orario di lavoro

Orario di lavoro: compresi anche i 5 minuti per la timbratura La Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui rientrano nel tempo retribuito le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione lavorativa, che siano necessarie ed obbligatorie alla stessa

Il tempo per la timbratura del cartellino

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Roma aveva accolto l’appello presentato da alcuni lavoratori, dichiarando il diritto degli stessi alla retribuzione di 5 minuti giornalieri “quale tempo effettivo di lavoro, dalla timbratura del cartellino al tornello posto all’ingresso al completamento della procedura di log on e di 5 minuti giornalieri quale tempo effettivo di lavoro dal completamento della procedura di log off fino alla timbratura del cartellino all’uscita”.

Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Orario di lavoro retribuito

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14848-2024, ha respinto il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

In particolare, la Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa e i motivi di censura, ha ritenuto applicabile al caso di specie la consolidata giurisprudenza formatasi sul punto secondo cui “il tempo retribuito richiede che le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione di lavoro siano necessarie e obbligatorie”.  In questo senso, al Corte, ha ritenuto che debba essere retribuito anche il tempo per raggiungere il luogo di lavoro, operazione che rientra nella prestazione lavorativa vera e propria, qualora lo spostamento sia funzionale rispetto all’attività lavorativa.

Il Giudice di legittimità ha proseguito il proprio esame specificando che “ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’articolo 1, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro”.

Sulla base del suddetto quadro normativo, la Corte ha affermato che deve considerarsi orario di lavoro tutto l’arco temporale trascorso dal lavoratore all’interno dell’azienda “nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli”. Tale computo viene in rilievo nei casi in cui il datore di lavoro non provi che il lavoratore sia libero di autodeterminarsi all’interno dell’azienda, ovvero non sia assoggettato, nello svolgimento di tali attività prodromiche, al potere gerarchico.

In conclusione, il Giudice di legittimità ha ritenuto che la Corte d’appello avesse dato corretta applicazione all’interpretazione sopra indicata, avendo nella specie considerato “necessario e obbligatorio” il tragitto dall’ingresso fino alla postazione di lavoro, così come ogni altra attività connessa al log in e al log out dal luogo di lavoro.

A sostegno di quanto affermato dal Giudice di merito, osserva la Corte, occorre rilevare che il tempo della timbratura, nel caso esaminato, è reso necessario dalle scelte del datore di lavoro di come organizzare la propria sede, quali: la collocazione della postazione, il percorso da effettuare per raggiungerla e la procedura di timbratura determinando, conseguendone pertanto che anche i “tempi necessari” rientrano nella prestazione lavorativa e debbano pertanto essere retribuiti.

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Tempo tuta: quando è pagato Per la Cassazione, il tempo tuta per indossare e togliere l’abbigliamento da lavoro non deve essere retribuito se non c’è l’obbligo di indossare indumenti specifici da lavoro

Retribuzione tempo tuta

Il tema del “tempo tuta” riguarda la retribuzione del tempo impiegato dai lavoratori per indossare e togliere l’abbigliamento da lavoro. Questo argomento è stato oggetto di numerosi dibattiti e sentenze.

La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 13639-2024 ha fornito un importante chiarimento, stabilendo come non sia prevista alcuna retribuzione per il tempo di vestizione e svestizione quando i lavoratori non sono obbligati a indossare specifici indumenti di lavoro. Stessa conclusione per i dispositivi di protezione nel caso in cui l’uso dei DPI sia facoltativo e avvenga dopo aver timbrato il cartellino. Tale tempo rientra infatti nell’orario di lavoro, per cui non è necessario il riconoscimento di una retribuzione aggiuntiva.

Retribuzione tempo di vestizione non dovuta

La vicenda giunge in Cassazione dopo che la Corte d’appello di Bologna, modificando la decisione di primo grado, ha respinto le richieste di due lavoratori che chiedevano il riconoscimento del “tempo-tuta” come orario di lavoro per venti minuti a turno dal febbraio 2014 al luglio 2019.

La Corte ha concluso che, in assenza di un obbligo imposto dal datore di lavoro riguardo al tempo, modo e luogo della vestizione e svestizione, non esiste un diritto alla retribuzione per quel tempo. I lavoratori possono indossare gli abiti da lavoro a casa o negli appositi spogliatoi aziendali, senza alcun obbligo specifico.

La Corte ha sottolineato che i lavoratori erano liberi di indossare abiti personali e portare a casa gli indumenti da lavoro per lavarli, confermando l’assenza di un obbligo di tenere e lavare questi indumenti in azienda. Per i DPI specifici, come guanti e mascherine, conservati in armadietti aziendali e utilizzati solo dopo aver timbrato il cartellino, non si poneva il problema della retribuzione aggiuntiva, poiché erano accessibili solo durante l’orario di lavoro.

Niente retribuzione tempo di vestizione senza obbligo

I lavoratori hanno fatto ricorso alla Cassazione, contestando la violazione di diverse normative come il Decreto legislativo.  66/2003, la Direttiva Europea 2003/88 e l’articolo 2094 del Codice Civile, sostenendo che le operazioni di vestizione e svestizione dovessero essere incluse nell’orario di lavoro.

La Cassazione però ha confermato la sentenza d’appello, ribadendo che l’assenza di un obbligo di indossare abiti da lavoro forniti dall’azienda esclude la necessità di retribuire il tempo dedicato a queste operazioni.

Nella motivazione dell’ordinanza, richiamando lo storico della lite, la Cassazione riporta che “tutti i lavoratori  non avevano, e non hanno, alcun obbligo di indossare gli abiti da lavoro (il cui utilizzo resta facoltativo) non sussistendo alcun obbligo imposto da di indossare gli indumenti da lavoro forniti.” Questo conferma l’assenza di un obbligo di tenere e lavare questi indumenti in azienda.

Per quanto riguarda invece i DPI utilizzati durante l’orario di lavoro, il problema della retribuibilità non si pone, in quanto l’accesso a essi avveniva solo dopo aver timbrato il cartellino, ossia durante l’orario di lavoro. In sintesi, le sentenze della Corte di Cassazione e della Corte d’appello di Bologna confermano che l’assenza di un obbligo di vestizione imposto dal datore di lavoro esclude il diritto alla retribuzione per il tempo necessario a indossare e togliere la “tuta” da lavoro.

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prova scritta ufficio processo

Ufficio del processo: il 5 e 6 giugno le prove scritte Il ministero della Giustizia ha pubblicato il diario d'esame del concorso per 3.946 posti di addetto all'ufficio per il processo

Addetti Upp diario d’esame

Saranno il 5 e 6 giugno 2024, le prove scritte del bando per 3.946 posti di addetto all’ufficio per il processo. Il ministero della Giustizia ha pubblicato sul proprio sito l’avviso di convocazione e il diario della prova scritta.

Diverse le sedi in cui si svolgerà l’esame, sulla base di una ripartizione secondo il codice distretto.

Prova scritta

La prova scritta consiste in un test di 40 quesiti a risposta multipla, con un punteggio massimo attribuibile di 30 punti. La durata sarà di 60 minuti, salvi i casi di tempo aggiuntivo per i candidati che ne hanno diritto.

Per superare l’esame è necessario aver raggiunto un punteggio minimo di 21/30.

I quesiti verteranno sulle seguenti materie: diritto pubblico, ordinamento giudiziario e lingua inglese.

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Naspi: da restituire solo in parte se l’attività chiude La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della norma che non limita l'obbligo restitutorio dell'anticipazione della Naspi

Restituzione anticipazione Naspi

“Se la prosecuzione dell’attività imprenditoriale finanziata con l’anticipazione della Naspi diviene impossibile per cause non imputabili al percettore, la restituzione non è integrale ma è proporzionale alla durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo coperto dall’indennità”. Lo ha deciso la Consulta, con la sentenza n. 90-2024, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22, nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione della Nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI) nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguire, per causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione gli è stata erogata.

La qlc

Nel caso di specie l’INPS aveva erogato la NASpI in via anticipata quale incentivo all’autoimprenditorialità a un lavoratore che aveva perso il posto di lavoro perché intraprendesse un’attività di esercizio di ristoro (un bar). In seguito, l’Istituto gli aveva richiesto l’integrale restituzione di tale incentivo perché il lavoratore, prima che terminasse il periodo per il quale la NASpI gli era stata accordata, aveva cessato di esercitare l’attività imprenditoriale a causa delle restrizioni per il COVID ed aveva trovato un’occupazione come lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Integrale restituzione viola proporzionalità

La norma dichiarata incostituzionale stabiliva, infatti, che l’aver stipulato un contratto di lavoro subordinato nel periodo coperto dalla NASpI determinava in ogni caso l’obbligo di restituzione dell’intera somma anticipata. Ma – secondo la Corte costituzionale – “la previsione della integrale restituzione viola il principio di proporzionalità e ragionevolezza, nonché il diritto al lavoro, di cui agli articoli 3 e 4 della Costituzione, allorché l’attività imprenditoriale non sia proseguita per «impossibilità sopravvenuta o insuperabile oggettiva difficoltà», come nel caso delle restrizioni per il COVID”.

I giudici delle leggi hanno osservato in sentenza che “in tale evenienza – ossia nel caso in cui l’attività imprenditoriale sia stata effettivamente iniziata e proseguita per un apprezzabile periodo di tempo, grazie all’utilizzo dell’incentivo all’autoimprenditorialità – la finalità antielusiva, cui la disposizione mira, risulta soddisfatta. Rileva quindi che il percettore dell’anticipazione si sia trovato nella situazione di non poter proseguire l’attività imprenditoriale per causa a lui non imputabile e quindi senza colpa”.

In tale evenienza, ha concluso la Corte, “va riproporzionato l’obbligo restitutorio in misura corrispondente alla durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo coperto dall’indennità NASpI, in quanto solo con riferimento a tale periodo la NASpI risulta priva di causa e quindi indebita”.

Inoltre la Consulta, confermando una sua precedente decisione (n. 194 del 2021) sulla stessa norma, ha anche ribadito che, invece, “non rileva il rischio d’impresa che grava sul lavoratore il quale preferisca l’anticipazione dell’intera NASpI spettante all’erogazione periodica. L’eventuale mancato successo dell’iniziativa imprenditoriale non esonera dalla restituzione integrale dell’anticipazione nel caso di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato nel periodo al quale si riferisce la NASpI”.

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abuso permessi 104

Licenziato chi abusa dei permessi 104 La Cassazione riafferma che il dipendente che utilizza i permessi 104 per attendere ad esigenze diverse dell’assistenza al disabile, abusa del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede

Abuso dei permessi 104

Nel caso in esame, un dipendente era stato licenziato dal proprio datore di lavoro poiché era stato provato che lo stesso, nei giorni in cui si trovava in permesso ex art. 33 della legge n. 104 del 1992, si era dedicato ad attività non attinenti con l’assistenza alla madre inabile.

Nella specie, il Giudice di merito ha ritenuto che le ore dedicate dal lavoratore ad incombenti diversi e non connessi all’assistenza della madre erano di misura tale da giustificare gli addebiti mossi da parte datoriale. Questo anche considerato il fatto che “il tempo dedicato all’assistenza non deve essere rapportato all’intera giornata ma piuttosto all’orario lavorativo”.

Avverso la decisione del Giudice di seconde cure, che tra l’altro confermava gli esiti cui era giunto il Tribunale di primo grado, il dipendente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Legittimo il licenziamento se il beneficio è usato in modo abusivo

La Suprema Corte, con ordinanza n. 11999-2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

In particolare, la Corte ha rilevato che, premesso che in tema di permessi ex art 33 della legge n. 104/92 grava sul dipendente la prova di “aver eseguito la prestazione di assistenza in un luogo diverso da quello di residenza della persona protetta” va rilevato che il permesso in questione “è riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza da prestare al disabile. È rispetto ad essa che l’assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta”.

Sulla scorta di tali regole, la Corte ha dunque precisato che “il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso di diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari”.

In questi termini, qualora venga meno il nesso causale tra l’assenza del dipendente dal lavoro e l’assistenza al disabile, si è in presenza di “un uso improprio o di un abuso del diritto”.

La Corte ha concluso il proprio esame rilevando che il giudice di merito “ha valutato la gravità della condotta accertata e l’ha reputata idonea a ledere il vincolo fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro”, senza incorrere, nell’ambito delle proprie valutazioni, in alcuna violazione di legge, ne è pertanto conseguito, in sede di legittimità, il rigetto del ricorso proposto dal dipendente.

Licenziamento per esubero personale

Licenziamento per esubero personale Nel licenziamento per esubero del personale, i dipendenti da licenziare devono essere scelti in base ai criteri di buona fede e correttezza. Cenni sul repechage

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il licenziamento per esubero di personale è una delle possibili ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, secondo cui il licenziamento per giustificato motivo può essere determinato anche da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Tale forma di recesso unilaterale dal rapporto di lavoro rientra tra le facoltà dell’imprenditore, che però può esercitarla entro determinati limiti.

I presupposti del licenziamento per esubero personale

Innanzitutto, va evidenziato che il giustificato motivo oggettivo ricorrente in questa ipotesi non è da ricondurre necessariamente a uno stato di crisi dell’impresa, che può anche non sussistere.

I motivi della scelta imprenditoriale, infatti, ben possono ricondursi a esigenze del datore di lavoro riferibili alla riorganizzazione aziendale, alla soppressione di sedi o rami d’azienda o al ridursi della produttività dell’attività.

Esubero personale: la scelta dei dipendenti da licenziare

Uno degli aspetti cruciali in tema di licenziamento per esubero del personale è rappresentato dalla scelta, da parte del datore, del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare.

In caso di omogeneità di mansioni ricoperte da parte di più dipendenti, la scelta dei lavoratori da licenziare deve essere compiuta dal datore di lavoro attenendosi ai criteri di buona fede e correttezza.

Sebbene i contorni di tali criteri risultino spesso sfumati, la giurisprudenza ha chiarito che è possibile fare riferimento ai criteri individuati dalla disciplina in tema di licenziamento collettivo. Quest’ultima prevede che, se l’accordo sindacale non individua altri criteri, la scelta dei dipendenti da licenziare deve essere effettuata tenendo conto dell’anzianità di servizio e dei carichi di famiglia.

In base a tali criteri, quindi, a parità di mansioni, verrà licenziato il dipendente con minore anzianità di servizio e con un minor numero di familiari a carico.

Come ricorda la Corte di Cassazione, del resto, “la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera: essa, infatti, risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza e buona fede” (Cass. n. 31490/2018 e n. 19732/2018).

Licenziamento per esubero e repechage

Un altro aspetto cruciale della disciplina del licenziamento per esubero del personale è rappresentato dal c.d. repechage, o ripescaggio, e cioè quella particolare soluzione per cui il datore di lavoro è tenuto a mantenere il rapporto di lavoro in essere con il dipendente, se è possibile adibire quest’ultimo ad una diversa posizione lavorativa, pur con differenti mansioni e retribuzione da quelle precedenti.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha evidenziato di recente che il datore, nell’assolvimento dell’obbligo di repechage, deve prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora occupate al momento del licenziamento, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo al recesso. In altre parole, nella ricerca di posizioni nelle quali adibire il lavoratore in esubero, l’azienda deve prendere in considerazione anche quelle attualmente ricoperte da dipendenti che abbiano già dato il preavviso di dimissioni (Cass. sent. n. 12132/2023).

Esubero personale e offerta di part-time

Un’altra interessante pronuncia della Cassazione in tema di licenziamento per esubero del personale ricorda che, in un contesto di riorganizzazione aziendale per esubero del personale, può costituire giustificato motivo oggettivo per il licenziamento il rifiuto da parte del dipendente di accettare la trasformazione del proprio rapporto di lavoro da full-time a part-time.

In generale, infatti, il rifiuto del part-time non costituisce di per sé giustificato motivo per il licenziamento, ma la presenza di ragioni oggettive che giustifichino la richiesta datoriale rende giustificabile anche il licenziamento, in caso di rifiuto della stessa (Cass. ord. n. 12244/2023).