte dalla Corte di merito correttamente fondate sull’indebito e consapevole rifiuto della ricorrente di svolgere l’intervento domiciliare urgente, in assenza di altre esigenze dei servizio (quali, ad esempio, contemporanee richieste di intervento urgente), a fronte dell’ inequivoca gravità e chiarezza della sintomatologia esposta, per sincerarsi personalmente, pur nel dubbio, delle effettive condizioni del paziente e dell’eventuale situazione di pericolo in cui questi si trovava o meno, in base ad un esame clinico diretto. Ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del reato, costituito dal dolo generico, è dunque vero che non basta la generica negligenza, ma è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza che il proprio contegno omissivo violi i doveri impostigli (Cass., sez. VI, 15 giugno 2021, n. 33565) tra i quali rientrano quelli delineati nel sopracitato art. 13, D.P.R. 41/1991 la cui necessità va valutata secondo criteri di ragionevolezza desumibili dalla situazione in concreto rappresentata.

*Contributo in tema di “Servizio di guardia medica e visita domiciliare”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

reato adescamento minorenni

Adescamento di minorenni L'adescamento di minorenni è un reato previsto e punito dall'art. 609undecies del codice penale con la reclusione da uno a tre anni

Reato di adescamento di minorenni: definizione e natura

Ai sensi dell’art. 609undecies c.p., introdotto dalla L. 172/2012, risponde penalmente chiunque, allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 600, 600bis, 600ter e 600quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’art. 600quater.1, 600quinquies, 609bis, 609quater, 609quinquies e 609octies, adesca un minore di anni sedici.

La norma ha, dunque, lo scopo di attuare i precetti della Convenzione di Lanzarote del 25-10-2007, per la tutela dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale. Nello specifico, si attua il disposto dell’art. 23 della suddetta convenzione, rubricato «Adescamento di bambini a scopi sessuali».

La fattispecie ha carattere sussidiario, essendo configurabile solo ove il fatto non costituisca più grave reato.

Tentativo o consumazione

Il reato è, dunque, configurabile solo se non siano ancora realizzati gli estremi del tentativo o della consumazione del reato-fine, in quanto, nell’ipotesi che quest’ultimo resti allo stadio della fattispecie tentata, la contestazione anche del delitto di cui all’art. 609undecies c.p. significherebbe di fatto perseguire la stessa condotta due volte, mentre, qualora il reato fine sia consumato, la condotta di adescamento precedentemente tenuta dall’agente si risolverebbe in un antefatto non punibile.

Nozione rilevante di «adescamento»

La norma tipizza la nozione di adescamento, per tale dovendosi intendere qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione.

Nel concetto di adescamento rientra quel complesso di condotte (identificate all’estero con il termine «grooming», da «to groom», «curare») impiegate per indebolire la volontà di un minore in modo da ottenerne il massimo controllo, inducendolo gradualmente a superare le resistenze attraverso tecniche di manipolazione psicologica, al fine di convincere la potenziale vittima della normalità dei rapporti sessuali tra adulti e minori. In giurisprudenza si afferma che costituisce «lusinga» idonea a «carpire la fiducia del minore» qualsiasi allettamento — fatto di frasi adulatorie, parole amiche, promesse o finte attenzioni – con cui l’agente cerchi di attrarre la persona offesa al proprio volere, onde indurla a commettere uno dei reati indicati dall’art. 609undecies c.p. (ad esempio, anche attraverso messaggistica telefonica) (Cass. 9-9-2022, n. 33257).

Circostanze aggravanti

Per effetto della cd. «Legge europea 2019-2020» (L. 238/2021), sono state introdotte talune ipotesi circostanziali aggravanti ad efficacia comune configurabili:

1) se il reato è commesso da più persone riunite;

2) se il reato è commesso da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività;

3) se dal fatto, a causa della reiterazione delle condotte, deriva al minore un pregiudizio grave;

4) se dal fatto deriva pericolo di vita per il minore.

Trattasi, dunque, di previsione che mira ad introdurre, anche in relazione a tale fattispecie, talune ipotesi aggravanti già esistenti o, a loro volta, neointrodotte in altri reati sessuali su minori, come gli atti sessuali con minorenne o la corruzione di minorenne.

Elemento soggettivo e consumazione

Quanto all’elemento soggettivo, il delitto è punibile a titolo di dolo specifico, richiedendosi la cosciente e volontaria realizzazione della condotta adescatrice, finalizzata alla commissione di uno o più dei reati indicati dalla norma. In giurisprudenza si afferma che la sussistenza del dolo specifico, ove consistente nello scopo di commettere il reato di detenzione di materiale pornografico di cui all’art. 600quater c.p., deve essere necessariamente desunta facendo ricorso a parametri oggettivi, dai quali possa inferirsi il movente sessuale della condotta (Cass. 8-7-2022, n. 26266). Più in generale si afferma che il dolo specifico, consistente nell’intenzione di commettere i reati anzidetti, non deve necessariamente risultare manifesto da quanto esplicitato nella condotta direttamente posta in essere nei confronti del minore, ben potendo la relativa prova essere ricavata anche aliunde (Cass. 9-7-2020, n. 20427).

Quanto, invece, alla consumazione, avviene nel tempo e nel luogo in cui l’agente realizza le condotte descritte nella fattispecie incriminatrice; tuttavia, qualora l’illecito sia posto in essere tramite internet o con mezzi di comunicazione a distanza, la sua consumazione si verifica nel luogo in cui si trova il minore adescato, perché il delitto presuppone una comunicazione tra due soggetti e in tale luogo si perfeziona la dimensione offensiva del fatto (Cass. 28-8-2019, n. 36492).

Pena e procedibilità

La pena è la reclusione da uno a tre anni (aumentata fino ad un terzo nelle ipotesi aggravate). L’arresto in flagranza ed il fermo non sono consentiti.

Si procede d’ufficio e la competenza spetta al Tribunale monocratico.

guida senza patente

Guida senza patente: due volte in un biennio è reato La Cassazione rammenta che il reato di guida senza patente, nell'ipotesi aggravata dalla recidiva nel biennio, non è stato depenalizzato

Guida senza patente

La guida senza patente per due volte in un biennio costituisce reato a tutti gli effetti in quanto condotta non penalizzata. Lo ha confermato la sesta sezione penale della Cassazione con sentenza n. 23043-2024.

Nella vicenda, la Corte d’appello di Milano disponeva consegna all’autorità giudiziaria di Romania, di uno straniero destinatario di un mandato di arresto europeo per il reato di guida senza patente, già condannato per lo stesso reato alla pena di otto mesi di reclusione.

L’uomo adiva il Palazzaccio lamentando violazione di legge quanto al principio della doppia incriminazione. Il tema attiene ala necessità per l’ordinamento interno, ai fini della rilevanza penale della condotta di guida senza patente, che sussista la recidiva nel biennio precedente alla data di commissione del reato per cui si procede. Assume, inoltre, che la Corte di appello avrebbe dovuto dare esecuzione non solo alla sentenza del 2022 ma anche a quella del 2019 in quanto quest’ultima sarebbe il presupposto necessario affinché si configuri li reato per li quale è stata disposta la consegna.

Doppia punibilità

Per gli Ermellini il ricorso è inammissibile.

In più occasioni la giurisprudenza ha chiarito, premettono infatti, che “per la sussistenza del requisito della doppia punibilità di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2005, è necessario che l’ordinamento italiano contempli come reato, al momento della decisione sulla domanda dello Stato di emissione, il fatto per il quale la consegna è richiesta (cfr. Cass. n. 5749/2016).

Depenalizzazione reato guida senza patente

Inoltre, aggiungono i giudici, “la depenalizzazione dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, prevista dall’art. 1, d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, non si estende alle ipotesi aggravate punite con la pena detentiva, le quali, a seguito della trasformazione in illecito amministrativo delle fattispecie base, si configurano quali autonome figure di reato”.

Ne discende che “solo la fattispecie di guida senza patente, nell’ipotesi aggravata dalla recidiva nel biennio, non è stata depenalizzata dall’art. 1 d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8 e si configura, pertanto, come fattispecie autonoma di reato di cui la recidiva integra un elemento costitutivo”.
Per l’integrazione della recidiva nel biennio, “idonea, ai sensi dell’art. 5 d.lgs. 5 gennaio 2016, .n 8, ad escludere il reato dall’area della depenalizzazione – precisa altresì la S.C. – non è sufficiente che sia intervenuta la mera contestazione dell’illecito depenalizzato, ma è necessario che questo sia stato definitivamente accertato”.

La condanna

Nel caso di specie, la Corte di appello dunque ritengono da piazza Cavour “ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, avendo disposto la consegna, da una parte, limitatamente all’unico fatto che, per l’ordinamento interno, costituisce reato e per il quale, quindi, sussiste il requisito della doppia punibilità di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2005, e, dall’altra, in relazione alla sola pena di un anno di reclusione inflitta dal Tribunale romeno in ordine al fatto in questione.
Dichiarati inammissibili anche gli altri motivi, la S.C. condanna il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali e a 3mila euro in favore della Cassa delle ammende.

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omesso mantenimento figli reato

Punibile il padre che non mantiene i figli per anni La Cassazione chiarisce che la causa di esclusione di cui all’art. 131-bis c.p., è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, solo se l’omesso versamento abbia carattere di mera occasionalità

Reato art. 570-bis c.p.

Nel caso in esame la Corte di appello di Torino aveva ritenuto che il padre fosse penalmente responsabile, ai sensi dell’art. 570 bis c.p., per non aver versato quanto stabilito in sede giudiziale alla figlia minore a titolo di mantenimento, attenuando poi il trattamento sanzionatorio in ragione delle riconosciute attenuanti generiche.

Avverso tale decisione il genitore condannato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione contestando, in particolare, l’omesso riconoscimento in suo favore, da parte del Giudice di merito, della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Occasionalità dell’omesso versamento ai fini della non punibilità

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22806-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Rispetto alla suddetta contestazione, la Corte ha in particolare affermato che “la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare a condizione che l’omissione corresponsione del contributo al mantenimento abbia carattere di mera occasionalità”.

Ne consegue pertanto che, nell’ipotesi in cui la condotta illecita contestata si protragga nel tempo e si sostanzi in reiterate omissioni nel versamento del mantenimento “essendo l’abitualità nel comportamento ostativa al riconoscimento del beneficio e irrilevante la particolare tenuità di ogni singola azione od omissione, la causa di non punibilità in questione non potrà trovare applicazione”.

No alla tenuità del fatto

Nel caso in esame, l’imputato aveva protratto la condotta illecita per tre anni consecutivi con la conseguenza, ha affermato la Corte, che tale comportamento risulta inconciliabile con l’applicabilità dell’art. 131- bis c.p.

 

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decreto caivano

Decreto Caivano Il decreto Caivano contiene misure di contrasto alla criminalità giovanile, all’abbandono scolastico e al degrado urbano nelle aree più esposte del territorio

Decreto Caivano: la ratio

Il “Decreto Caivano” è stato emanato dal governo italiano come risposta urgente a una serie di episodi di criminalità giovanile e degrado urbano che hanno colpito alcune zone del paese, tra cui il comune di Caivano, in provincia di Napoli. Il decreto n. 123/2023, convertito in legge con modifiche, rappresenta un tentativo di affrontare problematiche sociali e di sicurezza in modo strutturato. Esso mira a contrastare fenomeni di criminalità minorile, degrado urbano e sociale in aree particolarmente colpite da questi problemi. L’obiettivo principale è ripristinare la sicurezza e promuovere la riqualificazione sociale ed economica attraverso interventi mirati.

Principali misure del decreto Caivano

Il decreto contempla una serie di misure multidimensionali, tra le quali assumono un particolare rilievo quelle dedicate ai minori.

Daspo urbano: il provvedimento lo estende a coloro che hanno compiuto gli anni 14. Viene introdotto anche il Daspo Willy per contrastare i fenomeni di movida violenta.

Lotta ai reati in materia di sostanze stupefacenti e di armi. Più elevate le sanzioni per il porto d’armi e lo spaccio di sostanze stupefacenti, per il quale la pena massima sale a cinque anni. Introdotto il reato di pubblica intimidazione attraverso luso delle armi, che viene punito con il carcere da tre a otto anni.

Prevenzione della violenza giovanile anche tramite l’avviso orale, che vale per i minori maggiori di 14 anni.

Divieti per dispositivi di telecomunicazioni e sistemi informatici: per chi ha violato l’avviso orale viene previsto il divieto di utilizzo di dispositivi di comunicazione.

Ammonimento per i minori di età compresa tra i 12e i 14 anni qualora commettano gravi reati.

Il processo penale minorile viene riformato. Previste nuove misure di natura cautelare e percorsi di rieducazione.

Regole nuove per i minori coinvolti in reati di particolare gravità come quelli relativi al traffico di sostanze stupefacenti o mafia. Rafforzata nel contempo la sicurezza all’interno degli istituti penali per i minorenni.

Viene ampliata lofferta educativa all’interno delle scuole meridionali e vengono adottate nuove misure al fine di contrastare il fenomeno dell’abbandono scolastico.

A tutela dei minori che utilizzano dispositivi informatici viene introdotto l’obbligo, a carico dei siti pornografici, di adottare i sistemi che consentano di accertare la maggiore età dell’utente.

Durante il processo di conversione in legge, il testo originario del Decreto Caivano è stato modificato per migliorare l’efficacia delle misure proposte e rispondere alle critiche e ai suggerimenti emersi dal dibattito pubblico e parlamentare.

Il decreto, nella sua versione convertita in legge con modifiche, rappresenta un tentativo significativo di affrontare problemi complessi di criminalità e degrado urbano attraverso un approccio integrato e multidimensionale. Le modifiche apportate durante il processo legislativo hanno migliorato il testo originale.

Sono stati introdotti meccanismi di partecipazione attiva delle comunità locali nella pianificazione e nell’attuazione degli interventi.

È stata rafforzata la tutela dei diritti civili dei residenti, con l’introduzione di garanzie per evitare abusi.

Viene previsto un potenziamento del supporto psicologico e sociale per le vittime di reati e per i minori coinvolti in situazioni di rischio.

Implicazioni per le comunità interessate

La versione definitiva del Decreto Caivano ha indubbie e significative implicazioni per le comunità coinvolte.

Le misure adottate mirano a migliorare la sicurezza pubblica e a ridurre il crimine nelle aree colpite. L’aumento della presenza delle forze dell’ordine e l’uso di tecnologie avanzate contribuiscono a un controllo più efficace del territorio.

Gli interventi di riqualificazione urbana e i progetti educativi e formativi sono volti a migliorare le condizioni sociali ed economiche, offrendo nuove opportunità ai giovani e alle famiglie.

Il coinvolgimento attivo delle comunità locali nella pianificazione e nell’attuazione degli interventi favorisce un approccio più inclusivo e partecipativo, aumentando la coesione sociale e il senso di appartenenza.

La legge prevede infine  meccanismi di monitoraggio e valutazione che garantiranno l’adattamento delle misure alle esigenze reali delle comunità, promuovendo una sostenibilità a lungo termine degli interventi.

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petardi strada reato

È reato esplodere petardi per strada La Cassazione ha ricordato che il reato di cui all’art. 703 c.p. integra un reato di pericolo, in relazione alla possibilità concreta che esplosioni di ordigni sulla pubblica via possano compromettere l’incolumità delle persone

Fuochi d’artificio sulla pubblica via

Il caso prende avvio dalla decisone adottata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli con cui l’imputato veniva assolto in relazione all’accusa di aver acceso fuochi d’artificio in pubblica via, perché il fatto non sussiste.

Nella specie, il giudicante aveva rilevato che, al momento dell’esplosione degli artifici pirotecnici da parte dell’imputato in pubblica via “non era in corso alcuna processione religiosa né altra adunanza si sorta e non vi erano per strada persone la cui incolumità fosse stata messa in pericolo dagli spari”.

Avverso tale decisone il p.m. aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, deducendo, in particolare, l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 703 c.p.

A detta del ricorrente, il GIP non avrebbe tenuto conto che, nella fattispecie in esame, considerata la descrizione della condotta illecita, si è in presenza in un pericolo presunto “con la conseguenza che il giudice non è tenuto a verificare se il fatto costituisca o meno pericolo per la pubblica incolumità”.

La fattispecie di cui all’art. 703 c.p. è reato di pericolo

La Corte di cassazione, con sentenza n. 22505-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto in quanto basato su censure non consentite in sede di legittimità.

Ad ogni modo, la Corte, prima di pronunciarsi in relazione all’inammissibilità del ricorso, ha esaminato la fattispecie in contestazione.

In particolare, la Corte ha ricordato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità formatasi sull’argomento, la quale ha ritenuto che “l’ipotesi sanzionata dall’art. 703 cod. pen. (…) integra un reato di pericolo, in relazione alla possibilità concreta che esplosioni di ordigni in centro abitato, o sulla pubblica via (…) compromettano l’incolumità delle persone”.

Anche un comune petardo può essere lesivo

Sulla base di quanto sopra riferito, la Corte ha affermato che “poiché anche l’esplosione di un comune petardo a distanza ravvicinata da persone può essere lesivo delle persone stesse, il semplice riferimento a siffatto tipo di ordigno non esclude la sussistenza del reato”.

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Recidiva qualificata e circostanza ad effetto speciale Il limite dell’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., incide sulla qualificazione della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., come circostanza ad effetto speciale?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

Il limite all’aumento di cui alla previsione dell’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal secondo e dal quarto comma del già menzionato articolo, quale circostanza ad effetto speciale, e non influisce sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p., come modificati dalla L. 251/2005. – Cass. Sez. Un., 29 luglio 2022, n. 30046

Nel caso di specie la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare la incidenza del limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., rispetto alla qualificazione di circostanza ad effetto speciale della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., nonché la eventuale influenza dello stesso ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

La questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite si fonda invero su due distinti profili.

Il primo profilo attiene alla natura qualificata della recidiva, che comporta un aumento della pena fino alla metà, della metà o di due terzi ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., eventualmente contestata con l’applicazione della disposizione di cui all’art. 99, comma 6, c.p. quando determina un aumento della pena in misura pari o inferiore ad un terzo.

Il secondo profilo attiene agli effetti dell’applicazione del limite dell’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p. sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo, ai sensi dell’art. 157 c.p., quanto massimo, dovuto all’ulteriore aumento stabilito dall’art. 161, comma 2, c.p., attesa la presenza di atti interruttivi nel corso del processo.

Le Sezioni Unite a tal proposito hanno evidenziato i due contrapposti orientamenti riconoscibili nella giurisprudenza di legittimità sul tema oggetto della questione rimessa.

Secondo l’orientamento maggioritario, la contestazione di una circostanza qualificata ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., comporta che di essa, parificata alla circostanza ad effetto speciale, debba tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione di cui all’art. 157 c.p. Tuttavia, il suddetto calcolo prescrizionale dovrebbe tener conto altresì del limite quantitativo all’aumento di pena, di cui la previsione dell’art. 99, comma 6, c.p. svolge effetto mitigatore (Cass., sez. V, 24 settembre 2019, n. 44099).

Contrariamente, il limite fissato dall’art. 99, comma 6, c.p. ai fini della determinazione della pena, non incide sulle modalità di calcolo del termine massimo di prescrizione, di cui all’art. 161, comma 2, c.p., in quanto tale computo avviene secondo aumenti secchi fissati nella misura della metà o di due terzi.

Secondo il contrario orientamento giurisprudenziale, l’applicazione del limite di aumento di cui all’art. 99, comma 6, c.p., ai fini del computo della pena, comportando un aumento della stessa pena base in misura pari o inferiore ad un terzo, inciderebbe sulla natura della recidiva, escludendone la qualificazione di circostanza ad effetto speciale ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

In relazione al primo punto della questione, la Suprema Corte ha ricordato quanto stabilito da plurime pronunce giurisprudenziali delle Sezioni Unite, che hanno riconosciuto la natura di circostanza ad effetto speciale alle suddette recidive qualificate, in quanto le stesse soggiacciono ad una valutazione comparativa con eventuali circostanze attenuanti e rientrano nel novero delle circostanze ad effetto speciale di cui all’art. 649bis c.p. (Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585).

Inoltre, secondo una ulteriore pronuncia giurisprudenziale cui le Sezioni Unite aderiscono, la natura di una circostanza, tanto comune quanto ad effetto speciale, non può derivare dal meccanismo relativo all’aumento di pena previsto dall’art. 63 c.p. per le circostanze ulteriori rispetto a quella più grave, in quanto ispirato al criterio del cumulo giuridico (Cass. Sez. Un. 8 aprile 1998, n. 16). Se così non fosse, la medesima circostanza cambierebbe natura, da circostanza comune a circostanza ad effetto speciale, a seconda se contestata da sola o dalla posizione assunta nell’ordine di gravità delle circostanze concorrenti.

Pertanto, l’aumento di pena in conseguenza dell’applicazione del limite di cui all’art. 99, comma 6, c.p., in misura pari o inferiore ad un terzo, non incide sulla natura della recidiva qualificata di cui all’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., la cui natura di circostanza aggravante ad effetto speciale rimane immutata.

In relazione al secondo punto, le Sezioni Unite hanno analizzato la riscrittura della disciplina codicistica effettuata dalla L. 251/2005 in tema di calcolo del temine minimo e massimo di prescrizione di cui agli artt. 157, comma 2, c.p. e 161, comma 2, c.p., evidenziando come il momento del computo della pena ai fini del calcolo del termine di prescrizione, che si effettua secondo criteri oggettivi, generali e astratti, vada tenuto distinto dal momento di determinazione della pena da irrogare al condannato, che si fonda su criteri concreti e soggettivi. Inoltre, pur essendo circostanza soggettiva del reato, in quanto inerente alla persona del colpevole, la recidiva qualificata è espressione del maggior disvalore del fatto di reato in senso oggettivo, tale da giustificare un regime più severo nel computo del decorso dei termini di prescrizione.

Le Sezioni Unite hanno infine richiamato quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, la quale ha individuato un parallelismo tra le disposizioni dettate dall’art. 157, comma 2, c.p. e dall’art. 161, comma 2, c.p., in quanto la recidiva qualificata, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo, incide sul termine ordinario di prescrizione del reato (Corte Cost. ord. 34/2009).

Pertanto, la Suprema Corte ha stabilito che il limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla natura della recidiva qualificata quale circostanza ad effetto speciale e non influisce sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo ai sensi di cui all’art. 157, comma 2, c.p., quanto massimo ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p., discostandosi dall’orientamento maggioritario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585
Difformi:      Cass., sez. III, 3 novembre 2020, n. 34949

Niente tenuità per il “nonno” spacciatore La Cassazione ha confermato la decisione del giudice di merito con cui veniva stabilito che, ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto, l’età dell’imputato non rileva

Illecita detenzione di sostanze stupefacenti

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la decisione del Giudice di primo grado con cui gli imputati venivano condannati per i reati di cui all’art. 73, comma 5, DPR n. 309/1990, per avere, in concorso tra loro, illecitamente detenuto per la cessione a terzi di sostanza stupefacente di tipo cocaina.

Avverso tale decisione gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, evidenziando, in particolare, gli indici per l’accertamento della tenuità del fatto quali, per quanto qui rileva, l’età avanzata degli imputati. Secondo i ricorrenti tali elementi non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello.

Nessuna tenuità del fatto per lo spacciatore ultraottantenne

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22017-2024, ha rigettato i ricorsi proposti e ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, i ricorrenti hanno evidenziato molteplici elementi che costituiscono indici positivi per l’accertamento della tenuità del fatto e che, secondo gli stessi, non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello, quali “l’età, l’assenza di precedenti penali recenti, l’assenza di carichi pendenti, le precarie condizioni di salute, lo svolgimento, in modo regolare e continuativo (…) dell’attività lavorativa, il mancato reperimento, durante la perquisizione, di materiale da taglio o da confezionamento della sostanza stupefacente”.

Rispetto al ricorso proposto, la Corte ha anzitutto ripercorso i fatti di causa, dai quali era emerso che “la condotta contestata ai ricorrenti concerneva la detenzione ai fini di cessione di 15,6 grammi di cocaina, suddivisi in 13 involucri di un grammo ciascuno circa, da cui era possibile trarre un numero considerevole di dosi, pari a 66, non potendosi ritenere l’offesa come di particolare tenuità sotto il profilo della esiguità del danno o del pericolo”.

Rispetto a tali circostanze, ha riferito la Corte, il Giudice di merito aveva tenuto in considerazione ai fini della decisione il significativo quantitativo di sostanza detenuta, nonché la personalità negativa degli imputati, entrambi gravati da precedenti penali.

In relazione alla doglianza formulata dai ricorrenti circa il mancato riconoscimento, da parte del Giudice di merito, delle attenuanti generiche, la Corte ha riferito altresì che gli elementi difensivi proposti dai ricorrenti non assumono rilievo determinante ai fini del riconoscimento delle invocate attenuanti e ciò considerato il fatto che il giudice di merito “non è tenuto ad esaminare e valutare tutte le circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa, ma è sufficiente che indichi i motivi per i quali non ritiene di esercitare il potere discrezionale attribuitogli dall’art. 62 bis cod. pen.”.

Niente tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.

La Cassazione ha pertanto evidenziato come, la Corte territoriale, avendo negato l’attribuzione delle attenuanti generiche, ha evidenziato la gravità del fatto in relazione alla quantità di sostanza detenuta e alla personalità degli imputati.

Sulla scorta di quanto sopra, la Corte ha pertanto confermato gli esiti del giudizio di merito e ha ritenuto che, nel caso di specie, non venga in rilievo la tenuità del fatto a norma dell’art. 131-bis c.p., secondo quanto richiesto dai ricorrenti.

Allegati

body shaming

Body shaming Cos'è il body shaming e cosa prevede la proposta di legge che vuole istituire la giornata nazionale contro la denigrazione dell'aspetto fisico

Cos’è il body shaming

Il body shaming è l’atto di deridere o discriminare una persona per il suo aspetto fisico. Questo comportamento prende di mira qualsiasi caratteristica fisica, colpendo chiunque non aderisca ai canoni estetici della società. Questi standard estetici, spesso irrealistici e non rappresentativi della maggioranza, possono indurre vergogna e colpevolizzazione nelle vittime, causando problemi di autostima, ansia, depressione, disturbi alimentari e, in casi estremi, suicidio. Il fenomeno colpisce soprattutto gli adolescenti, le ragazze in particolare, ma non sono immuni da derisioni e offese neppure gli adulti. I canali più utilizzati sono i social network, che hanno un impatto considerevole a causa della potenziale capacità diffusiva dei messaggi denigratori.

Body shaming: giornata nazionale per la sensibilizzazione

La proposta di legge A.C. 1049, presentata dalla parlamentare Martina Semenzato, mira a istituire una Giornata Nazionale contro la denigrazione dell’aspetto fisico 16 maggio di ogni anno. Questa iniziativa si propone di sensibilizzare il pubblico sui danni del body shaming, un fenomeno odioso di derisione e discriminazione basato sull’aspetto fisico delle persone.

Il testo della proposta, presentata il 28 marzo 2023, è in corso di esame alla Commissione Affari sociali in sede referente.

Proposta di legge: cosa prevede

La proposta di legge si articola in sei punti principali:

  • Istituire una Giornata Nazionale contro il body shaming il 16 maggio con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui comportamenti offensivi e promuovere le iniziative necessarie per prevenirli.
  • Invitare le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile e le associazioni a promuovere eventi e campagne informative per contrastare il body shaming nella giornata dedicata, favorendo l’accettazione del proprio corpo e il rispetto per gli altri.
  • Dare le disposizioni necessarie alle scuole di ogni ordine e grado affinché organizzino iniziative didattiche e momenti di riflessione sul fenomeno del body shaming e le sue conseguenze in occasione della celebrazione della Giornata Nazionale.
  • Rimettere alle istituzioni pubbliche e alle associazioni la promozione di campagne di sensibilizzazione sui media, informando il pubblico sulle gravi conseguenze del body shaming e incoraggiando un uso consapevole del linguaggio e delle tecnologie digitali.
  • Assicurare che il servizio pubblico radiotelevisivo dedichi spazio adeguato ai temi legati alla Giornata Nazionale, sensibilizzando il pubblico attraverso la programmazione nazionale e regionale.

L’importanza della sensibilizzazione

La proposta di legge sottolinea l’importanza di una disciplina unitaria a livello nazionale per affrontare il body shaming. La sensibilizzazione attraverso campagne informative, eventi nelle scuole e l’uso responsabile dei media e delle tecnologie digitali rappresenta un passo cruciale per combattere questo fenomeno e promuovere una cultura del rispetto e dell’inclusione.

testimonianza prossimo congiunto

La testimonianza del prossimo congiunto Sollevata l'incostituzionalità dell’art. 199 c.p.p co. 1 nella parte in cui non prevede l’astensione per la persona offesa dal testimoniare contro il prossimo congiunto

Testimonianza penale: facoltà di astensione dei prossimi congiunti

L’ordinanza del tribunale di Firenze, I sezione penale, del 12 febbraio 2024 solleva una questione di legittimità costituzionale dell’art. 199, comma 1, c.p.p.. La disposizione prevede, nello specifico, che i prossimi congiunti dell’imputato non siano obbligati a testimoniare, il tutto al fine di bilanciare l’interesse pubblico all’accertamento della verità e quello privato alla tutela del rapporto familiare.

Il Tribunale di Firenze, nello specifico, solleva la questione di legittimità costituzionale in relazione all’articolo 199 comma 1 c.p.p per violazione degli artt. 3, 27 comma 2, 29 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 8 della CEDU, contestando l’eccezione che obbliga i prossimi congiunti a testimoniare quando essi o un loro prossimo congiunto sono persone offese dal reato o quando hanno presentato denuncia, querela o istanza.

Per identificare i soggetti che beneficiano del diritto al silenzio è necessario il richiamo al contenuto  dell’art. 307 c.p, che identifica, agli effetti della legge penale, i prossimi congiunti, includendo parenti stretti e affini, ampliati successivamente anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Il Giudice remittente precisa comunque che lo status di prossimo congiunto che giustifica l’astensione dal diritto di testimoniale va riferito al processo, non al momento in cui il reato viene commesso. Solo durante il processo infatti sorge il contrasto tra l’obbligo di dire la verità e la volontà di non danneggiare il congiunto imputato.

La facoltà di astenersi comunque non esclude a priori la testimonianza del familiare, ma affida al giudice la valutazione della sua utilità e veridicità, con la possibilità di responsabilità penale per falsa testimonianza. Se un congiunto sceglie di testimoniare, deve farlo infatti secondo verità, pena la punibilità per falsa testimonianza.

Irragionevole non tutelare il rapporto familiare quando il teste è la persona offesa

L’art. 199 c.p.p obbliga i congiunti a testimoniare se hanno presentato denuncia o querela, o se loro stessi o un loro congiunto sono offesi dal reato.

Dubbia per il remittente la ragionevolezza dell’eccezione contemplata dall’art. 199 c.p.p. Il vincolo affettivo che caratterizza i contesti familiari, è privato della sua tutela nel momento in cui la persona offesa dal reato è esposta al rischio concreto di commettere falsa testimonianza al fine di tutelare il proprio familiare.

Non tutelare il rapporto familiare quando il teste è persona offesa dal reato è infatti irragionevole se il giudizio di non meritevolezza è limitata al processo in cui viene contestato il reato ai danni del prossimo congiunto. In un processo eventuale ed ulteriore a carico dello stesso soggetto, ma per altri fatti, il medesimo prossimo congiunto potrebbe infatti regolarmente avvalersi della facoltà di non testimoniare.

Illegittimità costituzionale art. 199 comma 1 c.p.p.

Il Tribunale richiede quindi alla Corte Costituzionale di dichiarare illegittima la norma di quell’articolo 199 co. 1 c.p.p, nella parte in cui, con riguardo alla facoltà dei prossimi congiunti dell’imputato di astenersi dal deporre, prevede un’eccezione per la persona offesa dal reato anche nell’ipotesi in cui la deposizione del prossimo congiunto non sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti.