apprendistato

Apprendistato: la guida Il contratto di apprendistato: definizione, normativa, funzionamento, novità della Legge 203/2024 e giurisprudenza

Il contratto di apprendistato

Il contratto di apprendistato è una forma di contratto di lavoro che combina l’attività lavorativa con la formazione professionale. Si tratta di uno strumento essenziale per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, permettendo loro di acquisire competenze specifiche attraverso un percorso formativo strutturato.

Definizione normativa

Il contratto è definito dall’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2015, che lo inquadra come un rapporto di lavoro finalizzato alla formazione e alla qualificazione professionale del lavoratore. La peculiarità di questo contratto è la duplice natura: lavorativa e formativa. L’apprendista, infatti, svolge attività lavorative sotto la supervisione di un tutor, ma al contempo partecipa a percorsi di formazione teorica e pratica.

Normativa di riferimento

La disciplina generale del contratto è contenuta nel D.Lgs. n. 81/2015, parte integrante del Jobs Act. Tuttavia, la normativa è stata recentemente aggiornata con la Legge 203/2024, che ha introdotto novità significative per semplificare le procedure e ampliare la platea dei beneficiari.

Le principali fonti normative sono:

  • D.Lgs. n. 81/2015: disciplina organica del contratto di apprendistato.
  • Legge n. 203/2024: introduce modifiche sulla durata, sugli incentivi contributivi e sull’accesso all’apprendistato.
  • Circolari INPS e Ministero del Lavoro: forniscono chiarimenti operativi su aspetti contributivi e procedurali.

Tipologie di contratto di apprendistato

Il contratto di apprendistato si articola in tre principali tipologie:

  1. Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore
    • Rivolto ai giovani dai 15 ai 25 anni.
    • Finalizzato al conseguimento di un titolo di studio o di una qualifica professionale.
  1. Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere:
  • Destinato ai giovani dai 18 ai 29 anni (17 anni se in possesso di qualifica professionale).
  • Mira a fornire competenze tecnico-professionali specifiche.
  1. Apprendistato di alta formazione e ricerca
  • Per giovani dai 18 ai 29 anni, finalizzato al conseguimento di titoli universitari, dottorati o specializzazioni.

Come funziona l’apprendistato

Il contratto di apprendistato prevede:

  • Un piano formativo individuale che definisce le competenze da acquisire e che viene stabilito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva.
  • La presenza di un tutor o referente aziendale responsabile della formazione.
  • Una parte teorica e una parte pratica, con un bilanciamento variabile a seconda del tipo di apprendistato.

Durata

La durata minima e massima del contratto varia in base alla tipologia:

  • Apprendistato per la qualifica: fino a 3 anni (4 per il diploma quadriennale).
  • Apprendistato professionalizzante: fino a 3 anni (5 per artigianato o mestieri complessi).
  • Apprendistato di alta formazione: la durata è concordata con le istituzioni scolastiche o universitarie.

Chi può accedere al contratto di apprendistato

Requisiti per l’apprendista:

  • Età: generalmente compresa tra i 15 e i 29 anni, con alcune eccezioni per categorie particolari.
  • Titoli di studio: in alcuni casi specifici, è richiesto il possesso di una qualifica professionale o titolo di studio.

Requisiti per il datore di lavoro

  • Le imprese devono garantire un ambiente di lavoro idoneo e la presenza di un tutor qualificato.
  • È necessario rispettare i limiti numerici sugli apprendisti in rapporto ai lavoratori qualificati.

Novità introdotte dalla Legge 203/2024

La Legge 203/2024 ha apportato alcune modifiche significative al contratto di apprendistato:

  • Snellimento delle pratiche burocratiche per l’attivazione del contratto.
  • Digitalizzazione del piano formativo individuale.
  • Riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro per i primi anni del contratto.
  • Agevolazioni fiscali per le imprese che stabilizzano gli apprendisti al termine del periodo formativo.
  • Introduzione della possibilità di svolgere parte della formazione teorica tramite piattaforme digitali, con standard qualitativi certificati.

Aspetti contributivi e fiscali

Questo contratto beneficia di un regime contributivo agevolato:

  • Contributi previdenziali ridotti a carico del datore di lavoro, variabili in base alla tipologia e alla durata del contratto.
  • Incentivi fiscali per le aziende che stabilizzano gli apprendisti al termine del contratto.

Secondo l’INPS, le modifiche introdotte dalla Legge 203/2024 prevedono una ulteriore riduzione dei contributi per le piccole e medie imprese nei primi due anni di apprendistato.

Giurisprudenza rilevante sull’apprendistato

La giurisprudenza ha fornito chiarimenti su vari aspetti del contratto di apprendistato, soprattutto in merito alla sua corretta gestione e alle implicazioni in caso di irregolarità.

Cassazione n. 6704/2024: Per quanto concerne l’apprendistato (e analogamente il contratto di formazione-lavoro ex art. 3 del d.l. n. 726/1984, convertito con modifiche nella l.n. 863/19849, il quale risulta essere la forma più affine all’apprendistato professionalizzante), sia la dottrina prevalente sia la consolidata giurisprudenza di questa Corte convergono nel definire tale rapporto contrattuale come avente una causa mista. Infatti, in cambio della prestazione lavorativa, il datore di lavoro è tenuto sia a corrispondere una retribuzione sia a fornire un addestramento finalizzato all’acquisizione di una qualifica specifica.

Cassazione n. 30657/2024: Il contratto di apprendistato si fonda essenzialmente sullo scambio di formazione per una specifica mansione. Se il lavoratore non è idoneo a seguire tale percorso formativo, l’oggetto stesso del contratto perde di significato. Inoltre, il datore di lavoro, nell’ambito di un apprendistato, non può imporre all’apprendista compiti diversi da quelli stabiliti dal contratto, limitando così il proprio potere organizzativo. Diversamente dai contratti di lavoro ordinari, in cui esiste l’obbligo di ricercare mansioni compatibili con lo stato di salute del dipendente, nel contratto di apprendistato non sussiste tale dovere: il licenziamento per inidoneità fisica o psichica dell’apprendista è pertanto legittimo senza l’obbligo di procedere a una ricollocazione.

Cassazione n. 9286/2020: Nel contratto di apprendistato, l’elemento fondamentale è l’obbligo da parte del datore di lavoro di fornire un vero processo di addestramento professionale, volto all’acquisizione di una qualifica da parte del tirocinante. Di conseguenza, il valore predominante della formazione rispetto alle attività lavorative esclude che un contratto di apprendistato possa riguardare l’esecuzione di compiti meramente elementari o ripetitivi, privi di un adeguato supporto didattico sia teorico che pratico.

 

Leggi anche: Apprendistato duale: i chiarimenti Inps

danno da demansionamento

Danno da demansionamento: l’aggiornamento tecnologico incide Danno da demansionamento: è compito del lavoratore dimostrare il danno subito, su cui incide il mancato aggiornamento tecnologico

Danno da demansionamento

La Corte Suprema di Cassazione, con l’ordinanza n. 3400/2025, afferma che la mancanza di aggiornamenti tecnologici influisce sul danno da demansionamento. Tale incidenza è maggiore nei settori caratterizzati da rapidi progressi tecnologici. Il giudice, nel calcolare il risarcimento per il danno subito, deve considerare questo aspetto insieme ad altri parametri. Il lavoratore però ha l’onere di provare il danno da demansionamento, anche con elementi indiziari che siano gravi, precisi e coerenti.

Reintegrazione nel livello e risarcimento del danno

Il Tribunale, in qualità di giudice di primo grado, accoglie le richieste di un lavoratore contro la società datrice che lo ha declassato. L’autorità giudiziaria ordina alla società di reintegrare il dipendente nelle mansioni precedenti e risarcirlo per il danno subito alla sua professionalità.

La Corte d’appello conferma la decisione iniziale. In primo grado è stato accertato l’inquadramento al V livello del dipendente, così come le sue elevate competenze, l’autonomia decisionale e la gestione delle risorse assegnate, assenti nelle caratteristiche tipiche dell’operatore specialista in customer care. Il giudice di primo grado quindi ha giustamente valutato e corretto l’inquadramento del dipendente al III livello. Il lavoratore da parte sua ha invece adempiuto all’onere della prova a suo carico. Il demansionamento è durato tre anni, per cui risulta appropriata anche la valutazione equitativa del danno di 1000 euro mensili. La società datrice decide tuttavia di contestare la decisione ricorrendo alla Corte di Cassazione.

Impatto del mancato aggiornamento tecnologico

La Cassazione però respinge il ricorso, ritenendo inammissibili e infondate le obiezioni sollevate. La Corte territoriale ha valutato correttamente le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore senza riscontrare in esse le caratteristiche tipiche del V livello rispetto al III livello. In materia di dequalificazione professionale, la Cassazione respinge anche il secondo motivo d’appello ricordando che “è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti dei lavoratori tutelati costituzionalmente”, valutando anche la persistenza della condotta lesiva, la sua durata e ripetizione delle condizioni di disagio professionale e personale e l’inerzia del datore di lavoro verso le richieste del dipendente, anche senza intenzione deliberata di declassare o svalutare i compiti del dipendente. La prova del danno deve essere fornita dal dipendente anche attraverso indizi gravi, precisi e coerenti capaci di dimostrare aspetti come qualità e quantità del lavoro svolto, tipo di professionalità richiesta, durata del demansionamento o nuova collocazione assunta successivamente.

L’importanza degli aggiornamenti tecnologici

Nel caso specifico, la Cassazione ritiene che la Corte d’appello abbia qualificato correttamente i comportamenti della società datrice e il conseguente danno da demansionamento subito dal lavoratore a causa della condotta reiterata dell’azienda e della privazione degli aggiornamenti tecnologici necessari. Corretta anche la quantificazione equitativa del danno poiché ben motivata, in linea con i criteri applicati e non sproporzionata per eccesso e per difetto. L’importo mensile risarcitorio è stato determinato valutando l’oggettiva differenza tra le mansioni eseguite dal dipendente prima e dopo aprile 2018. Da quel momento infatti il lavoratore è stato effettivamente assegnato a mansioni inferiori dopo aver ottemperato a un ordine giudiziale per riassegnazione delle mansioni.

 

Leggi anche: Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Allegati

licenziato chi usa

Licenziato chi usa l’auto aziendale per fini privati La Cassazione ha chiarito che può essere legittimamente licenziato chi utilizza l'auto aziendale per scopi privati durante l'orario lavorativo

Uso privato dell’auto aziendale

La sezione lavoro della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3607/2025, ha chiarito che il prestatore di lavoro può essere legittimamente licenziato chi usa l’auto aziendale per scopi privati durante l’orario lavorativo.

La vicenda

I fatti hanno per protagonista un dipendente – di una società consortile operante nel trattamento delle acque reflue civili e industriali) che per fini extra-lavorativi in orario di lavoro, in più episodi utilizzava il mezzo aziendale, riducendo così in modo fraudolento il tempo della prestazione lavorativa e creando una “situazione di apparenza lavorativa”.

Veniva aperto procedimento disciplinare a seguito del quale all’uomo veniva irrogato licenziamento.

Il ricorso in Cassazione

Da qui l’impugnativa che veniva rigettata sia in primo che in secondo grado e il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale il lavoratore lamenta diverse doglianze, tra cui l’illegittimità dell’attività investigativa svolta dall’azienda, per avere incaricato un’agenzia privata per controllare le mansioni svolte dallo stesso all’esterno dell’impianto contra legem (artt. 2, 3, 4 legge n. 300/1970). Sostiene, inoltre, che dal controllo investigativo non è emersa alcuna fattispecie penalmente rilevante e non sono state individuate condotte riconducibili a
responsabilità aquiliana. Infine, violazione della privacy e omesso esame di fatti decisivi, per mancata considerazione della genericità e faziosità della relazione investigativa, svolta da agenzia privata retribuita dal datore di lavoro.

La relazione investigativa

Sul fronte dei controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, la Corte ritiene che la sentenza impugnata sia conforme alla costante giurisprudenza di legittimità (richiamata espressamente in motivazione), secondo cui tali controlli “sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento/inadempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 St. lav. (v. Cass. n. 6174/2019, П. 4670/2019, п. 15094/2018, п. 8373/2018); cfr. anche Cass. n. 6468/2024, n. 10636/2017).
Nella fattispecie di causa il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa, bensì la condotta fraudolenta di assenza del dipendente dal luogo di lavoro, nonostante la timbratura del badge.

No alla violazione della privacy

Neppure sussiste, proseguono dal Palazzaccio, la lamentata violazione della privacy del dipendente, seguito nei suoi spostamenti, in quanto il controllo era effettuato in luoghi pubblici e finalizzato ad accertare le cause dell’allontanamento. “L’attività fraudolenta è stata ravvisata nella falsa attestazione della presenza in servizio e nell’utilizzo personale del mezzo aziendale, nonostante il lavoratore fosse autorizzato a usare detto mezzo solo per motivi attinenti all’attività lavorativa; ciò prescinde dall’integrazione di una fattispecie di reato o dalla quantificazione del danno, comunque riscontrabile nell’utilizzo improprio della vettura e
dell’orario lavorativo retribuito”.

Dichiarate inammissibili anche le altre doglianze, il ricorso è, pertanto, rigettato e il licenziamento confermato.

 

Vedi gli altri articoli in materia di diritto del lavoro

Allegati

certificazione della parità di genere

Certificazione della parità di genere Certificazione della parità di genere: cos’è, a cosa serve e cosa prevede l’avviso finalizzato a ricevere i contributi per ottenerla

Cos’è la certificazione della parità di genere

Il “Sistema di certificazione della parità di genere” è un progetto del PNRR, promosso dal Dipartimento per le pari opportunità. Il sistema si pone  l’obiettivo di colmare il divario di genere nelle imprese italiane, incoraggiandole ad attuare politiche che promuovano l’uguaglianza di genere in tutte le aree cruciali per lo sviluppo professionale delle donne.

Ciò comprende la promozione della trasparenza nei processi aziendali, la riduzione delle disparità retributive, l’incremento delle possibilità di carriera e la protezione della maternità.

Il programma si fonda su una certificazione volontaria che le imprese possono ottenere dimostrando l’adozione di politiche efficaci per l’uguaglianza di genere.

Questo sistema è sostenuto da fondi europei del PNRR, finalizzati sia all’assistenza tecnica che alla copertura dei costi della certificazione per le piccole e medie imprese. Per monitorare e ottimizzare il programma, è stato creato un Comitato permanente, composto da rappresentanti dei vari ministeri, esperti e organizzazioni sindacali.

Certificazione di parità: pubblicato l’avviso del bando

In data 11 febbraio 2025 sul sito del Dipartimento per le pari opportunità è stato pubblicato l’avviso relativo al secondo bando, dopo quello del 6 novembre 2023, per i contributi necessari ad ottenere la certificazione.

Soggetti beneficiari e requisiti

I contributi sono destinati alle micro, piccole e medie imprese che hanno almeno un dipendente, possiedono la partita iva, hanno la sede legale od operativa in Italia, sono in regola con il DURC e non sono soggette a procedimenti finalizzati alla revoca di contributi pubblici o in condizioni di decadenza in base alla normativa antimafia. Requisiti ulteriori sono richiesti alle imprese con più di 50 dipendenti.

Tipologie di contributi

I contributi concessi consistono:

  • in voucher per supportare le imprese nella fase di analisi dei processi aziendali con il fine di ottenere la certificazione;
  • in contributi necessari a coprire i costi legati al rilascio della certificazione da parte degli Organismi di certificazione.

Come fare domanda

La domanda deve essere presentata in modalità telematica tramite il sito restart.infocamere.it a cui si accede tramite SPID, CIE e CNS. Al termine della procedura di compilazione il sistema rilascia una ricevuta. Alla domanda devono essere allegati determinati documenti a pena di inammissibilità.

Cosa succede in caso di accoglimento

Le domande vengono valutate in base all’ordine di presentazione nel termine di 90 giorni dall’inoltro. Se la domanda viene accolta il Soggetto Attuatore verifica il rispetto di alcuni requisiti da parte dell’impresa richiedente, in seguito registra l’aiuto su RNA o sui Registri SIAN e SIPA e infine adotta il provvedimento di concessione. Il contributo deve essere accettato e utilizzato entro precisi termini temporali. Il mancato rispetto di questi e di altri obblighi imposti alle imprese comporta la revoca del contributo e l’obbligo di rimborsare l’importo ricevuto.

 

Leggi anche: Parità di genere nelle società quotate: la direttiva UE

Licenziamento disciplinare: valide le giustificazioni inviate entro 5 giorni La Cassazione chiarisce che in caso di licenziamento disciplinare il termine dei 5 giorni si riferisce all’invio delle giustificazioni

Licenziamento disciplinare e giustificazioni lavoratore

In tema di licenziamento disciplinare, sono da considerarsi valide le giustificazioni trasmesse dal lavoratore entro 5 giorni. Il termine di decadenza, infatti, è relativo al momento dell’invio e non a quello della ricezione delle giustificazioni stesse da parte del datore di lavoro. Non solo. Il datore di lavoro non può adottare provvedimenti disciplinari senza previa audizione del lavoratore. Questi i principi che si ricavano dall’ordinanza n. 2066/2025 della sezione lavoro della Cassazione.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello confermava la misura del licenziamento per giusta causa comminata a un lavoratore a seguito di contestazione disciplinare.

L’uomo adiva il Palazzaccio lamentando, tra l’altro, che la Corte territoriale, condividendo quanto già considerato in primo grado, aveva ritenuto tardive le giustificazioni da lui rese all’azienda a mezzo pec.

La decisione

La Cassazione ritiene la doglianza fondata, citando sia la prescrizione normativa di cui all’art. 7 comma 2 dello Statuto dei Lavoratori che l’art. 8 del CCNL Metalmeccanica aziende industriali.

Inoltre, osservano i giudici di piazza Cavour, è stato giò affermato che “il dato letterale del secondo comma, ove si fa riferimento alla presentazione delle giustificazioni e non anche alla ricezione delle stesse da parte datoriale, è sufficientemente chiaro, orientando l’attività ermeneutica nel senso di attribuire alle parti sociali l’intento di riferire il termine di decadenza per l’esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore, al momento dell’invio delle giustificazioni e non della ricezione delle medesime da parte del datore di lavoro, non potendo prospettarsi ragionevoli dubbi sull’effettiva portata del significato della clausola” (cfr. Cass. n. 32607/2018; n. 12360/2014).

Vertendosi in tema di decadenza, secondo i principi enunciati in sede di legittimità (cfr. in termini Cass. Sez. Un. 14/4/2010 n. 8830; Cass. 24/3/2011 n. 6757), inoltre, “l’effetto impeditivo di esse va collegato al compimento da parte del soggetto, unicamente dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio – idoneo a garantire un adeguato affidamento – sottratto alla sua ingerenza, in ragione di un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti (vedi Cass. 16/7/2018 n. 18823)”. Per cui, “il termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, prima della cui scadenza è preclusa, ai sensi dell’art. 7, quinto comma, della legge n. 300 del 1970, la possibilità di irrogazione della sanzione disciplinare, è chiaramente funzionale ad esigenze di tutela dell’incolpato (Cass. S.U. 7/5/2003 n. 6900)”.

Più di recente, infine affermano gli Ermellini, cassando la sentenza con rinvio, è stato ribadito li principio di diritto “secondo cui il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato che, nel termine di cui all’art. 7, comma 5, st. lav., ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano di per sé ampie ed esaustive” (cfr. Cass. n. 12272/2023).

Allegati

rateizzazione dei debiti

Rateizzazione dei debiti contributivi: ancora in stand-by L'Inps chiarisce con messaggio che non è ancora possibile la rateizzazione dei debiti contributi fino a 60 rate in quanto mancano i decreti attuativi

Rateizzazione dei debiti contributivi Collegato Lavoro

Rateizzazione dei debiti contributivi ancora in stand-by. Lo chiarisce l’Inps con il messaggio n. 471/2025 (indirizzato alle sedi territoriali), chiarendo che la possibilità concessa dal Collegato Lavoro, per Inps e Inail di dilazionare i debiti contributivi fino a 60 rate mensili a partire dal 1° gennaio 2025 non è ancora operativa.
Tale facoltà è stata demandata, infatti, ad appositi decreti attuativi, con modalità disciplinate da specifici atti dei consigli d’amministrazione dei due istituti. Atti che ad oggi non sono stati ancora emanati.
Per cui, chiarisce l’Inps, finché questi atti non verranno adottati, le richieste dei contribuenti volte ad ottenere un numero di rate superiore a 24 non potranno essere accolte. E continueranno ad essere definite nel rispetto delle norme attualmente vigenti.
naspi

Naspi: l’Inps si attiene ai principi della Corte Costituzionale L'istituto verificherà l'eventuale sussistenza di cause sopravvenute prima di procedere al recupero integrale della Naspi

Naspi, la sentenza della Corte Costituzionale

Naspi: la Consulta, con la sentenza n. 90/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, c. 4, del decreto legislativo 22/2015, nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione della Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI) nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguireper causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione era stata erogata.

Restituzione integrale della Naspi

Nello specifico, la pronuncia della Suprema Corte si riferisce all’obbligo di restituzione integrale della NASpI in forma anticipata, da parte del lavoratore, nel caso in cui il medesimo, dopo avere intrapreso e svolto l’attività imprenditoriale:

  • non possa proseguirla per cause sopravvenute e imprevedibili a lui non imputabili;
  • costituisca un rapporto di lavoro subordinato, prima della scadenza del periodo teorico per cui è riconosciuta la NASpI.

Motivi di forza maggiore

A tale riguardo la Corte ha rilevato, ai fini della dichiarata illegittimità, la circostanza che l’attività di impresa si sia interrotta per motivi di forza maggiore, che hanno determinato un’impossibilità oggettiva che rende insuperabile la difficoltà della prosecuzione dell’attività.

Tali motivi non sono imputabili alla volontà del beneficiario e alle sue scelte organizzativo-gestionali.

La circolare Inps

L’Istituto, con la circolare 4 febbraio 2024, n. 36, alla luce della sentenza, chiarisce che provvederà a verificare l’eventuale sussistenza di cause sopravvenute e imprevedibili non imputabili all’interessato, che hanno comportato l’impossibilità a proseguire nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo o di impresa, prima di procedere alla notifica del provvedimento di indebito dell’importo integrale corrisposto.

legge 104

Legge 104: l’uso distorto dei permessi porta al licenziamento Legge 104: i permessi previsti per l’assistenza al familiare disabile non possono essere usati per svolgere attività personali

Permessi legge 104: servono per assistere disabile

Le legge 104 prevede la possibilità per il dipendente di chiedere permessi dal lavoro per assistere familiari disabili. Spesso però la giurisprudenza ci mette a conoscenza di vicende da cui emerge un uso distorto di questi permessi. Di recente tre sentenze della Corte di Cassazione si sono espresse nel senso di ritenere legittimo il licenziamento del lavoratore per l’uso distorto dei permessi 104. Questi permessi infatti possono essere usufruiti solo per dare assistenza al parente disabile e non per svolgere attività personali. Un utilizzo di questo genere rappresenta un vero e proprio abuso della misura.

Permessi legge 104 per andare in bici: ok licenziamento

La sentenza della Cassazione n. 2157/2025 precisa che per la giurisprudenza di legittimità è pacifico ritenere che l’utilizzo dei permessi 104 da parte del lavoratore per svolgere attività diverse dall’assistenza del familiare, costituisca una giusta causa di licenziamento. L’assenza dal lavoro in virtù del permesso 104 deve essere direttamente collegata allassistenza del disabile, senza poter essere utilizzata per altri scopi. Il beneficio, che comporta sacrifici organizzativi per il datore di lavoro, è giustificato solo se risponde a esigenze tutelate dalla legge. Se manca il nesso causale tra assenza e assistenza, l’uso del permesso è improprio o abusivo, configurando una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede verso il datore di lavoro e l’Ente assicurativo. Nel caso di specie la Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore contro la sentenza d’appello, che ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato. La Corte di merito ha infatti rilevato che il lavoratore ha sistematicamente e preordinatamene occupato gli orari destinati al permesso 104 per andare a correre in bicicletta.

Permessi 104 per attività personali: sì licenziamento

La vicenda di cui si è occupata la Cassazione nella sentenza n. 2586/2025 riguarda invece un caso di licenziamento di una dipendente, che invece di assistere il nonno grazie ai permessi 104, ha pensato bene di usare quel tempo per fare acquisti, farsi riparare l’auto. Non è valso a nulla il tentativo di dimostrare che tutte le commissioni erano in realtà collegate al nonno. Sulla decisione finale hanno pesato le osservazioni della Corte di merito sulla giusta causa del licenziamento. La stessa ha infatti affermato che “la condotta tenuta dalla lavoratrice si configura di gravità tale da giustificare il licenziamento atteso che, per quanto emerso, la medesima nell’arco temporale in cui, anziché lavorare, avrebbe dovuto dedicarsi alla cura del familiare in qualità di titolare dei permessi ex L. n. 104/92, ha svolto per la quasi totalità del periodo incombenze legate a  esigenze di carattere esclusivamente personale con conseguente sussistenza di uno scostamento rilevantissimo  tra il comportamento tenuto e la finalità di assistenza dei permessi”. 

Permessi legge 104 per campionato FootGolf

La Cassazione n. 2619/2025 ha confermato invece il licenziamento del lavoratore che ha richiesto il permesso 104 per partecipare al campionato di Foot Golf. Il fatto che la disabile da assistere, zia del lavoratore fosse presente presso il centro in cui si è svolta la gara non ha inciso “sulla configurabilità dello sviamento dalla funzione propria del beneficio essendo emerso che tale permesso non era stato chiesto dal lavoratore per garantire assistenza alla familiare disabile ma nel proprio interesse, onde consentirgli di partecipare al campionato di FootGolf. Pur volendo ammettere che l’assistenza al disabile possa estrinsecarsi in attività riconducibili alla mera presenza ovvero ai normali rapporti familiari, comunque il lavoratore non aveva svolto integralmente l’attività di assistenza nelle ore del permesso, essendo in parte stato impegnato nella gara.” Se l’assenza dal lavoro non è finalizzata all’assistenza del disabile, l’uso del permesso risulta improprio o abusivo. Il dipendente che sfrutta il permesso per scopi diversi viola la buona fede nei confronti del datore di lavoro, privandolo ingiustamente della prestazione. Inoltre, nei confronti dell’Ente previdenziale, tale condotta comporta un’indebita percezione dell’indennità e un uso distorto dell’assistenza prevista dalla legge.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati alla legge 104 

Allegati

bonus mamme

Bonus mamme: la guida Bonus mamme: fino al 2026 esonero totale dei contributi per mamme con tre figli, stop per mamme con due figli

Bonus mamme: esonero contributivo totale

Il bonus mamma è un beneficio contributivo che la legge di bilancio 2024 n. 213/2023  ha previsto per favorire la natalità e il lavoro femminile.

Il comma 180 dell’articolo 1 prevede che per i periodi di paga compresi tra il 1° gennaio 2024 fino al 31 dicembre 2026, alle lavoratrici madri di tre o più figli, che hanno un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (escluso quello domestico) spetti un esonero contributivo del 100%.

L’esonero riguarda la quota dei contributi dovuti per invalidità, vecchiaia e superstiti, che sono a carico del lavoratore fino al compimento del 18° anno di età del figlio più piccolo.

Limite annuo dell’esonero contributivo

Il limite annuo dell’esonero è fissato in 3000 euro. L’importo va comunque riparametrato su base mensile.

Facendo un rapido calcolo, e quindi dividendo l’importo annuo di 3000 euro per 12 mensilità l’importo mensile massimo di esonero contributivo è di 250,00 euro.

Esonero in via sperimentale per le mamme con due figli

Il comma 181 dell’art. 1 della legge di bilancio 2024 prevede inoltre, in via sperimentale, in relazione ai periodi di paga compresi tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2024, l’esonero contributivo totale anche per le lavoratrici madri di due figli e con un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato fino al compimento del 10° anno di vita dei figlio più piccolo. Da questo esonero sono esclusi però i rapporti di lavoro domestico.

Esonero contributivo: come fare?

Con la circolare n. 27 del 31 gennaio 2024 l’INPS ha fornito le istruzioni sugli aspetti pratici della misura. Il documento dispone che le lavoratrici in possesso dei requisiti richiesti per ottenere l’esonero possano comunicare al loro datore di lavoro la volontà di avvalersene. A tal fine devono comunicare il numero dei figli e per ciascuno di essi il codice fiscale. I datori di lavoro possono quindi esporre nelle denunce retributive l’esonero spettante alla lavoratrice.

In alternativa, la lavoratrice potrà comunicare direttamente all’INPS il numero dei figli e i codici fiscali di ciascuno, compilando un applicativo dedicato.

Il messaggio INPS del 6 maggio 2024 n. 1702 ha infatti comunicato il rilascio dell’applicazione denominata “Utility esonero lavoratrici madri” il cui utilizzo è limitato alle lavoratrici fruitrici del bonus i cui figli non abbiano i codici fiscali inseriti nel flusso Uniemens.

Bonus mamme: compatibilità esoneri a carico datore

Poiché il bonus mamme va a sgravare la lavoratrice dal pagamento dei contributi dovuti per la sua quota, esso è compatibile con gli esoneri contributivi previsti per i datori di lavoro.

Il bonus mamme è alternativo però all’esonero sulla quota dei contributi previdenziali dovuti per invalidità, vecchiaia e superstiti, ossia sulla quota IVS, che sono sempre a carico del lavoratore, come previsto dal comma 15 dell’art. 1 della legge di bilancio 2024.

Bonus mamme 2025: precisazioni INPS

Come precisato dal messaggio INPS n. 401 del 31 gennaio 2025 la legge di bilancio non ha confermato il bonus mamme previsto dal comma 181 della legge di bilancio 2024. Le mamme con due figli e con contratto a tempo indeterminato dal 1° gennaio 2025 infatti non beneficeranno più di questo bonus.

Continuano invece a beneficiare del bonus le mamme lavoratrici con tre figli perché la misura è stata confermata fino al 2026 “anche nelle ipotesi in cui la nascita (o laffido/adozione) del terzo figlio (o successivo) si verifichi nel corso delle annualità 2025-2026″. 

L’INPS chiarisce infine che la legge di bilancio 2025, dal 1° gennaio 2025, ha previsto in favore delle lavoratrici dipendenti (escluso il settore del lavoro domestico) e autonome con retribuzione o reddito imponibile ai fini previdenziali non superiore a 40.000 euro su base annua un esonero contributivo parziale “della quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore.” Queste donne devono essere mamme di due o più figli e l’esonero spetta fino al compimento del 10° anno del figlio più piccolo.

 

Leggi anche: “Bonus assunzioni donne vittime di violenza

apprendistato duale

Apprendistato duale: i chiarimenti Inps Apprendistato duale: regime contributivo e retributivo della trasformazione dell’apprendistato di primo livello in alta formazione e ricerca

Apprendistato duale: le novità del Collegato Lavoro

Il messaggio INPS n. 285 del 24 gennaio 2025 illustra le nuove disposizioni sull’apprendistato duale. La legge n. 203/2024, meglio nota come “Collegato Lavoro”  ha infatti modificato l’articolo 43 del decreto legislativo n. 81/2015, permettendo la trasformazione dell’apprendistato di primo livello in apprendistato di alta formazione e ricerca.

Come precisato nel messaggio il contratto di apprendistato di alta formazione è valido per tutti i settori, pubblici e privati. Possono accedervi giovani tra i 18 e i 29 anni con diploma di istruzione secondaria superiore o diploma professionale integrato da una specializzazione tecnica superiore.

La trasformazione del contratto consente di proseguire la formazione per ottenere titoli di studio avanzati. Tra questi, figurano lauree, dottorati, diplomi ITS e praticantati per l’accesso alle professioni ordinistiche. Il contratto resta in continuità con il precedente rapporto di apprendistato.

Sottoscrizione protocollo con ente di formazione

Il datore di lavoro deve sottoscrivere un protocollo con l’ente formativo o di ricerca. Questo accordo definisce durata e modalità della formazione, anche quella a carico dell’azienda. La formazione esterna deve avvenire presso l’istituto di istruzione tecnica superiore frequentato dall’apprendista e non deve superare il 60% dell’orario previsto.

La retribuzione dell’apprendista segue le stesse regole previste per l’apprendistato di primo livello. La regolamentazione della formazione e la durata del periodo di apprendistato dipendono dalle Regioni e dalle Province autonome. In caso di assenza di regolamenti regionali, si applicano le disposizioni nazionali.

Apprendistato duale: trattamento contributivo

Dal punto di vista contributivo se il contratto  di apprendistato viene trasformato in apprendistato di apprendistato di alata formazione e ricerca, il datore di lavoro deve versare un’aliquota del 10% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali. Deve inoltre pagare la contribuzione NASpI (1,31%) e il contributo per la formazione continua (0,30%).

Le aziende soggette a CIGO/CIGS e ai Fondi di solidarietà bilaterali devono versare ulteriori contributi previsti per questi regimi.

 

Leggi anche: Collegato Lavoro: cosa prevede