Danno da perdita del rapporto parentale patito dalle figlie Il danno morale patito dalle figlie per perdita della relazione parentale va riconosciuto anche in caso di mancata convivenza con il genitore?
Quesito con risposta a cura di Maurizio Della Ventura e Junia Valeria Massa
L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, quest’ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur: in tal caso, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo. (Cass., sez. III, 16 febbraio 2025, n. 3904 – Danno da perdita del rapporto parentale).
Nel caso di specie, la Suprema Corte, a distanza di pochi anni da un suo precedente arresto, torna nuovamente a pronunciarsi sul tema del danno da perdita del rapporto parentale, con particolare riguardo all’incidenza che riveste la coabitazione e la vicinanza geografica fra il defunto, quale vittima primaria, e alcuni suoi familiari, come vittime secondarie o di riflesso.
Il caso sottoposto al vaglio dei giudici di merito, prima, e della Corte di legittimità, in sede di ricorso, concerne l’azione risarcitoria avanzata dagli attori avverso la struttura ospedaliera per il riconoscimento del danno derivante dalla definitiva deprivazione della relazione parentale, in seguito all’uccisione del rispettivo coniuge e padre.
Atteso il rigetto della domanda da parte del giudice di prime cure, veniva adita la Corte d’appello che, in parziale accoglimento del gravame, riconosceva esclusivamente in capo al coniuge il danno da sofferenza per morte del congiunto, rigettando l’analoga domanda delle figlie.
Le ragioni che hanno condotto ad escludere la rilevanza del legame con la vittima ai fini del diritto al risarcimento, riposerebbero nella lontananza dal de cuius e nella mancata allegazione del concreto atteggiarsi della relazione affettiva richiesta per i rapporti tra genitori e figli non conviventi.
Avverso il decisum, i soccombenti ricorrevano per Cassazione eccependo, quale unica doglianza, la violazione ed erronea interpretazione degli artt. 1123 e 2059 c.c., nonché violazione dei precetti costituzionali dedicati alla famiglia, ex art. 29, 30 e 31 Cost.
La Suprema Corte, disattendendo l’assunto confermato in appello, con un’argomentazione più succinta, ma non per questo reticente – tenuto conto dell’evidente rinvio ai precedenti sul punto – si sofferma sul tema del nesso intercorrente tra la cessazione della convivenza e le ricadute in termini probatori ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria.
Il collegio giudicante muove dalla premessa logico-giuridica che l’esistenza di un pregiudizio conseguente dalla perdita del rapporto parentale si presume allorquando il fatto colpisca i membri della c.d. “famiglia nucleare”, ossia quei soggetti legati da un matrimonio o da uno stretto vincolo di parentela.
Da siffatta circostanza ne consegue che l’evento uccisione di uno dei soggetti componenti la cellula minima familiare è idonea ex se a far presumere, a mente dell’art. 2727 c.c., una sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima.
Ma vi è di più.
L’enunciato principio di diritto, sostiene la Corte, non subisce alcuna torsione in ragione del fatto che vittima e superstite non convivessero né che fossero distanti, in quanto ciò non si riflette nella volontà di porre fine al forte, peculiare e duraturo legame affettivo; tuttalpiù, le citate circostanze assumono rilievo ai soli del giudizio di quantificazione del danno sofferto e, comunque, non sarebbero di per sé sole, foriere di un contesto relazionale compromesso.
Sullo sfondo della prospettiva accolta dalla Corte è possibile scrutare gli approdi di quel consolidato orientamento giurisprudenziale che, per un verso, non riconosce al venir meno della coabitazione alcun valore autonomo circa la produzione del danno non patrimoniale, e, per altro, non richiede l’elemento della convivenza fra la vittima primaria e secondaria per riconoscere il risarcimento del danno morale riflesso dall’uccisione di un parente.
Tale solco ermeneutico, prosegue la sentenza, oltre a costituire un caposaldo della granitica e costante giurisprudenza di legittimità, consente, al contempo, di destrutturare agevolmente le argomentazioni poste a fondamento della decisione oggetto del giudizio di legittimità.
Ne deve conseguire, il riconoscimento di un danno morale in capo ai superstiti, anche se non più conviventi con la vittima, nonché l’inversione della prova in capo al convenuto circa l’esistenza di un rapporto di indifferenza e di odio tra i medesimi soggetti.
Alla luce del summenzionato iter argomentativo e facendo buon governo dei precedenti pronunciamenti, la Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata rinviando, per l’effetto, la causa alla Corte d’Appello.