Niente tenuità per il “nonno” spacciatore La Cassazione ha confermato la decisione del giudice di merito con cui veniva stabilito che, ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto, l’età dell’imputato non rileva

Illecita detenzione di sostanze stupefacenti

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la decisione del Giudice di primo grado con cui gli imputati venivano condannati per i reati di cui all’art. 73, comma 5, DPR n. 309/1990, per avere, in concorso tra loro, illecitamente detenuto per la cessione a terzi di sostanza stupefacente di tipo cocaina.

Avverso tale decisione gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, evidenziando, in particolare, gli indici per l’accertamento della tenuità del fatto quali, per quanto qui rileva, l’età avanzata degli imputati. Secondo i ricorrenti tali elementi non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello.

Nessuna tenuità del fatto per lo spacciatore ultraottantenne

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22017-2024, ha rigettato i ricorsi proposti e ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, i ricorrenti hanno evidenziato molteplici elementi che costituiscono indici positivi per l’accertamento della tenuità del fatto e che, secondo gli stessi, non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello, quali “l’età, l’assenza di precedenti penali recenti, l’assenza di carichi pendenti, le precarie condizioni di salute, lo svolgimento, in modo regolare e continuativo (…) dell’attività lavorativa, il mancato reperimento, durante la perquisizione, di materiale da taglio o da confezionamento della sostanza stupefacente”.

Rispetto al ricorso proposto, la Corte ha anzitutto ripercorso i fatti di causa, dai quali era emerso che “la condotta contestata ai ricorrenti concerneva la detenzione ai fini di cessione di 15,6 grammi di cocaina, suddivisi in 13 involucri di un grammo ciascuno circa, da cui era possibile trarre un numero considerevole di dosi, pari a 66, non potendosi ritenere l’offesa come di particolare tenuità sotto il profilo della esiguità del danno o del pericolo”.

Rispetto a tali circostanze, ha riferito la Corte, il Giudice di merito aveva tenuto in considerazione ai fini della decisione il significativo quantitativo di sostanza detenuta, nonché la personalità negativa degli imputati, entrambi gravati da precedenti penali.

In relazione alla doglianza formulata dai ricorrenti circa il mancato riconoscimento, da parte del Giudice di merito, delle attenuanti generiche, la Corte ha riferito altresì che gli elementi difensivi proposti dai ricorrenti non assumono rilievo determinante ai fini del riconoscimento delle invocate attenuanti e ciò considerato il fatto che il giudice di merito “non è tenuto ad esaminare e valutare tutte le circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa, ma è sufficiente che indichi i motivi per i quali non ritiene di esercitare il potere discrezionale attribuitogli dall’art. 62 bis cod. pen.”.

Niente tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.

La Cassazione ha pertanto evidenziato come, la Corte territoriale, avendo negato l’attribuzione delle attenuanti generiche, ha evidenziato la gravità del fatto in relazione alla quantità di sostanza detenuta e alla personalità degli imputati.

Sulla scorta di quanto sopra, la Corte ha pertanto confermato gli esiti del giudizio di merito e ha ritenuto che, nel caso di specie, non venga in rilievo la tenuità del fatto a norma dell’art. 131-bis c.p., secondo quanto richiesto dai ricorrenti.

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permesso necessità

Permesso di necessità: quando può essere concesso La Cassazione detta chiarimenti sulle condizioni necessarie per concedere il permesso di necessità ex art. 30 dell'ordinamento penitenziario

Permesso di necessità: il caso

No al permesso di necessità, se le condizioni di salute della madre dell’imputato non siano gravissime. Lo ha affermato la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 22619-2024, cogliendo l’occasione per spiegare i presupposti necessari per ottenere il beneficio ex art. 30 dell’ordinamento penitenziario.

Nella specie, l’imputato aveva proposto ricorso innanzi al Palazzaccio avverso l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Torino che aveva respinto l’istanza di permesso di necessità per fare visita alla madre in quanto gravemente ammalata.

Per il tribunale, la madre dell’uomo non si trovava in pericolo di vita considerata la cronicità delle patologie che la affliggevano per cui non sussistevano le condizioni previste dal secondo comma dell’art. 30 ord. pen.
L’imputato, invece, deduceva che detto permesso poteva essere concesso, oltre che nell’ipotesi di pericolo di vita di un familiare o convivente, anche per eventi di particolare gravità ed osservava che la genitrice versava in gravi condizioni che le impedivano di muoversi dal letto.

Quando può essere concesso il permesso di necessità

Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso è infondato e va respinto. Infatti, ricordano preliminarmente, “ai fini della concessione del permesso di necessità, la patologia cronica a sviluppo progressivo da cui è affetto il familiare
non costituisce ‘evento di particolare gravità’ che legittima la concessione del beneficio in quanto tale condizione, connotata da protrazione indefinita nel tempo, è inconciliabile con il carattere straordinario dell’istituto”.

I requisiti richiesti dalla norma per la concessione del permesso di necessità si individuano, tradizionalmente, rammentano quindi dalla S.C., in tre elementi: “il carattere eccezionale della concessione, la particolare gravità dell’evento giustificativo, la correlazione di questo con la vita familiare”.
In particolare, per accedere a tale tipo di permesso occorre che “sussistano particolarissime ragioni di eccezionale rilevanza, quale un evento drammatico o di rara frequenza, legato comunque alla sfera familiare e connesso ad un fatto storico precisato e ben determinato: la normativa prevede un evento e cioè un fatto singolo e non anche una situazione cronica che si prolunga nel tempo, poiché la disciplina normativa del permesso di necessità non può piegarsi ad ogni situazione di tipo familiare, altrimenti si finirebbe per connettere lo stesso a situazioni protratte a tempo indefinito, con la conseguenza di una serie irragionevole di permessi di necessità”.
Nella specie, correttamente, dunque, il tribunale di Sorveglianza ha escluso la sussistenza delle condizioni per
concedere il permesso.

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sottrazione minori

Sottrazione di minori: disciplina e sanzioni Una breve guida sulla sottrazione di minori, un reato che il nostro Codice Penale disciplina in tre varianti negli articoli 573, 574 e 574 bis c.p.

Il reato di sottrazione di minore

La sottrazione di minore è un reato disciplinato dal Codice Penale italiano, che mira a proteggere i minori da azioni illecite che possono compromettere il loro benessere e la loro crescita. Questo reato è regolato principalmente dagli articoli 573, 574 e 574 bis del Codice Penale. Vediamo in dettaglio cosa prevedono questi articoli e quali sono le implicazioni legali.

Sottrazione consensuale di minorenni

L’articolo 573 del Codice Penale punisce chiunque sottrae un minore ultra quattordicenne, con il consenso di quest’ultimo, al genitore che ne esercita la responsabilità genitoriale o al tutore o lo ritiene contro la volontà di questi soggetti. La pena prevista è la reclusione fino a due anni. Il minore, anche se esprime il consenso alla sottrazione non può essere considerato come compartecipe al reato, bensì oggetto materiale dell’illecito penale. Il suo consenso quindi non conduce all’applicazione dell’attenuante di cui all’articolo 62  n. 5 del Codice penale. Trattasi di un reato punibile a querela della persona responsabile del minore.

Sottrazione di persone incapaci

L’articolo 574 del Codice Penale si occupa della sottrazione di persone incapaci, includendo sia i minori di anni 14 che gli adulti incapaci di intendere e di volere. La pena prevista è la reclusione da uno a tre anni. Il reato si configura in presenza della sottrazione o della ritenzione di questi soggetti deboli al tutore, al curatore e a coloro che ne hanno la vigilanza, la custodia, la responsabilità genitoriale. Anche in questo caso il reato è perseguibile a querela della persona che esercita la responsabilità genitoriale, del tutore o del curatore. La stessa pena è prevista nei confronti di chi sottrae o ritiene un minore ultra quattordicenne, senza il suo consenso, per finalità diverse da quelle della libidine o del matrimonio.

Sottrazione e trattenimento di minore all’estero

L’articolo 574 bis punisce chi sottrae un minore portandolo all’estero o trattenendolo all’estero contro la volontà del genitore o del tutore legale. La pena prevista è la reclusione da uno a quattro anni. Se il fatto è commesso nei confronti di un minore ultra quattordicenne e con il suo consenso, la pena va da sei mesi a tre anni.  Se il fatto viene commesso da un genitore, la condanna conduce anche alla sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.

Implicazioni legali e consigli pratici

La sottrazione di minore è un reato grave che può comportare pesanti conseguenze legali. È fondamentale che i genitori e i tutori legali comprendano i propri diritti e le implicazioni di queste norme. In caso di sottrazione, è consigliabile rivolgersi immediatamente alle autorità competenti e cercare assistenza legale, ma non solo.

Per prevenire questo tipo di reato è necessario educare i minori sui rischi associati alla sottrazione e vigilare, ossia svolgere un’attività di monitoraggio delle relazioni e delle attività dei minori.

Nel caso in cui il reato si sia già perfezionato è necessario compiere due step fondamentali: il primo richiede la segnalazione immediata del caso alle autorità, il secondo  invece consiste nella richiesta di un supporto legale. 

 

 

L’alcoltest non vale come prova La Cassazione ha ricordato che, poiché l’esame strumentale tecnico non costituisce una prova legale, l’accertamento della concentrazione alcolica può avvenire in base ad elementi sintomatici per tutte le ipotesi di cui all’art. 186 cod. strada

Guida in stato di ebbrezza

Nel caso di specie, l’automobilista ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione avverso la sentenza di merito con cui era stato ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 186 cod. strada, recante “Guida sotto l’influenza dell’alcool”.

In particolare, il ricorrente ha rilevato come, nel corso del giudizio di merito, non fosse stata comprovata la sussistenza dello stato di ebrezza, poiché il suo tasso alcolemico, all’epoca dei fatti, era stato rilevato in ragione delle sole dichiarazioni rese dagli agenti intervenuti. Invero il ricorrente ha contestato la carenza di dati tecnici obiettivi, la cui assenza non avrebbe consentito di stabilire in termini certi il livello di alcol effettivamente presente nel suo sangue al momento dei fatti.

Lo stato di ebrezza, secondo le doglianze formulate dall’imputato, non avrebbe potuto essere infatti dimostrato dagli elementi sintomatici riscontrati all’epoca dei fatti, quali, il suo stato confusionale, gli urti della sua autovettura al marciapiedi e la mancata risposta alle sollecitazioni degli agenti.

Etilometro non costituisce prova legale

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20763-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, il Giudice di legittimità ha anzitutto contestato la fondatezza del ricorso proposto per motivi processuali, ritenendolo pertanto inammissibile.

Ciò posto, la Corte ha ad ogni modo affrontato brevemente la doglianza eccepita, ricordando la precedente giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo la quale “poiché l’esame strumentale non costituisce una prova legale, l’accertamento della concentrazione alcolica può avvenire in base ad elementi sintomatici per tutte le ipotesi di reato previste dall’art. 186 cod. strada e, qualora vengano oltrepassate le soglie superiori, la decisione deve essere sorretta da congrue motivazioni”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Suprema Corte ha pertanto concluso il proprio esame rilevando che “in assenza di espletamento di un valido esame alcolimetrico, il giudice di merito può trarre il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dello stato di ebrezza dalla presenza di adeguati elementi obiettivi e sintomatici, che, nel caso in esame, i giudici di merito hanno congruamente individuato in aspetti quali lo stato comatoso e di alterazione manifestato dal (ricorrente) alla vista degli operatori, certamente riconducibile ad uso assai elevato di bevande alcoliche (..) per come evincibile dalla riscontrata presenza di un forte odore acre di alcol, nonché dall’assoluta sua incapacità di controllare l’autoveicolo in marcia e di rispondere alle domande rivoltegli dagli agenti”.

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bullismo e cyberbullismo

Bullismo e cyberbullismo: cosa prevede la nuova legge In vigore dal 14 giugno 2024 la legge su bullismo e cyberbullismo che istituisce anche la giornata del rispetto e prevede misure concrete per la tutela delle vittime

Bullismo e cyberbullismo: la nuova legge

Nella seduta di mercoledì 15 maggio 2024 la proposta di legge bipartisan per contrastare i fenomeni del bullismo e del cyberbullismo ha ricevuto il voto unanime della Camera. Il testo unificato è stato approvato dopo le modifiche apportate al Senato ed è legge dello Stato.

La legge 70 2024 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 30 maggio per entrare in vigore il 14 giugno 2024.

Tra gli elementi di novità da segnalare c’è una definizione più completa e specifica di bullismo, l’adozione di un codice di prevenzione e di un servizio di  sostegno psicologico nelle scuole e l’istituzione della “Giornata del rispetto”  che sarà celebrata il 20 gennaio, giorno di nascita di Willy Monteiro, il ragazzo ucciso mentre tentava di difendere un amico da un pestaggio.

Al Governo il compito di adottare disposizioni più specifiche entro un anno dall’entrata in vigore del testo di legge.

Definizione di bullismo

Il testo amplia e dettaglia la definizione di bullismo ossia “l’aggressione o la molestia reiterate, da parte di una singola persona o di un gruppo di persone, in danno di un minore o di un gruppo di minori, idonee a provocare sentimenti di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione, attraverso atti o comportamenti vessatori, pressioni o violenze fisiche o psicologiche, istigazione al suicidio o all’autolesionismo, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese o derisioni.”

Codice interno per le scuole

Ogni istituto scolastico dovrà adottare un codice interno per prevenire e contrastare i fenomeni di bullismo e cyberbullismo e dovrà istituire un tavolo permanente di monitoraggio, di cui faranno parte i rappresentanti degli studenti, degli insegnanti, delle famiglie e degli esperti di settore.

Sostegno psicologico per studenti

Le scuole potranno anche creare servizi di sostegno psicologico per gli studenti al fine di prevenire  fattori di rischio o disagio. All’interno delle scuole di ogni ordine e grado potranno essere istituiti anche servizi di coordinamento pedagogico per promuovere il pieno sviluppo delle potenzialità dei bambini e dei ragazzi agendo principalmente sulle relazioni interpersonali e sulle dinamiche di gruppo.

Emergenza infanzia 114

Al governo il compito di potenziare il servizio di assistenza per le vittime di atti di bullismo e cyberbullismo tramite il numero pubblico “Emergenza infanzia 114” a cui potranno cedere gratuitamente 24 ore su 24 le vittime, ma anche i congiunti e in generale tutti coloro che con la vittima hanno una relazione affettiva. Grazie a questo numero sarà possibile usufruire di un servizio di prima assistenza di natura psicologica e giuridica e nei casi più gravi si potrà informare l’organo di polizia competente.

Giornata del rispetto

Istituita la giornata del rispetto per il  20 gennaio, in memoria di Willy. L’evento nelle scuole potrà essere preceduto nella settimana precedente da iniziative finalizzate alla sensibilizzazione sul fenomeno.

Progetto di intervento educativo

Al minore che tiene condotte aggressive (anche in modalità telematica) nei confronti di persone e animali e che viene processato dal Tribunale dei minorenni, potrà essere dedicato un percorso di mediazione o un progetto di intervento educativo con l’obiettivo di rieducare il minore e riparare il danno arrecato, il tutto sotto il controllo dei servizi sociali. Concluso il percorso il Tribunale potrà confermare l’esito, disporre che lo stesso prosegua o collocare il minore presso una comunità.

Pitbull morde il vicino: sempre colpevole il padrone Per la Cassazione, il proprietario di un pitbull risponde di lesioni personali per il morso dato dall’animale, non essendo scriminato il dovere di vigilanza del proprietario sul cane se quest’ultimo si trova in custodia presso altri soggetti

Reato di lesioni personali colpose per il morso di un pitbull

Nel caso in esame, il Tribunale di Ferrara, in funzione di giudice di secondo grado, aveva ritenuto che il proprietario di un cane di razza pitbull fosse responsabile di lesioni personali colpose a causa delle lesioni provocate dal morso dato dall’animale ad un vicino di casa.

Avverso tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando il fatto che egli, al momento dell’evento lesivo, non si trovasse in casa e che il cane fosse invece nel possesso temporaneo della madre.

Cassazione: non scriminato il dovere di vigilanza dell’imputato

La Corte di Cassazione, con sentenza n. Cass-21027-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Nella specie e per quanto qui rileva, la Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha condiviso le conclusioni cui era giunto il Giudice di merito, ovvero che “il dovere di vigilanza del proprio animale non sarebbe scriminato neanche nell’ipotesi in cui il (proprietario) non fosse stato in casa e avesse lasciato il cane in custodia alla di lui madre (…) poiché anche in caso di sua assenza, al medesimo competeva comunque l’obbligo di fornire alla temporanea custode ogni tipo di informazione preventiva necessaria, idonea ad evitare che il cane potesse scappare di casa o recare pregiudizio a terzi”.

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stalking condominiale

Stalking per il condomino che altera le abitudini di vita degli altri Si configura il reato di cui all’art. 612-bis c.p. qualora le molestie siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita

Riqualificazione del reato

Nel caso di specie e per quanto qui rileva, la Corte d’appello di Milano aveva provveduto a riqualificare il delitto di cui agli artt. 81 e 612-bis c.p., parzialmente aggravato dall’odio razziale, nella contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

Avverso tale decisione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La condotta molestatrice

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21006-2024, ha riqualificato l’appello come indicato nel ricorso proposto e ha annullato la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 660 c.p., con rinvio al Tribunale di primo grado per il giudizio.

La Corte ha ritenuto tale doglianza ammissibile posto che nell’ambito del delitto di cui all’art. 612-bis c.p. l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, posto che è proprio dalla loro reiterazione “che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che (…) degenera in uno stato di prostrazione psicologica”.

Pertanto, ha precisato la Corte, qualora la vittima entri in uno stato di perdurante ansia e modifica le proprie abitudini di vita a fronte delle condotte reiterate dell’imputato è integrato il reato di atti persecutori; qualora, invece, la condotta molestatrice sia tale da (solo) infastidire la vittima, allora viene in rilievo il reato di molestia o disturbo alle persone.

Ne consegue che la linea di demarcazione tra i due reati è rappresentata dalle conseguenze psicologiche che la condotta molestatrice è in grado di ingenerare nella persona offesa.

Stalking condominiale

Nel caso di specie, l’insieme degli elementi fattuali, emersi nel corso del giudizio di merito, non potevano che far propendere per la qualificazione della condotta molestatrice in termini di atti persecutori a norma dell’articolo 612 bis del Codice penale, posto che erano state riscontrati comportamenti dell’imputato idonei a determinare uno stato di ansia a carico della persona offesa che pervadevano la sua vita, al punto di modificarne le abitudini normali.

Quanto sopra, evidenzia la Corte, è desumibile da alcuni aspetti rilevati nel corso del giudizio di merito, quali, ad esempio le dichiarazioni della vittima con cui aveva riferito di “vivere con il timore” di trovarsi davanti l’imputato quando accedeva a casa, nonché di aver paura di uscire di casa, affermando di “vivere male” tali stati d’animo; le dichiarazioni delle persone offese, confermate dal teste, con cui veniva riferita la scelta di trasferirsi altrove, anche e soprattutto a causa del disturbi arrecato dall’imputato; le dichiarazioni dei coniugi vittime della condotta molestatrice con cui veniva evidenziato che gli stessi avevano vissuto “in ansia e paura” e ciò a causa dei comportamenti dell’imputato tra cui la “forzatura” della porta d’ingresso della loro abitazione. Infine, ha evidenziato la Corte, la perizia fornita dal consulente tecnico del pubblico ministero aveva riscontrato nell’imputato una significativa patologia, collegata alla “costante esposizione al rapporto con il vicinato”, tale da renderlo socialmente pericoloso.

 

 

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detenzione domiciliare sostitutiva

Detenzione domiciliare sostitutiva: è legittima Per la Corte Costituzionale la disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva contenuta nella riforma Cartabia non viola la legge delega

Detenzione domiciliare e legge delega

Il decreto legislativo n. 150 del 2022 non ha violato la legge delega nel disciplinare le modalità esecutive della nuova pena sostitutiva della detenzione domiciliare. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 84-2024, con la quale ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate una serie di questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bologna.

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Rispetto all’unica questione valutata nel merito, la Consulta ha sottolineato che la riforma del 2022 mira a rivitalizzare le pene sostitutive delle detenzioni di breve durata, i cui effetti desocializzanti sono da tempo noti, specie nel contesto di significativo sovraffollamento in cui, nuovamente, versano le carceri italiane. La Corte ha evidenziato che le pene sostitutive sono ispirate al principio secondo cui il sacrificio della libertà personale va contenuto entro il minimo necessario, oltre che alla necessaria finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27 della Costituzione. Inoltre, la loro previsione incentiva l’imputato a definire il processo con un rito semplificato, e in particolare con il patteggiamento: il che contribuisce ad alleggerire i carichi del sistema penale, in funzione dell’obiettivo di assicurare a tutti tempi più contenuti di definizione dei processi. Infine, le pene sostitutive garantiscono risposte certe, rapide ed effettive al reato, ancorché alternative al carcere, dal momento che sono immediatamente esecutive non appena la sentenza di condanna passa in giudicato. E ciò a differenza di quanto accade rispetto alle pene detentive di durata non superiore a quattro anni, che restano di regola sospese anche per vari anni, sino a che il tribunale di sorveglianza non decida sulla richiesta del condannato di essere ammesso a una misura alternativa alla detenzione. Con la conseguenza che circa novantamila persone in Italia sono oggi “liberi sospesi”: e cioè condannati in via definitiva, che però non sono sottoposti allo stato ad alcuna misura restrittiva, in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza.

La decisione della Corte Costituzionale

Secondo la Corte, la disciplina della pena sostitutiva della detenzione domiciliare risponde a questi obiettivi generali della legge delega, che prescriveva al Governo di mutuare la disciplina prevista, in fase esecutiva, per l’omonima misura alternativa della detenzione domiciliare, ma soltanto “in quanto compatibile” con tali obiettivi. In particolare, la previsione, da parte del legislatore della riforma, di un più favorevole regime del limite minimo di permanenza nel domicilio (almeno dodici al giorno), così come di un’ampia possibilità di uscire dal domicilio stesso in relazione a “comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale di lavoro o di salute”, è coerente – ha osservato la Corte – con la spiccata funzionalità rieducativa di questa pena sostitutiva, che prevede uno specifico programma di trattamento elaborato dall’Ufficio di esecuzione penale esterna, che prende in carico il condannato. Ciò appare conforme all’idea – che è alla base della riforma – di una “pena-programma” caratterizzata da elasticità nei contenuti, perché funzionale alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio, in modo da garantire la risocializzazione del condannato e, assieme, una più efficace tutela della collettività.

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reato abbandono animali

Abbandono di animali: non c’è reato se il cane resta al canile per indigenza Il reato di abbandono di cui all’art. 727 c.p. non si configura se il proprietario non ritira l’animale dal canile per problemi economici

Reato di abbandono di animali

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16168-2024, ha stabilito che il mancato ritiro di un cane dal canile a cui è stato affidato non configura il reato di abbandono di animali.

Lasciare un cane presso una struttura di ricovero non è punibile perché queste strutture assicurano le necessarie cure agli animali, non li sopprimono e non li destinano alla sperimentazione.

Anche se la retta per la custodia viene sospesa e il cane scappa, perché va a cercare il proprietario, il reato di abbandono non si configura.

Il reato sussiste invece se il proprietario affida il cane a un canile privato, obbligato contrattualmente alla cura dell’animale, sospende i pagamenti o non ritira l’animale, se è prevedibile che l’inadempimento possa determinare l’abbandono dell’animale da parte del canile per mancanza di affidabilità o di professionalità della struttura stessa.

Condannato il proprietario che lascia l’animale al canile

La pronuncia pone fine a un processo iniziato con la condanna di un imputato per il reato di abbandono di animali, accusato di aver abbandonato un cane meticcio con microchip nel territorio di un comune calabrese.

L’imputato ha presentato ricorso per Cassazione, contestando la valutazione della prova da parte del Tribunale e sottolineando che il cane, che era solito allontanarsi per giorni, era stato trovato a quasi 200 km di distanza dal luogo di residenza dell’imputato.

L’imputato ha dichiarato di non aver mai visitato la località in cui il cane era stato catturato e di essersi trovato nell’impossibilità di ritirarlo dal canile locale a causa delle restrizioni sugli spostamenti imposte dalla pandemia e delle sue difficili condizioni economiche.

Non c’è abbandono di animale se ci sono difficoltà economiche

La Suprema Corte ha rilevato che il Tribunale non ha adeguatamente considerato l’impossibilità oggettiva dell’imputato di riprendere l’animale a causa delle restrizioni alla mobilità tra regioni durante l’emergenza pandemica. Inoltre, le difficoltà economiche derivanti dalla perdita del lavoro hanno impedito all’imputato di pagare la retta del canile.

Di conseguenza, né l’omesso pagamento della retta né l’omesso ritiro dell’animale potevano configurare il reato di abbandono. La decisione del Tribunale di condannare l’imputato non ha considerato adeguatamente queste circostanze oggettive.

L’articolo 727 del codice penale punisce il reato di abbandono di animali, definito come qualunque condotta che manifesti la volontà dolosa di non tenere l’animale con sé e che violi i doveri di cura e custodia. Tuttavia la norma non prevede l’obbligo di denunciare lo smarrimento dell’animale. Nel caso in esame, l’affidamento del cane a una struttura con obbligo di custodia esclude la configurazione di abbandono, e il mancato pagamento delle rette al canile non integra questa fattispecie penale.

In conclusione, la Cassazione ha annullato la condanna, affermando che in caso di indigenza e impossibilità materiale di ritirare un animale affidato a un canile, non si configura il reato di abbandono di animali. La decisione rappresenta un’importante chiarificazione sulla tutela degli animali e sulle responsabilità dei proprietari in situazioni di difficoltà economica e logistica.

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violenza sessuale interdizione

Violenza sessuale: interdizione obbligatoria La Cassazione ricorda che l'art. 609-nonies c.p. rende obbligatoria per i reati di violenza sessuale l'irrogazione delle pene accessorie, tra cui l'interdizione temporanea dai pubblici uffici e quella perpetua da incarichi nelle scuole o in strutture frequentate da minori

Violenza sessuale e pene accessorie

L’interdizione prevista dall’articolo 609-nonies c.p. è obbligatoria. Lo rammenta la terza sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 20585-2024 accogliendo il ricorso del procuratore avverso la decisione del GUP che, applicando la pena concordata in relazione al reato continuato ex art. 609-quater c.p. ascritto all’imputato, non prevedeva le pene accessorie “speciali” obbligatoriamente previste in caso di condanna o patteggiamento anche a una pena inferiore a due anni di carcere.

Interdizione obbligatoria per reati di violenza sessuale

Per gli Ermellini, invero, deve darsi seguito all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui «l’art. 609-nonies cod. pen. deroga ala regola generale di cui all’art. 445 cod. proc. pen., rendendo obbligatoria per i reati di violenza sessuale, anche ni caso di applicazione dela pena inferiore ai due anni, l’irrogazione delle pene accessorie ivi indicate» (cfr. Cass. n. 17189/2016).

Per cui, in linea con le conclusioni del procuratore generale, la sentenza di patteggiamento è annullata senza rinvio limitatamente all’omessa applicazione delle pene accessorie di cui all’art. 609-nonies c.p., consistenti “nell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e nell’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori”.

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