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Danno da perdita del rapporto parentale patito dalle figlie Il danno morale patito dalle figlie per perdita della relazione parentale va riconosciuto anche in caso di mancata convivenza con il genitore?

Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa

 

L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, quest’ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur: in tal caso, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo. (Cass., sez. III, 16 febbraio 2025, n. 3904  – Danno da perdita del rapporto parentale).

 Nel caso di specie, la Suprema Corte, a distanza di pochi anni da un suo precedente arresto, torna nuovamente a pronunciarsi sul tema del danno da perdita del rapporto parentale, con particolare riguardo all’incidenza che riveste la coabitazione e la vicinanza geografica fra il defunto, quale vittima primaria, e alcuni suoi familiari, come vittime secondarie o di riflesso.

Il caso sottoposto al vaglio dei giudici di merito, prima, e della Corte di legittimità, in sede di ricorso, concerne l’azione risarcitoria avanzata dagli attori avverso la struttura ospedaliera per il riconoscimento del danno derivante dalla definitiva deprivazione della relazione parentale, in seguito all’uccisione del rispettivo coniuge e padre.

Atteso il rigetto della domanda da parte del giudice di prime cure, veniva adita la Corte d’appello che, in parziale accoglimento del gravame, riconosceva esclusivamente in capo al coniuge il danno da sofferenza per morte del congiunto, rigettando l’analoga domanda delle figlie.

Le ragioni che hanno condotto ad escludere la rilevanza del legame con la vittima ai fini del diritto al risarcimento, riposerebbero nella lontananza dal de cuius e nella mancata allegazione del concreto atteggiarsi della relazione affettiva richiesta per i rapporti tra genitori e figli non conviventi.

Avverso il decisum, i soccombenti ricorrevano per Cassazione eccependo, quale unica doglianza, la violazione ed erronea interpretazione degli artt. 1123 e 2059 c.c., nonché violazione dei precetti costituzionali dedicati alla famiglia, ex art. 29, 30 e 31 Cost.

La Suprema Corte, disattendendo l’assunto confermato in appello, con un’argomentazione più succinta, ma non per questo reticente – tenuto conto dell’evidente rinvio ai precedenti sul punto – si sofferma sul tema del nesso intercorrente tra la cessazione della convivenza e le ricadute in termini probatori ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria.

Il collegio giudicante muove dalla premessa logico-giuridica che l’esistenza di un pregiudizio conseguente dalla perdita del rapporto parentale si presume allorquando il fatto colpisca i membri della c.d. “famiglia nucleare”, ossia quei soggetti legati da un matrimonio o da uno stretto vincolo di parentela.

Da siffatta circostanza ne consegue che l’evento uccisione di uno dei soggetti componenti la cellula minima familiare è idonea ex se a far presumere, a mente dell’art. 2727 c.c., una sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima.

Ma vi è di più.

L’enunciato principio di diritto, sostiene la Corte, non subisce alcuna torsione in ragione del fatto che vittima e superstite non convivessero né che fossero distanti, in quanto ciò non si riflette nella volontà di porre fine al forte, peculiare e duraturo legame affettivo; tuttalpiù, le citate circostanze assumono rilievo ai soli del giudizio di quantificazione del danno sofferto e, comunque, non sarebbero di per sé sole, foriere di un contesto relazionale compromesso.

Sullo sfondo della prospettiva accolta dalla Corte è possibile scrutare gli approdi di quel consolidato orientamento giurisprudenziale che, per un verso, non riconosce al venir meno della coabitazione alcun valore autonomo circa la produzione del danno non patrimoniale, e, per altro, non richiede l’elemento della convivenza fra la vittima primaria e secondaria per riconoscere il risarcimento del danno morale riflesso dall’uccisione di un parente.

Tale solco ermeneutico, prosegue la sentenza, oltre a costituire un caposaldo della granitica e costante giurisprudenza di legittimità, consente, al contempo, di destrutturare agevolmente le argomentazioni poste a fondamento della decisione oggetto del giudizio di legittimità.

Ne deve conseguire, il riconoscimento di un danno morale in capo ai superstiti, anche se non più conviventi con la vittima, nonché l’inversione della prova in capo al convenuto circa l’esistenza di un rapporto di indifferenza e di odio tra i medesimi soggetti.

Alla luce del summenzionato iter argomentativo e facendo buon governo dei precedenti pronunciamenti, la Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata rinviando, per l’effetto, la causa alla Corte d’Appello.

 

(*Contributo in tema di “Danno da perdita del rapporto parentale ”, a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Azione diretta del terzo trasportato: presupposti In caso di risarcimento corrisposto al terzo trasportato, a norma dell’art. 141 D.Lgs. 209/2005 ai fini dell’esatta proposizione della successiva azione di rivalsa da parte dell’impresa assicuratrice del vettore è necessaria la corresponsabilità di almeno due veicoli e la sussistenza di un valido contratto per la RCA in capo al veicolo responsabile?

Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa

 

La liquidazione del danno da parte dell’assicuratore del vettore prescinde da ogni accertamento sulla responsabilità dei conducenti dei mezzi (almeno due) coinvolti nel sinistro, avendo funzione di massima tutela per il trasportato, né potendo consistere il caso fortuito nel fattore umano riferibile all’altro conducente. Inoltre, l’art. 141 cod. ass. può operare anche nelle ipotesi in cui il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, in quanto la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada (Cass., sez. III, ord. 7 febbraio 2025, n. 3118 – Azione diretta del terzo trasportato).

Nel caso di specie, la sez. III, a distanza di pochi anni dalla leading case delle Sezioni Unite, torna nuovamente a statuire in materia di azione diretta promossa (L’azione diretta del terzo trasportato a seguito di sinistro stradale) dal terzo trasportato all’indirizzo impresa assicuratrice, nonché sul successivo diritto di rivalsa di quest’ultima nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile.

La vicenda processuale sottesa alla pronuncia in esergo prende le mosse dalla richiesta di liquidazione del danno avanzata da un soggetto terza trasportata su un motociclo nei confronti della società assicuratrice del veicolo. Dopo aver provveduto all’erogazione delle somme come sopra richieste, l’impresa designata citava in giudizio l’impresa di assicurazione del responsabile civile, al fine di esercitare, a mente dell’art. 141, comma 1 C.d.a, il proprio diritto di rivalsa alla restituzione del quantum corrisposto.

Nel corso dei giudizi di merito la domanda attorea veniva rigettata in ragione della constatata assenza dei presupposti fondanti l’azione giudiziaria, ex art. 141 c.d.a.: la presenza di una corresponsabilità tra almeno due veicoli; la sussistenza di un valido contratto per la RCA in capo al veicolo responsabile.

Atteso il mancato accoglimento, l’impresa soccombente proponeva ricorso per cassazione.

Per quanto d’interesse in questa sede, la difesa eccepiva la nullità della sentenza impugnata, in quanto la motivazione resa non consentiva di appurare le valutazioni di infondatezza dei motivi di gravame e porgeva il fianco ad un giudizio di illogicità nella parte in cui richiedeva – operando tra l’altro un rinvio a pronunce di legittimità (Cass., sez. III, 13 febbraio 2019, n. 4147) – la necessaria corresponsabilità del vettore, al lume di una lettura della nozione di “caso fortuito” comprensiva anche del fattore umano.

La seconda doglianza, invece, lamentava una violazione e falsa applicazione dell’art. 141, comma 4, in quanto la parte motiva della sentenza impugnata ne escludeva l’applicazione nell’ipotesi, come quella oggetto di giudizio, in cui era stata accertata l’inesistenza di un contratto di assicurazione con il responsabile civile, con ciò generando una ingiustificata disparità di trattamento.

Investita del ricorso, la sez. III ha accolto le eccezioni di parte cogliendo, al contempo, l’occasione per sagomare i confini operativi dell’azione diretta prevista dall’art. 141 cit.

Nell’esercitare la propria funzione nomofilattica, i giudici di Piazza Cavour hanno consolidato l’indirizzo interpretativo inaugurato dalla medesima Corte nella sua più alta composizione (Cass., Sez. Un., 30 novembre 2022, n. 35318), che, superando quello fatto proprio dai giudici di merito, ha precisato che l’art. 141 va letto in maniera unitaria e alla luce della sua ratio. In linea con il designato percorso ermeneutico, l’azione diretta in favore del terzo danneggiato si pone come aggiuntiva rispetto alle altre azioni previste dall’ordinamento e mira ad assicurare una tutela rafforzata, assegnandogli un debitore certo nonché facilmente individuabile e, soprattutto, consentendogli di essere indennizzato senza dover svolgere dispendiose ricerche per stabilire a quale dei conducenti coinvolti, e in quale misura, la responsabilità è addebitabile.

Valorizzando il dato letterale, non residuano margini di incertezza in ordine alla circostanza che il meccanismo designato dall’art. 141 cod. ass. presuppone che nel sinistro siano rimasti coinvolti almeno due veicoli (rectius due imprese assicuratrici), pur non essendo necessario che si sia verificato uno scontro materiale fra gli stessi; quella del vettore provvede ad erogare il risarcimento al trasportato danneggiato, sulla base di un accertamento circoscritto all’esistenza e all’entità del danno causalmente correlato al sinistro, salvo poi rivalersi in tutto o in parte nei confronti della diversa compagnia assicuratrice del responsabile civile, previo accertamento delle responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti.

In pratica, per l’accesso all’azione diretta il trasportato ha l’onere di allegare il coinvolgimento di due conducenti e di due imprese, pena il rischio di una lettura “abrogativa” della norma.

Mutatis mutandis, in caso di coinvolgimento di un unico veicolo, l’azione esperibile è esclusivamente quella prevista dall’art. 144 cod. ass., da esercitarsi nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile.

Quanto alla nozione di caso fortuito, viene nuovamente chiarito che è la stessa disposizione in commento che ne esclude una portata applicativa idonea a ricomprendere il fattore umano riferito all’altro conducente, dovendosi intendere circoscritto alle cause naturali e ai danni causati da condotte umane indipendenti dalla circolazione di altri veicoli.

Per quanto attiene alla seconda doglianza, l’ordinanza ribadisce l’altro principio espresso dalla richiamata sentenza pilota della Cassazione, a tenore del quale laddove il veicolo del responsabile civile non risulti coperto da assicurazione, la rivalsa può essere esercitata contro l’impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, nei limiti quantitativi stabiliti dall’art. 283, commi 2 e 4, del D.Lgs. 209/2005.

La bontà di tale asserzione riposerebbe nella stessa espressione “impresa di assicurazione del responsabile civile” di cui all’art. 141, comma 4, c.d.a., nel cui alveo applicativo non può che rientrare anche l’impresa designata dal FGVS, ove il veicolo dello stesso responsabile sia sprovvisto di copertura assicurativa.

In conformità alle conclusioni rassegnate, la Cassazione – discostandosi dalle motivazioni e dai precedenti giurisprudenziali richiamati dai giudici di merito – ha accolto il ricorso di parte e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello in diversa composizione, che dovrà attenersi ai principi evidenziati in massima.

 

(*Contributo in tema di “L’azione diretta del terzo trasportato ”, a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente La condotta provocatoria antecedente al fatto tenuta dalla persona offesa rileva ai fini del consenso e della non sussistenza del reato di violenza sessuale?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di violenza sessuale, il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere al momento del fatto, ma anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale e antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass., sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2381).

Oggetto di scrutinio da parte della Suprema Corte nella sentenza in commento è la rilevanza del comportamento della persona offesa, antecedente al fatto, ai fini della sussistenza del consenso al momento dell’atto sessuale tale da escludere il reato di cui all’art. 609bis c.p.

La Corte di Appello, in totale riforma della sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale, ha assolto l’imputato dal delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609bis c.p. con formula perché il fatto non sussiste, ritenendo sussistere ragionevoli dubbi sul fatto che l’imputato abbia imposto alla parte offesa un approccio sessuale violento, in ragione del presunto consenso da questa prestato. Avverso la pronuncia di secondo grado è stato proposto ricorso in Cassazione da parte del Procuratore Generale e della costituita parte civile. In particolare, il Procuratore Generale ha presentato due motivi di doglianza con i quali ha lamentato rispettivamente con il primo motivo la violazione di legge e vizio di motivazione per mancato ottemperamento degli standard logici e normativi concernenti la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, atteso che l’esito assolutorio a cui è giunta la sentenza d’appello è frutto di una visione parziale e atomistica del compendio istruttorio; con il secondo motivo è stata, invece, denunciata la violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning migliorativo. La parte civile, altresì, ha dedotto con un unico motivo violazione di legge e vizio di motivazione, nonché travisamento del fatto e della prova, considerato che secondo le prospettazioni della accusa privata la sentenza gravata ha proposto una ricostruzione dei fatti e una valutazione delle risultanze processuali in radicale contrasto con il compendio probatorio raccolto in sede dibattimentale, non valorizzando elementi di prova conducenti inequivocabilmente verso una pronuncia di condanna dell’imputato, ponendo, altresì, in dubbio il presunto libero consenso all’atto sessuale espresso dalla persona offesa ritenuto sussistente dai giudici d’appello.

La Suprema Corte, sebbene la difesa dell’imputato abbia chiesto con memoria la dichiarazione di inammissibilità o comunque il rigetto dei due ricorsi, ha ritenuto questi fondati per i motivi di seguito sintetizzati.

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso in ragione della violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata in caso di overturning della sentenza di primo grado in senso favorevole all’imputato, posto che la Corte distrettuale non ha adeguatamente enucleato un percorso argomentativo dotato di maggiore persuasività.

Secondariamente, per quanto di maggiore interesse in questa sede, i giudici di legittimità hanno riconfermato il consolidato principio di diritto enucleato in massime precedenti secondo il quale il consenso al compimento dell’atto sessuale non solo deve sussistere ma deve anche essere liberamente espresso in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’eventuale antecedente condotta provocatoria da parte della persona offesa: anche quando il fatto sia preceduto da effusioni o da provocazioni, tale condotta non può mai implicare una presunzione di consenso agli atti sessuali posti in essere successivamente (Cass. 4 marzo 2022, n. 7873). Pertanto, il momento che deve essere preso in considerazione, ai fini del reato di violenza sessuale, è quello del compimento dell’atto sessuale, in relazione al quale va verificata la sussistenza del consenso dell’atto stesso, non rilevando, nemmeno sul piano causale, il comportamento provocatorio antecedente della vittima. La presenza del consenso non può essere dedotta da circostanze esterne al perimetro del fatto (quale l’essersi la persona offesa fatta riaccompagnare a casa) ovvero desunto dai costumi sessuali della stessa e deve perdurare per tutto il rapporto senza soluzione di continuità (Cass. 5 aprile 2019, n. 15010); la revoca dello stesso intervenuta in itinere può desumersi da fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà.

Nel caso di specie, non è stato possibile desumersi il consenso ad un rapporto sessuale completo dalla pregressa presenza di effusioni tra l’imputato e la persona offesa, la quale si è allontanata sotto la pioggia pur di lasciare l’abitazione dell’imputato.

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata per violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo giudizio da svolgersi secondo i criteri indicati.

 

(*Contributo in tema di “Violenza sessuale: la condotta provocatoria antecedente”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Diritto di critica e diffamazione Il diritto di critica di cui all’art. 21 Cost. può comportare l’applicazione dell’istituto della scriminante di cui all’art. 51 c.p. in relazione al delitto di diffamazione qualora, fatto riferimento ad un fatto preciso, non ci si attenga al criterio di verità?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 51 c.p. quale scriminate in relazione al delitto di diffamazione è soggetta al rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva; pertanto, i fatti narrati debbono essere veri o apparire ragionevolmente come tali al soggetto agente (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2352 (Diritto di critica e diffamazione).

La sentenza impugnata, nel ricondurre la condotta dell’imputato nella sfera applicativa dell’esercizio del diritto di libera espressione del pensiero ex art. 51 c.p., ha dato continuità al più che costante orientamento del Supremo Collegio secondo cui, pur essendo sussistenti gli elementi oggettivi del diffamazione, le condotte che rappresentano esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, qualora le stesse non si risolvano in uno strumento di avvilimento della dignità delle persone o in un mezzo per perseguire altre finalità illecite, risultano essere scriminate ai sensi dell’art. 51 c.p.

Tale orientamento, inizialmente era applicato alla categoria dei giornalisti, ove però si faceva un diverso bilanciamento tra interessi costituzionalmente garantiti, essendo tale categoria assolutamente peculiare. Invero, più che il “diritto di critica”, veniva invocato il diverso “diritto di cronaca”. Tuttavia, la lettura del diritto di critica, con il mutare anche del contesto sociale è andato via via espandendosi, tale espansione ha portato il Supremo Collegio, anche recentemente ad affermare che il diritto di critica si esplica nella formulazione di un giudizio di valore ed è tutelato direttamente dall’art. 21 Cost. non solo con riferimento ai giornalisti o a chi fa informazione professionalmente, essendo riservato a ciascun individuo uti civis (ex multis Cass., sez. V, 20 marzo 2019, n. 32829).

Tuttavia, com’è noto, ogni diritto ha delle modalità a mezzo delle quali può essere esplicato oltre le quali non può debordare poiché va a confliggere con altri diritti costituzionalmente garantiti. Diversamente si sarebbe davanti a quello che in dottrina viene definito “diritto tiranno” che, come ricordato dalla Consulta con la Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, non esiste né potrebbe esistere nell’Ordinamento. Invero, nella predetta sentenza si legge: “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sent. 264/2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.” Nel caso di specie il “diritto di critica” garantito dall’art. 21 Cost. trova il proprio contraltare nel “diritto all’onore ed alla reputazione” come corollario dell’art. 2 Cost. In applicazione di questo bilanciamento il Supremo Collegio ha ritenuto che, in tema di diffamazione, il diritto di critica può essere evocato quale scriminate ex art. 51 c.p.; purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva. Pertanto, non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nell’invettiva gratuita, salvo che l’offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico.

In particolare, il requisito della continenza ha una duplice connotazione: continenza sostanziale che attiene alla natura dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione; continenza formale concernente il modo con cui il racconto sul fatto è reso, ovvero il giudizio critico è esternato. Tale requisito necessita di una forma espositiva corretta che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione, pur non essendo lo stesso incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti. Al tempo stesso, per delimitare il perimetro applicativo della scriminante, risulta imprescindibile contestualizzare le espressioni rectius valutarle in relazione al contesto spazio/temporale e dialettico nel quale sono state profferite, così da verificare il requisito di pertinenza. Debbono quindi essere valutati sia la diversità dei contesti, sia la differente responsabilità e natura della funzione dei soggetti ai quali la critica è rivolta. Invero, determinati ruoli possono giustificare attacchi anche violenti, se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che, nonostante le doglianze difensive sulla non verità del fatto, fossero stati rispettati tutti i requisiti per il corretto estrinsecarsi del “diritto di critica” tra cui quello di verità, di conseguenza la condotta delittuosa risulta scriminata ex art. 51 c.p.. Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata mandando assolto l’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Diritto di critica e diffamazione”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Responsabilità di danno circolazione veicoli e presunzione di corresponsabilità Nella responsabilità di danno per la circolazione di veicoli, al fine di superare la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., è sufficiente dimostrare che uno dei conducenti abbia tenuto una condotta colposa “assorbente”?

Quesito con risposta a cura di Francesca Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

In tema di responsabilità civile da sinistro stradale, l’accertamento in concreto di una condotta di guida gravemente colposa da parte di uno dei conducenti coinvolti solleva l’altro dall’onere di vincere la presunzione di pari responsabilità, di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., solo quando la colpa concreta dell’uno sia stata tale da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra salvifica da parte dell’altro. Ne deriva che non è possibile attribuire l’intera responsabilità a uno solo dei conducenti ove non sia possibile stabilire in concreto se l’altro abbia avuto la possibilità, almeno teorica, di evitare la collisione. (Cass., sez. III, 20 novembre 2024, n. 29927 – Responsabilità di danno per la circolazione di veicoli e presunzione di corresponsabilità).

Nel caso in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’operatività della presunzione del concorso di colpa paritario dei conducenti di veicoli in caso di sinistro stradale, sancita dall’art. 2054, comma 2, c.c. In particolare, il Giudice di prime cure ha attribuito alla vittima il concorso di colpa nella causazione dell’evento di danno e, ai sensi dell’art. 1227, comma 1 c.c., ne ha stimato il danno risarcibile. La Corte di appello, in sede di impugnazione, ha diversamente opinato sulla questione, stabilendo che la vittima non abbia concorso a cagionare il danno e, pertanto, ha incrementato la misura della liquidazione. Ad avviso del Collegio giudicante, infatti, opererebbe il consolidato principio secondo cui per superare la presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054, comma 2, c.c., è sufficiente dimostrare che uno dei conducenti abbia tenuto una condotta colposa “assorbente”, anche quando non sia esattamente nota la condotta del conducente antagonista.

La Suprema Corte ha tuttavia precisato che tale principio non basta l’accertamento della colpa grave di uno solo dei conducenti coinvolti, per ritenere l’altro liberato dalla presunzione di pari colpa. Il superamento della presunzione di pari responsabilità, infatti, avviene nell’unico caso in cui la condotta colposa avrebbe comunque provocato il sinistro, quale che fosse stata la condotta dell’antagonista, e cioè quando colpa concreta dell’uno sia stata tale, da rendere teoricamente impossibile qualunque manovra salvifica da parte dell’altro.

Nella fattispecie concreta – invero – non si è potuto stabilire in concreto quale sia stata la condotta tenuta dall’altro conducente coinvolto, ma la sussistenza della mera possibilità, anche teorica, di evitare la collisione, esclude l’automatica applicazione dell’art. 2054, comma 2, c.c.

Per tali ragioni, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte territoriale per nuovo giudizio.

 

(*Contributo in tema di “Responsabilità di danno per la circolazione di veicoli e presunzione di corresponsabilità”, a cura di Francesca Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Sperequazione economica e trattamento pensionistico Il differente trattamento pensionistico delle parti riconducibile a rinunce, anche professionali, del coniuge economicamente più debole, integra lo squilibrio economico patrimoniale richiesto dall’art. 5, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898, ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio? Nella durata del rapporto matrimoniale va computata anche la relazione more uxorio antecedente al matrimonio?

Quesito con risposta a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio

 

La sperequazione economica di non modesta entità fra i coniugi all’esito di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti (riferita, in particolare, ai redditi pensionistici), in presenza di un significativo apporto dato dal coniuge più debole in costanza di matrimonio all’incremento delle prospettive pensionistiche dell’altro, giustifica il riconoscimento dell’assegno divorzile (Sperequazione economica e trattamento pensionistico).

Per la determinazione dell’importo dell’assegno divorzile, si deve tener conto anche della convivenza prematrimoniale se essa ha avuto connotati di stabilità e continuità e ha comportato reciproche contribuzioni economiche, dimostrando una relazione di continuità con il matrimonio giuridico (Cass., sez. I, 28 novembre 2024, n. 30602).

L’ordinanza in commento ribadisce alcuni principi ormai consolidati in materia di attribuzione dell’assegno divorzile.

Nel caso di specie, in primo grado era stato riconosciuto in favore dell’ex moglie un assegno di divorzio, in considerazione della sussistenza di uno squilibrio economico fra gli ex coniugi emergente dal raffronto dei loro redditi da pensione, nonché della riconducibilità di detto squilibrio a sacrifici e rinunce professionali della moglie che avevano reso possibile la progressione di carriera del marito, con conseguente ottenimento, da parte di quest’ultimo, di un miglior trattamento previdenziale. Nello specifico, il Tribunale aveva valorizzato la circostanza che l’ex moglie, in costanza di matrimonio, avesse seguito il marito in una missione all’estero durata circa tre anni, mettendosi in aspettativa dal proprio lavoro.

La decisione veniva poi confermata in appello sulla base del dato non contestato della disparità dei redditi pensionistici degli ex coniugi, nonché della presenza di sacrifici e rinunce, anche professionali, dell’ex moglie.

L’ex marito ha proposto ricorso per cassazione lamentando, da un lato, l’erronea valutazione, da parte dei giudici di merito, della capacità reddituale delle parti e, dall’altro lato, l’omessa considerazione della breve durata del vincolo coniugale.

Con riferimento al primo profilo, il percorso motivazione della Corte di cassazione ha preso le mosse dai principi affermati da Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, la quale, in tema di assegno divorzile, nel comporre il contrasto giurisprudenziale tra la lettura incentrata sul tenore di vita analogo e quella favorevole all’utilizzo del principio di autoresponsabilità, ha chiarito che gli indicatori contenuti nell’art. 5, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898, assumono una posizione equiordinata nell’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi e all’incapacità di procurarseli e costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sull’attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.

In quest’ottica l’ordinanza in commento ha ribadito che l’adeguatezza dei mezzi deve essere accertata effettuando una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che consideri anche il contributo fornito dal coniuge che richiede l’assegno alla formazione del patrimonio familiare e/o di quello personale dell’altro coniuge.

In altri termini, la pronuncia in esame ha ricordato che ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile occorre verificare che lo squilibrio economico fra le parti presente al momento del divorzio dipenda causalmente dalle scelte comuni di conduzione della vita familiare e dai sacrifici sopportati dal coniuge richiedente l’assegno a favore delle esigenze della famiglia.

La Corte ha poi richiamato altri precedenti (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9004; Cass. 17 febbraio 2021, n. 4215; Cass. 30 agosto 2019, n. 21926), anche questi incentrati sulla composita funzione (assistenziale, perequativa e compensativa) dell’assegno divorzile e sulla necessità che, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti riconducibile a scelte comuni, l’assegno assicuri all’ex coniuge richiedente un livello reddituale adeguato al contributo fornito in costanza di matrimonio.

Svolta tale premessa, la Corte di cassazione ha rigettato i primi due motivi di ricorso, affermando come la Corte d’appello avesse correttamente accertato sia la sussistenza dello squilibrio economico tra le parti, in ragione del non contestato differente trattamento pensionistico degli ex coniugi, sia la riconducibilità dello squilibrio stesso a sacrifici, anche professionali, del coniuge richiedente l’assegno.

Con riferimento alla doglianza relativa all’erronea valutazione della durata del vincolo matrimoniale, la Corte ha invece ribadito il principio affermato da Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2023, n. 35385, secondo cui, allorquando vi sia una continuità tra la convivenza prematrimoniale e la vita matrimoniale, ai fini della verifica dell’apporto fornito dal coniuge richiedente l’assegno alla formazione del patrimonio della famiglia e/o di quello personale dei coniugi, occorre considerare anche il periodo della convivenza more uxorio.

 

(*Contributo in tema di “Sperequazione economica e trattamento pensionistico”, a cura di Sara Cattazzo e Rosanna Mastroserio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Silenzio assenso in materia edilizia e fiscalizzazione dell’abuso edilizio Il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile esclude la fiscalizzazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile esclude di per sé la fiscalizzazione. Di conseguenza non può assumere rilevanza sanante una disciplina urbanistica o edilizia sopravvenuta, non potendo il privato confidare in una modifica del quadro normativo che renda legittimo ciò che non lo era. – Cons. Stato, sez. II, 13 dicembre 2024, n. 10076 (Silenzio assenso in materia edilizia e cosiddetta fiscalizzazione dell’abuso edilizio).

I Giudici di Palazzo Spada, richiamando la costante giurisprudenza, ribadiscono che in materia edilizia l’istituto del silenzio assenso è assoggettato a una disciplina speciale e non direttamente all’art. 20 della L. 241/1990 che non è istituto di carattere generale destinato ad applicarsi in via residuale in mancanza di una diversa disciplina, in quanto la regola è quella secondo la quale le pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso e nel rispetto dei principi di legalità e trasparenza, così come nell’istanza ex art. 38 del D.P.R. 380/2001, che non disciplina le conseguenze della mancata risposta dell’amministrazione sull’eventuale istanza del privato, per cui non può formarsi il silenzio assenso su di essa.

Sulla base di tali premesse, la Sezione ha rilevato che, l’art. 20, comma 8, D.P.R. 380/2001, da un lato, prevede che il diniego, per impedire la formazione dell’assenso tacito, deve essere motivato; dall’altro, esclude che l’istituto si applichi qualora l’immobile o l’area in cui si trova siano sottoposti a vincoli, o vi siano state richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase. Inoltre, ciò lo si desume anche dalla disciplina in materia di silenzio assenso sull’istanza di condono che si forma solo se ricorrono tutti i requisiti soggettivi e oggettivi per l’accoglimento della stessa; e dal fatto che sull’istanza di accertamento di conformità, l’art. 36, comma 3 del D.P.R. 380/2001 prevede il meccanismo del silenzio diniego. Pertanto, laddove in materia edilizia, il legislatore, non abbia espressamente qualificato la mancata tempestiva risposta dell’amministrazione come silenzio assenso, ovvero come silenzio diniego, essa configura un’ipotesi di silenzio inadempimento, avverso la quale il privato, attraverso l’azione di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a., può ottenere l’accertamento dell’obbligo di provvedere e, qualora ne ricorrano i presupposti, anche una pronuncia sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio.

Con riferimento all’art. 38 del D.P.R. 380/2001 si enucleano tre diverse fattispecie: i) una riferibile a un titolo edilizio annullato per un vizio di procedura emendabile e che pertanto è soggetto a convalida ordinaria; ii) la seconda, nella quale il vizio di procedura è insanabile, ma l’opera realizzata abusivamente è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, che può essere mantenuta previa applicazione di una sanzione pecuniaria, il cui integrale versamento produce gli stessi effetti del permesso di costruire in sanatoria; iii) la terza, nella quale il vizio che ha annullato il titolo edilizio è di natura sostanziale, quindi l’intervento è contrastante con la disciplina applicabile, ciò precludendo sia la convalida sia la fiscalizzazione e imponendo il ripristino dello stato dei luoghi. Pertanto, l’art. 38 D.P.R. 380/2001 va a disciplinare la convalida introducendo degli elementi di specialità rispetto all’art. 21nonies, comma 2, L. 241/1990 consentendo, da un lato, la convalida del provvedimento annullato (mentre la convalida è preclusa alla formazione del giudicato), e dall’altro, limita la convalida ai vizi di procedura (escludendo i vizi sostanziali).

Nel caso in esame è stato rilevato il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile, che di per sé esclude la fiscalizzazione. Le società ricorrenti contestavano il diniego di fiscalizzazione e l’ordinanza di demolizione emessi rispetto a un capannone utilizzato come autofficina e realizzato in base a un permesso di costruire annullato per contrasto con la normativa urbanistica applicabile all’area. Successivamente, era stata approvata una variante urbanistica, che modificava le destinazioni ammissibili nella zona, includendo quelle utili all’attività dell’autofficina.

Ad ogni modo, non si può giungere ad esiti diversi qualora nel tempo intercorso tra il rilascio del permesso di costruire poi annullato e la presentazione dell’istanza di applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, la disciplina urbanistica sia stata modificata.

I Giudici rilevano che l’art. 38 D.P.R. 380/2001 consente che si producano, in conseguenza del pagamento di una sanzione pecuniaria, i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria, ex art. 36 D.P.R. 380/2001, pur in presenza di un bene formalmente abusivo, in quanto il titolo avrebbe dovuto essere rilasciato, stante la sostanziale legittimità dell’opera alla disciplina urbanistica all’epoca vigente e a cui si correla l’affidamento del privato, con la conseguenza che non può assumere rilevanza sanante una disciplina urbanistica o edilizia sopravvenuta, non potendo il privato confidare in una modifica del quadro normativo che renda legittimo ciò che prima non lo era. Ciò al fine di scongiurare la sanabilità dell’immobile per conformità sopravvenuta, che è stata disattesa in mancanza di una base legale. Sul punto, i Giudici precisano, che non conduce a diversa soluzione il D.L. 69/2024, convertito con modificazioni in L. 105/2024, da un lato, perché non ancora vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, dall’altro, perché esso non ha inteso superare il requisito della c.d. doppia conformità, ma ha circoscritto l’ambito di applicazione agli abusi edilizi di maggiore gravità.

In conclusione, la modifica al piano regolatore generale del Comune, a prescindere dall’effettiva conformità del capannone alla nuova disciplina, non aveva rilevanza ai fini della concessione della fiscalizzazione, il cui diniego è stato ritenuto immune dai vizi dedotti dalle società ricorrenti.

 

(*Contributo in tema di “Silenzio assenso in materia edilizia e cosiddetta fiscalizzazione dell’abuso edilizio”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Ordinanza di demolizione e istanza di accertamento in conformità La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ha efficacia caducante rispetto all’ordinanza di demolizione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non ha efficacia caducante rispetto all’ordinanza di demolizione, determinando la sola temporanea inefficacia e ineseguibilità fino all’eventuale rigetto della domanda (Cons. Stato, sez. II, 18 dicembre 2024, n. 10180).

La Sezione ricorda che, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale configura una sanzione, ai sensi dell’art. 31 del T.U. dell’edilizia, conseguente all’inosservanza dell’ordine di demolizione, dal quale il proprietario può sottrarsi solo dimostrando di non essere in grado di ottemperare all’ordine stesso, impossibilità che non può ravvisarsi nella mera onerosità.

Nel caso di specie, i Giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto, sulla base della relazione del tecnico comunale, che non fosse ravvisabile un’impossibilità di tipo tecnico.

Inoltre, si è precisato che il fatto che l’area esterna alle opere oggetto dell’ordinanza di demolizione sia di proprietà condominiale non comporta l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione o dell’atto di acquisizione, ma ne determina esclusivamente l’inefficacia nei confronti degli altri comproprietari che non ne sono stati destinatari.

Pertanto, un bene immobile abusivo può formare oggetto dell’ulteriore sanzione dell’acquisizione gratuita al patrimonio del comune se l’ordine di demolizione e il provvedimento acquisitivo siano stati notificati a tutti i proprietari. Dunque, il soggetto destinatario di tali notifiche non ha interesse a dolersi del fatto che tale notificazione sia avvenuta anche agli altri comproprietari, poiché la mancata notificazione dell’ingiunzione di demolizione dell’opera abusiva, realizzata da tutti i comproprietari, non rappresenta un vizio di legittimità dell’atto, che rimane quindi valido ed efficace. Pertanto, l’omissione della notifica, essendo un requisito per l’operatività dell’ordinanza nei confronti dei destinatari, può essere censurabile solo dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è posta.

Ha chiarito il Consiglio di Stato che, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità non ha efficacia caducante rispetto all’ordinanza di demolizione, ne determina la sola temporanea inefficacia e ineseguibilità fino all’eventuale rigetto della domanda. In tal caso, riprenderà a decorrere il termine per l’esecuzione e, in caso d’inottemperanza, potrà essere disposta l’acquisizione dell’opera abusiva senza necessità dell’adozione di una nuova ingiunzione o concessione di un nuovo termine di 90 giorni.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi: Cons. Stato, sez. II, 4 aprile 2024, n. 3078;
Cons. Stato, sez. VII, 2 aprile 2024, n. 2990;
Cons. Stato, sez. II, 26 marzo 2024, n. 2952;
Cons. Stato, sez. VII, 2 novembre 2023, n. 9404;
Cons. Stato, Ad. Plen., 11 ottobre 2023, n. 16;
Cons. Stato, sez. II, 9 gennaio 2023, n. 253;
Cons. Stato, sez. VI, 12 agosto 2021, n. 5875;
Cons. Stato, sez. II, 13 novembre 2020, n. 7008;
Cons. Stato, sez. VI, 24 luglio 2020, n. 4745

Difformi:  Cons. Stato, sez. II, 3 novembre 2022, n. 9631;
Cons. Stato, sez. VI, 18 agosto 2021, n. 5922; Id. 12 luglio 2021, n. 5267

 

(*Contributo in tema di “Nozione di impossibilità di ripristino, rapporto tra ordinanza di demolizione, beni in comunione e istanza di accertamento di conformità”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Riduzione o mantenimento in schiavitù Quando rileva la situazione di necessità della vittima ai fini della punibilità del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di riduzione o mantenimento in schiavitù, presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente è la situazione di necessità da porsi in relazione non con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto; la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo adatta a condizionarne la volontà personale, coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cassazione, sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2450).

La Corte di Assise ha dichiarato colpevoli tre imputati delle condotte rispettivamente loro ascritte di riduzione in schiavitù, di tentata alienazione della persona offesa, di tentata estorsione, di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e di cessione di sostanze stupefacenti. In sede di appello, la Corte di Assiste d’appello ha parzialmente riformato la decisione di primo grado oggetto di gravame, assolvendo uno degli imputati dal delitto di tentata alienazione perché il fatto non sussiste, rideterminando la pena, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, riducendo altresì la pena nei confronti di altro imputato, ferma restando l’acclarata responsabilità penale di costoro.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto ricorso in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi di ricorso presentati dagli imputati per il tramite dei loro difensori, l’insussistenza del delitto di riduzione in schiavitù posto che, secondo le argomentazioni del ricorrente, non sarebbe riscontrabile la mancanza di libertà di movimento da parte della persona offesa, l’impossibilità di comunicare con terze persone, la sottrazione del passaporto e la privazione dei mezzi di sussistenza, come formalmente contestato.

In merito al motivo di censura oggetto di interesse, la Suprema Corte, nel dichiarare il ricorso non fondato, ha analizzato la struttura nonché i presupposti del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all’art. 600 c.p. Il delitto in parola è un reato a fattispecie plurima ed è integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario – implicando così la reificazione della vittima ed ex se lo sfruttamento – ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa in relazione alla quale è richiesta la prova dell’imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio o comunque il compimento di attività illecite).

In particolare, la condizione personale della vittima del delitto di cui all’art. 600 c.p. qualificabile come “servitù” è caratterizzata da uno stato di soggezione continuativa, provocato e mantenuto con una delle modalità indicate al comma 2, ossia mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento della situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha l’autorità sulla persona, che si sostanza nel costringere o indurre la persona stessa a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.

Pertanto, ai fini della configurabilità del delitto di riduzione in stato di schiavitù o di servitù di una persona in stato di soggezione continuativa è richiesto, oltre la prova dell’imposizione alla persona offesa di prestazioni integranti una delle predette forme di sfruttamento di cui al comma 1 dell’art. 600 c.p., preliminarmente la dimostrazione che il soggetto agente ha ridotto o mantenuto la persona sfruttata in servitù tramite una delle modalità alternative indicate al comma 2.

Orbene, come espresso dalla Suprema Corte, il reato di riduzione in schiavitù non richiede la totale privazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione delle persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione richiesto dalla norma incriminatrice (Cass. 21 maggio 2020, n. 15662). Di conseguenza, la soggezione continuativa non viene meno in presenza di una limitata autonomia della vittima che non intacchi il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato.

Inoltre, i giudici di legittimità si sono espressi riguardo la “situazione di necessità” in cui deve versare la vittima ritenendo che costituisca presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente che essa non deve porsi in relazione con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata (art. 644, comma 5, n. 3 c.p.) e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto (art. 1418 c.c.); la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cass. 25 gennaio 2007, n. 2841).

Pertanto, si ha approfittamento della situazione di vulnerabilità della persona offesa anche quando l’autore del reato, conscio della condizione di debolezza fisica, psichica o esistenziale della persona offesa, se ne sia subdolamente avvalso per accedere alla sua sfera interiore, manipolandone la capacità critica e le tensioni emotive e per tale via inducendola in uno stato di remissività così da ridurla a mezzo per soddisfare più agevolmente il proprio proposito di sfruttamento sul piano lavorativo ovvero imponendo obblighi di facere.

Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, la Suprema Corte ha ritenuto che l’imputata si sia avvalsa della condizione oggettiva di vulnerabilità e inferiorità psichica della persona offesa, costringendola a prostituirsi, a lavorare fino a tarda notte e a consegnarle i proventi dell’attività di meretricio.

Alla luce delle argomentazioni esposte, la Suprema Corte ha, quindi, dichiarato l’infondatezza dei ricorsi presentati, rigettandoli e condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

(*Contributo in tema di “Riduzione o mantenimento in schiavitù”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia Nel calcolo della pena per un delitto di omicidio tentato posto in essere in un contesto di maltrattamenti in famiglia deve applicarsi il cumulo temperato previsto dall’art. 81 c.p., oppure la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale deve ritenersi assorbita – ai sensi dell’art. 84 c.p. – dall’aggravante specifica prevista per il delitto di omicidio tentato?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

Nel calcolo della pena per il reato di tentato omicidio aggravato ex art. 576, comma 1, n. 5, c.p., la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale è assorbita nella circostanza aggravante del tentato omicidio, rendendo non configurabile il concorso materiale tra tali reati (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2210 – Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia).

Il punctum dolens sottoposto al vaglio del Supremo Collegio è la riconducibilità o meno del caso in esame all’istituto del reato complesso, ex art. 84 c.p., se sia applicabile l’art. 15 c.p., ovvero se sia applicabile, invece, il criterio di temperamento di cui all’art. 81 c.p.

La disciplina del reato complesso è ispirata ai principi di specialità in concreto, della sussidiarietà, della consunzione e si contrappone al principio della specialità in astratto posta a fondamento dell’art. 15 c.p.. Pertanto, per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le norme incriminatrici è opportuno svolgere una disamina sulla struttura normativa del reato complesso.

Tuttavia, preliminarmente, si ritiene di dover, comunque, escludere l’applicabilità dell’art. 15 c.p. al caso di specie posto che le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2019, n. 2664) hanno ritenuto applicabile detto articolo soltanto qualora fra le norme evocate sussista un rapporto di specialità in astratto, indiscutibilmente non sussistente fra le incriminazioni di omicidio volontario ed i maltrattamenti in famiglia attesa la oggettiva diversità tra il fatto idoneo ad integrare le due fattispecie, rectius il delitto di cui all’art. 575 c.p. e quello riconducibile al paradigma normativo dell’art. 572 c.p., dei quali, peraltro, l’uno ha natura istantanea e l’altro abituale.

Ciò premesso è, dunque, opportuno analizzare l’art. 84 c.p.; dal tenore letterale dello stesso risulta ictu oculi che la figura in esame presenti più forme di manifestazione. Focalizzandosi, però, su quanto attiene alla soluzione del quesito si può affermare che il profilo problematico è l’inclusione o meno del caso di specie nel genus del reato complesso in senso lato. Nel testo della norma citata si individuano chiaramente due distinte ipotesi, una definibile come: “reato composto”, costituito da elementi che di per sè integrererebbero altre figure criminose; mentre l’altra definibile come: “reato complesso circostanziato”, nel quale, ad una fattispecie-base, distintamente prevista come reato, si aggiunge quale circostanza aggravante un fatto autonomamente incriminato da altra disposizione di legge. Per cui da un punto di vista meramente formale risulta ictu oculi la sussumibilità del caso di specie risulta in questa seconda categoria, posto che il delitto di maltrattamenti in famiglia – autonomamente punito dall’art. 572 c.p. – è espressamente previsto come aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 576, comma 5 c.p.. A queste considerazioni di natura testuale debbono essere aggiunge delle considerazioni di natura sostanziale che confermano l’applicabilità dell’art. 84 c.p. Invero, qualora il delitto di omicidio (o tentato omicidio come nel caso di specie) avvenga in un contesto di maltrattamenti risulta evidente l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti delittuosi. Non vi è dubbio, infatti, che, se l’intento Legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta ex art. 572 c.p., è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale i maltrattamenti e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono, altresì, in una prospettiva finalistica unitaria.

La tesi della ravvisabilità di un reato complesso nella fattispecie aggravata in esame, convalidata dalle argomentazioni che precedono, non è inficiata dalle obiezioni che alla stessa sono state opposte. Tanto in considerazione, soprattutto, delle caratteristiche del reato complesso come delineate in generale e, per quanto detto, presenti nel caso di specie, con particolare riguardo alla necessaria ricorrenza di un’unitarietà non solo contestuale, ma anche finalistica dei fatti complessivamente considerati. Tale interpretazione, peraltro trova l’avvallo della giurisprudenza di legittimità nella sua massima composizione (Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 38402) la quale mutatis mutandis ha affrontato la tematica oggetto della presente sentenza in relazione al delitto di atti persecutori ex art. 612bis c.p. e l’aggravante di cui all’art. 576, comma 5.1 c.p. concludendo anche in questo caso in senso favorevole all’applicazione dell’art. 84 c.p.

La riconducibilità del caso in esame alla disciplina del reato complesso implica l’inoperatività dei meccanismi di cumulo sanzionatorio, previsti negli articoli precedenti, escludendo qualsiasi incidenza sanzionatoria dei reati in esso unificati. Fra le disposizioni oggetto di richiamo dell’incipit dell’art. 84 c.p. rientra il concorso formale di reati ex art. 81, comma 1 c.p., per la quale è previsto il cumulo giuridico. La normativa dell’art. 84 si connota particolarmente come derogatoria in quanto “assorbe” le pene stabilite per i singoli reati in quella stabilita per il reato complesso.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che sia applicabile il principio di consunzione tra la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. e il delitto di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 5 c.p. Pertanto, il Supremo Collegio annullava senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di maltrattamenti in famiglia rideterminava e la pena inflitta per il delitto di tentato omicidio aggravato.

 

(*Contributo in tema di “Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)