giurista risponde

Omissione pronuncia istanza rinvio CGUE La condotta del giudice che ometta di pronunciarsi sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea, formulata da una delle parti in causa ex art. 267 T.F.U.E., è qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto con conseguente ammissibilità della revocazione della sentenza?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha sottoposto la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, sez. V, ord. 3 ottobre 2022, n. 8436.

La Sezione si interroga sull’omesso rinvio pregiudiziale in conseguenza del travisamento della questione di conformità del diritto interno al diritto unionale e se tale errore nel quale sia incorso il giudice possa essere qualificato come errore di fatto, ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., cui rinvia l’art. 106, comma 1, cod. proc. amm., o se, invece, sia un errore di diritto, che esclude, come è noto, l’ammissibilità del rimedio revocatorio

Si afferma, in particolare che: “L’errore di fatto, cui consegua omessa pronuncia su domanda, motivo di ricorso o eccezione, è ragione di revocazione della sentenza del Consiglio di Stato per errore di fatto ai sensi dell’art. 395, comma 1, Cod. proc. civ., cui rinvia l’art. 106 Cod. proc. amm., alle condizioni fissate dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 22 gennaio 1997, n. 3, cui la giurisprudenza successiva si è costantemente uniformata. In particolare occorre che l’errore di fatto – quand’anche esiti nell’omissione di pronuncia – abbia le note caratteristiche dell’errore di fatto c.d. revocatorio ovvero: a) consistere nell’erronea percezione del contenuto materiale degli atti del processo (ovvero in una svista, in un errore di lettura, nell’ “abbaglio dei sensi”) per il quale il giudice abbia fondato il suo convincimento su di un falso presupposto di fatto; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere decisivo, vale a dire trovarsi in un rapporto di stretta consequenzialità con la pronuncia adottata dal giudice (ovvero, più chiaramente, più opportunamente, la soluzione con la quale il giudice ha chiuso la controversia), di modo che si possa dire che se l’errore non sia fosse verificato l’esito sarebbe stato diverso”.

Tuttavia, il fraintendimento della questione di compatibilità euro-unitaria viene ritenuto tradizionalmente dalla giurisprudenza un errore di diritto.

In particolare, nel caso in cui l’errore riguardi l’individuazione (prima) e l’interpretazione (poi) della questione giuridica da risolvere, si è in presenza di un fraintendimento che non è dei sensi ma del giudizio e per tradizione tale errore si qualificherebbe come errore di diritto.

Dando atto, tuttavia, della sussistenza di recenti orientamenti contrastanti sul punto, la V Sezione del Consiglio di Stato ha sottoposto all’Adunanza plenaria le seguenti questioni:

a) se e a quali condizioni la condotta del giudice che ometta di pronunciarsi sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea formulata da una delle parti in causa ex 267 T.F.U.E. sia qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto con conseguente ammissibilità della revocazione della sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395, comma 1, n. 4) cod. proc. civ.;

b) in particolare, se configuri l’omissione di pronuncia di cui sopra il caso in cui il giudice non si sia pronunciato sull’istanza di rinvio in conseguenza di un fraintendimento in cui è incorso in merito alla questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne da applicare per risolvere la controversia con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello.

giurista risponde

Riparto giurisdizione controversie finanziamenti pubblici Come opera il riparto di giurisdizione sulle controversie riguardanti la concessione o la revoca di finanziamenti pubblici?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare gli effettivi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale. Qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario. – C.G.A.R.S., 4 ottobre 2022, n. 1000.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia ha ribadito i confini tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa sulle controversie in riguardanti la concessione o la revoca di finanziamenti pubblici.

Si evidenzia, in particolare, che la controversia promossa per ottenere l’annullamento del provvedimento di revoca di un finanziamento pubblico, concerne una posizione di diritto soggettivo – devoluta quindi alla giurisdizione di un giudice ordinario –, tutte le volte in cui l’Amministrazione abbia inteso far valere la decadenza del beneficiario dal contributo in ragione della mancata osservanza, da parte sua, di obblighi al cui adempimento la legge o il provvedimento condizionano l’erogazione, mentre riguarda una posizione di interesse legittimo – con conseguente devoluzione al giudice amministrativo – allorché la mancata erogazione del finanziamento, pur oggetto di specifico provvedimento di attribuzione, sia dipesa dall’esercizio di poteri di autotutela dell’amministrazione, la quale abbia inteso annullare il provvedimento stesso per i vizi originari di legittimità o revocarlo per contrasto originario con l’interesse pubblico.

Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata, con la conseguenza che: sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l’effettiva esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid, il quomodo dell’erogazione.

Qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo, sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull’inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo.

In tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all’inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione. Viceversa, è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 30 luglio 2020, n. 16457;
Cons. Stato, sez. III, 12 aprile 2022, n. 2733
giurista risponde

Termine triennale art. 80 comma 10bis codice contratti pubblici Il termine triennale ex art. 80, comma 10bis del D.Lgs. 50/2016 decorre dall’accertamento del fatto o dal momento della sua realizzazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il termine triennale, ex art. 80, comma 10bis del codice dei contratti pubblici, volto ad escludere la rilevanza dei fatti determinanti l’impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione, decorre non dalla commissione materiale del fatto in sé, bensì dall’accertamento del fatto. – Cons. Stato, sez. IV, 7 ottobre 2022, n. 8611.

Il Consiglio di Stato conferma l’adesione all’orientamento in forza del quale: “In assenza di un accertamento definitivo, contenuto in una sentenza o in un provvedimento amministrativo divenuto inoppugnabile, per individuare il dies a quo del termine triennale capace di elidere la rilevanza dei fatti determinanti l’impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione, deve aversi riguardo alla data dell’accertamento del fatto, idoneo a conferire a quest’ultimo una qualificazione giuridica rilevante per le norme in materia di esclusione dalle gare d’appalto e non, dunque, la mera commissione del fatto in sé.

Si evidenzia, inoltre, che: “Prima dell’accertamento definitivo, la condotta oggetto di procedimento penale, ai fini della valutazione ex art. 80, comma 5, lett. c), del codice degli appalti, può rilevare nella sua dimensione fattuale ed extra-penale entro il previsto limite temporale triennale e può continuare a rilevare, anche oltre tale limite, se e in quanto abbia formato oggetto di contestazione in giudizio, ossia allorquando la correlativa azione penale abbia varcato la soglia processuale di instaurazione del giudizio dibattimentale o di una sua forma alternativa per l’emissione di una pronuncia di condanna o di una pronuncia ad essa equiparabile (cfr. art. 80, comma 1), suscettibile, come tale, di accertare fatti integranti gravi illeciti professionali”. Ne deriva pertanto che la condotta oggetto di un procedimento penale e suscettibile di integrare un grave illecito professionale può rilevare anche oltre il suddetto limite temporale di durata triennale se e in quanto abbia formato oggetto di contestazione, nei termini sopra indicati.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 31 dicembre 2012, n. 8563;
Corte Giust. UE, Sez. IV, 24 ottobre 2018, in causa C- 124/17
giurista risponde

Impugnabilità bando di gara e clausole L’ambito di immediata impugnabilità di un bando di gara non è circoscritto alle sole sue clausole stricto sensu escludenti?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

L’ambito di immediata impugnabilità di un bando di gara non è circoscritto alle sole sue clausole stricto sensu escludenti, ma ricomprende anche altre evenienze particolari, tra le quali quella in cui la lex specialis del caso concreto non sia tale da consentire la formulazione di una seria e ponderata offerta ovvero qualora si sia in presenza di disposizioni abnormi o illogiche che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica del partecipante alla gara. – Cons. Stato, sez. V, 26 ottobre 2022, n. 9138.

Ha chiarito il Consiglio di Stato che solo le cd. “clausole immediatamente escludenti” legittimano l’impugnazione anche dell’operatore economico che non abbia partecipato alla selezione, ricordando che, secondo la giurisprudenza, la categoria ricomprende: “a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura; b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (così l’Ad. plen. 3/2001); c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24 febbraio 2003, n. 980); d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21 novembre 2011, n. 6135; sez. III, 23 gennaio 2015, n. 293); e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all’intero importo dell’appalto: Cons. Stato, sez. II, 19 febbraio 2003, n. 2222); f) bandi contenenti gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta (come, ad esempio, quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall’aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di “0” pt.); g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5421)”.

Ne deriva che le rimanenti clausole, in quanto non immediatamente lesive, devono essere impugnate insieme con l’atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (Cons. Stato, sez. V, 27 ottobre 2014, n. 5282), postulando perciò la preventiva partecipazione alla gara.

Si precisa tuttavia, che: “L’ambito di immediata impugnabilità di un bando di gara non è circoscritto alle sole sue clausole stricto sensu escludenti, ma ricomprende anche altre evenienze particolari, tra le quali quella in cui la lex specialis del caso concreto non sia tale da consentire la formulazione di una seria e ponderata offerta ovvero qualora si sia in presenza di disposizioni abnormi o illogiche che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica del partecipante alla gara. L’onere di immediata impugnativa delle prescrizioni di gara in evenienze della specie appare per altro verso un rimedio quanto mai efficace per evitare che un operatore economico partecipi alla gara in via “esplorativa”, se non addirittura opportunistica, ossia con la riserva mentale di impugnarne gli esiti, laddove sfavorevoli, denunciando proprio la vaghezza delle regole circa gli elementi strutturali ed i contenuti dell’offerta”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5671;
Cons. Stato, Ad. plen. 11 giugno 2001, n. 3
giurista risponde

Controversie mobilità personale scolastico Le controversie concernenti le procedure di mobilità del personale scolastico si configurano come atti di macro-organizzazione rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Le controversie concernenti procedure di mobilità del personale scolastico rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario non configurandosi quali atti di macro-organizzazione, cioè atti di portata generale con i quali l’amministrazione organizza i propri uffici (come ad es. gli atti che fissano le piante organiche), ma piuttosto come meri atti privatistici di gestione del rapporto di lavoro. – Cons. Stato, sez. VII, 27 ottobre 2022, n. 9201. 

Il Consiglio di Stato ha ribadito l’insussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie concernenti le procedure di mobilità del personale scolastico, non trattandosi di atti di macro-organizzazione.

Richiamando al riguardo quanto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione, si ribadisce che: “In materia di procedura di trasferimento e mobilità del personale docente, la controversia avente ad oggetto la domanda di annullamento dell’ordinanza del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca dell’8 aprile 2016, n. 241, adottata ex art. 462, comma 6, D.Lgs. 297/1994, nella parte in cui non consente la valutazione del servizio pre-ruolo presso le scuole paritarie, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto l’ordinanza in questione, lungi dal dettare le linee fondamentali di organizzazione degli uffici o dal determinare le dotazioni organiche complessive, si limita alla previsione di norme di dettaglio circa i termini e le modalità di presentazione delle domande relative alle procedure di mobilità – che non possono essere ascritte alla categoria delle procedure concorsuali per l’assunzione, né equiparate all’ipotesi di passaggio da un’area funzionale ad altra – come definite dalla contrattazione collettiva integrativa nazionale, sicché il petitum sostanziale dedotto involge un atto di gestione della graduatoria, incidente in via diretta sulla posizione soggettiva dell’interessato e sul suo diritto al collocamento nella giusta posizione nell’ambito della graduatoria medesima. La mobilità quindi è vicenda che è relativa a rapporto già costituito anche quando esterna”.

Si richiama, altresì, quanto già affermato dal Consiglio che ha aderito a tale orientamento della Corte di Cassazione concludendo che: “In forza degli artt. 5 e 386 c.p.c., la giurisdizione si determina in base alla domanda e, ai fini del riparto tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche, e soprattutto, in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti sono manifestazione). In tema di lavoro pubblico “contrattualizzato” non sono configurabili situazioni di interesse legittimo con specifico riguardo ad ipotesi di procedura di mobilità del personale docente qualificando come diritto soggettivo l’interesse pregiudicato da decisioni assunte in esito a procedimenti riconducibili all’esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, senza che rilevi che la pretesa giudiziale sia stata prospettata come richiesta di annullamento per il vizio prodotto dalla illegittimità di un atto amministrativo presupposti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 5 marzo 2020, n. 1625;
Cass., Sez. Un., 26 giugno 2019, n. 17123;
Id., 23 settembre 2013, n. 21677; Id., 27 dicembre 2011, n. 28800
giurista risponde

Permesso di costruire e ricorso del terzo In tema di edilizia e urbanistica, da quando decorre il termine per la proposizione del ricorso, da parte del terzo a ciò legittimato, avverso il permesso di costruire?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il termine per la proposizione del ricorso, da parte del terzo a ciò legittimato, avverso il permesso di costruire decorre dall’ultimazione dei lavori oppure dal momento in cui l’opera realizzata appaia in modo inequivoco difforme dalla disciplina urbanistico-edilizia vigente. L’onere di provare la tardività dell’impugnazione grava su colui che la deduce. – Cons. Stato, sez. VI, 2 novembre 2022, n. 9500.

Muovendo dal consolidato orientamento giurisprudenziale in forza del quale: “Ai fini della tempestività dell’impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell’impugnazione medesima va riferita al momento dell’ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell’opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, fermo restando che la prova della tardività dell’impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce”, il Consiglio di Stato ha risolto una controversia concernente la tempestività dell’impugnazione proposta avverso l’autorizzazione edilizia rilasciata per la installazione di un ripetitore per telefoni cellulari.

I Giudici chiariscono che non è possibile far risalire la decorrenza del termine per la notifica del ricorso dalla data di presentazione dell’istanza di accesso posto che, a tale data, nonostante l’affissione del cartello di inizio lavori, la lesività dell’intervento non risultava immediatamente percepibile, in quanto, da un lato, le opere non erano state ancora ultimate, dall’altro, il cartello di inizio lavori risultava illeggibile.

L’interesse a ricorrere si può, dunque, ritenere attualizzato solo al momento della percezione della lesività degli effetti degli atti impugnati, verificatosi, nel caso di specie, solo quando gli interessati hanno potuto visionare, mediante estrazione di copie, i documenti richiesti con l’istanza di accesso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2021, n. 4502;
Cons. Stato, sez. II, 5 ottobre 2020, n. 5864; Id., 21 agosto 2020, n. 5170;
TAR Campania, Napoli, sez. VI, 27 ottobre 2020, n. 4873;
TAR Campania, sez. VII, 15 settembre 2016, n. 4321;
Cons. Stato, sez. IV, 19 dicembre 2012, n. 6557; Id., 7 novembre 2012, n. 5657
giurista risponde

Giudizio di ottemperanza e mutamento normativo Il mutamento normativo consente di riproporre il giudizio di ottemperanza in origine dichiarato inammissibile?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, sez. IV, ord. 23 novembre 2022, n. 10342.

La vicenda esaminata attiene alla possibilità di riproporre l’azione di ottemperanza, in passato dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione per difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, stante la ritenuta natura meramente amministrativa del decreto decisorio del ricorso straordinario, insuscettibile, come tale, di essere eseguito con il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza.

Come è noto, infatti, nel 2009 è intervenuta la L. n. 69, che ha profondamente inciso sull’istituto del ricorso straordinario, elevato a rimedio sostanzialmente giurisdizionale, con evidenti riflessi sulla ammissibilità di un nuovo ricorso per l’ottemperanza.

Invero, in senso contrario si osserva che la rimodulazione legislativa del ricorso straordinario del 2009 non ha riguardato espressamente la sua efficacia retroattiva, successivamente esclusa dalla giurisprudenza.

Come affermato dai Giudici, si pone, pertanto, la necessità di valutare, in chiave processuale, se un giudicato in rito ostativo alla proposizione di un’azione possa sopravvivere al quadro normativo applicato (in altra prospettiva, se possa avere efficacia ultra-attiva insensibile alle successive modifiche legislative) ovvero se sia condizionato temporalmente alla vigenza di questo, specialmente allorché tale giudicato frustri ed inibisca definitivamente ed irrimediabilmente le istanze di giustizia avanzate dagli interessati.

In chiave sostanziale, inoltre, ci si chiede se la sopravvenuta modifica legislativa di uno strumento di tutela con effetti ampliativi delle facoltà defensionali dei privati (ossia, più in particolare, la rimodulazione della relativa disciplina in maniera così profonda da determinarne, secondo consolidata giurisprudenza, l’evoluzione della stessa natura giuridica, connotata ora da carattere sostanzialmente giurisdizionale) si rifletta e ridondi – in senso parimenti ampliativo – a beneficio delle istanze degli interessati già azionate in epoca antecedente alla novella legislativa e allora dichiarate inammissibili, consentendone hic et nunc la riproposizione, tenendo oltretutto presente che il maggioritario indirizzo pretorio ammette il rimedio dell’ottemperanza, ex art. 112 c.p.a., anche per le decisioni rese su ricorso straordinario nell’assetto normativo tradizionale, ossia quello antecedente alla novella del 2009.

Si afferma quindi che il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza era stato ritenuto inammissibile a motivo della natura amministrativa del decreto decisorio di ricorso straordinario, natura, tuttavia, non più predicabile in base alla vigente legislazione: il fatto che la precedente azione di ottemperanza non sia stata respinta nel merito, ma dichiarata inammissibile per ragioni processuali, potrebbe legittimare, in un’ottica esegetico-applicativa particolarmente attenta al valore ordinamentale dell’effettività della tutela giurisdizionale e della pienezza del diritto di difesa, l’attuale presentazione di una nuova istanza di ottemperanza, non ostandovi più la pronuncia di inammissibilità della Corte di cassazione, a suo tempo emessa sulla scorta di un paradigma normativo poi radicalmente travolto, sia pure con valenza ex nunc, dalle modifiche legislative medio tempore intervenute.

Quanto alla possibile violazione del ne bis in idem, si afferma, altresì, che la violazione di tale principio potrebbe tout court non venire in considerazione nella specie, qualora si valorizzasse fortemente la circostanza che l’attuale azione di esecuzione si muove entro una cornice normativa e giurisprudenziale del tutto diversa da quella vigente al momento del radicamento del precedente ricorso, sì che potrebbe assumersi – nell’intento di preservare le istanze di tutela sostanziale del privato – che non si tratti, a stretto rigore, della medesima azione.

Sulla base di tali premesse, la IV sezione del Consiglio di Stato ha rimesso la soluzione della questione all’Adunanza Plenaria, chiedendo in particolare se, dopo che la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione un ricorso per ottemperanza di un decreto decisorio di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la parte interessata possa radicare un nuovo giudizio di ottemperanza, adducendo a fondamento dell’ammissibilità dell’ulteriore azione tanto la sopravvenuta e incisiva modificazione legislativa dei caratteri del ricorso straordinario, quanto il consolidato orientamento pretorio che ammette l’ottemperanza di decreti decisori di ricorsi straordinari anche ove emessi prima della novella del 2009.

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Natura fidefacente atto pubblico e aggravante falsità materiale In quali casi un atto pubblico può avere, agli effetti della legge penale, natura fidefacente per la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Nei delitti di falso, l’elemento che caratterizza l’atto pubblico dotato di fede privilegiata è la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta cioè alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui. – Cass., sez. V, 13 marzo 2023, n. 10675.

Con la decisione in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata in relazione al ricorso proposto avverso una sentenza di appello da due imputati, condannati per una serie di delitti di falso fidefacente, ideologico e materiale, commessi nelle rispettive qualità di comandante dei vigili urbani e di agente dello stesso corpo di polizia.

Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, i due pubblici ufficiali avevano falsificato il registro di protocollo interno del Comando dei vigili urbani, attestando falsamente la spedizione del provvedimento di archiviazione di una contravvenzione elevata nei confronti di un privato e l’avvenuta ricezione della richiesta di archiviazione della stessa presentata dall’interessato, apponendo sulla relativa istanza, registrata solo in seguito al protocollo generale del Comune, il timbro dell’ufficio e il numero del protocollo interno.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, deducendo l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui confermava il giudizio di penale responsabilità in relazione alle condotte contestate, riconoscendo natura di atto pubblico a un mero registro interno, rispetto al quale, a parere della difesa, sarebbe mancata l’attribuzione del potere attestativo in capo al pubblico ufficiale circostanza che avrebbe impedito la considerazione di tale documento alla stregua di atto pubblico fidefacente.

La Corte ha ritenuto il ricorso fondato limitatamente alla natura di atto pubblico fidefacente del protocollo interno, non riconoscendo l’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p.

In via preliminare, ha precisato che le condotte contestate erano riferite a due diverse annotazioni apposte dagli imputati sul registro interno del corpo dei vigili urbani, attestanti una l’archiviazione del verbale di contravvenzione elevato nei confronti del privato, l’altra l’avvenuta ricezione dell’istanza di annullamento in autotutela presentata dallo stesso, con apposizione del timbro dell’ufficio e attribuzione del numero di protocollo. Quanto alla qualificazione giuridica, a parere della Corte le due condotte decettive integrano gli estremi del delitto di falso ideologico, estrinsecandosi in enunciati idonei ad assumere un significato descrittivo o constatativo non corrispondente ai fatti, ben potendo ritenersi sussistente la materialità della fattispecie di reato contestata. Quanto all’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p., prima di valutare se il registro di protocollo interno abbia natura fidefacente, la Corte si è interrogata sulla possibilità di qualificare lo stesso come atto pubblico. Come noto, il concetto di atto pubblico agli effetti della tutela penale è più ampio di quello civilistico e ricomprende ogni documento formato dal pubblico ufficiale nell’esercizio della sua funzioni avente l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione. Ne consegue che è atto pubblico ogni documento redatto dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni, rientrando nella tutela prevista dalla norma non solo gli atti destinati a spiegare efficacia nei confronti dei terzi, ma anche gli atti meramente interni, formati dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni per documentare fatti inerenti all’attività da lui svolta e alla regolarità delle operazioni amministrative cui è addetto. Nel caso di specie, dal momento che il registro di protocollo interno ha avuto la funzione di documentare fatti inerenti alla attività dei pubblici ufficiali e alla regolarità delle operazioni amministrative, a parere della Corte lo stesso è espressione di un potere di autonomia organizzativa dell’amministrazione e deve essere considerato atto pubblico.

Tanto chiarito in relazione alla nozione di atto pubblico rilevante ai fini penali, la Corte ha scrutinato l’ulteriore profilo attinente alla natura fidefacente degli atti incriminati.

Secondo il Consiglio ciò che caratterizza l’atto pubblico dotato di fede privilegiata è la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova, ossia precostituito a garanzia della pubblica fede e redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta, cioè, alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui. Si tratta di atti espressivi di una speciale potestà documentatrice, attribuita sulla base di una legge, di un regolamento, anche interno, o desumibile dal sistema, in forza della quale l’atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l’accoglimento della querela di falso o con sentenza penale.

Ne consegue che, quanto alla delimitazione dell’ambito operativo della circostanza aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p. in tema di falso ideologico la natura di atto pubblico di fede privilegiata necessita del concorso di un duplice requisito dovendo, da un lato provenire da un pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della p.a. ad attribuire all’atto pubblica fede, dall’altro contenere un’attestazione dell’autore di verità circa i fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza e della formazione dell’atto nell’esercizio del potere di pubblica certificazione. Per tali ragioni, sono documenti dotati di fede privilegiata solo quelli che, emessi dal pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della P.A., attestino quanto da lui fatto e rilevato o avvenuto in sua presenza.

Ciò premesso, a parere della Corte, quanto al registro generale di protocollo, è ormai jus receptum che lo stesso sia atto di fede privilegiata, trattandosi di verificare piuttosto se lo sia anche il registro interno, quale risulta essere quello in rilievo nel caso di specie.

A tale proposito, la Corte ritiene che il protocollo interno istituito presso il settore dei Vigili Urbani non risponde all’esigenza di attestare la ricezione a una certa data di un dato atto proveniente dall’esterno e, dunque, di tutelare l’affidabilità dell’informazione pubblica, possedendo al contrario una capacità rappresentativa solo a livello interno e per meri fini di migliore organizzazione amministrativa. Pertanto, nel caso di specie, mancando l’attribuzione del potere attestativo e certificativo in capo al pubblico ufficiale, non può dirsi ricorrente la speciale fede privilegiata, con la conseguenza che la contestata aggravante deve essere esclusa.

Per tali ragioni, la Corte ha annullato la sentenza impugnata senza rinvio relativamente all’aggravante di cui all’art. 476, comma 2, c.p. esclusa, e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello territoriale per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, rigettando i ricorsi nel resto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 17 dicembre 2018, n. 3542; Cass., sez. V, 15 febbraio 2021, n. 15901; Cass., sez. V, 8 settembre 2021, n. 37880; Cass., sez. V, 10 maggio 2019, n. 38455; Cass., sez. V, 11 aprile 2019, n. 28047
giurista risponde

Infanticidio e condizione di abbandono morale e materiale Nel delitto di infanticidio è necessario che la gestante si trovi in una oggettiva condizione di abbandono morale e materiale o è sufficiente anche la soggettiva percezione di totale abbandono avvertita dalla stessa?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

L’integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto. – Cass., sez. V, 10 marzo 2023, n. 10284. 

Con la decisione in esame la quinta Sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a individuare uno degli elementi attinenti la tipicità del delitto di infanticidio.

Nel caso di specie, la Corte si è pronunciata sul ricorso proposto dall’imputata avverso la sentenza con cui la Corte d’Assise d’Appello aveva parzialmente riformato la pronuncia di condanna, confermando la penale responsabilità della stessa in relazione al delitto di omicidio aggravato dall’essere stato compiuto dalla madre nei confronti della neonata appena partorita.

Avverso la richiamata decisione proponeva impugnazione la ricorrente, deducendo l’errata applicazione dell’art. 578 c.p. quanto alla mancata derubricazione del fatto nel delitto di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.

Nel merito, la difesa richiamava una serie di elementi della condotta materiale valorizzabili nel senso della qualificazione del fatto ai sensi di infanticidio e non di omicidio doloso aggravato, quali la circostanza che la gravidanza fosse indesiderata e temuta, poiché non generata in un rapporto affettivo legittimo e palese; la strana ignoranza – al limite della credibilità – da parte delle persone vicine alla donna circa lo stato di gravidanza; la contrarietà dell’ambiente familiare ad una gravidanza e a un figlio derivanti da una relazione adulterina; la grave difficoltà dell’imputata a parlare della sua condizione in famiglia, tanto da non riferire nulla neppure quando i genitori si recarono a prenderla nel luogo ove aveva partorito. A sostegno della tesi difensiva, si menzionava pure l’ambiente familiare povero e carente culturalmente, all’origine dell’angoscia vissuta dalla donna durante la gravidanza a causa del pensiero del giudizio negativo dei parenti e del contesto sociale che, di conseguenza, aveva caratterizzato anche il momento del travaglio, vissuto con senso di solitudine.

Tali considerazioni, secondo la difesa, avrebbero inequivocabilmente dimostrato la sussistenza della condizione di abbandono materiale e morale indicativa del delitto di infanticidio.

Invero, la ricorrente richiama un orientamento di legittimità appena successivo alla decisione di appello, per cui lo stato di abbandono morale e materiale costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva, essendo sufficiente a integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna, collegata ad un ambiente familiare non comunicativo ed incapace di cogliere l’evidenza dello stato di gravidanza e di avvertire l’esigenza di aiuto e sostegno, in relazione alle delicate esperienze della gravidanza e del parto.

La Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, osservando che la questione della derubricazione del fatto nel diverso delitto di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale non è stata oggetto dei motivi di appello risultando, pertanto, preclusa al Supremo Collegio una qualificazione giuridica corretta. Nondimeno, la Corte ha condiviso le argomentazioni difensive nella parte in cui hanno valorizzato la nuova e diversa giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di infanticidio che ha individuato nello stato di abbandono per come soggettivamente percepito dalla vittima la situazione tipica necessaria a integrare la fattispecie in esame.

Il nuovo orientamento ermeneutico va, a parere della Corte, condiviso, avendo oculatamente superato il precedente indirizzo, caratterizzato da un certo grado di rigidità esegetica, che valorizzava l’assoluta mancanza di assistenza in cui era necessario che venisse a trovarsi l’autrice del reato, che in sostanza avrebbe dovuto vivere una situazione di disperante abbandono ed isolamento, senza neppure poter pensare di contare su una qualche forma di aiuto da parte delle persone vicine.

Alla stregua di tali obsoleti precedenti, per la configurabilità dell’infanticidio era necessario che la madre fosse lasciata in balia di sé stessa, senza alcuna assistenza e nel completo disinteresse dei familiari, in modo da trovarsi in uno stato di isolamento totale che non lasciasse prevedere alcuna forma di soccorso o di aiuto finalizzati alla sopravvivenza del neonato.

Nel caso in esame, la Corte ha condiviso la tesi difensiva, ritenendo che tale esegesi fosse ormai superata da una diversa elaborazione ermeneutica che, probabilmente al fine di adeguare l’opera di nomofilachia svolta da questa Corte alle diverse condizioni di vita sociale ed individuale in cui tali episodi avvengono, ha posto l’accento maggiormente sulla condizione soggettiva della donna e sulla sua percezione della realtà circostante nel momento in cui è realizzata la condotta delittuosa.

Secondo il nuovo orientamento, cui aderisce la Corte chiamata a pronunciarsi nel caso di specie, l’integrazione della fattispecie criminosa di infanticidio non richiede che la situazione di abbandono materiale e morale rivesta un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento oggettivo da leggere in chiave soggettiva, in quanto è sufficiente anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale, quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto.

La Corte ha evidenziato a tale proposito come già in risalenti pronunce è stata ritenuta irrilevante la disponibilità da parte dell’imputata di mezzi di sussistenza, essendo sufficiente la condizione di solitudine esistenziale e di abbandono determinata anche da un ambiente familiare indifferente alla vicenda umana e incapace di avvertire ogni esigenza di aiuto e sostegno necessari alla donna.

Corretta è parsa alla Corte la valorizzazione da parte della difesa delle condizioni di estremo disagio in cui è stata posta in essere la condotta materiale e dalle quali sarebbero potuti emergere elementi valorizzabili per qualificare il fatto ai sensi dell’art. 578 c.p., inteso non nel senso dell’accertamento di una oggettiva ed assoluta condizione di abbandono ma come la percezione di questa condizione sulla base di dati di fatto riscontrabili obbiettivamente e che caratterizzarono la vita familiare e sociale dell’imputata, tanto da indurre una convinzione di solitudine esistenziale e di derelizione.

Tuttavia, nonostante le ben sviluppate argomentazioni difensive, la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, poiché la questione della qualificazione giuridica della condotta materiale è stata proposta per la prima volta in sede di legittimità. Come noto, al giudice di legittimità è preclusa una nuova valutazione del fatto basata su elementi già presenti nel giudizio di merito, potendo la questione della qualificazione giuridica essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità unicamente nel caso in cui per la sua soluzione non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 23 maggio 2013, n. 26663; Cass., sez. I, 22 gennaio 2021, n. 28252; Cass., sez. I, 3 maggio 2022, n. 14713
Difformi:      Cass., sez. I, 7 ottobre 2009, n. 41889; Cass., sez. I, 17 aprile 2007, n. 24903;
Cass., sez. I, 10 febbraio 2000, n. 2906; Cass., sez. V, 26 maggio 1993, n. 7756
giurista risponde

Truffa online e aggravante minorata difesa È configurabile l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. in relazione alle ipotesi delittuose di truffa online?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Nelle fattispecie di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on-line, sussiste l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. con riferimento alle circostanze di luogo note all’autore del reato e delle quali egli abbia approfittato poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. – Cass., sez. II, 13 marzo 2023, n. 10570.

Con la sentenza in esame, la seconda sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla configurabilità dell’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. nelle ipotesi di truffa commesse on-line.

La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare un ricorso proposto dall’indagato avverso l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame confermava la misura cautelare degli arresti domiciliari, già applicata dal giudice per le indagini preliminari in relazione a svariate ipotesi di truffa commesse on-line e avvinte dal vincolo della continuazione.

Nel caso di specie, il ricorrente deduceva l’inosservanza e la falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 640, comma 2, n. 2bis), c.p.p. e dell’art. 61, n. 5), c.p., facendo valere l’insussistenza dell’aggravante della minorata difesa nelle ipotesi criminose contestate di truffa on-line. Più precisamente, lo stesso rilevava l’erronea configurazione della fattispecie concreta, dal momento che non si sarebbe trattato di un’ipotesi di vendita, bensì di noleggio di veicoli on-line o, al più, di acquisto di un’area di parcheggio. Inoltre, rilevava l’oggettiva inesistenza dei presupposti fondanti la minorata difesa sì come evincibili dalle modalità della condotta e dagli strumenti impiegati per la commissione dell’illecito. Nella fattispecie in esame, infatti, a parere del ricorrente avrebbe ostato alla configurazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c.p. la diretta menzione dell’indagato nella contrattualistica come intestatario del “camper” proposto per il noleggio, come titolare dei conti correnti beneficiati, oltre che come diretto interlocutore, telefonico e via e-mail, con i potenziali interessati. Secondo le argomentazioni difensive, nel caso concreto non rappresentava e non avrebbe potuto rappresentare aggravante costitutiva della condotta criminosa l’omessa esibizione del bene, tipica della compravendita on-line, prassi ignota al noleggio di veicoli e impossibile per l’acquisto di un’area di parcheggio, non essendo in contestazione la sua presunta inesistenza o la non rispondenza qualitativa, bensì l’originario intendimento di disattendere l’obbligazione assunta, né, parimenti, una mera e generica difficoltà di rintraccio, evidentemente inconferente rispetto alla diversa ipotesi di anonimato, nel caso in esame, assolutamente non ravvisabile, per la diretta ed esplicita riconducibilità del presunto illecito e dei suoi strumenti funzionali all’indagato.

La Corte ha considerato il motivo di ricorso non fondato, osservando come, secondo la giurisprudenza di legittimità, nelle ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on line sussiste l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5), c.p., abbia approfittato, poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. A tale proposito, la Corte rileva come il presupposto della minorata difesa sia identificato da tale condivisibile giurisprudenza nella costante distanza tra i contraenti, i quali conducono le trattative interamente su piattaforme web, e valorizza il fatto che tale modalità di contrattazione richiede un particolare affidamento dell’acquirente nella buona fede del venditore, atteso che il primo si trova in una condizione di debolezza per una pluralità di ragioni che possono sussistere, in tutto o in parte, nelle diverse fattispecie concrete – in particolare, le possibilità per il venditore di: vendere sotto falso nome, schermando la propria vera identità (così da rendere più difficile la sua identificazione); non sottoporre il prodotto a controllo preventivo; rendere più difficile il controllo della sua affidabilità (controllo che è più agevole nel caso di contrattazione de visu); sottrarsi più agevolmente alle conseguenze della propria azione.

Sulla base delle predette argomentazioni, la Corte, ha ritenuto che l’ordinanza impugnata abbia dato adeguatamente conto, con una motivazione logica e non contraddittoria, di come l’indagato avesse consapevolmente approfittato delle particolari opportunità decettive offerte dalla distanza che caratterizza il commercio on-line, avendo evidenziato come, proprio per il fatto che i contratti avevano a oggetto il noleggio (e non la vendita) di un mezzo, le controparti contrattuali, ricevuta la documentazione relativa, avessero senz’altro confidato nella buona fede del medesimo, astenendosi dall’effettuare trasferte per visionare lo stesso mezzo, così da potere intrattenere anche un’interlocuzione de visu con lo stesso indagato, il quale, inoltre, avrebbe poi più facilmente potuto rendersi irreperibile e sottrarsi alle recriminazioni delle persone offese.

Per tali ragioni, i giudici di legittimità rigettano il ricorso, condannando di conseguenza il ricorrente al pagamento delle spese procedimentali ai sensi dell’art. 616, comma 1, c.p.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 22 marzo 2017, n. 17937; Cass., sez. II, 29 settembre 2016, n. 43706