giurista risponde

Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

 

Contributo in tema di “Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Assicurazione responsabilità civile e clausola claims made In tema di assicurazione della responsabilità civile in ambito sanitario è valida la clausola claims made che preveda l’ultrattività della polizza per un periodo inferiore a dieci anni?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

In tema di assicurazione della responsabilità civile, la clausola claims made che non preveda un periodo di ultrattività decennale della polizza conforme alla previsione di cui all’ art. 11 L. 24/2017 non può essere dichiarata per ciò solo nulla, dovendosi piuttosto procedere a verificare se nel caso concreto, anche alla luce del rapporto tra rischio e premio, risulti effettivamente svuotare di ogni ragion pratica il contratto. – Cass., sez. III, 12 marzo 2024, n. 6490.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della compagnia di assicurazioni avverso la sentenza della Corte d’Appello che, dichiarata la nullità della clausola che limitava la validità della polizza al caso di richieste formulate entro dodici mesi dalla scadenza della stessa, l’ aveva sostituita con la clausola di ultrattività decennale di cui all’art. 11 L. 24/2017 in tema di responsabilità sanitaria.

I Giudici di legittimità ricordano a proposito che il potere di sostituzione della clausola claims made tratteggiato con la sentenza Cass., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437 presuppone anzitutto un corretto accertamento della nullità contrattuale e poi una corretta individuazione del sostrato sostitutivo che realizzi un equo contemperamento delle posizioni dei contraenti.

Nel caso di specie, invece, il giudice a quo era intervenuto ravvisando un “buco di copertura” dovuto alla mancata previsione di una clausola di ultrattività decennale, senza ulteriormente motivare se la specifica conformazione della clausola di ultrattività annuale, riguardata alla luce del rapporto tra rischio e premio, svuotasse effettivamente di ogni ragion pratica il contratto.

In altri termini la Corte d’Appello aveva considerato la previsione contenuta nel secondo periodo dell’art. 11, della legge Gelli Bianco quale regola generale in tema di copertura assicurativa in ambito sanitario, sanzionando con la nullità la convenzione non aderente a detto paradigma.

La Suprema Corte censura il difetto di motivazione e l’omessa indagine in concreto in ordine all’idoneità della clausola a realizzare gli interessi delle parti.

Si tratta di un’omissione ancor più significativa se si considera che in altre sedi la clausola claims made con previsione di ultrattività annuale è stata ritenuta valida dalla giurisprudenza di legittimità.

Infine, rileva che l’ultrattività decennale è prevista per la sola ipotesi della cessazione definitiva dell’attività professionale e che pertanto non costituisce un modello inderogabile in materia di assicurazioni sulla responsabilità civile del medico.

Contributo in tema di “Assicurazione della responsabilità civile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Assegno divorzile e incentivo all’esodo L’assegno divorzile può essere riferito anche all’incentivo all’esodo, oltre che al trattamento di fine rapporto (ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970)?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

La quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1979, al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, concerne non tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; tra esse non è pertanto ricompresa l’indennità di incentivo all’esodo con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro. – Cass., Sez. Un., 7 marzo 2024, n. 6229.

La vicenda è quella di due ex coniugi, uno dei quali si è visto riconosciuto il diritto all’assegno di divorzio ex art. 5, comma 6, L. 898/1970, mentre l’altro aveva conseguito somme a titolo di indennità di fine rapporto (a cui si riferisce l’art. 12bis della legge citata) e di incentivo all’esodo. Più nello specifico, il giudizio di primo grado fra le due parti si era concluso nel senso del riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio, il cui importo è stato però determinato tenendo conto del solo trattamento di fine rapporto. La pronuncia veniva confermata in appello, con un discostamento da un precedente di legittimità favorevole a riferire il menzionato art. 12bis anche all’incentivo all’esodo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171). Si è quindi ricorso in Cassazione, con successiva rimessione alle Sezioni Unite.

È opportuno, preliminarmente, prendere le mosse dall’analisi del dato normativo. L’art. 12bis, L. 898/1970 stabilisce che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e se titolare dell’assegno di cui all’art. 5 della medesima, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, anche se maturata dopo la sentenza. Tale indennità è pari al 40% dell’indennità riferibile agli anni di coincidenza fra rapporto di lavoro e matrimonio.

L’incentivo all’esodo, invece, è la prestazione cui è tenuto il datore di lavoro a fronte della disponibilità del lavoratore ad addivenire allo scioglimento anticipato del rapporto di prestazione d’opera, oggetto di accordo negoziale.

Si evidenzia l’esistenza di un contrasto, relativo alla natura dell’incentivo all’esodo e, in conseguenza, della riferibilità ad esso dell’art. 12bis (testualmente riferito solo all’indennità di fine rapporto).

Per un primo orientamento, infatti, la menzionata norma sarebbe riferita a ogni indennità di natura retributiva, comunque ricollegabile all’apporto fattuale indiretto del coniuge percettore dell’assegno divorzile, e derivante dalla risoluzione del rapporto di lavoro svolto in costanza di matrimonio. Le somme erogate a tale titolo costituirebbero reddito da lavoro dipendente, in quanto finalizzate a sollecitare e remunerare una vera e propria controprestazione, consistente nel consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata. A sostegno di tale soluzione si evidenzia altresì la parificazione, da parte del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (artt. 17 e 19, D.P.R. 917/1986), delle discipline del trattamento di fine rapporto e dell’incentivo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171).

Per un secondo orientamento, invece, l’art. 12bis farebbe riferimento all’indennità menzionata ed unicamente ad essa. Sarebbe riferito, più nello specifico, all’indennità – comunque denominata – che maturi alla cessazione del rapporto di lavoro e che sia determinata in proporzione alla durata dello stesso e all’entità della retribuzione corrisposta (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294).

L’indennità di fine rapporto non è più determinata in base all’ultima retribuzione del prestatore, ma sui compensi tempo per tempo erogatigli e periodicamente rivalutati: in sintesi, si tratta di un compenso ancorato allo sviluppo economico della carriera, e gli è comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita (per tutte: Cass. 8 gennaio 2016, n. 164 e Cass. 14 maggio 2013, n. 11479). Tenendo presente ciò, si rende ben evidente la ratio dell’art. 12bis, L. 898/1970, che ha le stesse finalità – assistenziale e perequativo-compensativa – dell’assegno divorzile: in base al principio di solidarietà, si riconosce un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, deve tener conto non solo del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Si deve, cioè, far sì di appianare la condizione di squilibrio riconducibile al sacrificio di aspettative professionali e reddituali, conseguente all’assunzione di un ruolo all’interno della famiglia. La ratio solidaristica e assistenziale dell’art. 12bis viene evidenziata, peraltro, anche nei relativi lavori parlamentari, ed altresì dalla Consulta (Corte cost. 24 gennaio 1991, n. 24). Si attua una partecipazione, posticipata, che realizza non solo una funzione assistenziale, ma anche una compensativa, ovvero è rapportata al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (Cass. 30 dicembre 2005, n. 28278).

L’automatismo percentuale di cui all’art. 12bis, rilevano le Sezioni Unite in commento, si giustifica solo in base alla condivisione della medesima ratio dell’assegno divorzile. D’altronde, ciò a cui si partecipa in base all’art. 12bis è una porzione reddituale maturata nel corso del rapporto e accantonata periodicamente, che diviene esigibile al momento della cessazione del rapporto: si tratta, quindi, di un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che si è sacrificato. È quindi assai significativo, in tal senso, il riferimento agli anni in cui il rapporto è coinciso con il matrimonio (art. 12bis, comma 2).

Tale digressione è necessaria giacché, evidenziata la ratio dell’art. 12bis, si pone il problema del se esso si riferisca unicamente all’indennità di fine rapporto, o abbia oggetto più ampio. Invero, non si ha perfetta coincidenza con l’art. 2120 c.c. (che riguarda il trattamento di fine rapporto), e da ciò viene evinto un campo di applicazione dell’art. 12bis che è più ampio. La parziale coincidenza lessicale, osserva però la Suprema Corte, deve far propendere per l’interpretazione per cui l’art. 12bis non si riferisce a tutte le prestazioni a cui il lavoratore ha diritto in dipendenza della cessazione del contratto, ma solo a quelle che condividono la logica del trattamento di fine rapporto. L’art. 12bis, cioè, si applica a tutte quelle indennità, comunque denominate, che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e sono determinate proporzionalmente alla sua durata e all’entità della retribuzione corrisposta, qualificandosi come quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309). È, questo, il criterio discretivo fra ciò che il coniuge beneficiario dell’assegno divorzile può e non può esigere ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970.

Ciò posto, è evidentemente estranea all’indicata nozione di indennità di fine rapporto anche l’indennità di incentivo all’esodo. Tale indennità, infatti, non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sottoforma di assegno divorzile (Cass.17 aprile 1997, n. 3294). Tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, e quindi non ricorre l’esigenza di assicurare (in chiave assistenziale e perequativo-compensativa) una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio: si è, piuttosto, innanzi a un’attribuzione patrimoniale che discende da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro.

Non vengono ritenuti dirimenti, inoltre, gli argomenti basati sul Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cui si è accennato (Cass. 12 luglio 2067, n. 14171): la Suprema Corte, infatti, ritiene che il regime fiscale dell’indennità non interferisca con la qualificazione civilistica della stessa.

Le Sezioni Unite, per ciò, concludono nel senso della non spettanza al coniuge divorziato della quota del 40% dell’indennità in questione, nei termini riportati in massima.

*Contributo in tema di “Assegno divorzile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Crisi rapporto coniugale e caratteri dei crediti I crediti afferenti agli assegni che traggono origine dalla crisi del rapporto coniugale possiedono tutti indistintamente i caratteri della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità propri dei crediti alimentari?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere: a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile; b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica; c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità. – Cass. S.U. 8 novembre 2022, n. 32914.

Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si pronuncia sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di mantenimento dell’ex coniuge, nel caso in cui una successiva decisione giudiziale modifichi le condizioni economiche già stabilite da una pregressa pronuncia.

Il ricorso è stato promosso avverso la decisione con cui la Corte d’Appello di Roma, nell’accogliere il ricorso incidentale promosso dall’ex marito, aveva condannato la moglie alla restituzione delle somme ricevute a titolo di assegno di mantenimento in esecuzione dei provvedimenti provvisori adottati in sede di procedimento ex art. 710 c.p.c.

In particolare, con il quinto motivo di ricorso viene evidenziata la natura alimentare dell’assegno in questione, da cui deriverebbe l’irripetibilità delle somme previamente versate.

La Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ricostruito il panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento, hanno respinto il suddetto motivo di ricorso, confermando la condanna della ricorrente alla ripetizione in favore dell’ex coniuge delle somme percepite a titolo di mantenimento in virtù di provvedimenti provvisori del presidente del tribunale.

Dopo aver ricostruito i caratteri e le diverse funzioni dell’assegno di mantenimento in sede di separazione e di quello divorzile, i giudici di legittimità si soffermano sulla disciplina degli alimenti, chiarendo che tale obbligazione serve a soddisfare i bisogni essenziali alla persona per condurre una vita dignitosa.

In particolare, ne sono presupposti lo stato di bisogno del richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato.

La Suprema Corte rileva poi come si registri un non pieno “collimare” delle soluzioni proposte dalla giurisprudenza sulla questione della ripetibilità delle somme versate a titolo di assegno di mantenimento in favore del coniuge separato o divorziato o in favore dei figli, per effetto di provvedimenti provvisori poi modificati o per effetto di una sentenza di primo grado poi riformata.

Un primo orientamento, infatti, sostiene che la pronuncia, che riveda in diminuzione o escluda l’assegno corrisposto in base al provvedimento presidenziale o a quello del giudice istruttore, non possa disporre per il passato, ma solo per il futuro.

Corollario di tale interpretazione è la non ripetibilità delle maggiori somme corrisposte dal coniuge sulla base di un titolo giudiziale valido ed efficace “ratione temporis”.

Nell’ambito di tale tesi, vi sono state alcune pronunce che hanno specificato che la retroattività della decisione relativa all’assegno di mantenimento può operare solo a favore del beneficiario.

Uno degli argomenti principali a sostegno di tale tesi è il riconoscimento del carattere alimentare delle somme corrisposte dall’ex coniuge a titolo di mantenimento.

Altra parte della giurisprudenza ammette invece la retroattività della sentenza che determina in diminuzione l’assegno, ma la esclude nel caso in cui l’ammontare dell’assegno, successivamente ridotto, sia tale da evidenziarne una funzione sostanzialmente alimentare.

Infine, vi è un’ultima impostazione che, sottolineando le differenze sul piano ontologico tra l’assegno di mantenimento e quello alimentare, esclude che il primo abbia gli stessi caratteri dell’obbligazione alimentare.

Nel comporre il suddetto contrasto interpretativo, le Sezioni Unite svolgono alcune preliminari considerazioni sula supposta natura “para-alimentare” dell’assegno divorzile e di quello stabilito in sede di separazione e, dopo aver evidenziato le differenze strutturali e funzionali sussistenti tra i suddetti assegni e l’obbligazione alimentare, evidenziano che tali assegni hanno in comune con l’obbligo di alimenti la finalità “assistenziale”.

Premesse tali considerazioni, i giudici di legittimità affrontano la questione della ripetibilità delle prestazioni alimentari, rilevando a tal proposito come non vi sia nel nostro ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno alimentare.

Pertanto, non vi sarebbero ostacoli nel ritenere sussistente l’obbligo di restituzione di somme versate sulla base di un supposto e inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme versate in base a un supposto e parzialmente esistente diritto al mantenimento.

Tuttavia, secondo i giudici della Suprema Corte, ragioni equitative e il principio di solidarietà umana e familiare giustificano l’apposizione di un temperamento alla regola della piena ripetibilità.

Si suppone, infatti, che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state utilizzate per far fronte alle essenziali esigenze di vita.

La soluzione interpretativa, affermata con la sentenza in commento, è volta a operare un bilanciamento tra l’esigenza di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza solidaristica di tutela del soggetto debole.

Ne deriva che, ove la sentenza di merito escluda in radice e “ab origine” il diritto al mantenimento, ovvero si addebiti la separazione al coniuge, che nelle more abbia ricevuto l’assegno, opererà l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite ai sensi dell’art. 2033 c.c.

Non sussiste invece il diritto alla ripetizione delle maggiori somme versate, laddove si proceda alla rivalutazione ex tunc delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto ovvero nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale venga ridotto. Tali considerazioni valgono purché l’assegno corrisposto non superi la misura necessaria a una persona media per far fronte alle normali esigenze di vita. Solo in tali casi si può infatti ritenere che la somma ricevuta sia stata consumata dal coniuge più debole nel periodo in cui è stata corrisposta per fini di sostentamento.

La soluzione adottata viene giustificata dalla Corte di Cassazione richiamando la tutela della solidarietà post-familiare sottesa a tutta la disciplina sulla crisi della famiglia.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. I, 28 maggio 2004, n. 10291; Cass. I, 20 marzo 2009, n. 6864
Difformi:      Cass. I, 25 giugno 2004, n. 11863; Cass. I, 12 giugno 2006, n. 13593;
Cass. I, 10 dicembre 2008, n. 28987
giurista risponde

Legittimazione opposizione a decreto ingiuntivo nei confronti del condominio A chi appartiene la legittimazione a opporsi ad un decreto ingiuntivo emesso contro il Condominio per debiti derivanti dalla gestione dei beni comuni?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli

 

Il singolo condomino non ha autonoma legittimazione a proporre opposizione a decreto ingiuntivo emesso a carico del condominio per i debiti derivanti dalla gestione dei beni comuni, spettando essa unicamente all’amministratore. – Cass., sez. II, 15 marzo 2024, n. 7053.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la legittimazione del singolo condomino a proporre opposizione a decreto ingiuntivo emesso nei confronti del condominio.

In primo e secondo grado era stata rigettata l’opposizione formulata dal singolo condomino per un decreto ingiuntivo relativo a lavori di manutenzione del condominio. In particolare, in secondo grado il Giudice di Appello precisava che solo il condominio poteva opporsi al decreto ingiuntivo, sussistendo per il singolo condomino una legittimazione autonoma nelle controversie in materia di diritti reali concernenti le parti comuni dell’edificio condominiale.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando la violazione dei principi in materia di condominio. In particolare, si obiettava che la presenza dell’amministratore non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a tutela dei propri diritti, sicché essi non possono considerarsi terzi rispetto a pretese vantate nei confronti del condominio.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha evidenziato che, nelle controversie condominiali, la legittimazione ad agire può essere riconosciuta ai singoli condomini solo nel caso in cui la lite investa il diritto degli stessi sulle parti comuni dell’edificio (così anche Cass. 24 luglio 2023, n. 22116).

Viceversa, quando la controversia non ha ad oggetto la tutela o l’esercizio di diritti reali su parti o servizi comuni, ma posizioni di natura obbligatoria volte a soddisfare esigenze comuni della collettività condominiale, la legittimazione spetta al solo amministratore, potendo il singolo condomino svolgere intervento adesivo dipendente (così anche Cass. 12 dicembre 2017, n. 29748).

Tuttavia, si evidenzia che sul punto vi è anche recente orientamento che ha riconosciuto al condomino al quale sia intimato il pagamento di una somma di danaro in base ad un decreto ingiuntivo non opposto ottenuto nei confronti del condominio, la disponibilità dei rimedi dell’opposizione a precetto e dell’opposizione tardiva al decreto (cfr. Cass. 22 febbraio 2022, n. 5811).

Nel caso di specie, il singolo condomino ha proposto opposizione rispetto ad un decreto ingiuntivo derivante da lavori di manutenzione delle parti comuni del condominio, la cui legittimazione è solo del condominio nella persona dell’amministratore. Per tale motivo, la Cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la pronuncia della Corte d’Appello.

Precedenti giurisprudenziali:

Conformi: Cass., sez. III, 24 luglio 2023, n. 22116; Cass., sez. II, 12 dicembre 2017, n. 29748

Difformi: Cass., sez. VI, 22 febbraio 2022, n. 5811

*Contributo in tema di “Legittimazione a proporre opposizione a decreto ingiuntivo”, a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Alloggio di edilizia residenziale pubblica occupato sine titulo Sussiste giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia attinente alla pretesa della P.A. al rilascio dell’alloggio occupato sine titulo?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, sussiste giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia attinente alla pretesa della P.A. al rilascio dell’alloggio occupato sine titulo. – T.A.R. Calabria, sez. I, ord. 16 aprile 2024, n. 284.

Come richiamato nel più recente indirizzo del Giudice della giurisdizione (Cass., Sez. Un., ord. 15 gennaio 2021, n. 621) da ultimo recepito anche dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. V, 18 luglio 2022, n. 6103, e 1° febbraio 2022, n. 684), “nella materia degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e ordinario trova il suo criterio distintivo nell’essere la controversia relativa alla fase antecedente o successiva al provvedimento di assegnazione dell’alloggio, che segna il momento a partire dal quale l’operare della pubblica amministrazione non è più riconducibile all’esercizio di pubblici poteri, ma ricade invece nell’ambito di un rapporto paritetico”.

Pertanto, vi è giurisdizione del giudice amministrativo nel caso di controversia avente ad oggetto la legittimità del rifiuto opposto dalla P.A. all’istanza di assegnazione, a titolo di regolarizzazione, di un alloggio già occupato dal richiedente, in quanto relativa alla fase iniziale del procedimento riconducibile all’esercizio di pubblici poteri. Invece, la controversia introdotta da chi si opponga ad un provvedimento della P.A. di rilascio di un immobile di edilizia residenziale pubblica occupato senza titolo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, essendo contestato il diritto di agire esecutivamente e configurandosi l’ordine di rilascio come un atto imposto dalla legge e non come esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione, la cui concreta applicazione richieda, di volta in volta, una valutazione del pubblico interesse; e ciò vale anche qualora sia dedotta l’illegittimità di provvedimenti amministrativi (diffida a rilasciare l’alloggio e successivo ordine di sgombero), dei quali è eventualmente possibile la disapplicazione da parte del giudice, chiamato a statuire sull’esistenza delle condizioni richieste dalla legge per dare corso forzato al rilascio del bene.

Ad ogni modo, spetta sempre al giudice ordinario “la controversia sul rilascio dell’immobile di edilizia residenziale pubblica a seguito di occupazione abusiva o senza titolo anche quando l’interessato per paralizzare la pretesa di rilascio abbia allegato di possedere i requisiti per l’assegnazione di un alloggio e di avere diritto a subentrare all’originaria assegnataria nel godimento dell’alloggio, collocandosi la vicenda al di fuori di un procedimento amministrativo di assegnazione cui l’occupante abbia partecipato come titolare di un legittimo interesse pretensivo ad essere utilmente collocato nella relativa graduatoria; si tratta, in altri termini, di una controversia che si svolge in un ambito puramente paritetico, atteso che il subentro nell’assegnazione, per un verso, discende direttamente dalla previsione legislativa in presenza di determinate condizioni, il cui accertamento non implica una valutazione discrezionale da parte della P.A. Per l’altro verso, esso costituisce una possibile evoluzione del rapporto sorto in esito all’assegnazione e non già l’instaurazione di uno nuovo e diverso; ciò che comprova che la controversia attiene alla fase successiva al provvedimento di assegnazione dell’alloggio”.

*Contributo in tema di “Alloggio di edilizia residenziale pubblica occupato sine titulo”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Il momento della consumazione nell’ipotesi della “truffa contrattuale” Quando si consuma il reato di truffa nell’ipotesi di c.d. truffa contrattale?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

Poiché il reato di truffa è istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell’autore abbia fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo, nell’ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifici o raggiri, l’obbligazione della datio di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato. – Cass., sez. I, 22 marzo 2024, n. 12142.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare il momento di consumazione del reato di truffa c.d. contrattuale, in cui gli artifici e i raggiri intervengono nella fase di formazione della volontà negoziale, inducendo la controparte alla prestazione del consenso.

Sul punto, infatti, sussistono due orientamenti.

Secondo una prima tesi, sposata dal giudice dell’esecuzione, il momento di consumazione della truffa contrattuale coinciderebbe con quello di realizzazione degli artifici e raggiri, consistiti, nel caso di specie, nella consegna dell’assegno postdatato.

Ai sensi di un secondo orientamento, invece, il perfezionamento del reato in esame si avrebbe nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato

La sentenza in commento ribadisce la validità di quest’ultima tesi, confermando l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario.

In primo luogo viene rimarcata la necessità di procedere ad un approccio casistico essendo indispensabile muovere dalla peculiarità del singolo accordo, dalla valorizzazione della specifica volontà contrattuale e dalle peculiari modalità delle condotte e dei loro tempi, al fine di individuare quale sia stato, in concreto, l’effettivo pregiudizio correlato al vantaggio e quale il momento del loro prodursi.

Ne discende che, qualora l’oggetto materiale del reato sia costituito da titoli di credito, il momento della sua consumazione è quello dell’acquisizione, da parte dell’autore del reato, della relativa valuta, attraverso la loro riscossione o utilizzazione, poiché solo per mezzo di queste si concreta il vantaggio patrimoniale dell’agente e nel contempo diviene definitiva la potenziale lesione del patrimonio della parte offesa.

Nel caso di specie, la corretta individuazione del momento di consumazione del reato di truffa si poneva come necessaria ai fini della verificazione dell’effetto estintivo, ai sensi della disciplina del rito speciale di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 445, comma 2, c.p.p., del reato di bancarotta fraudolenta, giudicato con sentenza emessa dal Giudice per le indagini preliminari divenuta definitiva nell’aprile del 2011.

Qualora si fosse fatto riferimento al momento degli artifici e raggiri, infatti, il reato di truffa avrebbe potuto dirsi consumato prima del passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento, non integrando quindi la causa ostativo all’effetto estintivo di cui all’art. 445, comma 2, c.p.p., ossia la commissione di un nuovo delitto entro il termine di 5 anni dal giudicato.

Applicando i principi sopra esposti, invece, deve individuarsi il momento di perfezionamento della fattispecie, consistente nel definitivo depauperamento della persona offesa, in epoca di poco successiva al giudicato, nelle date in cui l’assegno bancario privo di copertura, consegnato al raggirato nel mese di aprile 2011 e postdatato a metà giugno 2011, è stato protestato, cioè a fine giugno 2011.

*Contributo in tema di “Reato di truffa”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Violazione del diritto alla riservatezza e risarcimento del danno Quali sono le condizioni e i criteri per il risarcimento del danno da violazione del diritto alla riservatezza?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli

 

Il danno da violazione del diritto alla riservatezza, dovendo necessariamente consistere in un profilo consequenziale rispetto al fatto dannoso denunciato, dev’essere essere oggetto di specifica allegazione e di prova, anche tramite il ricorso al valore rappresentativo di presunzioni semplici, ossia anche attraverso l’indicazione degli elementi costitutivi e delle specifiche circostanze di fatto da cui desumerne, sebbene in via presuntiva, l’esistenza. – Cass., sez. III, ord. 16 aprile 2024, n. 10155.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte è chiamata a valutare se il danno da violazione del diritto alla riservatezza sia soltanto patrimoniale o anche morale ed esistenziale.

Il Tribunale adito, in parziale accoglimento dei ricorsi proposti dai danneggiati, condannava l’azienda sanitaria a rifondere i predetti; tenuto conto, altresì, che quest’ultima aveva proceduto ad oscurare i dati sensibili dei medesimi.

Viene proposto, quindi, ricorso, ex art. 380bis, per Cassazione, lamentando i ricorrenti che il danno da violazione del diritto alla riservatezza non sia soltanto patrimoniale, ma anche morale ed esistenziale; e che l’art. 15 del codice della protezione dei dati personali statuisca un generale principio di “indemnisation” integrale del danno non patrimoniale da trattamento dei dati personali; che la danneggiata abbia subito un danno alla vita di coppia ed alla sfera sessuale, un danno alla vita di relazione, all’immagine, al nome, all’onore; in ordine alla quantificazione del danno, che si richiami la definizione del danno non patrimoniale come prevista dall’art. 138 del codice delle assicurazioni (Cass., sez. III, 27 dicembre 2014, n. 1608).

La Suprema Corte ha ricordato quanto stabilito dalla pronunzia della Corte cost. 6 ottobre 2014, n. 235 e dell’entrata in vigore della L. 124/2017 (che all’art. 1, comma 17, ha modificato l’art. 138 cod. ass., richiamato dai ricorrenti), secondo cui il giudice del merito sia tenuto “a valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se’ stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”)” (Cass., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788; Cass., sez. III, 21 luglio 2017, n. 21939).

Di talché, è necessario che il danno preteso sia oggetto di specifica allegazione e di prova, dovendo necessariamente consistere in un profilo consequenziale rispetto al fatto dannoso denunciato (non potendo esaurirsi nella figura del c.d. danno-evento, ossia in re ipsa) (Cass., sez. III, ord. 10 luglio 2023, n. 19551; Cass., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 20643; Cass., sez. III, ord. 18 novembre 2022, n. 34026).

Nel caso all’esame, sul punto, giova sottolineare come nella specie il Tribunale ha avuto cura di evidenziare che la divulgazione di informazioni in violazione degli obblighi di riservatezza e di privacy avvenuta in modo illegittimo (in particolare, circa gli aspetti inerenti allo stato di salute e alla vita sessuale della odierna parte ricorrente, nonché alle prestazioni sanitarie cui era stata sottoposta, e alle coordinate bancarie del coniuge su cui accreditare il rimborso ottenuto) determinò l’odierna azienda controricorrente a provvedere in un tempo brevissimo (nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione) ad oscurare i dati sensibili presenti nel testo diffuso.

Di conseguenza, il Tribunale ha correttamente considerato il complesso degli elementi istruttori documentali e testimoniali acquisiti ed è pervenuto alla quantificazione e liquidazione del danno in via equitativa, in modo unitario e omnicomprensivo e proporzionato al danno di natura non patrimoniale subìto in concreto dalla parte ricorrente.

Per tale motivo, il ricorso è inammissibile.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI:

-Conformi:  Cass., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 2788; Cass., sez. III, 21 luglio 2017, n. 21939; Cass., sez. III, ord. 10 luglio 2023, n. 19551; Cass., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 20643; Cass., sez. III, ord. 18 novembre 2022, n. 34026

-Difformi:   Cass., sez. III, 27 dicembre 2014, n. 1608

*Contributo in tema di “Violazione del diritto alla riservatezza e risarcimento del danno”, a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Divieto del questore uso cellulare Può il questore vietare il possesso e l’utilizzo del telefono cellulare, in quanto “apparato di comunicazione radiotrasmittente”, ai soggetti di cui all’art. 3, comma 4, D.Lgs. 159/2011?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

L’art. 3, comma 4, cod. antimafia va dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 15 Cost., nella parte in cui – sul presupposto che il telefono cellulare rientra tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente – consente al questore di vietarne, in tutto o in parte, il possesso e l’utilizzo. – Corte cost. 12 gennaio 2023, n. 2.

Nel caso di specie, il Tribunale ordinario di Sassari ha dubitato, in riferimento agli artt. 3 e 15 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, D.Lgs. 159/2011, nella parte in cui prevede che il questore, nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale rafforzato nei confronti di persone definitivamente condannate per delitti non colposi, possa vietare loro di possedere o utilizzare “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente”, e perciò anche telefoni cellulari. Il possesso di questi ultimi, infatti, è oggi necessario per esercitare la libertà di comunicazione, che può essere limitata solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, locuzione in cui non può essere compreso il questore. Inoltre, risulta violato il principio di eguaglianza poiché i soggetti destinatari di tale divieto sono trattati in modo ingiustamente deteriore rispetto ai soggetti menzionati dall’art. 4, D.Lgs. 159/2011, rispetto ai quali l’autorità giudiziaria può inibire la frequentazione di specifiche categorie di persone (ma non impedire ogni relazione sociale) e può vietare l’accesso a determinati luoghi d’incontro (ma non a tutti), sebbene la pericolosità degli stessi sia superiore rispetto alle persone indicate dall’art. 3, comma 4 dello stesso Decreto.

Analoga q.l.c. è stata sollevata dalla Corte di cassazione, sez. V penale, aggiungendo la ritenuta violazione dell’art. 21 Cost., che tutela la libertà di espressione anche nella sua dimensione passiva di libertà di ricevere informazioni, e dell’art. 117 Cost. in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU, poiché il rispetto della vita privata e la libertà di espressione transitano anche attraverso la possibilità di accedere a internet.

La Corte costituzionale, premessa una ricostruzione del quadro normativo, ricostruisce il significato dell’espressione “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente” aderendo all’orientamento di quella consolidata giurisprudenza di legittimità per cui il telefono cellulare rientra a pieno titolo nella predetta nozione. In questo senso depone il criterio testuale, che eliminerebbe ogni incertezza sull’intenzione del legislatore derivante dall’analisi dei lavori preparatori, nonché il significato strettamente tecnico dell’espressione “apparato di comunicazione radiotrasmittente”, ossia qualsiasi apparecchio in grado di inviare onde radio e di trasmetterle, o a un altro apparato analogo, o a un impianto in grado di riceverle (così anche Cass. 2 aprile 2021, n. 127793; Cass. Sez. Un. 2 maggio 2014, n. 9560).

Ne discende la fondatezza della q.l.c. relativa alla violazione dell’art. 15 Cost., in quanto la misura limitativa non è disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, bensì, direttamente, dall’autorità amministrativa, cui è attribuito perciò un potere autonomo e discrezionale, senza la necessità di successiva comunicazione all’autorità giudiziaria. L’art. 3, comma 4, cod. antimafia viene dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo e restano conseguentemente assorbite le qq.ll.cc. relative alla violazione degli artt. 3, 21 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 2 aprile 2021, n. 127793; Cass., sez. I, 14 ottobre 2020, n. 28551;
Cass., sez. I, 17 giugno 2019, n. 26628; Cass., sez. I, 7 gennaio 2019, n. 314;
Cass., sez. I, 3 luglio 2014, n. 28796; Cass., sez. VII, 7 gennaio 2019, n. 294;
Cass. Sez. Un. 2 maggio 2014, n. 9560; Cass., sez. fer., 1 ottobre 2009, n. 38514
giurista risponde

Aggiudicazione all’asta di stabilimento balneare e subingresso nella concessione demaniale L’aggiudicazione all’asta del complesso aziendale di cui fa parte lo stabilimento balneare comporta il subingresso automatico nella concessione demaniale marittima?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

L’aggiudicazione all’asta del complesso aziendale di cui fa parte lo stabilimento balneare non comporta il subingresso automatico nella concessione demaniale marittima, conferendo solo un interesse legittimo pretensivo al subingresso. – Cons. Stato, sez. VII, 30 aprile 2024, n. 3940.

La vicenda in esame, all’esito del giudizio di primo grado, ha visto dichiarata l’improcedibilità del ricorso introduttivo e dei due atti di motivi aggiunti per sopravvenuta carenza di interesse, ciò in ragione dell’entrata in vigore della L. 118/2022 in materia di durata delle concessioni demaniali marittime. L’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse viene ribadita dalla VII Sezione del Consiglio di Stato in quanto con l’art. 3 della L. 118/2022 si è stabilito quale termine finale di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore della legge stessa al 31 dicembre 2023.

Nel caso in esame l’appellante dopo la vendita forzosa si è resa acquirente del complesso aziendale di cui fa parte lo stabilimento balneare – nel quale, ad ogni modo, non rientra automaticamente l’assegnazione della precedente concessione – ciò non giustifica una deroga all’applicazione dei principi sanciti dall’Adunanza Plenaria del 9 novembre 2021, n. 17. Infatti, risulta evidente che l’acquisizione del complesso aziendale nell’asta pubblica di una procedura esecutiva che ha avuto ad oggetto l’azienda non costituisce una procedura competitiva trasparente. Pertanto, la concessione in capo all’odierna appellante risulterebbe sfornita del requisito dell’interesse transfrontaliero, così come previsto dalla Direttiva 2006/123/CE.

Dunque, l’aggiudicazione all’asta del complesso aziendale di cui fa parte lo stabilimento balneare non comporta il subingresso automatico nella concessione demaniale marittima, conferendo solo un interesse legittimo pretensivo al subingresso e, ad ogni modo, anche in caso di autorizzazione al subingresso non si determinerebbe un prolungamento automatico dell’originaria concessione.

*Contributo in tema di “Aggiudicazione all’asta di stabilimento balneare e subingresso nella concessione demaniale”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica