assegno di inclusione

Assegno di inclusione: guida alla misura Cos'è l'assegno di inclusione, misura di sostegno economico introdotta dal 2024 dal dl n. 48/2023 convertito dalla legge n. 85/2023

Assegno di Inclusione (ADI): dal 1° gennaio 2024

L’Assegno di Inclusione (ADI) è una misura nazionale di sostegno economico introdotta a decorrere dal 1° gennaio 2024 con l’articolo 1 del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, convertito con modificazioni dalla legge 3 luglio 2023, n. 85. La misura, gestita dall’INPS, mira a contrastare la povertà e favorire l’inclusione sociale e lavorativa delle persone in situazioni di disagio economico.

In cosa consiste l’ADI

L’ADI è un beneficio economico mensile erogato alle famiglie che rispettano determinati requisiti di reddito e patrimonio. La misura sostituisce il Reddito di Cittadinanza, concentrandosi su politiche attive di lavoro e sul supporto personalizzato. L’importo dell’assegno varia in base alla composizione del nucleo familiare e alle specifiche condizioni economiche dei beneficiari.

Chi può richiedere l’ADI

I destinatari dell’Assegno di Inclusione sono le famiglie che soddisfano i seguenti requisiti:

  • Requisiti economici: Un ISEE non superiore a 10.140 euro annui, un patrimonio mobiliare non superiore a 10mila euro (per i nuclei composti da tre o più componenti, soglia aumentata di mille euro per ogni figlio a partire dal terzo; ovvero non superiore a seimila euro per i nuclei di un solo componente e a 8mila euro per i nuclei di due componenti) e immobiliare (in Italia e all’estero), spiega l’INPS, “come definito ai fini ISEE diverso dalla casa di abitazione di valore ai fini dell’imposta municipale propria (IMU) non superiore a 150.000 euro, non superiore a 30.000 euro”. A seguito dell’entrata in vigore del dpcm 13/2025, del 5 marzo 2025, da aprile 2025, inoltre, titoli di Stato, buoni fruttiferi postali e libretti di risparmio postale sono esclusi dal calcolo dell’ISEE (per un importo massimo di 50mila euro per nucleo familiare) rendendo più semplice ottenere il beneficio;
  • Residenza e cittadinanza: I richiedenti devono essere cittadini italiani, dell’Unione Europea o extracomunitari con permesso di soggiorno di lungo periodo e residenti in Italia da almeno cinque anni, di cui gli ultimi due continuativi.
  • Requisiti ulteriori: Non essere sottoposti a misure cautelari personali o di prevenzione nè avere sentenze definitive di condanna intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta; non essere disoccupati; non risiedere in strutture a totale carico pubblico; aver adempiuto all’obbligo di istruzione per i beneficiari tra i 18 e i 29 anni ovvero “essere iscritto e frequentare percorsi di istruzione degli adulti di primo livello, funzionali all’adempimento del predetto obbligo di istruzione”.

Modalità di erogazione

L’importo dell’ADI viene calcolato tenendo conto del reddito disponibile del nucleo familiare. L’accredito del beneficio avviene mensilmente su una carta di pagamento elettronica (Carta di Inclusione o Carta ADI) per un periodo continuativo non superiore a 18 mesi, che può essere rinnovato per ulteriori 12 mesi.

La carta consente non solo di effettuare acquisti di beni di prima necessità, ma anche di prelevare contante entro limiti stabiliti.

Bonus ponte luglio 2025

Abbiamo appena visto che l’assegno di inclusione, decorrente da 1° gennaio 2024 dura inizialmente 18 mesi, rinnovabili per altri 12, con una sospensione obbligatoria di un mese tra i due cicli.

Per evitare disagi ai soggetti più svantaggiati, il Ministero del Lavoro ha annunciato un contributo straordinario” per coprire questa pausa di un mese, erogato a fine giugno o inizio luglio 2025. Si tratta di una misura “ponte”, non di una nuova rata dell’assegno e sarà resa operativa con un decreto o una circolare attuativa.

Per chiarire il funzionamento di questa misura straordinaria l’INPS ha emanato il messaggio n. 2458 dell’8 agosto 2025.

Il messaggio spiega che il decreto-legge 26 giugno 2025, n. 92, ha introdotto un contributo straordinario aggiuntivo per i nuclei familiari che beneficiano dell’Assegno di Inclusione. Questo contributo è stato pensato per supportare le famiglie che, dopo aver usufruito dell’ADI per 18 mesi, devono affrontare la sospensione del beneficio per un mese, come previsto dalla legge.

L’INPS chiarisce che la misura straordinaria spetta alle famiglie che, al termine dei primi 18 mesi di ADI, presentano la domanda per il rinnovo del beneficio e superano i controlli necessari. Il contributo è pari all’importo della prima mensilità di rinnovo dell’ADI, non può superare i 500 euro e viene pagato insieme alla prima mensilità di rinnovo dell’ADI. Per le domande di rinnovo presentate a luglio 2025, il pagamento avverrà il 14 agosto 2025. Per le domande successive, il contributo sarà erogato sempre insieme alla prima mensilità di rinnovo, ma comunque non oltre il mese di dicembre 2025. Nelle comunicazioni ufficiali, il contributo sarà identificato con la dicitura: “Contributo straordinario aggiuntivo ai sensi dell’art. 10-ter del DL n. 92/2025”.

Obblighi per i beneficiari

L’Assegno di Inclusione non è solo un aiuto economico, ma si inserisce in un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. I beneficiari, infatti, devono sottoscrivere un Patto di Inclusione che prevede la partecipazione a programmi formativi, tirocini o attività lavorative. Sono previste esenzioni per chi non è in grado di lavorare per motivi di salute o altre condizioni specifiche.

Il beneficio decorre dal mese successivo a quello di sottoscrizione, da parte del richiedente, del Patto di attivazione digitale del nucleo familiare (PAD) all’esito positivo dell’istruttoria.

Come presentare la domanda

La richiesta dell’ADI può essere effettuata tramite il portale online dell’INPS, accedendo in via telematica con SPID, CIE o CNS, alla pagina dedicata al servizio, oppure rivolgendosi a un Centro di Assistenza Fiscale (CAF) o ancora presso i patronati.

È necessario presentare tutta la documentazione richiesta, tra cui l’ISEE aggiornato.

Rinnovo per chi ha fatto domanda tra dicembre 2023 e gennaio 2024

Con la nota 0010558 data 8 agosto 2025 il Ministero del Lavoro ha definito la procedura di rinnovo delle domande di accesso all’Assegno di Inclusione tra dicembre 2023 e gennaio 2024.

Per ottenere il rinnovo dell’Assegno di Inclusione (ADI), i nuclei familiari devono presentare una nuova domanda tramite il portale INPS a partire dal 1° luglio 2025, dopo aver ricevuto 18 mensilità. La domanda deve essere accompagnata da un Patto di attivazione digitale (PAD) sottoscritto.

I nuclei familiari invariati non dovranno sottoscrivere un nuovo PAD, poiché quello precedente rimane valido. La decorrenza del beneficio, se la domanda di rinnovo è accolta, partirà dal mese successivo alla presentazione della domanda, anche se il pagamento potrebbe arrivare più tardi con eventuali arretrati.

Per i nuclei familiari variati, invece, è necessario iscriversi nuovamente al SIISL e sottoscrivere un nuovo PAD; in questo caso, il beneficio decorre dal mese successivo alla firma del PAD.

Dopo l’accoglimento della domanda, tutti i nuclei familiari hanno 120 giorni di tempo dalla sottoscrizione del PAD per recarsi ai servizi sociali, anche se in precedenza erano stati esonerati. Questo incontro serve per convalidare il percorso di attivazione sociale (PaIS) e il precedente PAD.

Se la domanda presentata in precedenza includeva una condizione di svantaggio, l’istante deve riportare gli estremi della certificazione nella nuova domanda, assicurandosi che sia ancora valida. Se è scaduta, è necessario procurarsi una nuova certificazione prima di presentare la domanda di rinnovo.

Introdotte infine nuove funzionalità sulle piattaforme GePI e SIISL per identificare facilmente le domande di rinnovo, monitorare eventuali variazioni nelle condizioni dei nuclei familiari e ricevere notifiche specifiche su modifiche relative, ad esempio, alla condizione di disabilità, ai carichi di cura alla condizione di “Tenuto agli obblighi lavorativi.”

resto al sud

Resto al Sud Resto al Sud: cos'è, quali requisiti occorrono, cosa finanzia e per quali settori, come funziona e come fare domanda

Resto al Sud: cos’è?

Il programma Resto al Sud è frutto di un’iniziativa governativa ed è gestito da Invitalia, per sostenere la nascita e lo sviluppo di attività imprenditoriali e professionali nel Sud e nel Centro Italia. Lanciato con il Decreto Legge 20 giugno 2017, n. 91, il bando offre finanziamenti a fondo perduto e finanziamenti a tasso zero.

In particolare, il finanziamento copre il 100% dei costi ammissibili del progetto: il 50% a fondo perduto e il restante 50% come finanziamento a tasso zero, con gli interessi interamente a carico di Invitalia.

Requisiti e aree geografiche interessate

I requisiti principali per l’accesso sono:

  • un’età compresa tra i 18 e i 55 anni;
  • l’attività deve essere situata in una delle regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia) o nelle aree del cratere sismico del Centro Italia (Lazio, Marche, Umbria);
  • l’impresa deve essere nuova;
  • i richiedenti non devono:avere debiti con la pubblica amministrazione, essere titolari di altre forme di aiuto o agevolazioni nazionali, essere titolari di partita Iva nei 12 mesi che precedono la domanda se il comparto per il quale si chiede il finanziamento è quello libero professionale, essere titolari di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Il bando è “a sportello”, il che significa che non ha una scadenza fissa, ma rimane aperto fino all’esaurimento dei fondi disponibili.

Settori di attività finanziabili

Resto al Sud finanzia una vasta gamma di settori.

  • Turismo: bed and breakfast, agriturismi, ristoranti, bar e negozi di souvenir.
  • Agroalimentare: produzione e vendita di prodotti tipici locali come vino, olio, formaggi.
  • Servizi alla persona: cliniche odontoiatriche, fisioterapia, case di cura per anziani.
  • Servizi alle imprese: consulenze, formazione, marketing.
  • Tecnologia e innovazione: sviluppo software, app, startup tecnologiche.
  • Artigianato locale: ceramica, tessitura, lavorazione del legno.
  • Energia rinnovabile: pannelli solari o turbine eoliche.

Resto al Sud: progetti finanziabili

Le spese che possono essere finanziate coprono un ampio spettro di investimenti necessari per l’avvio e la crescita dell’impresa. Tra queste rientrano:

  • avvio o espansione;
  • creazione di nuovi posti di lavoro;
  • acquisto di attrezzature e tecnologie avanzate;
  • promozione di attività turistiche e culturali.

Il finanziamento massimo erogabile per la creazione di nuove imprese è di 200.000 euro.

Come fare domanda

Per presentare la domanda, è necessario compilare un modulo disponibile sul sito di Invitalia e fornire una serie di documenti, tra cui un business plan dettagliato. Sebbene sia possibile presentare la domanda in autonomia, molti scelgono di avvalersi di consulenti esperti per aumentare le probabilità di successo. L’istruttoria delle domande si conclude nel termine di 120 giorni dalla presentazione.

In questa pagina di Invitalia trovi tutte le informazioni per fare domanda

Resto al Sud: supporto di coach e tutor

Un elemento di grande valore del programma è il supporto di un tutor e di un coach aziendale, che affiancano gli imprenditori nello sviluppo del business plan e li aiutano a identificare le migliori strategie di crescita.

Resto al Sud 2.0 e Autoimpiego Centro Nord Italia

Il Decreto Coesione (D.L. n. 60/2024, convertito con modificazioni dalla legge n. 95/2024), ha previsto due nuovi interventi:

  • Resto al Sud 2.0
  • Autoimpiego Centro Nord Italia

Come funzionano Resto al Sud 2.0 e Autoimpiego Centro Nord Italia

Il decreto attuativo 11 luglio 2025, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21 agosto 2025 attua gli articoli 17 e 18 del predetto Decreto Coesione, dedicati rispettivamente all’Autoimpiego e a Resto al Sud.

Il provvedimento mette a disposizione 800 milioni di euro, di cui 700 milioni dal FSE + e 100 milioni dal PNRR, per supportare giovani under 35 ad avviare un’attività autonoma o imprenditoriale.

I fondi sono destinati a giovani inoccupati, disoccupati (inclusi i beneficiari della Naspi) e a chi è in condizioni di vulnerabilità. Circa 356,4 milioni sono riservati al rilancio di “Resto al Sud” per le otto regioni meridionali, la parte restante invece finanzia misure per l’autoimpiego nel Centro-Nord.

Il sostegno si articola in due forme principali:

– Un voucher a fondo perduto, che copre il 100% dell’investimento, fino a 30.000 euro per il Centro-Nord e 40.000 euro per il Mezzogiorno. Questi importi possono salire a 40.000 e 50.000 euro rispettivamente, se i progetti sono innovativi o sostenibili.

– Un contributo a fondo perduto per programmi di investimento più consistenti. Il contributo copre il 65% (fino a 120.000 euro) e il 60% (tra 120.000 e 200.000 euro) per il Centro-Nord, e il 75% (fino a 120.000 euro) e il 70% (tra 120.000 e 200.000 euro) per il Mezzogiorno.

Le agevolazioni sono cumulabili con altri aiuti pubblici. La gestione è affidata a Invitalia, in collaborazione con l’Ente Nazionale per il Microcredito e Sviluppo Lavoro Italia.

 

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Bonus mamme 2025

Bonus mamme 2025 Bonus mamme 2025: dall’esonero contributivo parziale della legge di bilancio ai 40 euro mensili erogati dall’INPS del dl economia (o omnibus)

Bonus mamme 2025: sgravio contributivo legge di bilancio

La legge di bilancio 2025 n. 207/2024 ai commi 219 e 220 ha introdotto un bonus mamme 2025 che siano anche lavoratrici. Il bonus, in base a questa normativa, consiste in un esonero parziale contributivo relativo ai contributi previdenziali a carico delle lavoratrici per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti.

Dal bonus sono esclusi i rapporti di lavoro domestico. Beneficiano del bonus invece:

  • le lavoratrici dipendenti;
  • le lavoratrici autonome che percepiscono uno dei seguenti redditi: da lavoro autonomo; d’impresa in contabilità ordinaria e semplificata; da partecipazione e che non hanno optato per il regime forfettario.

Per queste lavoratrici autonome iscritte all’assicurazione generale obbligatoria INPS e alla Gestione separata INPS l’esonero è parametro al valore del livello minimo di reddito previsto dall’art. 1, co. 3, della legge n. 233/1990.

Per beneficiare di questo bonus le lavoratrici devono essere mamme di due o più figli. L’esonero contributivo spetta fino al compimento del decimo anno di età del figlio minore.

Dal 2027 il bonus spetta alle lavoratrici madri di tre o più figli fino al compimento del 18°anno di età del figlio minore.

Per il 2025 e il 2026 le mamme lavoratrici che beneficiano di questo bonus sono escluse dal bonus che prevede l’esonero contributivo totale previsto dalla legge di bilancio 2024 n. 213/2023.

Il contributo è condizionato alla titolarità di un reddito o di una retribuzione annua non superiore a 40.000 euro.

Cosa cambia con il decreto omnibus

L’articolo 6 del decreto economia (o omnibus) n. 95/2025, convertito con modificazioni dalla L. 8 agosto 2025, n. 118, ha modificato il funzionamento del bonus mamme 2025.

Il bonus, nella sua nuova formulazione, è previsto in favore:

  • delle lavoratrici madri dipendenti (esclusi i rapporti di lavoro domestico) e autonome iscritte a gestioni previdenziali obbligatorie autonome, comprese le casse di previdenza professionali e la gestione separata con due figli e fino al mese del compimento del decimo anno da parte del secondo figlio;
  • delle madri lavoratrici dipendenti a tempo non indeterminato (esclusi i rapporti di lavoro domestico) e autonome iscritte a gestioni previdenziali obbligatorie autonome, comprese le casse di previdenza professionali e la gestione separata con più di due figli e fino al mese di compimento deldiciottesimo anno del figlio minore.

Il reddito e la retribuzione annua delle beneficiarie non devono superare i 40.000 euro.

Questo bonus mamme 2025 non prevede alcuno sgravio contributivo, come previsto dalla legge di bilancio, ma il riconoscimento di un importo mensile di 40 euro (a partire dal 1° gennaio 2025) e per ogni mese lavorato che verrà riconosciuto dall’INPS in una soluzione unica di 480 euro.

Le mensilità spettanti a partire dal 1° gennaio 2025 fino alla mensilità di novembre, sono corrisposte a dicembre, in unica soluzione, in sede di liquidazione della  mensilità di dicembre 2025. Queste somme non rilevano ai fini della determinazione  dell’ISEE.

Il decreto ha modificato anche la decorrenza della sgravio contributivo parziale previsto dal comma 219 della legge di bilancio 2025 n. 207/2024 a partire dal 2026 in favore delle mamme lavoratrici in possesso dei requisiti previsti dalla stessa disposizione.

Per il 2026 infine l’esonero contributivo parziale non spetta alle lavoratrici che beneficiano dell’esonero contributivo totale previsto dall’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2023, n. 213.

 

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staff housing

Staff housing: cos’è e come funziona Staff housing: il dl economia n. 95/2025 prevede lo stanziamento di risorse pari a 120 milioni per migliorare le condizioni degli addetti al turismo

Staff housing: le risorse

Nuove risorse destinate allo staff housing del settore turistico. L’art. 14 del decreto legge n. 95/2025, coordinato con la legge di conversione n. 118/2025, noto come “Dl Economia”, si propone infatti di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti del settore turistico-ricettivo e della ristorazione. Per farlo, stanzia dei fondi per sostenere sia gli investimenti in alloggi per i lavoratori che i costi di affitto di questi stessi alloggi.

Cos’è lo staff housing

Il programma di staff housing (alloggi per il personale), si ricorda, mira a creare soluzioni abitative dedicate a chi lavora nel settore turistico, specialmente nelle aree dove l’alto costo degli affitti rende difficile e poco attraente l’impiego di lavoratori stagionali.

Fondi e beneficiari

Lo Stato mette a disposizione un totale di 120 milioni di euro in tre anni:

  • 2025: 44 milioni di euro.
  • 2026: 38 milioni di euro.
  • 2027: 38 milioni di euro.

Questi fondi sono ripartiti in due categorie principali:

  1. contributi per investimenti: una parte dei fondi (euro 44.000.000 per il 2025; euro 38.000.000 annui per ciascuno degli anni 2026 e 2027, di cui euro 22.000.000 per l’anno 2025 ed euro 16.000.000 annui per ciascuno degli anni 2026 e 2027) è destinata a chi vuole creare, riqualificare o ammodernare alloggi per i lavoratori, con particolare attenzione all’efficienza energetica e alla sostenibilità ambientale;
  2. contributi per l’affitto: l’altra parte (22 milioni annui per ogni anno, ossia 2025, 2026 e 2027) serve a coprire una parte dei costi di locazione degli alloggi stessi.

I beneficiari di questi fondi sono gli imprenditori che gestiscono strutture turistico-ricettive, termali o di ristorazione, così come coloro che gestiscono alloggi specifici per i lavoratori di questi settori.

Accesso ai fondi per lo staff housing: condizioni e regole

Un decreto del Ministero del Turismo definirà i dettagli operativi entro 30 giorni dall’entrata in vigore della norma. Tale decreto stabilirà:

  • i requisiti per accedere ai fondi;
  • le procedure per la richiesta e l’erogazione dei contributi;
  • le modalità di verifica e controllo sull’utilizzo dei fondi.

Il decreto imporrà inoltre che gli alloggi agevolati siano messi a disposizione dei lavoratori per almeno cinque anni e che il canone di affitto sia ridotto di almeno il 30% rispetto al prezzo medio di mercato. In caso di revoca dei fondi, le somme non utilizzate o utilizzate in modo improprio dovranno essere restituite allo Stato.

 

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licenziamento dei dirigenti

Licenziamento dei dirigenti durante il Covid: è legittimo La Corte costituzionale ha dichiarato legittimo il licenziamento dei dirigenti durante l’emergenza Covid, ritenendo conforme alla Costituzione il diverso trattamento rispetto agli altri lavoratori

Licenziamento dei dirigenti durante il Covid

Licenziamento dei dirigenti: con la sentenza n. 141/2025, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di Catania in merito al divieto di licenziamenti economici introdotto durante la pandemia da Covid-19.
La norma non includeva i dirigenti, per i quali restava possibile il licenziamento individuale, mentre veniva applicato il blocco solo in caso di licenziamenti collettivi.

Blocco dei licenziamenti individuali

La Consulta ha chiarito che il diverso trattamento non è in contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
Il dirigente, infatti, ricopre una posizione peculiare di autonomia e rappresentanza, assimilabile a quella dell’imprenditore. Questo status giustifica l’applicazione del principio di libera recedibilità, senza le garanzie previste per gli altri lavoratori subordinati.

Il ruolo della contrattazione collettiva

Pur ribadendo la definizione legale di “dirigente” (art. 2095 cod. civ.), la Corte ha sottolineato che la contrattazione collettiva e il datore di lavoro possono attribuire tale qualifica anche come riconoscimento di miglior favore, senza che ciò incida sulla disciplina generale dei licenziamenti.

La disciplina eccezionale durante la pandemia

Il legislatore, durante l’emergenza sanitaria, ha riproposto per i dirigenti lo stesso assetto previsto in via ordinaria:

  • i licenziamenti collettivi erano bloccati,

  • i licenziamenti individuali per motivi economici restavano consentiti.

Questa scelta, secondo la Corte, rientra nella discrezionalità del legislatore e rispetta i principi di eccezionalità, temporaneità e proporzionalità, già richiamati in precedenti pronunce.

Una misura proporzionata e temporanea

Il blocco dei licenziamenti durante il Covid è stato considerato uno strumento eccezionale, legato alla durata della pandemia e adottato come extrema ratio per tutelare interessi sociali ed economici generali.
Nel caso dei dirigenti, il legislatore ha ritenuto coerente limitare la tutela al solo ambito dei licenziamenti collettivi, senza violare la Costituzione.

Pubblico impiego

Il pubblico impiego  Pubblico impiego: cos’è, come è disciplinato, chi sono le amministrazioni pubbliche datrici e chi decide in caso di controversia

Cos’è il pubblico impiego

Il pubblico impiego è il rapporto di lavoro che si instaura tra una persona fisica e la pubblica amministrazione.

Pubblico impiego: riferimenti normativi 

Il pubblico impiego è disciplinato dal Decreto legislativo n. 165 del 30 marzo 2001, che contiene le norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche.

Questa normativa, nel corso degli anni, ha subito numerose modifiche da parte di numerosi interventi normativi.

Tra gli ultimi interventi di modifica merita di essere segnalato il recente decreto legge n. 25/2025 specialmente al fine di introdurre misure più attrattive peri giovani, superate il precariato e definire misure finalizzate ad applicare in modo omogeneo le procedure per il reclutamento del personale.

Le amministrazioni pubbliche

La pubblica amministrazione, nell’ambito del rapporto del pubblico impiego, rappresenta quindi il datore di lavoro del dipendente. Occorre quindi chiarire che cosa si intende per pubbliche amministrazioni. La definizione di pubbliche amministrazioni la fornisce l’articolo 2 del decreto legislativo n. 165/2001:

  • le amministrazioni statali (comprese le scuole, gli istituti e le istituzioni educative di ogni ordine e grado);
  • le aziende e le amministrazioni dello Stato con ordinamento autonomo;
  • gli Enti pubblici territoriali come i Comuni, le province, le Regioni, le comunità montane (compresi i loro consorzi e associazioni);
  • le università;
  • gli istituì autonomi case popolari;
  • le Camere di Commercio e le loro associazioni;
  • gli enti pubblici non economici;
  • le amministrazioni, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale;
  • l’ARAN;
  • le Agenzie di cui al decreto legislativo n. 300/1990.

Il rapporto di pubblico impiego: disciplina

Il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche elencate sono disciplinati dalle regole contenute nel codice civile e dalle leggi che regolano il rapporto di lavoro subordinato nelle imprese, ad eccezione delle regole di carattere imperative previste dal decreto legislativo n. 165/2001. I rapporti di lavoro sono quindi regolati da un contratto. Gli accordi collettivi nazionali possono derogare leggi, regolamenti e statuti contenenti discipline riservate ai dipendenti (o categorie di dipendenti) delle pubbliche amministrazioni.

Regime di diritto pubblico per categorie determinate

La normativa privatistica  contenuta nel codice civile non è applicata a tutti i dipendenti pubblici.

Sono infatti assoggettati alle regole dei rispettivi ordinamenti i seguenti dipendenti pubblici:

  • i magistrati ordinari, amministrativi e contabili;
  • gli avvocati e procuratori dello Stato;
  • il personale militare e delle Forze di polizia di Stato;
  • il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia;
  • il rapporto di impiego del personale, anche di livello dirigenziale, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, esclusi il personale volontario e il personale volontario di leva;
  • il personale della carriera dirigenziale penitenziaria.

Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari a tempo indeterminato o determinato, che rimane disciplinato dalle disposizioni in vigore, in attesa di una disciplina che regoli la materia in modo organico e nel rispetto dei principi della autonomia universitaria.

Codice di comportamento  

Ogni amministrazione pubblica definisce un proprio codice di comportamento dei dipendenti, sulla cui applicazione vigilano dirigenti responsabili. Ogni anno poi le pubbliche amministrazioni verificano l’applicazione dei codici e organizzano le attività formative necessarie per il personale affinché il codice venga rispettato.

Disciplina delle controversie per i dipendenti della PA

In caso di controversie relative al contratto di lavoro intercorrente tra i dipendenti delle pubbliche amministrazione e la PA datrice, la competenza è del giudice ordinario che può adottare i provvedimenti di accertamento, costituivi e di condanna, necessari per la tutela dei diritti in gioco. Le sentenze hanno il potere di costituire, estinguere il rapporto di lavoro, disporre la reintegra del dipendente nel posto di lavoro, condannare la pubblica amministrazione a risarcire il dipendente e a pagare i contributi assistenziali e previdenziali.

Il Giudice ordinario è competente inoltre per le controversie che insorgano a causa delle condotte antisindacali del dipendente pubblico e per quelle promosse dall’ARAN, dalle amministrazioni pubbliche e dalle organizzazioni sindacali.

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licenziamenti illegittimi

Licenziamenti illegittimi: incostituzionale il tetto di sei mensilità per le piccole imprese La Corte costituzionale dichiara illegittimo il limite massimo di sei mensilità per l’indennizzo in caso di licenziamenti illegittimi nelle imprese sotto soglia

La Consulta boccia il limite massimo all’indennità risarcitoria

Con la sentenza n. 118/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui impone un tetto fisso e invalicabile pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, quale limite massimo dell’indennità risarcitoria per i lavoratori licenziati illegittimamente da datori di lavoro che non superano i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi 8 e 9, dello Statuto dei lavoratori.

Perché la norma è incostituzionale

Secondo la Corte, l’imposizione di un limite rigido e indistinto all’indennizzo, indipendentemente dalla gravità del vizio del licenziamento, compromette i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento.

A ciò si aggiunge il fatto che, nei casi riguardanti le piccole imprese, le soglie risarcitorie sono già dimezzate rispetto a quelle previste per i datori di lavoro di dimensioni maggiori (come stabilito dagli artt. 3, 4 e 6 del d.lgs. 23/2015). Ne consegue un sistema in cui la forbice dell’indennizzo è così ristretta da rendere impossibile per il giudice modulare la sanzione in base alle specificità del caso concreto.

La funzione dissuasiva dell’indennità è compromessa

Un ulteriore profilo di criticità evidenziato dalla Corte riguarda la funzione deterrente della sanzione nei confronti del datore di lavoro. Il limite di sei mensilità, essendo automatico e inalterabile, non solo mina l’equità del risarcimento, ma non scoraggia comportamenti illeciti, svuotando di significato la finalità repressiva e preventiva del rimedio previsto.

Invito al legislatore: rivedere i criteri per le imprese sotto soglia

Nel dispositivo, la Corte invita il legislatore a intervenire per una riformulazione del quadro normativo, evidenziando come il numero dei dipendenti non sia di per sé un indicatore esaustivo della solidità economica dell’impresa. Anche in altre branche del diritto (ad esempio la disciplina della crisi d’impresa), il parametro occupazionale non è l’unico a determinare la capacità di sostenere costi o responsabilità.

La Consulta sottolinea dunque la necessità di un riequilibrio, che tenga conto di fattori ulteriori rispetto al solo criterio numerico, al fine di tutelare efficacemente i diritti dei lavoratori e garantire un sistema sanzionatorio rispettoso dei principi costituzionali.

danno biologico inail

Danno biologico Inail: rivalutazione dal 1° luglio 2025 Danno biologico Inail: il decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali n. 85/2025 rivaluta gli importi dello 0,8% e la circolare Inail fornisce chiarimenti

Danno biologico Inail

Dal 1° luglio 2025, gli importi delle prestazioni economiche per danno biologico erogate dall’Inail saranno rivalutati dello 0,8%. Lo ha stabilito il decreto del Ministro del Lavoro n. 85 del 20 giugno 2025 per adeguare il valore di queste prestazioni al contesto attuale.

Lo conferma anche la circolare Inail n. 45 dell’1 agosto 2025, in cui si specifica dettagliatamente l’ambito di applicazione della rivalutazione decorrente dal 1° luglio 2025.

Normativa di riferimento

Il danno biologico, inteso come lesione dell’integrità psicofisica accertabile medico-legalmente e indipendente dalla capacità lavorativa, trova fondamento nell’articolo 13 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38.

Questo quadro normativo è stato arricchito dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247, che ha introdotto un aumento straordinario degli indennizzi.

La legge 28 dicembre 2015, n. 208 ha stabilito infine l’obbligo di una rivalutazione annuale automatica degli indennizzi Inail per danno biologico a partire dal 1° luglio di ogni anno, basata sulla variazione degli indici Istat dei prezzi al consumo.

Il meccanismo di rivalutazione si basa infatti sull’Indice dei Prezzi al Consumo per le Famiglie di Operai e Impiegati (FOI), al netto dei tabacchi, elaborato annualmente dall’Istat.

Danno biologico 2025: rivalutazione dello 0,8%

Per il 2025, i dati ISTAT hanno registrato una variazione annuale dell’indice FOI dello 0,8% (passando da 118,7 nel 2023 a 119,7 nel 2024, con base 2015 = 100). Questo ha portato all’applicazione di un coefficiente di rivalutazione di 1,008.

Rivalutazione: le prestazioni interessate

La rivalutazione dello 0,8% interessa due tipologie principali di prestazioni economiche Inail per danno biologico:

  • prestazioni in capitale: riguardano gli indennizzi “una tantum” per menomazioni tra il 6% e il 15%. Questi importi fissi, correlati al grado di menomazione, saranno aggiornati annualmente.
  • prestazioni in rendita (quota biologica): si applica alla parte della rendita Inail che compensa il danno biologico per menomazioni permanenti superiori al 15%. La rivalutazione del 2025 riguarda esclusivamente la quota biologica della rendita, garantendo che il suo valore reale non diminuisca a causa dell’inflazione.

Settori interessati dalla rivalutazione

La rivalutazione si applica a diversi settori economici e categorie di lavoratori, tra cui:

  • lavoratori assicurati Inail del settore industriale (privati e pubblici);
  • lavoratori agricoli, inclusi gli autonomi del settore primario;
  • personale medico con esposizione a radiazioni.
  • tecnici operanti in regime autonomo con specifica assicurazione Inail.

 

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Allegati

diritto alla pausa

Diritto alla pausa Diritto alla pausa: cos'è, quale normativa lo disciplina e cosa prevede la recente giurisprudenza della Cassazione

Diritto alla pausa: cos’è

Il diritto alla pausa è un diritto che il nostro ordinamento riconosce al lavoratore dipendente quando la giornata lavorativa supera le sei ore. Questa sospensione dall’attività lavorativa è necessaria per recuperare le energie, consumare un eventuale pasto e interrompere la ripetitività del lavoro.

Disciplina di riferimento: art. 8 dlgs n. 66/2003

L’articolo 8 del decreto legislativo n. 66/2023 (attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro) dispone che qualora la giornata lavorativa preveda più di 6 ore di attività, il dipendente ha diritto a un intervallo di pausa per il recupero delle energie fisiche e psichiche, per la consumazione di un eventuale pasto e per attenuare la monotonia delle mansioni.

Le specifiche riguardo alla durata e alle modalità di fruizione della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva. Qualora non sia presente una specifica disciplina collettiva, il lavoratore ha comunque diritto a una pausa di almeno 10 minuti. Questa pausa deve essere concessa tra l’inizio e la fine del turno giornaliero, tenendo conto delle esigenze tecniche del processo produttivo.

In linea generale, e salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, i periodi di pausa non sono considerati ore di lavoro retribuite e non concorrono al superamento dei limiti massimi di durata dell’orario di lavoro.

Questa disposizione si rifà a normative storiche in materia di orario di lavoro e riposi.

L’articolo 5 del Regio decreto n. 1955/1923 prevede infatti che le interruzioni di almeno 10 minuti e non più di due ore, durante le quali non viene richiesta alcuna prestazione al dipendente non vengono calcolate come lavoro effettivo. Di conseguenza, non sono retribuite e non rientrano nel calcolo dell’orario massimo, salvo particolari eccezioni.

Parimenti l’articolo 4 del Regio decreto n. 1956/2023 prevede che le pause intermedie che si prendono durante la giornata lavorativa non sono considerate lavoro effettivo. Di conseguenza, non vengono calcolate nel limite massimo di ore di lavoro giornaliere stabilito dalla legge.

Diritto alla pausa: giurisprudenza

Diversi aspetti applicativi del diritto alla pausa lavorativa sono stati specificati anche dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione.

Cassazione n. 21878/2025: il diritto alla pausa viene riconosciuto solo se il lavoratore può dimostrare che la pausa stessa è strettamente connessa o collegata alla sua prestazione lavorativa.Inoltre, per poter usufruire di questo diritto, la pausa deve essere eterodiretta, ovvero deve essere gestita e controllata dal datore di lavoro, e il lavoratore non deve averne la completa autonomia per quanto riguarda la sua durata.

Cassazione n. 20249/2025: la continua inosservanza dell’articolo 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 può causare un danno da usura psicofisica al lavoratore. Questo danno può essere riconosciuto anche senza una prova diretta, purché si basi su presunzioni fondate.

Cassazione n. 12504/2025: la pausa non può essere negata o limitata dal datore di lavoro, in quanto è un elemento fondamentale per la salute e il benessere del lavoratore.Il datore di lavoro può intervenire e limitare la pausa solo in due casi: se la durata supera il tempo stabilito dal contratto collettivo o dal regolamento aziendale, in mancanza di queste disposizioni, se la pausa supera i 10 minuti. In conclusione, il datore di lavoro può vietare la pausa solo se questa eccede i limiti di tempo previsti.

Cassazione n. 8707/2025: legittimo il licenziamento dell’incaricato della raccolta porta a porta dei rifiuti. La motivazione è stata la violazione dell’articolo 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003, che riguarda le pause intermedie. Nello specifico, il lavoratore aveva effettuato soste frequenti e prolungate in bar durante l’orario di servizio, superando i limiti di tempo previsti per le pause.

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tetto retributivo

Tetto retributivo nel pubblico impiego: incostituzionale il limite fisso di 240.000 euro La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del tetto retributivo fisso per i dipendenti pubblici. Il limite dovrà tornare a essere parametrato al trattamento del primo presidente della Cassazione

Tetto retributivo nel pubblico impiego

Con la sentenza n. 135 del 2025, la Corte costituzionale ha ribadito che l’introduzione di un tetto retributivo per i dipendenti pubblici non è, in sé, incompatibile con i principi costituzionali. Tuttavia, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge n. 66 del 2014, nella parte in cui prevedeva un limite fisso pari a 240.000 euro lordi annui, invece che rapportarlo al trattamento economico onnicomprensivo spettante al primo presidente della Corte di cassazione.

Il parametro corretto

Il tetto retributivo era stato inizialmente introdotto dal decreto-legge n. 201/2011, come convertito, prevedendo che la soglia massima fosse pari allo stipendio del primo presidente della Corte di cassazione. Con il successivo decreto-legge n. 66/2014, però, tale parametro fu sostituito con una soglia fissa, causando una rilevante decurtazione dei compensi, in particolare per i magistrati.

L’evoluzione normativa e il principio di temporaneità

La norma del 2014, sebbene inizialmente ritenuta compatibile con la Costituzione in quanto misura straordinaria e temporanea, giustificata dal contesto di grave crisi finanziaria, ha perso nel tempo il suo carattere transitorio. Tale perdita di temporaneità ha inciso sulla sua compatibilità costituzionale, anche in considerazione dell’indipendenza della magistratura, tutelata dall’art. 104 della Costituzione.

Conformità ai principi europei e comparati

La pronuncia della Corte costituzionale si inserisce in un contesto più ampio di tutela dei diritti retributivi dei magistrati e dei pubblici dipendenti, in linea con i principi degli ordinamenti costituzionali europei. In particolare, la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 25 febbraio 2025 (grande sezione, cause riunite C-146/23 e C-374/23), ha espresso un orientamento analogo, censurando la riduzione eccessiva e prolungata delle retribuzioni dei magistrati.

Estensione dell’incostituzionalità a tutti i dipendenti pubblici

La Corte ha inoltre sottolineato che l’illegittimità costituzionale della norma ha carattere generale, pertanto deve applicarsi a tutti i dipendenti pubblici, e non solo ai magistrati. Il limite retributivo, quindi, dovrà essere ridefinito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa acquisizione del parere delle Commissioni parlamentari competenti.

Effetti temporali della pronuncia

Trattandosi di una incostituzionalità sopravvenuta, la dichiarazione di illegittimità non avrà effetto retroattivo, ma produrrà effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.