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Maltrattamenti in famiglia e condotte non abituali È configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia nell’ipotesi in cui le condotte contestate non siano abituali?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. postula, da un lato, l’abitualità di condotte omogenee reiterate per un periodo di tempo apprezzabile e, dall’altro, una vessazione fisica o soltanto mentale che può essere realizzata anche in forma omissiva a condizione, però, che il soggetto agente rivesta una posizione di garanzia nei confronti della persona offesa. –
Cass., sez. VI, 14 marzo 2023, n. 10940.

La Corte di Cassazione, con la sentenza annotata, è chiamata a pronunciarsi in merito alla corretta configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia.Nel caso in esame il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame relativa alla misura degli arresti domiciliari disposta dal Giudice per le indagini preliminari nei confronti dell’odierna ricorrente, indagata per i delitti di maltrattamenti in famiglia – ex art. 572 c.p. – e di abbandono di persone minori o incapaci – ex art. 591 c.p. – per aver, in qualità di dipendente di una casa famiglia, realizzato atti vessatori nei confronti degli ospiti della struttura e per aver abbandonato gli stessi, incapaci di provvedere a se stessi per malattia di mente o corpo o vecchiaia.

Il ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale prospetta mere censure in fatto relative alla gravità indiziaria e alle lacune motivazionali del provvedimento impugnato.

Il Collegio, nell’accogliere i motivi di doglianza proposti dalla difesa, richiama gli episodi descritti nell’ordinanza ritenendoli non idonei ad integrare l’ipotesi di maltrattamenti in famiglia.

Prima di proceder alla disamina della pronuncia di legittimità, è opportuno ricordare alcuni aspetti essenziali della fattispecie in questione.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà e del decoro del soggetto passivo nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione e assoggettamento. Tali condotte, trattandosi di reato abituale, non possono essere rare od occasionali ma devono essere connotate da abitualità, ovvero devono essere reiterate per un periodo di tempo apprezzabile. L’abitualità, peraltro, non è esclusa nel caso in cui gli atti lesivi siano alternati con periodi di normalità che abbiano una durata tale da non interrompere la fattispecie criminosa.

Quanto all’elemento soggettivo è, invece, sufficiente il dolo generico, ossia la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività vessatoria. Invero, le singole azioni assurgo a delitto di maltrattamenti in quanto l’agente consapevolmente reitera, con frequenza e continuità, le condotte offensive.

Ciò premesso, la Suprema Corte ritiene che le condotte contestate all’indagata non siano suscettibili di concretare l’ipotesi di maltrattamenti poiché dagli episodi descritti nell’ordinanza non emerge il necessario requisito dell’abitualità.

Per altro verso, la Corte riconosce la possibilità che la vessazione fisica o mentale possa essere realizzata in forma omissiva ma a condizione che il soggetto agente rivesta una posizione di garanzia nei confronti delle persone offese, altrimenti la responsabilità penale finirebbe con il trascendere in una mera responsabilità morale o per il tipo di autore.

Nel caso di specie l’indagata, pur ricoprendo un ruolo primario, non era formalmente riconosciuta nella gestione del centro ma era una mera dipendente e, pertanto, non possono esserle attribuiti i poteri tipici di chi riveste una posizione di garanzia.

Alla luce delle esposte ragioni la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza con rinvio al Tribunale affinché chiarisca quali condotte siano suscettibili di integrare la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 7 febbraio 2019, n. 6126; Cass., sez. III, 12 febbraio 2018, n. 6724
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Rottamazione e procedure art. 13 D.Lgs. n. 74/2000 Gli accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie (c.d. “rottamazioni”) rientrano nel novero delle speciali procedure di cui all’art. 13, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Le speciali procedure conciliative di cui al D.L. 13 ottobre 2018, n.119, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2018, n.136 (e quelle analoghe previste dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 e dal D.L. 16 ottobre 2017, n. 148) sono comprese tra quelle indicate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000 in quanto, trattandosi di accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie, assicurano all’Erario il recupero delle somme dovute. A ciò deve aggiungersi che, fermo restando la concessione di un termine di tre mesi «per il pagamento del debito residuo», la causa di non punibilità di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 opera se entro la dichiarazione di apertura del dibattimento interviene non l’accordo tra contribuente e Fisco, ma l’integrale pagamento del debito. – Cass., sez. III, 14 marzo 2023, n. 10730.

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione è chiamata a valutare l’ambito applicativo della causa di non punibilità prevista dall’art.13, D.Lgs. 74/2000.

Nel caso di specie la Corte di appello, in conferma della decisione del giudice di prime cure, ha condannato l’imputato – quale amministratore unico di una società – per il reato di omesso versamento di IVA, di cui all’art. 10ter, D.Lgs. 74/2000.

Avverso tale sentenza la difesa ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, quale unico motivo, l’erronea applicazione degli artt. 51, c.p. e 13, D.Lgs. 74/2000 in relazione all’art. 10ter del medesimo decreto. In particolare, si contesta l’evidente contrasto tra l’attuale formulazione dell’art. 13, D.Lgs. 74/2000 e i nuovi strumenti posti a disposizione del contribuente per l’adempimento dei debiti tributari in quanto all’imputato, impossibilitato ad estinguere il debito prima dell’apertura del dibattimento, era stata concessa la possibilità di accedere alla definizione agevolata con riferimento alla totalità delle imposte da versare (tra cui l’IVA oggetto di imputazione). Secondo la tesi difensiva, quindi, l’accordo tra il contribuente e l’Amministrazione avrebbe costituito uno strumento idoneo all’estinzione del debito tributario, ossia una delle speciali procedure menzionate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000. Rimarcata la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata del citato art. 13, la difesa lamenta anche la mancata possibilità di estinzione del debito secondo le formalità previste dal D.Lgs. 74/2000 poiché, con l’apertura della procedura di fallimento, l’imprenditore è vincolato alle modalità delle procedure concorsuali e non può procedere liberamente al pagamento integrale dei debitori.

La Suprema Corte, nel disattendere le censure sollevate, condivide l’impostazione dei giudici di merito, ritenendola immune da censure data la mancanza del presupposto dell’invocata causa di non punibilità.

Invero, l’art. 13, comma 1, D.Lgs. 74/2000 stabilisce che «i reati di cui agli artt. 10bis, 10ter e 10quater, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso».
Il mancato pagamento integrale del debito tributario, dunque, è ostativo all’operatività della disposizione in questione e il piano concordato con l’Amministrazione finanziaria rappresenta un mero elemento da valutare positivamente in relazione alla condotta dell’imputato.
La Corte di legittimità, in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, precisa che le speciali procedure conciliative di cui al D.L. 13 ottobre 2018, n.119, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2018, n.136 (e quelle analoghe previste dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 e dal D.L. 16 ottobre 2017, n.148) sono comprese tra quelle indicate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000 in coerenza con la finalità deflattiva della norma (in tal senso anche Cass. 9 dicembre 2020, n. 34940).

Il legislatore, infatti, nel disciplinare i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ha richiamato, al fine di incentivare la riscossione delle entrate tributarie, le «speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento» previste dalle norme tributarie. Più precisamente, gli accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie (c.d. “rottamazioni”) sono pacificamente inclusi nel novero delle procedure di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 poiché assicurano all’Erario il recupero delle somme dovute. A ciò deve aggiungersi che lo stesso art. 13, nel tentativo di garantire la ragionevole durata del processo e assicurare al contribuente il tempo necessario per definire l’adempimento del debito, prevede espressamente che sia concesso un termine di tre mesi (prorogabile una sola volta per non oltre tre mesi) per il pagamento del debito residuo nel caso in cui, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il debito sia in fase di estinzione mediante rateizzazione. La rateizzazione, però, comporta la semplice rimodulazione della scadenza, ma non esclude la configurabilità del reato in caso di mancata soddisfazione totale del debito allo scadere del termine prestabilito.

Giova ricordare, infatti, che la causa di non punibilità di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 opera se entro la dichiarazione di apertura del dibattimento interviene non l’accordo tra contribuente e Fisco, ma l’integrale pagamento del debito.

La causa di non punibilità del reato, tra l’altro, non incide sulla struttura del reato né sulla illiceità della condotta, con la conseguenza che l’accordo tra contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito rimane circoscritto all’ambito tributario e non produce conseguenze sul piano penale.

Accertato il meccanismo di operatività dell’art. 13, D.Lgs. 74/2000 e la conformità ai principi costituzionali (ossia un equo contemperamento tra il diritto di difesa dell’imputato, ragionevole durata del processo e necessità di tutela dell’Erario), la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso in quanto la mancata applicazione della causa di non punibilità invocata dalla difesa non è affetta da alcuna criticità formale e sostanziale. Quanto alla doglianza relativa alle procedure concorsuali, invece, il Collegio osserva che non sussiste alcuna incompatibilità tra la dichiarazione di fallimento e la prosecuzione del pagamento dei debiti accumulati precedentemente con il Fisco.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 9 dicembre 2020, n. 34940; Cass., sez. III, 24 ottobre 2018, n. 48375
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Integrazione reato di scambio elettorale politico-mafioso Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso può ritenersi integrato anche nel caso in cui il sostegno elettorale non produca un risultato positivo?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

L’art. 416ter, c.p., secondo la vigente formulazione cui bisogna far riferimento ratione temporis, incrimina l’accordo in forza del quale due o più soggetti si scambiano la promessa del procacciamento di voti presso l’elettorato – con modalità tipicamente mafiose – e l’erogazione di un corrispettivo in denaro o in altre utilità. Trattandosi di un reato di pericolo non è rilevante se il sostegno elettorale porti, o meno, ad un risultato positivo e, peraltro, l’esistenza dell’intesa per il procacciamento di consensi elettorali può desumersi anche mediante la valorizzazione di indici fattuali, sintomatici della natura dell’accordo. – Cass., sez. I, 14 marzo 2023, n. 10704.

La questione posta al vaglio della Suprema Corte riguarda la configurabilità del reato di scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416ter c.p., con particolare riferimento alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito.

Nel caso di specie il Tribunale in funzione di giudice del riesame aveva rigettato la richiesta presentata nell’interesse dell’indagato in relazione al provvedimento con il quale il Giudice per le indagini preliminari aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari.

La vicenda trae origine da un accordo, concluso tra l’odierno ricorrente e un esponente di un’associazione criminale di tipo mafioso, avente ad oggetto la promessa del procacciamento di voti in occasione delle elezioni amministrative in cambio della promessa di una sistemazione lavorativa e di altre utilità a beneficio del figlio dell’esponente del clan in questione.

L’imputato, a mezzo del suo difensore, ha presentato ricorso per cassazione denunciando un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito. La difesa ha censurato la decisione del Tribunale anche per aspetti strettamente processuali, quali la manifesta illogicità della motivazione in punto di gravità indiziaria, l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali per insussistenza della connessione qualificata ex art. 12, c.p.p., nonché la carenza della motivazione in tema di esigenze cautelari.

La Corte di Cassazione, pur ritenendo alcune deduzioni difensive non ammissibili in sede di legittimità in quanto integralmente versate in fatto, ha analizzato l’ambito applicativo dell’art. 416ter, c.p. richiamando, inevitabilmente, le varie formulazioni che si sono susseguite nel tempo.
Come anticipato, l’art. 416ter, c.p. punisce l’accordo in forza del quale più soggetti si scambiano la promessa del procacciamento di voti presso l’elettorato e l’erogazione di un corrispettivo in denaro o altra utilità, avvalendosi del vincolo di assoggettamento ed intimidazione derivante dall’appartenenza ad un sodalizio di tipo mafioso.

L’art. 416ter, c.p. è stato introdotto nel codice penale dal D.L. 8 giugno 1992, n.306, sotto la spinta emergenziale delle stragi di mafia, al fine di colpire già nella fase genetica l’insaturazione di rapporto tra il mondo della politica e quello dei sodalizi criminali. Tale disposizione è stata oggetto di significative modifiche, dapprima con la L. 17 aprile 2014, n. 62 e, da ultimo, con la L. 21 maggio 2019, n. 43.

La L. 62/2014 è intervenuta sia sul piano della condotta incriminata (notevolmente ampliata rispetto alla formulazione previgente), sia su quello della pena edittale comminata. In particolare, è stato espressamente specificato che l’oggetto della pattuizione illecita debba includere le modalità di acquisizione del consenso elettorale, tramite metodo mafioso come descritto nell’art. 416bis, comma 3, c.p., non essendo sufficiente il mero accordo sulla promessa di voti in cambio di denaro (in tal senso Cass. 31 agosto 2016, n. 36079). Il legislatore, quindi, ha introdotto un requisito modale dell’accordo che deve essere specificatamente accertato, ossia il vincolo di assoggettamento ed intimidazione derivante dall’appartenenza al sodalizio mafioso.

La novella legislativa, incriminando anche la condotta del soggetto che promette di procacciare i suffragi, ha trasformato il reato da plurisoggettivo improprio a plurisoggettivo proprio e, infine, ha ampliato l’oggetto della prestazione che non è più circoscritto al solo denaro, ma è esteso «ad altre utilità».
Applicando tali principi al caso di specie, il Collegio ha così motivato l’infondatezza dei primi motivi di ricorso, con i quali la difesa ha contestato un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito e la manifesta illogicità della motivazione in punto di gravità indiziaria.
Più precisamente, la Prima Sezione, tenendo conto dell’epoca in cui si colloca il fatto ascritto all’indagato, ha precisato che ai fini della configurabilità dell’art. 416ter c.p. rileva la mera promessa. Inoltre, nel richiamare un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ribadito che l’esistenza dell’intesa per il procacciamento di consensi elettorali con ricorso a modalità mafiose può desumersi anche in via indiziaria, mediante la valorizzazione di indici fattuali, quali la fama criminale del procacciatore, l’assoggettamento alla forza intimidatrice e l’utilità di tale apporto per il reclutamento elettorale nella zona d’influenza (così anche Cass. 14 giugno 2019, n. 26426).
La Corte, quindi, ha ritenuto il provvedimento impugnato non affetto da manifesta illogicità soprattutto alla luce della prova della consapevolezza del metodo mafioso. Invero, trattandosi di un reato di pericolo, è sufficiente che il procacciatore eserciti un condizionamento diffuso, fondato sulla prepotenza e sopraffazione – risultando irrilevante il raggiungimento di un risultato positivo – e che il politico sia consapevole dell’appartenenza dell’interlocutore a un sodalizio di tipo mafioso.
Da ultimo, la difesa ha contestato anche l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali per insussistenza della connessione qualificata – ex art. 12, c.p.p. – tra il reato di cui all’art. 416bis c.p. e quello di cui all’art. 416ter c.p.

I giudici di legittimità hanno invocato il principio affermatosi con le Sezioni Unite Cavallo (Cass. Sez. Un. 2 gennaio 2020, n. 51) secondo cui il divieto imposto dall’art. 270, c.p.p. non opera quando tra i reati vi sia connessione qualificata, con la conseguenza che il provvedimento autorizzativo delle intercettazioni può essere validamente ricondotto ad un reato diverso da quello per cui è stato espressamente rilasciato (fermo restando che si tratti di fattispecie inclusa nel novero di cui all’art. 266 c.p.p.).

Ciò premesso, nel disattendere questo motivo di doglianza, è stato ribadito che quando si parla di reato si fa riferimento non al “titolo di reato”, ma al “fatto-reato” (inteso come determinato accadimento storico inquadrabile in una fattispecie criminosa) e che il rapporto di connessione qualificata riguarda i “fatti-reato” nella loro espressione oggettiva.

In particolare, essendo applicabile la previgente formulazione dell’art. 270 c.p.p., i risultati delle intercettazioni autorizzate per un determinato fatto-reato sono utilizzabili anche per gli ulteriori fatti-reati, legati al primo dal vincolo della continuazione ex art. 12, lett. b), c.p.p., senza la necessità che il disegno criminoso sia comune a tutti i correi (in tal senso Cass. 29 settembre 2021, n. 37697).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 14 giugno 2019, n. 26426
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Mantenimento figli e trattenute stipendio Ai fini della determinazione del reddito da lavoro dipendente funzionale alla determinazione del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, occorre prendere in considerazione ogni trattenuta effettuata dal datore di lavoro?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

In tema di assegno divorzile e di contributo al mantenimento del figlio, la determinazione del reddito da lavoro dipendente del soggetto a carico del quale sono richieste quelle prestazioni impone di tenere conto delle ritenute fiscali e contributive operategli in busta paga sulla retribuzione, mentre il rilievo attribuibile, per il medesimo fine, ad altre trattenute ivi eventualmente effettuategli dal datore di lavoro può variare a seconda del loro specifico titolo, dovendosi valutare il grado di necessità del corrispondente esborso. – Cass., sez. I, 3 marzo 2023, n. 6515.

La questione oggetto della pronuncia della Suprema Corte trae origine dal caso di un genitore con una retribuzione netta di media di circa 1.500,00 mensili, gravata da pesanti oneri finanziari (in particolare, una cessione di Euro 397,00 e un prestito di Euro 347,00) che è stato condannato dal Tribunale al pagamento, a titolo di contributo per il mantenimento della prole, di Euro 300,00 per il figlio e di Euro 300,00 a titolo di assegno divorzile.

In sede di impugnazione, la Corte d’Appello ha rideterminato in Euro 250,00 sia l’assegno divorzile che il contributo in favore del figlio.

Avverso tale pronuncia la ricorrente ha adito i Giudici della Suprema Corte denunciando, per quanto qui di rilievo, la violazione e falsa applicazione della L. 898/1970, art. 5, comma 6 e dell’art. 316bis c.c. e della Costituzione, artt. 2 e 29.

In particolare, la censura muove dall’assunto che non ogni trattenuta che venga operata in busta paga sulla retribuzione di un lavoratore dipendente debba essere presa in considerazione ai fini della determinazione del suo reddito.

Si lamenta che la Corte territoriale avrebbe disposto la riduzione dell’assegno valorizzando, sic et simpliciter, in modo indiscriminato, gli oneri finanziari gravanti sullo stipendio di controparte, senza prendere in considerazione le ragioni poste a fondamento dei medesimi.

La Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato.

In particolare, ha affermato che non ogni trattenuta che viene operata in busta paga sulla retribuzione di un lavoratore dipendente va presa in considerazione ai fini della determinazione del suo reddito. La Corte opera una distinzione tra le ritenute fiscali e contributive, che certamente vanno prese in considerazione perché la loro applicazione da luogo alla determinazione del reddito disponibile da parte del soggetto, e le altre trattenute eventualmente operate dal datore di lavoro, le quali corrispondono, nella generalità dei casi, a titoli che, a differenza dei primi, non prescindono dalla volontà dell’obbligato e derivano, invece, da suoi atti di disposizione.

Secondo la Corte, il rilievo attribuibile a tali ritenute, in sede di determinazione della condizione economica del coniuge ai fini dell’assegno di separazione, può variare a seconda del loro specifico titolo, dovendosi valutare il grado di necessità del corrispondente esborso.

Nell’accogliere il ricorso, dunque, la Corte rammenta che sarebbe stato necessario, laddove la sentenza impugnata ha proceduto alla riduzione dell’entità dell’assegno, che la Corte avesse verificato da cosa fossero concretamente scaturite le altre trattenute operate in busta paga dal datore di lavoro, evidentemente derivanti, da atti di disposizione di quest’ultimo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 21 giugno 2012, n. 10380
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Sentenza divorzio effetti accordi a latere Gli accordi intervenuti a latere della separazione sono idonei a produrre effetti dopo la sentenza di divorzio?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Non è possibile postulare una generalizzata impossibilità, per tutti gli accordi intervenuti a latere del procedimento di separazione, di mantenere efficacia anche dopo la sentenza di divorzio, così negando ogni valore all’autonomia privata, con violazione dell’art. 1322 c.c. – Cass. III, 21 febbraio 2023 n. 5353.

La questione oggetto della pronuncia della Suprema Corte trae origine dal caso di una donna che, a seguito del divorzio, ha notificato all’ormai ex marito, un precetto con il quale ha invitato quest’ultimo a pagare una somma ritenuta dovuta in forza di un accordo stipulato tra le parti a latere della pronuncia di separazione.

In particolare, le parti, dopo avere depositato ricorso per la separazione avevano stipulato un accordo, ad integrazione della domanda in punto di mantenimento della prole, mediante il quale il padre si impegnava alla corresponsione di una somma ulteriore.

L’opposizione proposta dal presunto debitore è stata accolta dal giudice di prime cure con decisione confermata anche in appello, sul rilievo che l’accordo intervenuto tra gli ex coniugi, “a latere” del procedimento di separazione consensuale dagli stessi incardinato, fosse stato superato dal divorzio giudiziale, avendo tale provvedimento rideterminato le condizioni economiche previste in sede di separazione.

Avverso tale pronuncia, la creditrice ha presentato ricorso in cassazione basato su due distinti motivi: con il primo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 1322 c.c. In particolare, è stato evidenziato che non fosse possibile “tout court” affermarsi, se non in violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1322 c.c. che le obbligazioni contemplate in tali tipi di accordi, si estinguano automaticamente al momento del divorzio.

Con il secondo motivo, invece, è stata denunciata la falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. poiché, a dire della ricorrente, in applicazione del suddetto articolo, l’accordo doveva interpretarsi nel senso che “la durata dell’obbligazione era (ed è) stabilita per relationem, ossia in riferimento alla sussistenza dell’obbligo di mantenere i figli, a prescindere dal divorzio”.

A parere della ricorrente, infatti, dal momento che, nella specie, la lettera dell’accordo deponeva nel senso di collegare l’obbligo nascente dall’accordo al mantenimento della prole, esso era destinato a permanere anche nella sua natura “integrativa” rispetto a quanto previsto nel ricorso per la separazione consensuale dei coniugi, solo al venir meno di tale obbligo, prescindendo così dalle vicende relative alla cessazione degli effetti del loro mantenimento.

I giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso ma hanno deciso di correggere la motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c., ritenendo sussistere un vizio di motivazione su questione di diritto.

In particolare, la Corte ha affermato che la Corte d’Appello, negando a priori ogni valore all’autonomia privata, con violazione dell’art. 1322 così postulando una generalizzata impossibilità per tutti gli accordi intervenuti a latere del procedimento di separazione, di mantenere efficacia anche dopo la sentenza di divorzio, si è sottratta al dovere di esaminare il contenuto della pattuizione sottoposta al suo vaglio.

La Suprema Corte ritiene che siffatta affermazione si ponga in contrasto con il principio secondo cui tanto in caso di separazione consensuale che di divorzio congiunto “i coniugi possono concordare con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare”.

La Suprema Corte, tuttavia, esclude che tale rilievo possa giovare alla ricorrente, ritenendo i motivi di ricorso infondati. In particolare, la Corte specifica che la convenzione stipulata tra le parti nel caso di specie non sia idonea ad integrare un titolo esecutivo giudiziale, non rivestendo la forma dell’atto pubblico né della scrittura privata autenticata.

La Corte aggiunge, infine, che ove si fosse preteso, circostanza nemmeno invocata dalla ricorrente, di attribuire all’accordo efficacia “integrativa” del titolo giudiziale, sarebbe occorso che tale circostanza risultasse dal titolo stesso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066
giurista risponde

Collocamento figli conviventi more uxorio Quali sono i presupposti per l’adozione dei provvedimenti di collocamento dei figli dei conviventi more uxorio e di assegnazione della casa familiare?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Il Giudice, ai sensi degli artt. 337bis c.c. e seguenti, a fronte dell’avvenuta cessazione della convivenza more uxorio ed in assenza di una volontà comune e concorde dei genitori, già conviventi di fatto, alla prosecuzione della convivenza ad altro titolo, è tenuto a pronunciarsi sul collocamento dei figli e sull’assegnazione della casa coniugale, non essendo necessario accertare “l’intollerabilità della convivenza”. – Cass., sez. I, 7 marzo 2023, n. 6810.

Lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 337bis, 337ter e seguenti, il genitore non collocatario delle figlie minori ha presentato ricorso avverso la pronuncia della Corte d’Appello con la quale è stato disposto il collocamento prevalente delle figlie presso la madre e l’assegnazione a suo favore della casa familiare.

In particolare, il ricorrente ha censurato la scelta della Corte d’Appello di accogliere la domanda di collocamento delle figlie presso la madre cui ha assegnato la casa familiare ritenendo che la decisione si sia fondata, erroneamente, sull’apodittica affermazione dell’esistenza di una intollerabilità della convivenza, senza considerare che anche se era venuto meno il progetto affettivo della coppia, il comune interesse per la crescita e l’educazione della prole era idoneo a giustificare la scelta del Tribunale, il quale aveva, invece, deciso di non pronunciarsi su tale domanda.

Secondo la Suprema Corte, il ricorso va respinto in quanto in parte inammissibile poiché afferente a circostanza non decisiva (intollerabilità della convivenza) ed in parte infondato.

La Suprema Corte premette che per la famiglia di fatto non trova applicazione l’art. 151, comma 1, c.c. laddove stabilisce che “la separazione può essere chiesta quando si verificano anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole” perché nella convivenza di fatto more uxorio la scelta di coabitare è libera e non consegue ad un obbligo giuridico.

Ciò premesso, secondo la Suprema Corte, la Corte d’Appello avrebbe correttamente ritenuto che il Tribunale avesse omesso la doverosa pronuncia in merito al collocamento e all’assegnazione, ed avendo preso atto della volontà comune di non proseguire nel progetto di coppia, avrebbe correttamente statuito in merito all’assegnazione della casa familiare ed alla collocazione privilegiata del minore presso al madre.

La Corte, infine, specifica che la pronuncia sul collocamento dei minori e sull’assegnazione della casa coniugale prescinde dalla ricorrenza o meno di una intollerabilità della convivenza, essendo all’uopo sufficiente, per l’adozione dei provvedimenti in esame, l’avvenuta cessazione della convivenza more uxorio in assenza di una volontà comune e concorde dei genitori, già conviventi di fatto, alla prosecuzione della convivenza ad altro titolo.

 

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Copertura assicurativa per fatto del terzo La copertura assicurativa è esclusa se la responsabilità dell’assicurato sorge dal fatto del terzo ex art. 1228 cc.?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Un’interpretazione del contratto di assicurazione della responsabilità civile, in virtù della quale la copertura è esclusa se la responsabilità dell’assicurato dovesse sorgere dal fatto del terzo ex articolo 1228 c.c., non è coerente con lo scopo del contratto, a meno che quest’ultimo non contenga un’espressa clausola di esclusione della copertura in caso di responsabilità dell’assicurato “per fatto altrui” di cui all’art. 1228 c.c. – Cass., sez. III, 7 marzo 2023, n. 6727.

Nel 1997 la Banca Nazionale del Lavoro, dovendo consegnare valori alla Poste Italiane S.p.A. li affidava per il trasporto alla società X la quale aveva stipulato un’assicurazione contro i rischi derivanti dal trasporto con la società Y. La società X affidava il trasporto di un valore consistente di denaro alla società Z la quale, a sua volta, aveva stipulato un’assicurazione contro i rischi derivanti dal trasporto con la società G. ed aveva contestualmente affidato la gestione del trasporto alla società S. La società S. aveva stipulato contratto assicurativo contro i rischi derivanti dal trasporto con la stessa società G.

Il furgone con il quale la società S. stava effettuando il trasporto viene assaltato e rapinato a mano armata sulla autostrada Salerno-Reggio Calabria; in conseguenza, tutti i valori venivano trafugati.

Con il quesito di diritto si chiede alla Corte di Cassazione di intervenire in tema di assicurazione civile sulla distinzione tra assicurazione per conto proprio e per conto altrui.

La Corte di Appello aveva, infatti, ritenuto che la copertura della responsabilità civile derivante dall’attività del sub vettore era prevista dal contratto solo a favore del contraente e non a favore di eventuali altri terzi sub vettori.

I giudici di legittimità non condividono questo assunto che confonde l’attività dell’assicurato, potenzialmente fonte di danno a terzi e coperta dal contratto di assicurazione della responsabilità civile, con lo stabilire quali siano i soggetti che possono invocare la polizza direttamente nei confronti dell’assicuratore. La Corte di Cassazione, preliminarmente stabilisce se la polizza stipulata dal vettore a copertura della propria responsabilità, fosse limitata alla responsabilità diretta ex art. 1218 c.c. o coprisse anche quella indiretta ex art. 1228 c.c.

La Suprema Corte rammenta che l’assicurazione di responsabilità civile può essere stipulata per conto proprio o per conto altrui (art. 1891 c.c.).

L’assicurazione di responsabilità civile stipulata per conto proprio copre il rischio di impoverimento del contraente; quella per conto altrui copre il rischio di impoverimento di persone diverse dal contraente, a prescindere dal fatto che quest’ultimo debba rispondere del loro operato.

La distinzione tra assicurazione per conto proprio e assicurazione per conto altrui si distingue fermamente dalla distinzione tra assicurazione della responsabilità civile per fatto proprio e assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui.

Nel primo caso la distinzione si fonda sulla sussistenza o meno, in capo al medesimo soggetto, della qualità di contraente o di assicurato. Si avrà assicurazione per conto altrui ex art. 1891 c.c. quando il contraente non è il titolare dell’interesse esposto al rischio ai sensi dell’art. 1904 c.c. Diversamente si avrà assicurazione per conto proprio quando il contraente della polizza è altresì titolare dell’interesse assicurato.

In caso di assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui, invece, la distinzione si fonda sul titolo della responsabilità dedotta ad oggetto del contratto.

Pertanto, nel caso di assicurazione per responsabilità civile per fatto proprio, l’assicuratore copre il rischio di impoverimento derivante da una condotta tenuta personalmente dall’assicurato; nel caso di assicurazione per responsabilità civile per fatto altrui, l’assicuratore copre il rischio di impoverimento dell’assicurato derivante da fatti commessi da persone del cui operato quello debba rispondere.

L’assicurazione per responsabilità civile si dirà per conto proprio o altrui a seconda di quale sia l’interesse assicurato; allo stesso modo, si dirà per fatto proprio o per fatto altrui a seconda di quale sia il rischio assicurato. In virtù della distinzione strutturale tra i due tipi, le stesse possono cumularsi.

Si potrà quindi stipulare: una assicurazione della responsabilità propria sia per fatto proprio che per fatto altrui che una assicurazione della responsabilità altrui sia per il fatto dell’assicurato che per il fatto di persone del cui operato l’assicurato debba rispondere.

Il vettore, pertanto, potrebbe teoricamente assicurare: la responsabilità propria, sia per fatto proprio che per fatto dipendente da colpa dei dipendenti o degli incaricati compresi i sub vettori; che la responsabilità civile dei sub vettori, configurandosi un’assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui ex art. 1891 c.c.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 21 novembre 2019, n. 30314; Cass., sez. III, 5 giugno 2020, n. 10825
giurista risponde

Marchi, segni distintivi e responsabilità del fornitore È conforme all’art. 3, comma 1, direttiva 85/374/CEE l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, soltanto perché quest'ultimo abbia una denominazione, marchio o segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Va rimessa alla Corte di giustizia la questione se sia conforme all’art. 1, comma 1, direttiva 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché il fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore. – Cass., sez. III, ord. 6 marzo 2023, n. 6568.

Nel caso di specie il ricorrente conveniva in giudizio la X S.p.A. quale venditrice e la Y S.p.A. quale produttrice della propria auto, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in un sinistro automobilistico in cui non aveva funzionato l’air-bag della vettura.

La Y S.p.A., costituitasi in giudizio, resisteva negando di essere la produttrice, qualificando Y1 S.p.A., appartenente al suo stesso gruppo industriale, come tale. Eccepiva di non essere responsabile del difetto del prodotto lamentato, in quanto il fornitore non ne risponde se il produttore è individuato e comunque ne risulta comunicata l’identità al consumatore, come avvenuto nel caso di specie.

Il Tribunale accoglieva la domanda attorea dichiarando la responsabilità extracontrattuale della convenuta per difetto di fabbricazione dell’air-bag.

La società presenta ricorso e chiede, se necessario, il rinvio pregiudiziale alla CGUE.

Il nucleo della questione da dirimere è se ritenere sussistente la responsabilità della società Y S.p.A. per il suo trovarsi in una posizione equiparata a quella del produttore non evocato.

Il ricorrente richiama la nozione di “produttore” ai sensi dell’art. 3, D.P.R. 224/1988 quale “fabbricante del prodotto finito o di una sua componente e il produttore della materia prima” con l’estensione per cui “si considera produttore anche chi si presenti come tale apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla sua confezione”. La ratio dell’estensione della responsabilità va rinvenuta nei “considerando” della Direttiva secondo cui “ai fini della protezione del consumatore è necessario considerare responsabili tutti i partecipanti al processo produttivo” se il prodotto o parte di esso è difettoso e quindi anche di chi “si presenti come produttore apponendo il suo nome, marchio o altro segno distintivo o fornisca un prodotto il cui produttore non possa essere identificato”.

La logica è quella di sanzionare, con l’estensione della responsabilità, un preciso contegno commissivo, e non puramente omissivo del fornitore che aggiunga per sue ragioni (pubblicitarie, commerciali o di altro tipo) al marchio di fabbrica il marchio proprio, così impedendo al consumatore di distinguere con certezza il produttore dando luogo ad un “comportamento confusorio del fornitore” che se ne avvantaggia e che pertanto del marchio deve ricavare responsabilità come quella del produttore per aver indotto in confusione anche il consumatore.

La Direttiva specifica che quando non può essere individuato il produttore del prodotto si considera tale il fornitore a meno che quest’ultimo comunichi al danneggiato, entro un termine ragionevole, l’identità del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto.

Nel caso in esame, però, la Y S.p.A., secondo i giudici di primo grado verrebbe a condividere la qualità di produttrice di Y1 S.p.A. per aver apposto il proprio nome sul prodotto.

Va chiarito, allora, cosa debba intendersi per apposizione del nome ovvero se l’apposizione debba essere soltanto una materiale impressione dell’elemento distintivo sul prodotto o se l’apposizione sia lato sensu e dunque includa pure la presenza dell’elemento distintivo rinvenibile sul prodotto anche nei dati identificativi del soggetto che in tal modo si presenta come produttore.

La ricorrente, sulla base di un precedente giurisprudenziale argomenta sul principio per cui il distributore o l’importatore rispondono del danno causato dal vizio costruttivo del prodotto, se abbiano un marchio o una ragione sociale coincidenti in tutto od in larga parte con quelli del produttore, e sotto tali segni distintivi abbiano commercializzato il prodotto.

Questo indirizzo si fonda in termini oggettivi sulla coincidenza del marchio o della ragione sociale del soggetto fornitore che così viene equiparato al produttore ai fini della condivisione della responsabilità verso il consumatore.

Ma nel caso di specie, la Y S.p.A. e la Y1 S.p.A., appartenenti al medesimo gruppo industriale, condividono nella loro denominazione l’elemento “Y”, senza che la prima si sia attivata per apporre sul prodotto un elemento per creare confusione al consumatore.

La tutela del consumatore effettuata mediante l’estensione della responsabilità del produttore a chi produttore non è ma ne condivide significativi dati esterni è offerta solo quando l’apposizione del marchio è effettuata da chi non è produttore per volutamente fruire di un’ambiguità rispetto al produttore? O, invece, va estesa anche quando produttore e non produttore condividono, come nel caso di specie, comunque e oggettivamente elementi nella denominazione alquanto consistenti nei propri dati identificativi?

Ci si chiede, pertanto, se la condivisione di elementi identificativi adeguati a confondere deve ritenersi frutto di una intenzionale specifica apposizione perché sia rafforzata la tutela del consumatore oppure anche una semplice coincidenza va ricondotta a un’attività di confondere i soggetti da sanzionare oggettivamente con la responsabilità paritaria rispetto all’effettivo produttore?

Il collegio, se da un lato apprezza la soluzione che tutela più intensamente il consumatore, dall’altro è ben consapevole che sarebbe sostenibile anche la linea offerta dal ricorrente. Per tale ragione rimette la questione in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, ord. 7 dicembre 2017, n. 29327
giurista risponde

Sottoscrizione del contratto falsificata Il contratto è valido se il soggetto la cui sottoscrizione viene falsificata ne è a conoscenza, ovvero se ne avvale?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Il contratto (nella specie, di garanzia) cui sia stata apposta firma apocrifa del legale rappresentante della società apparentemente firmataria è privo di effetti nei confronti della società stessa, ma può essere recepito nella sua sfera giuridica, in applicazione analogica dell’art. 1399 c.c., qualora questa, a mezzo di atti o comportamenti concludenti, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi, manifesti univocamente la volontà di avvalersene. – Cass., sez. III, 22 febbraio 2023 n. 5479.

Nel caso di specie, la società X di Y.Z. presentava un progetto finalizzato all’ottenimento di agevolazioni finanziarie al Ministero delle Attività Produttive che l’ammetteva alle agevolazioni richieste concedendo un contributo in conto impianti da erogarsi in tre rate e subordinava l’erogazione del contributo alla presentazione di una garanzia fideiussoria da parte della società, finalizzata a garantire l’eventuale restituzione del contributo ricevuto. La società Gamma prestava la garanzia a prima richiesta nell’interesse della società X di Y.Z. fino a concorrenza dell’importo della prima tranche. Dopo quattro anni, il Ministero, ritenuto che la società non avesse rispettato le condizioni necessarie per fruire del beneficio, chiedeva la restituzione del contributo e veniva escussa la polizza fideiussoria. La società garante, dopo aver pagato e chiesto invano la restituzione dell’importo alla società garantita, agiva in regresso. Fatta opposizione, nel corso del giudizio di primo grado emergeva, a seguito di consulenza grafica, che la firma Y.Z. apposta sul contratto di concessione della polizza fideiussoria era falsa.

Il Tribunale rigettava l’opposizione affermando che, anche se la firma era falsa, la polizza era pur sempre riconducibile alla società che l’aveva fatta propria producendola al Ministero per ottenere l’agevolazione concordata.

La Corte di Appello confermava la sentenza del Tribunale ed aggiungeva che, depositando la polizza fideiussoria al Ministero, la società aveva realizzato una condotta specificatamente diretta ad avvalersi del contratto di garanzia pur malamente stipulato sopportandone ogni conseguenza.

Avverso la sentenza era proposto ricorso per Cassazione dal X.Y. denunciando nullità o inesistenza del contratto di garanzia per falsità della sottoscrizione del legale rappresentante della società. Il ricorso era rigettato.

La Corte di Cassazione riteneva che i fatti indicano che si è verificata non una attività svolta da un falsus procurator, quanto la distinta ipotesi di contratto stipulato sotto nome altrui o con sostituzione di persona, pur con la decisiva variante che il falso nome è stato usato da colui che ha agito come rappresentante legale della società. Nel caso di specie non si è verificato che una persona, correttamente identificata, abbia agito in nome e per conto della società assumendo di averne i poteri, dei quali era sprovvisto. Vi è stata, invece, la sottoscrizione della polizza fideiussoria da parte di persona rimasta sconosciuta che ha firmato, in qualità di debitore, con il nome di X.Y. Il contratto è poi stato utilizzato dalla garantita per accedere ai finanziamenti.

Il contratto in tal modo stipulato non è nullo ma improduttivo di effetti nella sfera giuridica dell’apparente firmatario, a meno che questi non lo faccia proprio. Occorre distinguere le ipotesi in cui l’autore della dichiarazione abbia voluto per sé il risultato del negozio, ovvero abbia inteso attribuirlo al titolare del nome dato, dovendosi procedere di volta in volta ad una operazione ermeneutica del comune volere dei contraenti. Nel caso di specie, l’usurpatore non ha riferito il contratto a sé stesso, né alla persona di cui ha usato il nome bensì alla società. La statuizione finisce per essere assimilabile ad una spendita indebita del nome della società.

In questa situazione, allora, è possibile, mediante l’applicazione analogica delle norme sulla rappresentanza, la ratifica da parte della società, da accertarsi in concreto con esame dei comportamenti concludenti che integrino la manifestazione della volontà di avvalersi del contratto di garanzia. Ciò è accaduto nel caso di specie in cui la società, portata formalmente a conoscenza dell’avvenuta prestazione di garanzia da parte della garante, non soltanto non l’ha immediatamente disconosciuta, denunciando la falsità della firma ed esplicitando che il proprio legale rappresentante non aveva mai sottoscritto il contratto, ma se ne è avvalsa nell’ambito procedimentale del finanziamento chiesto al Ministero. Il successivo disconoscimento della firma sul contratto, effettuato solo in sede di opposizione a decreto ingiuntivo e neppure accompagnato da una denuncia penale, avvalorano la tesi che conduce al rigetto del ricorso e all’affermazione del principio di diritto per cui “Il contratto (nella specie, di garanzia) cui sia stata apposta firma apocrifa del legale rappresentante della società apparentemente firmataria è privo di effetti nei confronti della società stessa, ma può essere recepito nella sua sfera giuridica, in applicazione analogica dell’art. 1399 c.c., qualora questa, a mezzo di atti o comportamenti concludenti, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi, manifesti univocamente la volontà di avvalersene”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 10 novembre 2016, n. 22891
giurista risponde

Riparto competenze attività sanitaria e sociosanitaria Come si snoda il riparto di competenze tra Comune e Regione nell’esercizio dell’attività sanitaria e socio-sanitaria?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nella Regione Puglia, la legge regionale 9/2017 disciplina gli istituti dell’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio dell’attività sanitaria e socio-sanitaria, dell’accreditamento istituzionale e degli accordi contrattuali, in conformità alla sequenza prevista dagli artt. 8ter e ss., D.Lgs. 502/1992. – Cons. Stato, sez. III, 6 febbraio 2023, n. 1267.

I Giudici hanno evidenziato che ai fini dell’apertura delle strutture sanitarie e socio-sanitarie è richiesta l’autorizzazione, definita dall’art. 2, comma 1, lett. a), L.R. 9/2017 come “un provvedimento con il quale si consente di destinare, con o senza lavori, un immobile o parte di esso a struttura sanitaria e socio-sanitaria pubblica o privata”.

L’art. 7, L.R. 9/2017 cit. prevede che l’istanza di autorizzazione, corredata del titolo di proprietà, del diritto reale di godimento o altro titolo legittimante, del progetto con relative planimetrie e del permesso di costruire o altro titolo abilitativo edilizio, deve essere indirizzata al Comune competente per territorio, tenuto, dapprima, a verificare la conformità dell’intervento alla normativa urbanistica ed edilizia, unitamente alla sussistenza del titolo di proprietà, del diritto reale di godimento o altro titolo legittimante; successivamente, a richiedere alla Regione Puglia la specifica verifica di compatibilità (ex art. 3, comma 3, lett. a), L.R. 9/2017 cit.).

La Regione, poi, valuta l’iniziativa alla stregua della programmazione sanitaria regionale, in termini di fabbisogno (programmazione dell’offerta) e in termini di localizzazione territoriale (distribuzione delle strutture) e applica, sulla base della DGR 2037/2013, il criterio cronologico di presentazione delle richieste da parte dei Comuni.

Orbene, nell’eventualità in cui più richieste di parere di compatibilità, afferenti a un numero di posti letto complessivo eccedente il fabbisogno territoriale, vengano trasmesse nel medesimo bimestre, la verifica di compatibilità viene resa dopo aver messo in concorrenza le iniziative, alla luce dei criteri previsti dalla DGR 2037/2013 cit.

Nel caso di specie, il procedimento per il rilascio, in favore della società appellante, dell’autorizzazione alla realizzazione della RSA, con dotazione di trenta posti letto per anziani e di dieci posti letto per soggetti affetti da demenza, si prolungava in ragione della diversa scansione dei bimestri, per effetto della sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi di cui alla normativa emergenziale per il Covid-19.

Nelle more, un altro soggetto presentava analoga istanza autorizzatoria per la realizzazione di una RSA di mantenimento in un comune limitrofo, che, essendo stata esaminata in tempi più brevi, ne conseguiva parziale saturazione del fabbisogno.

Ciò premesso, per i Giudici va affermato che: “L’art. 7, comma 1 della L.R. 9/2017 non richiede il previo rilascio del permesso di costruire, ma necessita dell’attestazione della conformità urbanistica dell’intervento in progetto: tenuto conto della prescrizione recata dall’art. 33 delle NTA del PRG, che qualifica la zona “AS” come area pubblica, la presentazione del permesso di costruire convenzionato, costituisce un presupposto indefettibile per ottenere l’attestazione di conformità del progetto alle norme di attuazione del PRG”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 21 settembre 2021, n. 6422;
Cons. Stato, sez. III, 14 novembre 2017, n. 5250;
Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2008, n. 1201