giurista risponde

Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 L.F. Con riferimento ai reati in materia fallimentare, quali elementi vanno valorizzati al fine di individuare i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267)?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

In tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 l. fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Cass., sez. V, 2 ottobre 2024 n. 36582).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della scelta di attribuire all’imputato la qualità di amministratore di fatto di una società poi fallita, alla quale è seguita, in primo e secondo grado, la condanna per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (art. 216 l. fall.), di bancarotta impropria (art. 223 l. fall), nonché di rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000).

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea attribuzione all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita.

In particolare, si obiettava la mancata considerazione di elementi ritenuti di valore decisivo ai fini della esclusione del riconoscimento di tale qualità in capo all’imputato.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha ricordato gli elementi alla luce dei quali poter dedurre, in tema di reati fallimentari, la sussistenza in capo al reo della qualifica di amministratore di fatto, tutti fondati sulle funzioni e sulle attività concretamente esercitate dal soggetto agente, a prescindere dalla veste formalmente assunta.

Tra questi, a titolo esemplificativo, si è citato l’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, nell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione di beni e servizi; la gestione dei rapporti di lavoro con i dipendenti, dei rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, i fornitori e i clienti; ovvero, l’ideazione e l’organizzazione di un sistema fraudolento basato sull’utilizzo di una società quale schermo per realizzare condotte truffaldine, finalizzate al reperimento di risorse poi distratte.

La Suprema Corte ha, in primo luogo, ritenuto che il giudice di secondo grado abbia fatto buon governo degli elementi fin qui richiamati, attribuendo correttamente all’imputato la qualifica di amministratore di fatto della società poi fallita, e, in secondo luogo, ricordando un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che non è censurabile in sede di legittimità la sentenza che indichi con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice e che consentano l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata.

Nel caso di specie, avendo ritenuto corretta l’attribuzione, operata dai giudici di merito, all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita, utilizzata quale schermo per commettere i reati fallimentari e tributari a lui ascritti, la Cassazione ha rigettato il ricorso.

 

(*Contributo in tema di “Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 Legge Fallimentare”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

notifica al difensore

Notifica al difensore e non al detenuto: nullità sanabile La notifica al difensore è possibile ex art. 161 comma 4 c.p.p. se la notifica al domicilio dichiarato è impossibile

Notifica al difensore e non al detenuto

La notifica effettuata al difensore non al detenuto integra una nullità sanabile (cfr. art. 161 comma 4 c.p.p.). Questo si ricava dalla sentenza n. 35786/2024 della sesta sezione penale della Cassazione.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di appello di Potenza confermava la condanna emessa a carico del ricorrente in ordine al reato di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., commesso mediante l’omesso versamento dell’assegno mensile di mantenimento disposto in favore del figlio minore.
Avverso tale sentenza, il ricorrente adiva il Palazzaccio lamentando tra le altre cose, oltre allo stato di disoccupazione, l’omesso riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in relazione alla quale era positivamente valutabile il suo stato di indigenza, nonchè l’omessa notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello, posto che la notifica presso il domicilio eletto non si perfezionava, né andava a buon fine la notifica agli ulteriori indizi presso i quali si riteneva che l’imputato potesse essere rintracciato.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è manifestamente infondato. Rigettate tutte le doglianze correttamente valutate dalla Corte di merito, sul fronte della corretta vocatio in iudicium per il giudizio di appello, i giudici della S.C. evidenziano che la doglianza, tuttavia, risulta del tutto generica e non si confronta con la puntuale specificazione contenuta nella sentenza d’appello, dove si dà atto che il tentativo di notifica del decreto di citazione a giudizio presso il domicilio dichiarato è risultato impossibile. A fronte dell’inidoneità del domicilio dichiarato, pertanto, la notifica è stata correttamente eseguita ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod, proc. pen.

Il ricorso è quindi dichiarato inammissibile e il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

Allegati

braccialetto elettronico

Braccialetto elettronico: carcere per chi impedisce il funzionamento Braccialetto elettronico: il giudice può disporre la custodia cautelare in carcere per chi lo manomette o ne impedisce il funzionamento

Braccialetto elettronico: le novità del decreto giustizia

Braccialetto elettronico: il decreto legge n. 178/2024 contenente misure urgenti sulla giustizia torna ad occuparsene. L’articolo 7 del decreto interviene su alcune norme del codice di procedura penale. L’obiettivo è quello di rendere più efficace questo strumento di controllo a tutela soprattutto delle donne vittime di violenza e di stalking.

Fattibilità del controllo con il  braccialetto elettronico

A questo scopo dopo l’articolo 97 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale la riforma inserisce ex novo l’articolo 97 ter. La norma è incentrata sulle modalità di accertamento della fattibilità tecnica e operativa del controllo tramite braccialetto elettronico.

L’accertamento della fattibilità tecnica e operativa, disciplinato dagli articoli 275-bis, 282-bis e 282-ter del codice, riguarda, in particolare, la verifica preliminare necessaria per stabilire le modalità di controllo che il giudice prescrive. La polizia giudiziaria, eventualmente supportata da operatori specializzati della società incaricata dei servizi tecnici o elettronici, deve effettuare questa verifica senza ritardi e comunque entro 48 ore.

Detta verifica comprende:

  • la possibilità di attivare e far funzionare i mezzi elettronici o tecnici previsti;
  • l’analisi delle caratteristiche specifiche del luogo di applicazione (es. distanza, copertura di rete, qualità della connessione, tempi di trasmissione dei segnali);
  • la gestione operativa degli strumenti e altre circostanze rilevanti per valutare l’efficacia del controllo sulle prescrizioni imposte all’

Concluse queste operazioni, la polizia giudiziaria deve redigere un rapporto tecnico. Questo documento certifica la fattibilità del controllo e lo trasmette senza ritardi, entro ulteriori 48 ore, all’autorità giudiziaria competente. Il giudice, sulla base di questo rapporto, valuta eventuali misure cautelari, inclusa l’applicazione congiunta o la sostituzione con misure più restrittive. 

Carcere per chi ne impedisce il funzionamento regolare

Per rendere più efficace il controllo con il braccialetto elettronico il decreto giustizia interviene anche sull’art. 276 c.p.p, che si occupa dei provvedimenti che il giudice può adottare in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte.

La nuova versione prospettata dal decreto del comma 1 ter dell’art. 276 c.p.p prevede che in caso di violazione delle disposizioni relative agli arresti domiciliari, come il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da un altro luogo di dimora privata, oppure in caso di manomissione o di comportamenti gravi o reiterati che compromettono o ostacolano il corretto funzionamento dei dispositivi elettronici e degli strumenti tecnici di controllo previsti dall’articolo 275-bis, anche quando utilizzati ai sensi degli articoli 282-bis e 282-ter, il giudice procede alla revoca della misura e alla sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere, salvo che il fatto risulti di lieve entità.

 

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giurista risponde

Appropriazione indebita: quando si consuma il reato Ai fini della individuazione del tempus commissi delicti con riferimento al reato di appropriazione indebita, a rilevare è il momento in cui viene realizzata la prima condotta appropriativa o il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Cass., sez. II, 27 settembre 2024 n. 36177).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se il reato ascritto all’imputato si fosse estinto, prima dell’emanazione della sentenza di primo grado, per intervenuta prescrizione.

In primo e secondo grado i giudici di merito avevano considerato il reato non estinto per prescrizione, individuando quale data di commissione del medesimo quella in cui l’imputato aveva negato alle parti civili la restituzione delle somme di denaro richiestegli, ritenendo inoltre, alla luce di tale data, tempestiva la proposizione della querela.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando l’erronea individuazione del tempus commissi delicti, nonché la tardività nella proposizione della querela.

In particolare, si obiettava che il reato di appropriazione indebita doveva considerarsi perfezionato alla data della scadenza del contratto di deposito irregolare, dovendo ritenersi, in primo luogo, tardiva la proposizione della querela da parte dei titolari delle somme di denaro di cui si chiedeva la restituzione e, in secondo luogo, il reato estinto per intervenuta prescrizione, già prima della emanazione della sentenza di primo grado.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando inammissibile il ricorso alla luce della manifesta infondatezza delle censure proposte, ha ricordato quando stabilito da una risalente ma sempre attuale pronunzia di legittimità (Cass. pen., sez. II, 2 febbraio 1972, n. 6872), secondo cui l’inutile scadenza del termine di adempimento di una obbligazione civilistica che imponga la restituzione di una cosa altrui non determina, né prova, di per sé, la consumazione del reato di appropriazione indebita; perché ciò avvenga è necessario che, in base a concludenti circostanze di fatto (che possono anche essere diverse dal dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo del suo precedente e legittimo possesso, e possono consistere anche nel rifiuto ingiustificato della restituzione), sia rivelato il carattere intenzionale (caratterizzante l’elemento soggettivo del reato) della omessa restituzione, nel senso che in quest’ultima coincida, in uno con l’elemento materiale del reato (intrinsecamente inerente alla protrazione non più giustificata del possesso nella persona dell’agente), anche l’elemento soggettivo, inerente alla volontà di invertire il titolo del possesso medesimo appropriandosi della cosa al fine di trarne ingiusto profitto.

Nel caso di specie, il tempus commissi delicti, come correttamente valutato dai giudici di merito, era coinciso con la data in cui l’imputato aveva spedito una lettera raccomandata alle parti civili, ricusando la loro richiesta di restituzione degli importi detenuti e con la quale veniva di fatto esteriorizzato l’animus domini dell’odierno imputato in merito alle somme di denaro detenute, restando del tutto irrilevante, ai fini penalistici, la scadenza del termine entro la quale andava adempiuta l’obbligazione civilistica restitutoria.

Ritenendo quindi corrette le valutazioni operate dai giudici di merito, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e infondate le censure prospettate.

(*Contributo in tema di “Appropriazione indebita: quando si consuma il reato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

pitbull senza museruola

Pitbull senza museruola sul bus: è reato Interruzione di pubblico servizio quando il passeggero pretende di salire su un autobus con un pitbull senza guinzaglio e museruola

Interruzione di pubblico servizio

Pitbull senza museruola sul bus è reato di interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del Codice penale. La norma punisce chiunque cagioni un’interruzione o un turbamento del regolare svolgimento di un servizio pubblico o di pubblica necessità. La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 45289/2024 ha chiarito che chi pretende di salire su un autobus con un cane senza guinzaglio e museruola anche in presenza del volere contrario e legittimo del conducente dellautobus, commette questo reato.

Autobus fermo per un cane senza museruola

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un utente che ha preteso di salire su un autobus con un pit bull di grossa taglia senza museruola e senza guinzaglio. Il conducente, conformemente al regolamento del trasporto pubblico, ha impedito l’accesso all’animale. Ne è scaturita una lunga discussione, che ha ritardato la partenza dellautobus di circa quarantacinque minuti. Il padrone del cane, peraltro, ha mantenuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dell’autista e degli altri passeggeri. La Corte di Cassazione per queste ragioni ha confermato la condanna per interruzione di pubblico servizio, rigettando ogni pretesa difensiva. Il ricorrente aveva lamentato l’assenza di un regolamento esposto all’interno del mezzo e invocato l’attenuante della provocazione. Questi argomenti però sono stati respinti.

Obbligo di rispettare il regolamento di viaggio

Il conducente di un autobus ha il dovere di far rispettare il regolamento di viaggio. Questo include prescrizioni specifiche sull’accesso con animali domestici, come l’uso obbligatorio del guinzaglio e della museruola per i cani di grossa taglia o considerati potenzialmente pericolosi. Il regolamento ha una base giuridica solida e tutela la sicurezza di tutti i passeggeri. In questa vicenda, il conducente ha agito quindi nel rispetto dei propri obblighi e non ha assunto una condotta provocatoria. La Cassazione ha chiarito infatti che non si può configurare l’attenuante della provocazione quando il soggetto “provocatore” esercita un dovere istituzionale con equilibrio e senza intenti vessatori.

Esclusa l’attenuante della provocazione

La difesa aveva invocato l’attenuante della provocazione, sostenendo che il comportamento del conducente avesse scatenato la reazione dell’imputato. La Suprema Corte però ha respinto questa tesi, ricordando i criteri applicativi dell’attenuante. Secondo l’articolo 62 del Codice penale, essa sussiste infatti solo se il comportamento del provocatore è oggettivamente ingiusto e compiuto con intenti di dispetto o di faziosità. Nel caso concreto, l’autista ha svolto solo il proprio dovere, facendo rispettare una norma regolamentare. Non si tratta, dunque, di un comportamento ingiusto, ma di un’azione lecita e doverosa.

Irrilevanza dell’errore sulle attenuanti

Un ulteriore punto sollevato dalla difesa riguardava la mancata esposizione del regolamento sul mezzo pubblico. L’imputato riteneva di essere stato tratto in errore e che l’assenza della regola visibile giustificasse la sua reazione. La Cassazione ha ribadito l’irrilevanza di questo errore ai fini delle attenuanti. Ai sensi dell’articolo 59, comma 3, del Codice penale, le circostanze attenuanti erroneamente supposte dall’autore non possono essere valutate a suo favore. Di conseguenza, anche l’ignoranza del regolamento non esime dalla responsabilità penale.

Cassazione sul reato di interruzione di pubblico servizio

Dalla decisione emerge in conclusione che il reato di interruzione di pubblico servizio si configura quando un soggetto impedisce o turba il normale svolgimento di un servizio pubblico, causando un ritardo significativo o una sospensione temporanea. Nel caso del pit bull senza museruola, la discussione prolungata e latteggiamento intimidatorio del padrone hanno impedito la ripartenza dell’autobus, causando un disagio ai passeggeri e al servizio stesso. Questa condotta integra quindi pienamente il reato previsto dall’articolo 340 del Codice penale.

foglio di via

Foglio di via, nessuna convalida del giudice Per la Corte Costituzionale, il foglio di via del Questore non richiede la convalida da parte del giudice

Foglio di via e convalida

La misura di prevenzione del foglio di via, disposta dal questore nei confronti di persone pericolose per la sicurezza pubblica, non restringe la libertà personale dell’interessato, ma limita la sua libertà di circolazione. Pertanto, essa non richiede l’intervento di un giudice, come prescritto invece dall’articolo 13 della Costituzione per ogni misura restrittiva della libertà personale. Spetterà poi al giudice amministrativo e al giudice penale verificarne la legittimità e proporzionalità nel singolo caso concreto, rispettivamente quando l’interessato proponga ricorso contro il provvedimento del questore, o sia imputato in sede penale per la violazione degli obblighi stabiliti nel provvedimento. Lo ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza numero 203/2024, con la quale sono state dichiarate non fondate le questioni sollevate dal Tribunale di Taranto sull’articolo 2 del codice antimafia.

Il caso

Nel caso in esame, un uomo era stato rinviato a giudizio per avere fatto più volte ritorno nel Comune di Taranto, dal quale era stato allontanato mediante foglio di via, motivato dal questore sulla base della sua pericolosità sociale. Prima di pronunciarsi sulla responsabilità penale dell’imputato per la violazione delle prescrizioni imposte con la misura, il giudice si è però interrogato sulla legittimità costituzionale dell’articolo 2 del codice antimafia. Quest’ultimo attribuisce al questore il potere di disporre la misura senza prevedere la sua necessaria convalida da parte di un giudice.

La restrizione della libertà personale

La Corte ha anzitutto ricordato che una restrizione della libertà personale si verifica quando la persona subisce una coazione nel proprio corpo, come nel caso di arresto o di detenzione, o ancora nel caso di un trattamento medico coattivo. Si ha, inoltre, restrizione della libertà personale quando il soggetto venga sottoposto a misure che presuppongano un giudizio di “degradazione giuridica” e impongano obblighi di intensità tale da poter essere equiparati all’assoggettamento della persona all’altrui potere. In numerose decisioni, a partire dal 1956, la Corte ha ritenuto che quest’ultima situazione si verifichi in conseguenza di misure di prevenzione che impongano all’interessato obblighi di rimanere in un luogo determinato, ovvero di recarsi periodicamente presso un ufficio di polizia.

La giurisprudenza

Viceversa, la Corte ha sinora sempre escluso che il semplice divieto di recarsi in un luogo determinato ponga in causa le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. In questo caso, infatti, la persona resta libera di andare in qualsiasi altro luogo desideri, tranne quello dal quale è interdetta. Con la sentenza in esame, la Consulta ha ritenuto di dover confermare la propria costante giurisprudenza, alla quale del resto il legislatore si è da tempo orientato nel configurare la disciplina delle misure di prevenzione e dei cosiddetti “DASPO”.

E ciò nella consapevolezza che il tendenziale rispetto dei propri precedenti è una delle condizioni essenziali per l’autorevolezza delle decisioni di ogni giurisdizione superiore, compresa la Corte costituzionale.

La decisione

Peraltro, la Consulta ha sottolineato che”gli effetti del foglio di via possono risultare assai gravosi per il destinatario, ad esempio quando gli venga vietato l’ingresso nell’intero capoluogo di provincia nella quale risiede”. Tuttavia, l’ordinamento italiano dispone “di strumenti efficaci per garantire una tutela effettiva ai diritti fondamentali del destinatario contro i pericoli di uso arbitrario di queste misure, ad esempio quale strumento di repressione del dissenso politico e delle legittime forme di protesta protette dalla Costituzione”.

Da un lato, il ricorso al giudice amministrativo è certamente idoneo ad assicurare una tutela immediata ed effettiva contro eventuali provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali dell’interessato.

Dall’altro, lo stesso giudice penale, nei procedimenti per violazione degli obblighi inerenti a una misura di prevenzione, ha il dovere di verificarne preliminarmente la legittimità.

La verifica di legittimità compiuta dall’uno e dall’altro giudice, infine, comprende necessariamente anche una valutazione di proporzionalità tra le finalità di tutela perseguite dall’autorità di polizia e la concreta incidenza della singola misura sulla libertà di circolazione dell’interessato, nonché sull’intera gamma dei suoi diritti fondamentali comunque incisi dal provvedimento.

ddl sicurezza

Ddl Sicurezza: dall’UE l’invito a modificare il testo Ddl Sicurezza: il Commissario per i Diritti Umani Europeo invita i senatori a rivedere il testo, troppi limiti alla libertà di pensiero

Ddl Sicurezza: l’invito dell’UE

Il Ddl Sicurezza continua a sollevare polemiche e opposizioni, con rilievi significativi provenienti dal Consiglio d’Europa e dalla politica italiana. Michael O’Flaherty, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, ha espresso preoccupazioni in una lettera indirizzata al Presidente del Senato, Ignazio La Russa.

O’Flaherty sottolinea come diversi articoli del Ddl limitino il diritto alla manifestazione e alla libertà di espressione ed esorta i senatori a modificare profondamente il testo prima di procedere all’approvazione.

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Le disposizioni sotto accusa del Ddl Sicurezza

Gli articoli contestati includono:

  • Articolo 11: introduce un’aggravante per reati commessi vicino a infrastrutture ferroviarie.
  • Articolo 13: estende il Daspo urbano e amplia l’arresto in flagranza differita.
  • Articolo 14: trasforma in reato penale il blocco stradale o ferroviario attuato con il corpo.
  • Articolo 24: aggrava le pene per imbrattamento di beni pubblici, con reclusione fino a tre anni in caso di recidiva.
  • Articolo 26: introduce un’aggravante per istigazione a disobbedire alle leggi e nuovi reati per disordini in carceri e centri di accoglienza.
  • Articolo 27: colpisce le proteste violente di stranieri irregolari nei centri di trattenimento.

Secondo il Consiglio d’Europa, queste norme, formulate in termini vaghi, potrebbero portare a un’applicazione arbitraria, minando il legittimo esercizio dei diritti fondamentali.

La risposta istituzionale e le reazioni

La Russa ha trasmesso la lettera alle commissioni competenti. La sua reazione pubblica ha definito l’intervento di O’Flaherty come un’ingerenza inaccettabile. Intanto, le opposizioni si sono schierate contro il Ddl, con oltre 1.500 emendamenti presentati e manifestazioni che hanno visto migliaia di partecipanti. La Rete nazionale “No Ddl Sicurezza” annuncia ulteriori proteste.

Ddl sicurezza: un percorso accidentato

Il Ddl, composto da 38 articoli, è stato approvato alla Camera nel settembre 2023, ma incontra difficoltà al Senato. Restano da discutere i due terzi del testo, comprese norme controverse come il divieto di vendere SIM ai migranti senza permesso di soggiorno e lo stop al rinvio della pena per madri con figli minori. Segnalazioni critiche sono giunte anche dal Quirinale, rendendo necessario un rinvio della discussione a gennaio 2025.

Il Ddl Sicurezza rappresenta un banco di prova per il Governo, che cerca di bilanciare misure restrittive e rispetto dei diritti fondamentali. Le pressioni del Consiglio d’Europa e le critiche interne rendono indispensabile una revisione del testo per garantire la conformità agli standard democratici e costituzionali.

 

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rito abbreviato

Rito abbreviato: la rinuncia all’impugnazione apre alla sospensione La Consulta ha stabilito che la rinuncia all'impugnazione della condanna nel giudizio abbreviato può aprire la strada alla sospensione condizionale della pena

Rito abbreviato e rinuncia all’impugnazione

Il condannato in esito a rito abbreviato che non abbia proposto impugnazione deve poter essere ammesso alla sospensione condizionale e alla non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando per effetto della diminuzione di un sesto prevista dalla “riforma Cartabia” la pena inflittagli non superi i due anni di reclusione. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 208/2024, che ha ritenuto fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata dal GUP del Tribunale di Nola sulla nuova disciplina introdotta dalla riforma.

La questione

Una persona condannata, con rito abbreviato, a due anni e quattro mesi di reclusione aveva rinunciato all’impugnazione, ottenendo così l’ulteriore sconto di un sesto della pena ora previsto dal nuovo comma 2-bis dell’articolo 442 del codice di procedura penale. Il giudice dell’esecuzione aveva quindi ridotto la pena a un anno, undici mesi e dieci giorni di reclusione. Il condannato aveva però anche chiesto al giudice i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, che in via generale possono essere concessi quando la pena concretamente inflitta resti al di sotto del tetto di due anni di reclusione.

Il giudice aveva però osservato che la riforma non attribuisce espressamente questo potere al giudice dell’esecuzione. Ritenendo che tale mancata previsione non fosse compatibile con il principio di eguaglianza e la finalità rieducativa della pena, il giudicante aveva investito della questione la Corte costituzionale.

I chiarimenti della Consulta

La Consulta ha chiarito, anzitutto, che i principi costituzionali evocati dal giudice impongono effettivamente di riconoscere al giudice dell’esecuzione il potere di valutare se sussistano i presupposti per la concessione dei due benefici, ogniqualvolta la pena da eseguire sia ridotta entro il limite dei due anni per effetto della riduzione prevista dalla riforma.

La Corte ha sottolineato la funzionalità alla finalità rieducativa della pena dei benefici in esame, entrambi di antica tradizione nel nostro ordinamento.

In particolare, “la sospensione condizionale mira, da un lato, ad evitare gli effetti criminogeni e desocializzanti della pena detentiva breve. Dall’altro, essa intende prevenire la commissione di nuovi reati da parte del condannato attraverso la minaccia di revoca del beneficio, e a favorirne il percorso di risocializzazione attraverso gli obblighi riparatori, ripristinatori o di recupero che possono essere associati al beneficio”.

In conformità al principio costituzionale della finalità rieducativa, il legislatore ha previsto in generale che le pene detentive non superiori a due anni possano essere sospese.

Ciò deve valere, ha ritenuto la Corte, anche quando la determinazione finale della pena costituisca il risultato degli sconti di pena stabiliti dal legislatore in cambio di scelte processuali, con cui l’imputato volontariamente rinuncia a garanzie che formano parte integrante dei suoi diritti costituzionali di difesa in giudizio (come il diritto di proporre appello contro la sentenza di condanna che lo riguarda), fornendo così un contributo al più rapido ed efficiente funzionamento del sistema penale nel suo complesso.

La decisione

Secondo la Corte, il giudice avrebbe potuto concedere i benefici al condannato anche sulla base della legge oggi vigente, interpretata in conformità ai principi costituzionali. Poiché, tuttavia, due recentissime pronunce della Corte di cassazione hanno interpretato in senso opposto la disciplina normativa, la Corte costituzionale ha ritenuto opportuno intervenire per assicurare la certezza del diritto in materia processuale, dichiarando costituzionalmente illegittima la mancata espressa previsione della possibilità per il giudice dell’esecuzione di concedere i due benefici, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena originariamente determinata era superiore ai relativi limiti di legge.

Legittimo l'obbligo di testimonianza

Legittimo l’obbligo di testimonianza del prossimo congiunto La Corte Costituzionale ha dichiarato non irragionevole l'obbligo previsto dal 1° comma dell'art. 199 c.p.p. se il familiare è persona offesa dal reato

Obbligo di testimonianza prossimo congiunto

Legittimo l’obbligo di testimonianza del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato. Così, la Corte costituzionale, con la sentenza numero 200/2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative al primo comma dell’art. 199 del codice di procedura penale. Disposizione che, mentre riconosce ai prossimi congiunti dell’imputato la facoltà di astenersi dal testimoniare, introduce un’eccezione per il familiare che sia persona offesa dal reato.

La qlc

Decidendo sulle censure del Tribunale di Firenze, riferite agli articoli 3, 27, secondo comma, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della CEDU, la Consulta ha affermato che “tale eccezione alla facoltà di astensione non è irragionevole, né sproporzionata, e neppure lede la vita e l’unità della famiglia”. Ciò in quanto essa, da un lato “corrisponde al fatto che proprio la condotta offensiva dell’imputato normalmente incide sul legame affettivo sotteso alla facoltà di astenersi”. Dall’altro, “protegge la vittima del reato dalle pressioni che spesso provengono dallo stesso ambito familiare affinché si astenga dal deporre”.

Legittimo l’obbligo di testimonianza: la decisione

È stata altresì disattesa dal giudice delle leggi – per il carattere fortemente “manipolativo” della sollecitata pronuncia – “la richiesta subordinata del rimettente, diretta a ottenere l’eliminazione dell’obbligo di deporre del congiunto, persona offesa, nell’ipotesi in cui la sua deposizione non sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”.

La Corte ha sottolineato, infine, che quella del prossimo congiunto, offeso dal reato, “non si differenzia da un’ordinaria testimonianza, sicché nei suoi confronti può essere applicata, ove ne ricorrano gli estremi, la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, primo comma, del codice penale”.

animali abbandonati

Abbandono di animali per strada: carcere fino a 7 anni Abbandono di animali: se avviene per strada e causa un incidente stradale, la riforma del Codice della Strada prevede il carcere fino a 7 anni

Abbandono di animali: pene più severe

Il nuovo Codice della Strada, in vigore dal 14 dicembre 2024, segna un importante passo avanti nella lotta contro l’abbandono degli animali. La riforma, approvata dopo un iter complesso e sostenuta da varie forze politiche, introduce pene più severe per chi si macchia di un reato tanto crudele quanto pericoloso. La tutela degli animali e la sicurezza stradale sono al centro delle nuove disposizioni.

Abbandono di animali: sicurezza e civiltà

L’abbandono degli animali non è solo un atto incivile, ma rappresenta anche un grave rischio per la sicurezza stradale. Secondo i dati ENPA, ogni anno in Italia vengono abbandonati oltre 130.000 animali, con picchi significativi durante il periodo estivo. Questo fenomeno causa spesso incidenti stradali, mettendo a rischio sia la vita degli animali sia quella degli automobilisti. La riforma del Codice della Strada punta a contrastare questa piaga con misure severe e un forte effetto deterrente. L’inasprimento delle pene invia un messaggio chiaro: l’abbandono non sarà più considerato una semplice leggerezza, ma un crimine con gravi conseguenze legali.

Nuove sanzioni per chi abbandona animali

L’articolo 727 del Codice penale già punisce l’abbandono di animali domestici con l’arresto fino a un anno o un’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.

Tuttavia, la nuova normativa prevede un significativo inasprimento delle pene:

  • aumento della pena di un terzo se l’abbandono avviene su strada o nelle sue pertinenze;
  • sospensione della patente da sei mesi a un anno se l’abbandono avviene con un veicolo;
  • revoca della patente nei casi più gravi o in presenza di una recidiva

Queste sanzioni mirano a punire comportamenti irresponsabili e a scoraggiare atti che mettono a rischio la collettività. La sospensione o la revoca della patente rappresentano un ulteriore strumento dissuasivo, soprattutto per chi abbandona gli animali utilizzando un veicolo.

Pene aggravate in caso di incidenti stradali

Se l’abbandono di un animale causa un incidente stradale da cui derivino lesioni personali o la morte di una persona, le conseguenze diventano ancora più gravi. La nuova normativa applica le pene previste per i reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali:

  • lesioni gravi: reclusione da 3 mesi a 1 anno;
  • lesioni gravissime: reclusione da 1 anno a 3 anni;
  • omicidio stradale: reclusione da 2 a 7 anni.

Queste disposizioni riconoscono la gravissima responsabilità di chi, abbandonando un animale, causa tragedie su strada. Non si tratta più di un comportamento marginale, ma di un crimine con effetti devastanti.

Numeri sull’abbandono degli animali

Secondo Legambiente, nel 2023 sono stati abbandonati oltre 85.000 cani, con un aumento dell’8,6% rispetto all’anno precedente. Ogni giorno vengono abbandonati più di 127 animali, numeri che testimoniano la necessità di interventi immediati e concreti. Molti Comuni non dispongono di servizi adeguati, come spazi aperti dedicati agli animali d’affezione, aggravando ulteriormente la situazione. La riforma del Codice della Strada mira a ridurre questi numeri con sanzioni più severe e misure preventive. Tuttavia, sarà fondamentale anche un cambio culturale che promuova la responsabilità e il rispetto verso gli animali.

Lotta all’inciviltà e a favore della sicurezza

La nuova normativa rappresenta un segnale forte nella lotta contro l’abbandono degli animali. Le istituzioni hanno riconosciuto la gravità del fenomeno e hanno deciso di intervenire con misure severe. La riforma mira a dissuadere comportamenti barbarici e pericolosi, soprattutto nei mesi estivi, quando i numeri raggiungono livelli inaccettabili. L’auspicio è che queste nuove regole non restino solo sulla carta. Le pene severe e le sanzioni accessorie devono tradursi in un effettivo calo degli abbandoni. La sensibilizzazione è altrettanto fondamentale: ogni cittadino deve comprendere che abbandonare un animale è un crimine, con conseguenze pesanti per tutti.

La riforma del Codice della Strada è un progresso significativo per chi ama gli animali e per chi crede nella convivenza civile. L’inasprimento delle pene per l’abbandono punta a tutelare la vita degli animali, ma anche a garantire la sicurezza delle strade italiane.

Ogni atto di abbandono rappresenta una scelta irresponsabile, capace di provocare dolore e tragedie. Con questa normativa, l’Italia invia un messaggio chiaro: l’abbandono degli animali non sarà più tollerato. Questa battaglia è un impegno di civiltà e responsabilità, che coinvolge istituzioni e cittadini.

 

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