giurista risponde

Art. 83 comma 8 Codice contratti e contrasto con direttiva 2014/24 L’art. 83, comma 8 del codice dei contratti pubblici nel prevedere che “la mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria” è in contrasto con l’art. 63 della direttiva 2014/24?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

L’art. 63 della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria. – Corte di giustizia UE, quarta sezione, 28 aprile 2022, causa C-642-20. 

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, adita in sede di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (Italia), con ordinanza del 14 ottobre 2020, ha chiarito che l’art. 63 della direttiva 2014/24, in combinato disposto con gli artt. 49 e 56 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria.

L’art. 63 di tale direttiva enuncia, al par. 1, che un operatore economico può, per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, per quanto riguarda i criteri relativi alla capacità economica e finanziaria nonché i criteri relativi alle capacità tecniche e professionali, e che, alle stesse condizioni, un raggruppamento di operatori economici può fare affidamento sulle capacità di partecipanti al raggruppamento o di altri soggetti. Esso precisa, peraltro, al suo par. 2, che, per taluni tipi di appalto, tra cui gli appalti di servizi, «le amministrazioni aggiudicatrici possono esigere che taluni compiti essenziali siano direttamente svolti dall’offerente stesso o, nel caso di un’offerta presentata da un raggruppamento di operatori economici […], da un partecipante al raggruppamento».

Orbene, imponendo all’impresa mandataria del raggruppamento di operatori economici di eseguire le prestazioni «in misura maggioritaria» rispetto a tutti i membri del raggruppamento, vale a dire di eseguire la maggior parte dell’insieme delle prestazioni contemplate dall’appalto, l’art. 83, comma 8, del Codice dei contratti pubblici fissa una condizione più rigorosa di quella prevista dalla direttiva 2014/24, la quale si limita ad autorizzare l’amministrazione aggiudicatrice a prevedere, nel bando di gara, che taluni compiti essenziali siano svolti direttamente da un partecipante al raggruppamento di operatori economici.

Secondo il regime istituito da tale direttiva, le amministrazioni aggiudicatrici hanno la facoltà di esigere che taluni compiti essenziali siano svolti direttamente dall’offerente stesso o, se l’offerta è presentata da un raggruppamento di operatori economici ai sensi dell’art. 19, par. 2, della direttiva 2014/24, da un partecipante a detto raggruppamento; per contro, secondo il diritto nazionale di cui trattasi nel procedimento principale, il legislatore nazionale impone, in modo orizzontale, per tutti gli appalti pubblici in Italia, che il mandatario del raggruppamento di operatori economici esegua la maggior parte delle prestazioni.

È vero che l’art. 19, par. 2, comma 2, della direttiva 2014/24 prevede che gli Stati membri possano stabilire clausole standard che specifichino il modo in cui i raggruppamenti di operatori economici devono soddisfare le condizioni relative alla capacità economica e finanziaria o alle capacità tecniche e professionali di cui all’articolo 58 di tale direttiva.

Tuttavia, quand’anche la capacità di svolgere compiti essenziali rientrasse nella nozione di «capacità tecnica», ai sensi degli artt. 19 e 58 della direttiva 2014/24, ciò che consentirebbe al legislatore nazionale di includerla nelle clausole standard previste dall’art. 19, par. 2, della stessa, una norma come quella contenuta nell’art. 83, comma 8, terzo periodo, del Codice dei contratti pubblici, che obbliga il mandatario del raggruppamento di operatori economici ad eseguire direttamente la maggior parte dei compiti, va al di là di quanto consentito da tale direttiva.

Infatti, una norma del genere non si limita a precisare il modo in cui un raggruppamento di operatori economici deve garantire di possedere le risorse umane e tecniche necessarie per eseguire l’appalto, ai sensi dell’art. 19, par. 2, di detta direttiva, in combinato disposto con l’articolo 58, paragrafo 4, della stessa, ma riguarda l’esecuzione stessa dell’appalto e richiede in proposito che essa sia svolta in misura maggioritaria dal mandatario del raggruppamento.

Infine, è vero che l’art. 63, par. 2, della direttiva 2014/24 consente alle amministrazioni aggiudicatrici di esigere, per gli appalti di servizi, che «taluni compiti essenziali» siano svolti da un partecipante al raggruppamento di operatori economici.

Nondimeno, nonostante le lievi differenze sussistenti tra le versioni linguistiche della direttiva 2014/24, si evince manifestamente dai termini «taluni compiti essenziali», la volontà del legislatore dell’Unione, conformemente agli obiettivi di cui ai considerando 1 e 2 della medesima direttiva, consiste nel limitare ciò che può essere imposto a un singolo operatore di un raggruppamento, seguendo un approccio qualitativo e non meramente quantitativo, al fine di incoraggiare la partecipazione di raggruppamenti come le associazioni temporanee di piccole e medie imprese alle gare di appalto pubbliche.

Un requisito come quello enunciato all’art. 83, comma 8, terzo periodo, del Codice dei contratti pubblici, che si estende alle «prestazioni in misura maggioritaria», contravviene a siffatto approccio, eccede i termini mirati impiegati all’art. 63, par. 2, della direttiva 2014/24 e pregiudica così la finalità, perseguita dalla normativa dell’Unione in materia, di aprire gli appalti pubblici alla concorrenza più ampia possibile e di facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese.

Del resto, mentre l’art. 63, par. 2, della direttiva 2014/24 si limita ad autorizzare le amministrazioni aggiudicatrici ad esigere, per gli appalti di servizi, che taluni compiti siano svolti dall’uno o dall’altro partecipante al raggruppamento di operatori economici, l’art. 83, comma 8, del Codice dei contratti pubblici impone l’obbligo di esecuzione delle prestazioni in misura maggioritaria al solo mandatario del raggruppamento, ad esclusione di tutte le altre imprese che vi partecipano, limitando così indebitamente il senso e la portata dei termini impiegati all’art. 63, par. 2, della direttiva 2014/24.

Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’art. 63 della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria.

giurista risponde

Irretroattività regolamenti L’irretroattività va considerato un carattere assoluto dei regolamenti? Quali sono le conseguenze dell’annullamento di un atto regolamentare e dei provvedimenti attuativi dello stesso in punto di responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

La responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato da un regolamento, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento.

Ne deriva che l’imprenditore consapevole dell’avvenuta impugnazione del regolamento e, in particolare, di quelle disposizioni che riguardano la ripartizione delle risorse (e, dunque, le quote spettanti e quelle che spetteranno) non può dolersi di aver “ragionevolmente” e “legittimamente” confidato sull’intangibilità di quelle risorse, potendo (ove lo ritenga opportuno) orientare la sua attività produttiva, tenendo conto delle conseguenze che potrebbero scaturire da un eventuale annullamento dell’atto regolatorio e dalla successiva individuazione di diversi criteri di ripartizione delle quote di aiuto di Stato erogate. – Cons. Stato, sez. IV, 19 aprile 2022, n. 2915.

Ha chiarito la Sezione che l’irretroattività va considerata un predicato assoluto e irrinunciabile della sola legge penale, mentre, nei limiti della ragionevolezza, della proporzionalità e della tutela del legittimo affidamento, sia gli atti normativi (ai quali si iscrive oramai pacificamente il regolamento) sia i provvedimenti amministrativi possono dispiegare effetti retroattivi.

Nel caso in cui, peraltro, gli asseriti illegittimi effetti retroattivi siano la risultante dell’avvenuto annullamento dei precedenti regolamenti e dei criteri “distributivi” in essi previsti, non si potrebbe ritenere che l’annullamento di un regolamento dalla cui immediata applicazione sono derivati determinati effetti giuridici e materiali reversibili dovrebbe comunque rimanere privo di ricadute concrete, poiché le precedenti assegnazioni di risorse, sia pure avvenute sulla scorta di criteri illegittimi, non potrebbero essere rimesse in discussione. Tale tesi contraddice i principi basilari del processo amministrativo e dell’azione di annullamento.

Tali conseguenze, infatti, costituiscono piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento.

Ha chiarito la Sezione che in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”.

I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata all’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”).

Invero, la tutela del legittimo affidamento è ormai considerato un canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo.

In linea generale, in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 21 e 19
giurista risponde

Ricorso per revocazione sentenze Consiglio di Stato confliggenti con CGUE Gli artt. 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consentono di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, sono compatibili con gli artt. 4, par. 3, 19, par. 1, del TUE e 2, par. 1 e 2, e 267 TFUE?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

L’art. 4, par. 3, e l’art. 19, par. 1, TUE nonché l’art. 267 TFUE, letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che non ostano a disposizioni di diritto processuale di uno Stato membro che, pur rispettando il principio di equivalenza, producono l’effetto che, quando l’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa di tale Stato membro emette una decisione risolutiva di una controversia nell’ambito della quale esso aveva investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi del suddetto art. 267, le parti di tale controversia non possono chiedere la revocazione di detta decisione dell’organo giurisdizionale nazionale sulla base del motivo che quest’ultimo avrebbe violato l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a tale domanda. – Corte Giust. UE, sez. IX, 7 luglio 2022, C-261/21, F. Hoffmann-La Roche Ltd e altri.

Con la citata sentenza la Corte di giustizia UE si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale effettuato da Cons. Stato, sez. VI, 18 marzo 2021, n. 2327, al fine di chiarire se la normativa UE debba essere interpretata nel senso che osta a disposizioni di diritto processuale di uno Stato membro aventi per effetto che, quando l’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa di tale Stato membro emette una decisione risolutiva di una determinata controversia nell’ambito della quale aveva investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, le parti di tale controversia non possono chiedere la revocazione di detta decisione sulla base del motivo che quest’ultima avrebbe violato l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a tale domanda.

Al riguardo si afferma, innanzitutto, che l’art. 19, par. 1, comma 2, TUE obbliga gli Stati membri a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari ad assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva.

Spetta, tuttavia, all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, in forza del principio di autonomia processuale, stabilire le modalità processuali di tali rimedi giurisdizionali, nel rispetto del principio di equivalenza, che nel caso di specie non si ritiene violato.

Le disposizioni processuali dell’ordinamento italiano, infatti, limitano la possibilità per i singoli di chiedere la revocazione di una sentenza del Consiglio di Stato secondo le medesime modalità, indipendentemente dal fatto che la domanda di revocazione trovi il proprio fondamento in disposizioni di diritto nazionale oppure in disposizioni del diritto dell’Unione.

La normativa processuale interna non è neppure ritenuta lesiva del principio di effettività, che non impone agli Stati membri di istituire mezzi di ricorso identici a quelli previsti dal diritto europeo, purché non sia reso impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli dall’Unione.

Qualora siano invocate disposizioni di diritto dell’Unione dinanzi a un organo giurisdizionale nazionale, il quale emetta la propria decisione dopo aver ricevuto la risposta alle questioni che esso aveva sottoposto alla Corte in merito all’interpretazione di tali disposizioni, la condizione relativa all’esistenza, nello Stato membro interessato, di un rimedio giurisdizionale che consenta di garantire il rispetto dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione è necessariamente soddisfatta.

Detto Stato può, di conseguenza, limitare la possibilità di chiedere la revocazione di una sentenza del suo organo giurisdizionale amministrativo di ultimo grado a situazioni eccezionali e tassativamente disciplinate, che non includano l’ipotesi in cui, ad avviso del singolo soccombente dinanzi a detto organo giurisdizionale, quest’ultimo non abbia tenuto conto dell’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta alla sua domanda di pronuncia pregiudiziale.

L’art. 19, par. 1, comma 2, TUE non obbliga, quindi, gli Stati membri a consentire ai singoli di chiedere la revocazione di una decisione giurisdizionale emessa in ultimo grado sulla base del motivo che quest’ultima violerebbe l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a una domanda di pronuncia pregiudiziale che era stata formulata nel medesimo procedimento.

Tale conclusione non è contraddetta dall’art. 4, par. 3, TUE che non può essere interpretata nel senso di obbligare gli Stati membri ad istituire nuovi rimedi giurisdizionali, obbligo che non è imposto loro dall’art. 19, par. 11, comma 2, TUE.

Detta conclusione non è contraddetta neanche dall’art. 267 TFUE, il quale impone al giudice del rinvio di dare piena efficacia all’interpretazione del diritto dell’Unione data dalla Corte nella sentenza emessa in via pregiudiziale, ma spetta solo al giudice nazionale accertare e valutare i fatti della controversia di cui al procedimento principale.

In conclusione si afferma che non spetta alla Corte esercitare, nell’ambito di un nuovo rinvio pregiudiziale, un controllo che sia destinato a garantire che tale giudice, dopo aver investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione applicabili alla controversia sottopostagli, abbia applicato tali disposizioni in modo conforme all’interpretazione di queste ultime fornita dalla Corte, ferma la possibilità per il giudice nazionale di rivolgersi nuovamente alla Corte di giustizia UE per ottenere ulteriori chiarimenti sull’interpretazione del diritto dell’unione fornita dalla Corte.

Si precisa, tuttavia, che i singoli, ove abbiano eventualmente subito un danno per effetto della violazione dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione causata da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado possono far valere la responsabilità di tale Stato membro purché siano soddisfatte le condizioni relative al carattere sufficientemente qualificato della violazione e all’esistenza del nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito da tali soggetti.

giurista risponde

Accesso informazioni riservate La mera intenzione di verificare l’opportunità di proporre ricorso giurisdizionale (anche da parte di chi vi abbia concreto e obiettivo interesse) può legittimare l’accesso esplorativo a informazioni riservate contenenti eventuali segreti tecnici o commerciali?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Al fine di esercitare il diritto di accesso a informazioni contenenti segreti tecnici o commerciali è essenziale dimostrare non già un generico interesse alla tutela dei propri interessi giuridicamente rilevanti, ma la “concreta necessità” da intendere restrittivamente, in termini di stretta indispensabilità, di utilizzo della documentazione in uno specifico giudizio. – Cons. Stato, sez. III, 1° agosto 2022, n. 6750.

Il Collegio richiama i principi applicabili all’accesso in materia di contratti pubblici, quale tipologia di accesso documentale per la quale il Legislatore ha previsto una disciplina speciale rispetto a quella delineata dagli artt. 22 e ss. della L. 241/1990.

Come è noto, infatti, l’art. 53 del codice dei contratti, al fine di contemperare le ragioni dell’accesso con l’esigenza di assicurare il regolare svolgimento delle procedure selettive, risulta strutturato secondo un criterio di conoscibilità progressiva della documentazione di gara, prevedendo un mero differimento del diritto di accesso in relazione al nominativo dei soggetti che nelle procedure aperte hanno presentato offerte o, nelle procedure ristrette e negoziate e nelle gare informali, in relazione all’elenco dei soggetti che hanno fatto richiesta di invito e che hanno manifestato il loro interesse e in relazione alle offerte stesse, fino alla scadenza del termine per la presentazione delle medesime offerte; in relazione alle offerte e al procedimento di verifica dell’anomalia, fino all’aggiudicazione.

L’art. 53, cit. prevede, poi, fattispecie di esclusione assoluta del diritto di accesso, tra le quali, ai sensi del comma 5, lett. a), risultano inclusi i segreti tecnici e commerciali, soggiungendo immediatamente dopo, al comma 6, che in relazione a tali ipotesi è comunque consentito l’accesso al concorrente ai fini della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto.

Sul punto si osserva che secondo la giurisprudenza tale eccezione “è posta a tutela della riservatezza aziendale, al fine di evitare che gli operatori economici in diretta concorrenza si servano dell’accesso per acquisire informazioni riservate sul know-how del concorrente, costituenti segreti tecnici e commerciali, e ottenere così un indebito vantaggio e ha una natura assoluta perché, nel bilanciamento tra gli opposti interessi, il legislatore ha privilegiato quello, prevalente, della riservatezza, a tutela di un leale gioco concorrenziale, delle caratteristiche essenziali dell’offerta quali beni essenziali per lo sviluppo e per la stessa competizione qualitativa, che sono prodotto patrimoniale della capacità ideativa o acquisitiva della singola impresa”.

Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, peraltro, “l’accesso agli atti di gara non è sempre ammesso a fronte di una generica deduzione di “esigenze di difesa”, atteso che, nel bilanciamento tra il diritto alla tutela dei segreti industriali e commerciali ed il diritto all’esercizio del c.d. “accesso difensivo”, è necessario l’accertamento della sussistenza del nesso di strumentalità esistente tra la documentazione oggetto dell’istanza di accesso e le censure formulate, imponendosi quindi l’effettuazione di un accurato controllo in ordine alla effettiva utilità della documentazione richiesta, alla stregua di una sorta di prova di resistenza

Si ribadisce che la volontà del Legislatore, in virtù delle esigenze di tutela della concorrenza, è (dunque) quella di escludere dall’ostensibilità propria degli atti di gara quella parte dell’offerta o delle giustificazioni della anomalia che riguardano le specifiche e riservate capacità tecnico-industriali o in genere gestionali proprie dell’impresa in gara (il know how), che sono prodotto patrimoniale della capacità ideativa o acquisitiva della singola impresa e a cui l’ordinamento, ai fini della corretta esplicazione della concorrenza, offre tutela in quanto segreti commerciali: cfr. artt. 98 e 99, D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale).

Il limite alla ostensibilità è subordinato all’allegazione di “motivata e comprovata dichiarazione”, mediante la quale si dimostri l’effettiva sussistenza di un segreto industriale o commerciale meritevole di salvaguardia fermo restando peraltro l’onere della stazione appaltante di valutare motivatamente le argomentazioni offerte ai fini dell’apprezzamento dell’effettiva rilevanza per l’operatività del regime di segretezza.

Dunque, al fine di esercitare il diritto di accesso riguardo a informazioni contenenti eventuali segreti tecnici o commerciali, è essenziale dimostrare non già un generico interesse alla tutela dei propri interessi giuridicamente rilevanti, ma la concreta necessità (da riguardarsi, restrittivamente, in termini di stretta indispensabilità) di utilizzo della documentazione in uno specifico giudizio.

Ne deriva che la mera intenzione di verificare e sondare l’eventuale opportunità di proporre ricorso giurisdizionale (anche da parte di chi vi abbia, come l’impresa seconda graduata, concreto e obiettivo interesse) non legittima un accesso meramente esplorativo a informazioni riservate, perché difetta la dimostrazione della specifica e concreta indispensabilità a fini di giustizia.

Occorre, quindi, dimostrare la “stretta indispensabilità” della documentazione per apprestare determinate difese all’interno di in uno specifico giudizio.

La valutazione di “stretta indispensabilità”, in altre parole, costituisce il criterio che regola il rapporto tra l’accesso difensivo e l’esigenza di tutela della segretezza industriale e commerciale.

Una simile valutazione va effettuata in concreto e verte, in particolare, “sull’accertamento dell’eventuale nesso di strumentalità esistente tra la documentazione oggetto dell’istanza di accesso e le censure formulate”.

A tal riguardo, il Consiglio ha ulteriormente precisato che “deve però escludersi che sia sufficiente fare generico riferimento, nell’istanza di accesso, a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, laddove l’ostensione del documento richiesto dovrà comunque passare attraverso un rigoroso e motivato vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare”.

Si ritiene, quindi, che possa trovare conferma la tesi di maggior rigore secondo cui deve esservi un giudizio di stretto collegamento (o nesso di strumentalità necessaria) tra documentazione richiesta e situazione finale controversa: la parte interessata dovrebbe dimostrare il collegamento necessario fra la documentazione richiesta e le proprie difese, attraverso una sia pur minima indicazione delle “deduzioni difensive potenzialmente esplicabili”.

In assenza di tale dimostrazione circa la “stretta indispensabilità” della richiesta documentazione, la domanda di accesso finisce per tradursi nel tentativo “meramente esplorativo” di conoscere tutta la documentazione versata agli atti di gara, come tale inammissibile.

Nei casi in cui non risulti opposta l’incidenza ostativa di un segreto, si è affermato che nessun vaglio deve essere compiuto in ordine alla strumentalità fra la documentazione richiesta e le esigenze difensive in un giudizio già azionato, dovendosi semmai fare riferimento al comma 1 del medesimo art. 53, che rinvia all’art. 22 e ss., L. 241/1990 – per quanto non espressamente derogato dal medesimo codice dei contratti pubblici – e dunque alla normativa generale sul diritto di accesso.

Per contro in materia di appalti pubblici – fatte salve le deroghe espressamente considerate dall’art. 53, D.Lgs. 50/2016, fra cui quella relativa ai segreti tecnici e commerciali – non vengono in rilievo profili di riservatezza, ma semmai profili di trasparenza evincibili dall’obbligo di pubblicazione degli atti di gara da parte della stazione appaltante, nonché dalla stessa possibilità di esperire nella materia in esame l’accesso civico generalizzato.

Come affermato dall’Adunanza Plenaria 10/2020, infatti, la disciplina dell’accesso civico generalizzato è applicabile anche agli atti delle procedure di gara e la pubblica amministrazione ha il potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo generico o cumulativo dal richiedente senza riferimento ad una specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina dell’accesso civico generalizzato, a meno che l’interessato non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l’istanza solo con specifico riferimento ai profili della L. 241/1990, senza che il giudice amministrativo, adito ai sensi dell’art. 116 c.p.a., possa mutare il titolo dell’accesso, definito dall’originaria istanza e dal conseguente diniego adottato dalla pubblica amministrazione all’esito del procedimento.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 29 aprile 2022 n. 3392;
Cons. Stato, sez. V, 7 gennaio 2020, n. 64;
Cons. Stato, Ad. plen. 2 aprile 2020, n. 10;
Cons. Stato, sez. III, 11 ottobre 2017, n. 4724;
Cons. Stato, sez. V, 31 marzo 2021, n. 2714;
Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2014, n. 2472;
Cons. Stato, sez. V, 20 gennaio 2022, n. 369
giurista risponde

Applicabilità art. 10bis comma 1 l. 241/1990 A quali procedimenti può applicarsi il comma 1 dell’art. 10bis della L. 241/1990?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il comma 1 dell’art. 10bis della L. 241/1990, come modificato ad opera dell’art. 12 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, ha carattere innovativo, non avendo valenza interpretativa o ricognitiva di un precetto già esistente a livello di principio generale e pertanto è applicabile solo ai procedimenti iniziati dopo la sua entrata in vigore. – Cons. Stato, sez. II, 4 agosto 2022, n. 6829.

Il Consiglio di Stato, ripercorrendo l’evoluzione normativa e giurisprudenziale sull’effetto conformativo del giudicato di annullamento, ha altresì chiarito la portata applicativa del comma 1 dell’art. 10bis della L. 241/1990, come modificato ad opera dell’art. 12 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120.

Il Collegio ricorda che nel tempo la limitata ampiezza dell’effetto preclusivo del giudicato di annullamento, e la corrispondente facoltà dell’Amministrazione di riesercitare il potere prendendo in esame tutti gli aspetti discrezionali e vincolati che non fossero espressamente entrati a far parte della motivazione della sentenza di primo grado, è andata diminuendo, come testimoniato dall’elaborazione giurisprudenziale sul c.d. one shot temperato, che consente all’Amministrazione Pubblica che abbia subito l’annullamento di un proprio atto, di rinnovarlo una sola volta e, quindi, di riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, in via definitiva, tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.

Nel tempo, si è dunque affermata l’idea che l’Amministrazione, nell’esercizio del potere, abbia l’onere di prendere in esame il completo panorama istruttorio e delle scelte discrezionali inerenti al provvedimento da adottare.

Si evidenzia che in tale direzione depongono sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, volto a impedire che, in concreto, la pronuncia di annullamento del giudice amministrativo possa essere ovviata dalla possibilità di dedurre nuovi profili di diniego che necessitano di nuove impugnative giurisdizionali, sia l’affermarsi del dovere da parte dell’Amministrazione di comportarsi secondo buona fede nei confronti del privato anche nel corso del procedimento amministrativo e nell’applicazione di norme di natura pubblicistica.

L’Amministrazione, infatti, oltre all’obbligo del rispetto delle norme pubblicistiche procedimentali, ha anche un generale dovere di comportamento in buona fede nei confronti del privato, per non generare ingiustificati affidamenti, secondo uno schema tendenziale di dissociazione tra norme di legittimità e norme di validità, peraltro sempre più destinato a perdere contorni netti per l’ingresso del mancato rispetto del canone del comportamento secondo buona fede nei canoni delle regole (anche) di legittimità che portano all’annullamento dell’atto.

Tale principio, secondo cui l’Amministrazione ha l’obbligo di comportarsi nei confronti del privato secondo criteri di buona fede oggettiva è ormai espressamente sancito a livello legislativo dal comma 2bis dell’art. 1, della L. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, di conversione del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, ai sensi del quale: “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”.

In tale contesto può rientrare anche l’esigenza che l’Amministrazione analizzi sin dall’inizio per intero la vicenda amministrativa sottopostagli dal privato, senza lasciare spazi a ulteriori profili negativi per quest’ultimo, quantomeno qualora questi ultimi siano già evincibili dagli atti del procedimento.

Nella stessa ottica si inserisce anche l’evoluzione giurisprudenziale del processo amministrativo quale strumento di tutela di situazioni sostanziali, con conseguente diminuzione della discrezionalità dell’Amministrazione a seguito del giudicato di annullamento, al fine di scongiurare l’indefinita parcellizzazione giudiziaria delle controversie amministrative.

Si ribadisce, infine, che, in ambito sostanziale, la medesima esigenza di concentrazione di tutela ha ispirato la sostituzione – a opera dell’art. 12 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120 – del terzo e quarto periodo del comma 1 dell’art. 10bis della L. 241/1990, che attualmente così dispongono: “La comunicazione di cui al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni. In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”.

Tale norma obbliga, quindi, l’Amministrazione procedente a esplicitare sin dall’adozione del primo provvedimento sfavorevole tutti gli elementi ostativi emergenti dall’istruttoria compiuta, potendo il secondo diniego, adottato in sede di riesercizio del potere, essere motivato soltanto sulla scorta di elementi fino ad allora non emersi nel corso dell’istruttoria e non di elementi noti e non esplicitati.

La disposizione in esame ha carattere innovativo, non avendo valenza interpretativa o ricognitiva di un precetto già esistente a livello di principio generale e, pertanto, imponendo un limite sostanziale al potere amministrativo, ed è applicabile solo ai procedimenti iniziati dopo la sua entrata in vigore.

A tal fine deve aversi riguardo al procedimento inziale e non a quello di riesercizio del potere a seguito di annullamento, in quanto è al momento dell’esercizio inziale che l’Amministrazione deve essere gravata dell’obbligo di prendere in esame e porre come motivo di eventuale rigetto tutti gli elementi emersi in sede procedimentale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321;
Cass. Sez. Un. 7 settembre 2020, n. 18592

Applicabilità art. 10bis comma 1 art. l. 241/1990

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il comma 1 dell’art. 10bis della L. 241/1990, come modificato ad opera dell’art. 12 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, ha carattere innovativo, non avendo valenza interpretativa o ricognitiva di un precetto già esistente a livello di principio generale e pertanto è applicabile solo ai procedimenti iniziati dopo la sua entrata in vigore. – Cons. Stato, sez. II, 4 agosto 2022, n. 6829.

Il Consiglio di Stato, ripercorrendo l’evoluzione normativa e giurisprudenziale sull’effetto conformativo del giudicato di annullamento, ha altresì chiarito la portata applicativa del comma 1 dell’art. 10bis della L. 241/1990, come modificato ad opera dell’art. 12 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120.

Il Collegio ricorda che nel tempo la limitata ampiezza dell’effetto preclusivo del giudicato di annullamento, e la corrispondente facoltà dell’Amministrazione di riesercitare il potere prendendo in esame tutti gli aspetti discrezionali e vincolati che non fossero espressamente entrati a far parte della motivazione della sentenza di primo grado, è andata diminuendo, come testimoniato dall’elaborazione giurisprudenziale sul c.d. one shot temperato, che consente all’Amministrazione Pubblica che abbia subito l’annullamento di un proprio atto, di rinnovarlo una sola volta e, quindi, di riesaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, in via definitiva, tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.

Nel tempo, si è dunque affermata l’idea che l’Amministrazione, nell’esercizio del potere, abbia l’onere di prendere in esame il completo panorama istruttorio e delle scelte discrezionali inerenti al provvedimento da adottare.

Si evidenzia che in tale direzione depongono sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, volto a impedire che, in concreto, la pronuncia di annullamento del giudice amministrativo possa essere ovviata dalla possibilità di dedurre nuovi profili di diniego che necessitano di nuove impugnative giurisdizionali, sia l’affermarsi del dovere da parte dell’Amministrazione di comportarsi secondo buona fede nei confronti del privato anche nel corso del procedimento amministrativo e nell’applicazione di norme di natura pubblicistica.

L’Amministrazione, infatti, oltre all’obbligo del rispetto delle norme pubblicistiche procedimentali, ha anche un generale dovere di comportamento in buona fede nei confronti del privato, per non generare ingiustificati affidamenti, secondo uno schema tendenziale di dissociazione tra norme di legittimità e norme di validità, peraltro sempre più destinato a perdere contorni netti per l’ingresso del mancato rispetto del canone del comportamento secondo buona fede nei canoni delle regole (anche) di legittimità che portano all’annullamento dell’atto.

Tale principio, secondo cui l’Amministrazione ha l’obbligo di comportarsi nei confronti del privato secondo criteri di buona fede oggettiva è ormai espressamente sancito a livello legislativo dal comma 2bis dell’art. 1, della L. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, di conversione del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, ai sensi del quale: “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”.

In tale contesto può rientrare anche l’esigenza che l’Amministrazione analizzi sin dall’inizio per intero la vicenda amministrativa sottopostagli dal privato, senza lasciare spazi a ulteriori profili negativi per quest’ultimo, quantomeno qualora questi ultimi siano già evincibili dagli atti del procedimento.

Nella stessa ottica si inserisce anche l’evoluzione giurisprudenziale del processo amministrativo quale strumento di tutela di situazioni sostanziali, con conseguente diminuzione della discrezionalità dell’Amministrazione a seguito del giudicato di annullamento, al fine di scongiurare l’indefinita parcellizzazione giudiziaria delle controversie amministrative.

Si ribadisce, infine, che, in ambito sostanziale, la medesima esigenza di concentrazione di tutela ha ispirato la sostituzione – a opera dell’art. 12 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120 – del terzo e quarto periodo del comma 1 dell’art. 10bis della L. 241/1990, che attualmente così dispongono: “La comunicazione di cui al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni. In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”.

Tale norma obbliga, quindi, l’Amministrazione procedente a esplicitare sin dall’adozione del primo provvedimento sfavorevole tutti gli elementi ostativi emergenti dall’istruttoria compiuta, potendo il secondo diniego, adottato in sede di riesercizio del potere, essere motivato soltanto sulla scorta di elementi fino ad allora non emersi nel corso dell’istruttoria e non di elementi noti e non esplicitati.

La disposizione in esame ha carattere innovativo, non avendo valenza interpretativa o ricognitiva di un precetto già esistente a livello di principio generale e, pertanto, imponendo un limite sostanziale al potere amministrativo, ed è applicabile solo ai procedimenti iniziati dopo la sua entrata in vigore.

A tal fine deve aversi riguardo al procedimento inziale e non a quello di riesercizio del potere a seguito di annullamento, in quanto è al momento dell’esercizio inziale che l’Amministrazione deve essere gravata dell’obbligo di prendere in esame e porre come motivo di eventuale rigetto tutti gli elementi emersi in sede procedimentale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321;
Cass. Sez. Un. 7 settembre 2020, n. 18592
giurista risponde

Limiti soccorso istruttorio Quali sono i limiti dell’istituto generale del soccorso istruttorio applicabile al di fuori della normativa degli appalti pubblici in cui è prevista una specifica disciplina dall’art. 83 del D.Lgs. 50/2016?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il soccorso istruttorio va attivato qualora dalla documentazione presentata dall’istante residuino margini di incertezza facilmente superabili, rispondendo ad un principio di esercizio dell’azione amministrativa ispirata a buona fede e correttezza. Il limite all’attivazione del soccorso istruttorio coincide con la mancata allegazione di un requisito di partecipazione ovvero di un titolo valutabile in sede concorsuale, poiché, effettivamente, consentire ad un candidato di dichiarare, a termine di presentazione delle domande già spirato, un requisito o un titolo non indicato, significherebbe riconoscergli un vantaggio rispetto agli altri candidati in palese violazione della par condicio. – Cons. Stato, sez. VII, 8 agosto 2022, n. 7000.

Il Consiglio di Stato ha precisato i limiti dell’istituto generale del soccorso istruttorio di cui all’art. 6, comma 1, lett. b), L. 241/1990 sul procedimento amministrativo in forza del quale: “ Il responsabile del procedimento può chiedere la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete… e ordinare esibizioni documentali”. Tale istituto, infatti, ha una portata generale e, dunque, è applicabile anche al di fuori della normativa degli appalti pubblici, dove il Legislatore ha previsto una disciplina ad hoc, in parte differente da quella di cui all’art. 6, comma 1, lett. b), cit., contenuta nell’art. 83, D.Lgs. 50/2016.

Si evidenzia al riguardo che il “potere di soccorso” costituisce un istituto di carattere generale del procedimento amministrativo che, nel particolare settore delle selezioni pubbliche diverse da quelle disciplinate dal codice dei contratti pubblici, soddisfa la comune esigenza di consentire la massima partecipazione alla gara, orientando l’azione amministrativa sulla concreta verifica dei requisiti di partecipazione e della capacità tecnica ed economica, attenuando la rigidità delle forme.

Un primo elemento di differenza sostanziale rispetto al “potere di soccorso” disciplinato dal codice dei contratti pubblici, emerge dal raffronto fra il tenore testuale delle due disposizioni.

E infatti, l’art. 6, L. 241/1990 si limita a prevedere la mera facoltà a che il responsabile del procedimento eserciti il “potere di soccorso”, laddove l’istituto disciplinato dal codice dei contratti pubblici obbliga la stazione appaltante a fare ricorso al “potere di soccorso”, sia pure nei precisi limiti derivanti dalla rigorosa individuazione del suo oggetto e della sua portata applicativa.

Si ribadisce, inoltre, che il principio della tassatività delle cause di esclusione vige solo per le procedure disciplinate dal codice dei contratti pubblici, al di fuori di tale ambito: a) il “potere di soccorso” nei procedimenti diversi da quelli comparativi dispiega la sua massima portata espansiva, tendenzialmente senza limiti salvo quelli propri della singola disciplina di settore; b) in relazione ai procedimenti comparativi il “potere di soccorso” è utilmente invocabile anche ai fini del riscontro della validità delle clausole che introducono adempimenti a pena di esclusione; in quest’ottica integra il parametro di giudizio di manifesta sproporzione che il giudice amministrativo è chiamato ad effettuare, ab externo e senza sostituirsi all’Amministrazione, nel caso venga impugnata una clausola di esclusione per l’inadempimento di oneri meramente formali.

Si osserva altresì che di recente il Consiglio di Stato ha affermato la portata generale del soccorso istruttorio che trova applicazione, anche nell’ambito delle procedure concorsuali, fermo il necessario rispetto del principio della par condicio per cui l’intervento dell’Amministrazione diretto a consentire al concorrente di regolarizzare o integrare la documentazione presentata non può produrre un effetto vantaggioso a danno degli altri candidati.

In quest’ottica, il limite all’attivazione del soccorso istruttorio coincide con la mancata allegazione di un requisito di partecipazione ovvero di un titolo valutabile in sede concorsuale, poiché, effettivamente, consentire ad un candidato di dichiarare, a termine di presentazione delle domande già spirato, un requisito o un titolo non indicato, significherebbe riconoscergli un vantaggio rispetto agli altri candidati in palese violazione della par condicio.

In generale, può quindi affermarsi che il soccorso istruttorio va attivato, qualora dalla documentazione presentata dall’istante residuino margini di incertezza facilmente superabili, rispondendo tale scelta amministrativa ad un principio di esercizio dell’azione amministrativa ispirata a buona fede e correttezza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 22 novembre 2019, n. 7975; Id., sez. V, 17 gennaio 2018, n. 257; Id., 8 agosto 2016, n. 3540; Cons. Stato, sez. II, 28 gennaio 2016, n. 838;
Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2004, n. 5759
giurista risponde

Interpretazione diritto UE Il modo in cui il Consiglio di Stato interpreta e applica il diritto dell’Unione europea rientra nell’ambito del sindacato riservato alla Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost.?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

È inammissibile il ricorso col quale si denunci un eccesso di potere giurisdizionale, sub specie di diniego di giustizia, del giudice amministrativo di ultima istanza, derivante dal presunto radicale stravolgimento delle norme di riferimento, nazionali o unionali, interpretate in senso incompatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. – Cass. Sez. Un. 30 agosto 2022, n. 25503.

Sulla base di quanto affermato dalla Corte di giustizie UE, adita in via pregiudiziale ex art. 267 TFUE, con l’ord. 19598/2020, le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto di poter dare continuità all’orientamento giurisprudenziale che interpreta in senso restrittivo la nozione di sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione di cui all’art. 111, comma 8, Cost.

Si è, dunque, esclusa l’impugnabilità delle sentenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale ritenute confliggenti con sentenze della Corte di giustizia, quali ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale da denegata giustizia, derivante da un radicale stravolgimento delle norme di riferimento, nazionali o unionali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    CGUE, sez. IX, 7 luglio 2022, in causa C-261/21;
CGUE, Grande Sezione, 21 dicembre 2021, in causa C-497/20
Difformi:      Cass. Sez. Un. 29 dicembre 2017, n. 31226; Id., 6 febbraio 2015, n. 2242
giurista risponde

Principio di rotazione affidamenti Come va inteso il principio di rotazione nel caso in cui gli affidamenti in successione concernano prestazioni solo parzialmente assimilabili?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il principio di rotazione non si applica nel caso di diversità tra le prestazioni oggetto degli affidamenti in successione, cioè a dire di “sostanziale alterità qualitativa” delle prestazioni oggetto delle due commesse. – Cons. Stato, sez. V, 7 settembre 2022, n. 7794.

Il Consiglio di Stato, richiamando la consolidata giurisprudenza sul punto, ricorda che il principio di rotazione e il conseguente divieto, nelle procedure sottosoglia, di invitare il precedente affidatario nell’affidamento delle nuove commesse, trae fondamento nell’esigenza di evitare rendite di posizione in capo al gestore uscente, la cui posizione di vantaggio deriva dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento.

Esso è volto a garantire il corretto esplicarsi del principio di concorrenza, garantendo la turnazione di diversi operatori nella realizzazione del “medesimo servizio”.

Il principio di rotazione non si applica, tuttavia, nel caso di diversità tra le prestazioni oggetto degli affidamenti in successione, cioè a dire di “sostanziale alterità qualitativa” delle prestazioni oggetto delle due commesse.

Dunque, nel caso in cui gli affidamenti in successione siano solo parzialmente assimilabili, ma contenutisticamente distinti, posto che il nuovo affidamento ha ad oggetto prestazioni nuove e diverse, afferenti ad una diversa categoria merceologiche, il suddetto principio non trova applicazione, non sussistendo il presupposto della continuità tra le prestazioni contrattuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2022, n. 1421; Id., 15 dicembre 2020, n. 8030;
Cons. Stato, sez. III, 25 aprile 2020, n. 2654)
giurista risponde

Sindacabilità provvedimento art. 80 co. 5 Codice contratti pubblici In che limiti è sindacabile dal giudice il provvedimento di esclusione ex art. 80, comma 5, in relazione alla ritenuta sussistenza di una condotta integrante un grave illecito professionale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Spetta alla stazione appaltante, nell’esercizio della sua discrezionalità, apprezzare autonomamente le pregresse vicende professionali dell’operatore economico, con la conseguenza che un provvedimento di esclusione adeguatamente motivato e che consenta di ricostruire agevolmente l’iter logico-giuridico seguito dall’amministrazione non risulta sindacabile. – Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2022, n. 7823.

Nelle gare pubbliche il giudizio su gravi illeciti professionali è espressione di ampia discrezionalità da parte dell’Amministrazione, cui il Legislatore ha voluto riconoscere un ampio margine di apprezzamento circa la sussistenza del requisito dell’affidabilità dell’appaltatore.

L’art. 80, comma 5, lett. c), D.Lgs. 50/2016 non contempla alcun “automatismo” tra la pendenza di un procedimento penale per una ipotesi di reato astrattamente assimilabile ad un “grave illecito professionale” e la sanzione dell’esclusione della gara, ponendo, al contrario, in capo alla Stazione appaltante l’onere di verificare, in concreto, se le condotte rilevate in sede penale siano effettivamente idonee a rendere dubbia l’integrità e/o l’affidabilità dell’operatore economico.

Spetta alla stazione appaltante, nell’esercizio di tale ampia discrezionalità, apprezzare autonomamente le pregresse vicende professionali dell’operatore economico, persino se non abbiano dato luogo ad un provvedimento di condanna in sede penale, perché essa sola può fissare il punto di rottura dell’affidamento nel pregresso o futuro contraente.

Nel caso esaminato, la stazione appaltante aveva escluso un operatore economico sulla base di una richiesta di rinvio a giudizio per il reato di cui all’art. 353 c.p.p., ritenuta idonea a minare l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico.

Come più volte affermato dalla giurisprudenza, in simili circostanze, un provvedimento che reca una motivazione particolarmente ampia, enunciando le ragioni di fatto e individuando le disposizioni a giustificazione del contenuto, consentendo agevolmente la ricostruzione dell’iter logico-giuridico seguito dall’Amministrazione, non risulta sindacabile.

E infatti il sindacato che il giudice amministrativo è chiamato a compiere sulle motivazioni di tale apprezzamento deve essere mantenuto sul piano della “non pretestuosità” della valutazione degli elementi di fatto compiuta; in particolare, la non manifesta abnormità, contraddittorietà o contrarietà a norme imperative di legge nella valutazione degli elementi di fatto. Il sindacato, inoltre, non può pervenire ad evidenziare una mera non condivisibilità della valutazione stessa.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 27 ottobre 2021, n. 7223