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Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT della PA In tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica, si determina un vuoto di tutela?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA. che delimita la giurisdizione della Corte dei Conti alla sola spesa pubblica non si determina un vuoto di tutela, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo (Cass., Sez. Un., 25 novembre 2024, n. 30220).

Le Sezioni Unite hanno stabilito che: “In tema di impugnazione dell’elenco annuale ISTAT delle pubbliche amministrazioni predisposto ai sensi del SEC 2010, l’art. 23quater D.L. 137/2020, nel delimitare la giurisdizione della Corte dei Conti – Sezioni Riunite alla sola applicazione della disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non ha determinato un vuoto di tutela o il mancato rispetto dell’effetto utile della disciplina unionale, restando attribuita la giurisdizione, per ogni ulteriore ambito, al giudice amministrativo”.

Pertanto, la Cassazione conferma la centralità dell’art. 103 Cost., che attribuisce alla Corte dei Conti una giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, senza tuttavia precludere al legislatore di ridefinirne i confini per esigenze di sistema. Inoltre, ribadisce che il sistema italiano è compatibile con il principio di effettività, affidando al G.A. il controllo sugli aspetti procedurali e di legittimità e alla Corte dei Conti il compito di vigilare sugli effetti contabili della spesa pubblica.

 

(*Contributo in tema di “Giurisdizione del G.A. in tema di impugnazione dell’elenco ISTAT delle PP.AA.”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Furto con strappo e rapina Il contegno con cui il reo asporta una res particolarmente aderente al corpo della vittima è sussumibile nella fattispecie di furto con strappo o in quella più grave della rapina?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Il soggetto agente che, con violenza sulla cosa, sottrae un bene strettamente aderente al corpo della persona offesa e se ne impossessa commette il delitto di cui all’art. 628 c.p., indipendentemente dalla volontaria resistenza della vittima o dalle ecchimosi da questa subite, in quanto, per superare la fisiologica opposizione posta dal corpo e conseguire, quindi, il risultato atteso, la violenza sulla cosa si estende necessariamente alla persona e si sviluppa su di essa (Cass., sez. II, 17 ottobre 2024, n. 45589 (Furto con strappo e rapina).

Nel caso di specie i Giudici di legittimità sono stati chiamati a sciogliere i nodi circa la qualificazione di una peculiare fattispecie in cui l’imputato si è reso autore dell’impossessamento di una collana particolarmente stretta al collo di una signora ultrasessantenne e in condizioni di vulnerabilità, in quanto rimasta vittima di tale condotta criminosa all’interno del suo domicilio cui il reo ha avuto accesso mediante artifizi e raggiri.

In sede di giudizio abbreviato il soggetto agente è stato condannato con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Modena, riconosciuto il vincolo della continuazione e, quindi, della medesimezza del disegno criminoso, per il delitto di truffa aggravata e rapina aggravata, sentenza questa che è stata, tra l’altro, confermata dalla Corte d’appello di Bologna.

Contro la decisione del giudice di secondo grado il reo, per mezzo del suo difensore, ha esperito ricorso per cassazione per omessa motivazione e manifesta illogicità della stessa circa alcuni profili dedotti nell’atto di appello.

Il difensore, innanzitutto, ha contestato che il giudice di merito abbia, erroneamente e senza adeguata motivazione, privilegiato la seconda versione dei fatti resa con la querela, quest’ultima successiva all’annotazione della P.G rispetto alla quale risulta contraddittoria.

Infatti, nelle dichiarazioni fornite alla P.G. il giorno in cui si è perfezionato e consumato il reato la persona offesa – per come dedotto nella censura di legittimità – non ha fatto riferimento alcuno alla violenza perpetrata dal reo.

Inoltre, il ricorrente ha lamentato la mancata riqualificazione del fatto in furto con strappo ai sensi dell’art. 624bis c.p.

La violenza eventualmente cagionata dall’imputato – sostiene il difensore – era diretta nei confronti della res senza alcun coinvolgimento della persona offesa, in quanto quest’ultima non opponeva alcuna resistenza all’agire delittuoso.

La seconda sezione penale della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

In particolare, i giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto logica la motivazione della Corte d’appello circa l’accoglimento della seconda versione fornita dalla vittima mediante querela, in quanto risultante più circostanziata e maggiormente attendibile per la maggiore lucidità psicologica caratterizzante la persona offesa.

Inoltre, la Cassazione con il suo arresto ha ribadito il principio di diritto espresso in una sua precedente decisione Cass. pen., sez. II, 3 ottobre 2006, n. 34206, nella quale la linea di demarcazione tra furto con strappo e rapina è stata individuata nella direzione della violenza sprigionata dal soggetto agente.

In particolare, il furto con strappo si configura quando la violenza si rivolge direttamente alla cosa, indipendentemente dai riflessi indiretti e involontari che la vittima possa subire a causa della relazione fisica tra la stessa e il bene posseduto. Per contro, si realizza il delitto di rapina nel momento in cui la violenza è diretta alla persona o si sviluppa sulla medesima e, comunque, anche quando viene esercitata per vincere la sua resistenza attiva (così anche Cass. pen., sez. II, 19 dicembre 2014, n. 2553).

Ciò nonostante, con quest’illuminante sentenza gli Ermellini sono andati oltre e hanno approfondito con un’interessante argomentazione la vexata quaestio circa il confine tra le due tipologie di reato.

Nel caso specifico si è precisato che, quando la cosa che si intende asportare è particolarmente aderente al corpo del possessore, la violenza perpetrata sul bene si estende inevitabilmente anche alla persona (così anche Cass. pen., sez. II, 11 novembre 2010, n. 41464).

Icasticamente nella fattispecie in questione il soggetto attivo, per raggiungere il risultato criminoso atteso, ha dovuto superare non solo la forza di coesione inerente alla relazione fisica tra possessore e cosa sottratta, ma altresì la materiale opposizione determinata dal corpo della vittima, per cui qui lo strumento con cui si è realizzata la sottrazione non è tanto lo strappo, quanto la violenza stessa (così anche Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2019, n. 16899).

La configurazione della rapina, peraltro, non è ostacolata dalla circostanza che la persona offesa non abbia subito alcuna contusione o lesione, in quanto lo strappo della collana determina un inconfutabile esercizio di energia fisica sul collo della donna che si concretizza, quindi, in una violenza sulla persona, elemento quest’ultimo costitutivo ai sensi dell’art. 628 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Furto con strappo e rapina”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Falsa testimonianza e timore di subire lesioni La falsa testimonianza determinata dall’altrui minaccia di un danno grave all’incolumità del deponente è scriminata per la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 384 c.p. o, in subordine, dello stato di necessità?

Quesito con risposta a cura di Leonarda di Fonte e Francesco Trimboli

 

In tema di falsa testimonianza, il timore di subire conseguenze pregiudizievoli per la propria vita o incolumità a causa della deposizione non integra la scriminante di cui all’art. 384 c.p, ma potrebbe al più configurare la causa di giustificazione dello stato di necessità, purché siano accertate in concreto dal giudice di merito le condizioni richieste dall’art. 54 c.p. (Cass., sez. VI, 10 dicembre 2024, n. 45261).

Nel caso specifico i Giudici di legittimità sono stati chiamati a decidere sulla configurabilità della scriminante ai sensi dell’art. 384 c.p. e, alternativamente, dello stato di necessità in caso di falsa deposizione indotta dal pericolo di subire ritorsioni sulla propria persona dall’organizzazione criminale di tipo mafioso di cui era membro il destinatario delle dichiarazioni testimoniali.

La fase dibattimentale del giudizio di primo grado era stata omessa, in quanto l’imputato ha chiesto l’ammissione al giudizio abbreviato all’esito del quale era stata pronunciata dal G.u.p sentenza di condanna per il delitto a lui ascritto di falsa testimonianza.

In secondo grado la sentenza di condanna è stata riformata dalla Corte d’appello, la quale ha assolto il reo con la formula “il fatto non costituisce reato”, in quanto l’antigiuridicità era esclusa dalla sussistenza dell’esimente ai sensi dell’art. 384 c.p.

Contro la sentenza di condanna della Corte territoriale il Procuratore generale della Corte medesima ha proposto ricorso per cassazione per due motivi di violazione di legge.

In particolare, il P.G. ha censurato la ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 384 c.p, in quanto nel caso di specie il timore di subire un pregiudizio era ipotetico e supposto e concerneva l’incolumità personale, ossia un bene giuridico differente dalla libertà o dall’onore indicati dalla norma.

Inoltre, ha contestato alla Corte d’appello l’accertamento del difetto dell’elemento psicologico del dolo in capo al reo.

La sesta Sezione della Corte di cassazione con la decisione in questione ha accolto il ricorso e, conseguentemente, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio degli atti ad altra sezione territoriale per un nuovo giudizio sul punto.

Innanzitutto, i giudici di legittimità hanno ribadito quanto enunciato in una loro recente sentenza Cass. pen., sez. VI, 20 giugno 2024, n. 27411, secondo cui la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. dev’essere esclusa quando il teste rende la falsa testimonianza per il timore di un nocumento successivo alla vita o all’incolumità propria, circostanza nella quale piuttosto può configurarsi lo stato di necessità.

I Giudici di legittimità, quindi, si sono soffermati sul requisito dell’attualità del pericolo di cui all’art. 54 c.p., il quale sussiste quando, durante la condotta criminosa del reo, ci sia la ragionevole minaccia di una causa prossima e imminente del danno accertata alla luce di una serie di circostanze concrete, tra cui circostanze di tempo e di luogo, tipo di danno temuto e la sua possibile prevenzione (così anche Cass., sez. I, 2 giugno 1988, n. 4903).

Tra l’altro, lo stato di necessità può ricorrere anche quando è determinato dall’altrui minaccia ai sensi dell’art. 54, comma 3 c.p., in relazione al quale la giurisprudenza di legittimità, con il richiamo di un precedente arresto Cass. pen., sez. III, 2 febbraio 2022, n. 15654, specifica che il pericolo attuale di un danno grave alla persona non dev’essere necessariamente imminente, ma può essere altresì “perdurante”, per cui il pregiudizio minacciato può verificarsi anche in un prossimo futuro

Infine, la scriminante de qua può essere riconosciuta anche in forma putativa ai sensi dell’art. 59, comma 4 c.p. quando il soggetto agente dimostra, alla luce di dati di fatto concreti e prodotti in giudizio, che la sussistenza dell’attualità o inevitabilità del pericolo sia stata da lui erroneamente supposta senza colpa (così anche Cass. pen., sez. VI, 11 giugno 2024, n. 30592; Cass. pen., sez. VI, 16 ottobre 2019, n. 2241).

Ciò premesso, la Corte conclude con l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio della decisione nel merito alla Corte d’appello, in quanto in base alla motivazione della decisione censurata dal P.G. non è stato possibile accertare la sussistenza o meno dei requisiti richiesti dall’art. 54 c.p. per lo stato di necessità (ancorché anche in forma putativa ai sensi dell’art. 59 c.p.) diretta a detergere l’antigiuridicità della falsa testimonianza perpetrata dall’imputato.

 

(*Contributo in tema di “Falsa testimonianza”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Amministrazione separata dei beni demaniali gravati da usi civici In materia di beni demaniali gravati da usi civici spetta al Comune il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Deve ritenersi che al Comune spetta il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico fino alla costituzione dell’amministrazione separata di tali beni (Cass., Sez. Un., 14 ottobre 2024, n. 26598). 

I Giudici evidenziano che, in materia di demanio e patrimonio e, più nel dettaglio, di beni gravati da usi civici, deve ritenersi che al Comune spetti il potere di gestione e amministrazione dei beni frazionali di uso civico fino alla costituzione dell’amministrazione separata da tali beni, la quale succede all’ente locale e subentra nei rapporti da questo già instaurati.

Le Sezioni Unite hanno rilevato che: “Già la L. 1766/1927, quanto all’individuazione del soggetto cui affidare la rappresentanza degli interessi della collettività, nonché l’amministrazione dei beni interessati da uso civico, optò a favore del Comune, in quanto individuato come ente particolarmente vicino ai fruitori del diritto. Ancorché, secondo la prevalente opinione della giurisprudenza, la proprietà dei beni resti in capo alla collettività dei cittadini (trattandosi di un’entità che di norma preesiste alla stessa istituzione dell’ente locale), la citata legge, accanto ai Comuni ha altresì previsto, nel caso in cui i diritti di uso civico siano riferibili agli abitanti di una frazione, e non all’intero territorio comunale, che vengano costituite le amministrazioni separate, le quali, pur senza acquisire una personalità giuridica (nella legge statale), sono munite di una soggettività giuridica, in quanto centro di imputazione degli interessi della collettività installata nella frazione”.

Nello specifico caso esaminato, l’istituzione dell’amministrazione separata avvenuta solo successivamente all’entrata in vigore della legge della provincia di Trento 6/2005, ha comportato la legittima amministrazione e gestione da parte del Comune, in vista della tutela degli interessi degli abitanti della frazione.

 

(*Contributo in tema di “Amministrazione separata dei beni demaniali gravati da usi civici”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Dichiarazione di interesse culturale di un bene È legittimo il provvedimento della Soprintendenza di dichiarazione di interesse culturale di un bene che applichi in concreto, pur non facendone espressa menzione, i criteri individuati dal Consiglio superiore delle antichità e belle arti?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo il provvedimento anche alla luce della necessaria valutazione di tipo globale e sintetico e posto che l’interesse culturale dell’opera venga espresso in considerazione della norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione, per cui il privato ha l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso da quest’ultima sia scientificamente inaccettabile (Cons. Stato, sez. VI, 19 novembre 2024, n. 9285).

Il Collegio ricorda che, ai sensi degli artt. 10, comma 3, lett. a), 13 e 14, del D.Lgs. 42/2004, il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (il c.d. vincolo diretto) è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, in quanto implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Sulla scorta di tanto, l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecniche e del procedimento applicativo prescelto (Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 2022, n. 1510).

Emerge, dall’elaborazione a cui il Collegio dà continuità, che il presupposto del potere ministeriale di vincolo viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico, accertabile in via diretta dal giudice, bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione. Ne consegue, dunque, che se è vero che l’interessato può “contestare anche il nucleo intimo dell’apprezzamento complesso” ha tuttavia l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente inaccettabile.

Dunque, nel caso di specie, l’Amministrazione, pur non avendone fatta espressa menzione, ha applicato in concreto i criteri individuati dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti nella seduta del 10 gennaio del 1974 (e recepiti dal D.M. 6 dicembre 2017, n. 537), approdando ad una valutazione finale supportata da adeguata motivazione. Motivazione in linea con i già indicati criteri che svolgono un ruolo di mero indirizzo rispetto alla spendita delle potestà di discrezionalità tecnica attribuite all’amministrazione tutoria e pongono parametri compositi da applicare, senza alcun automatismo, in maniera congiunta nell’ambito di un giudizio di tipo globale e sintetico.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazione di interesse culturale di un bene”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Furto lieve per stato di necessità L’ipotesi di furto lieve per bisogno può essere riconosciuta in presenza di una situazione di grave indigenza, anche se il valore della merce sottratta supera quello comunemente considerato “tenue”?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di Cassazione ha precisato che il delitto di furto lieve, motivato da esigenze di necessità, può essere riconosciuto nei casi in cui l’oggetto sottratto abbia un valore modesto e sia destinato a soddisfare una necessità grave e urgente. Tale principio stabilisce che, per qualificare l’imputazione come furto lieve anziché come furto comune, non è sufficiente un generico stato di bisogno o di miseria da parte del colpevole; è, invece, necessaria una condizione di urgenza, per la quale non vi siano alternative praticabili se non la sottrazione dell’oggetto stesso (Cass. sez. V, 19 maggio 2014, n. 32937). (Cass., sez. IV, 6 novembre 2024, n. 40685).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello aveva confermato la condanna per tentato furto di generi alimentari e prodotti per la cura personale, ritenendo non sussistente lo stato di necessità invocato dalla ricorrente. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, sottolineando che la Corte d’Appello non aveva adeguatamente valutato le circostanze oggettive che attestavano un grave stato di malnutrizione e indigenza della ricorrente, la quale era stata descritta come una persona senza fissa dimora e in condizioni di estrema vulnerabilità.

La Corte ha evidenziato che la semplice valutazione del valore dei beni sottratti, superando i cento euro, non è sufficiente per escludere l’ipotesi di furto lieve per necessità, in quanto la merce era destinata a soddisfare un’urgenza alimentare. Pertanto, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, rinviando il caso alla Corte d’Appello affinché riesamini la situazione in conformità ai principi giuridici esposti. La Corte ha ribadito che l’analisi del comportamento dell’imputato deve tener conto delle specifiche circostanze di vita e delle necessità in cui si trova.

In conclusione, la decisione della Cassazione evidenzia l’importanza di un’analisi approfondita delle condizioni di fatto che possono giustificare una condotta di furto lieve per bisogno, richiamando l’attenzione sulla differenza tra lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. e l’ipotesi di furto lieve per bisogno di cui all’art. 626 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Assunzione sostanza stupefacente: responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte Come viene a configurarsi l’elemento soggettivo colposo dello spacciatore in relazione alla morte dell’assuntore di sostanza stupefacente?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il processo di causalità tra consegna della droga e morte, ma anche che il decesso sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che, quindi, sia accertata nei suoi confronti la presenza, in concreto, dell’elemento soggettivo colposo, correlata alla violazione di una regola precauzionale diversa dalla norma che incrimina il reato-base e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assuma la sostanza drogante, calibrate secondo la figura di un agente – modello che si trovi nella specifica situazione di quello “reale” ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto da quest’ultimo conosciute e conoscibili (Cass., sez. V, 14 novembre 2024, n. 41898).

In seguito ad una sentenza di proscioglimento per omissione di soccorso e contestuale condanna in appello ai sensi del reato ex art. 586 c.p. e cessione di sostanze stupefacenti, veniva presentato ricorso presso il Supremo Consesso per due ordini di motivi. Da una parte, violazione di legge per l’affermazione di responsabilità ex art. 586 c.p. per il mancato riconoscimento dell’elemento soggettivo colposo per la morte della persona offesa, assuntrice abituale di sostanza stupefacente; il secondo, invece, si limitava al vizio di legge per il trattamento sanzionatorio complessivo e il riconoscimento della recidiva. Il caso concerneva la responsabilità penale di uno spacciatore per la morte dell’assuntrice per la cessione di una dose, dopo che i due avevano trascorso insieme la notte a bere e consumare eroina, tanto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero riconosceva tra le cause del decesso un sovradosaggio acuto di oppiacei.

In merito al riconoscimento della colpa in capo all’imputato, il quesito veniva ritenuto fondato da parte del Supremo Consesso.

Il grado di colpa esigibile e il relativo accertamento necessario venivano illustrati dalla Corte partendo dalla interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla sentenza di Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676 (cd. Ronci). Quest’ultima si occupava di illustrare la compatibilità tra il reato di morte come conseguenza di altro delitto e il principio di colpevolezza, aderendo alla tesi già discussa in giurisprudenza della responsabilità per colpa in concreto.

Partendo dall’accertamento, questo deve necessariamente svolgersi mediante un giudizio di prognosi postuma, focalizzata sul frangente in cui è avvenuto il fatto. Oggetti dell’accertamento sono il nesso di causalità tra la consegna della droga e l’evento morte, ma anche e soprattutto la concreta rimproverabilità del decesso in capo allo spacciatore. Quest’ultima può ritenersi presente qualora la sussistenza dell’elemento soggettivo colposo risulti correlato alla violazione di una regola precauzionale differente a quella incriminante il reato – base e in presenza di un concreto coefficiente di prevedibilità ed evitabilità del rischio per il bene (ndr. vita dell’assuntore). Il parametro di valutazione è quello del comportamento dell’agente – modello, basato su tutte le circostanze del caso concreto dall’autore conosciute e conoscibili. Su queste fondamenta si è poi incardinata tutta la giurisprudenza successiva in materia di imputazione dell’omicidio dell’assuntore di sostanza stupefacente nei confronti dello spacciatore ex art. 586 c.p. (da ult. Cass. 19 settembre 2018, n. 49573).

L’analisi della Corte di legittimità prosegue riconoscendo il reato di morte come conseguenza di altro delitto quale forma di delitto aggravato dall’evento. Essa assume i contorni di una forma speciale di aberratio delicti ex art. 83, comma 2 c.p.: l’evento-morte, non voluto, viene imputato a titolo di colpa nell’ambito di un concorso formale di reati, in quanto derivante dalla commissione di una diversa condotta voluta e prevista ex se costituente reato. Tale circostanza impone che la valutazione del coefficiente psicologico colposo richiesto debba essere riferita al momento dell’evento morte, seppur collegato oggettivamente al precedente delitto doloso, poiché è dall’evento che viene ricavata la regola precauzionale violata.

Due sono gli elementi che confluiscono nella ricostruzione del fatto di reato: da una parte, l’agire prodromico all’evento che deve essere assistito dalla coscienza e volontà degli elementi essenziali del reato; dall’altra, l’accertamento della colpa, la quale deve essere proiettata nella fase consequenziale alla consumazione del delitto doloso. Pertanto, l’accertamento appena accennato va legato al momento della cessione della dose di sostanza stupefacente e non, come veniva realizzato dal giudice di merito nel caso di specie, nell’arco temporale tra questa e il decesso per non aver prestato assistenza alla vittima.

D’altra parte, la giurisprudenza di merito non ha valorizzato altri elementi ragionevolmente sintomatici della prevedibilità in concreto; indici di colpa possono risultare, sempre per giurisprudenza di legittimità consolidata, nella cessione contestuale o ravvicinata di più dosi alla medesima persona, nella consegna di una dose in elevata concentrazione o nella cessione a soggetto in evidente stato di alterazione da alcol (Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676).

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Il pagamento al creditore apparente: la tutela dell’art. 1189 c.c. Il debitore adempiente può invocare la tutela di cui all’art. 1189 c.c. quando sussiste una situazione in cui il pagamento avvenga in conflitto tra i creditori?

Quesito con risposta a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone

 

Poiché l’art. 1189 c.c. è diretto a tutelare il solo debitore che paghi il creditore che appia “univocamente” tale, cioè la situazione in cui il pagamento avvenga in mancanza di un conflitto, noto al debitore, sulla relativa legittimazione, tale disposizione non è, di regola, applicabile nel caso in cui siano espressamente rivolte al debitore, prima del pagamento, pretese contrastanti da diversi potenziali aventi diritto (disponendo del resto il debitore di diversi e adeguati strumenti di tutela della sua posizione, per tale eventualità), salvo solo il caso eccezionale in cui alcune di suddette pretese appaiono, già prima facie, manifestamente infondate e pretestuose ovvero vi sia un ordine giudiziale che imponga il pagamento in favore di uno dei pretendenti (Cass., sez. III, 23 ottobre 2024, n. 27439 (pagamento al creditore apparente).

Nel caso di specie, il Supremo Consesso compie una precisa ricognizione del perimetro applicativo dell’art. 1189 c.c., che disciplina il pagamento effettuato dal debitore nei confronti di colui che appare essere il creditore (creditore apparente). In virtù di tale articolo, il legislatore ha stabilito che il debitore è liberato dall’adempimento dell’obbligazione allorquando dia prova di aver eseguito la prestazione nei confronti di un soggetto che, senza essere il creditore o, comunque, un soggetto legittimato ex art. 1188 c.c., appaia essere legittimato in base a circostanze univoche e dimostra, altresì, di essere stato in buona fede. Di talché, dall’analisi della disposizione in esame emerge che affinché l’adempimento in favore di un soggetto diverso da quello legittimato a riceverlo determini la liberazione ex art. 1189 c.c., occorre che ricorrano due distinti presupposti: uno di carattere soggettivo (la buona fede del debitore) e l’altro di carattere oggettivo (le circostanze univoche che facciano apparire il ricevente come soggetto legittimato). La ratio della norma è, dunque, quella di tutelare l’affidamento incolpevole del debitore che in buona fede ritiene di adempiere la sua obbligazione, pagando il creditore legittimato a riceve la prestazione (e non il creditore apparente).

Sulla base di tale analisi, i giudici della Corte di Cassazione, nella sentenza oggetto di attenzione, hanno ravvisato la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 1189 c.c., da parte dei giudici della Corte d’Appello di Milano, poiché questi non avevano valutato, nell’individuare l’effettivo titolare del diritto di pagamento, una pluralità di circostanze di fatto, tra cui l’esistenza di più creditori rispetto al premo assicurativo. Invero, nel momento in cui vengono avanzate più pretese in ordine al pagamento dell’obbligazione, tra loro contrastanti e ad opera di soggetti diversi, è palese la sussistenza di una controversia in punto di autenticità delle sottoscrizioni (precedente effettuate) e, quindi, di riflesso, anche sulla autenticità della titolarità del diritto al pagamento.

Ciò posto, la Corte di Cassazione stabilisce che la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano sia inficiata da un vizio c.d. di sussunzione, poiché ha ricondotto nell’alveo del perimetro applicativo dell’art. 1189 c.c. una fattispecie concreta che, in realtà, non rientra in tale campo applicazione. Difatti, la disciplina enucleabile dall’art. 1189 c.c. non è passibile di applicazione allorquando, in primo luogo, siano avanzate – espressamente – al debitore pretese tra loro contrastanti e provenienti da soggetti in conflitto tra loro circa l’adempimento di un’obbligazione e, in secondo luogo, quando non sussistono circostanze oggettive ovvero univoche che inducono il debitore ad effettuare il pagamento nei confronti di uno dei “creditori”.

La Corte di Cassazione, conclude, stabilendo che in tali casi viene in soccorso, non già l’art. 1189 c.c., ma l’art. 687 c.p.c. La norma, nello specifico, disciplina il c.d. sequestro conservativo. Di tale autonoma figura di sequestro ci si può avvalere allorché tra le parti del rapporto sinallagmatico sorga una controversia circa i diritti e gli obblighi nascenti dallo stesso rapporto, così come nell’ipotesi in cui, avendo il debitore chiesto un accertamento negativo del proprio obbligo, intenda medio tempore sottrarsi alle conseguenze negative dell’inadempimento, ossia alla mora debendi.

Sulla base di tali principi, i giudici di legittimità, nel caso attenzionato, accolgono il ricorso incidentale avanzato dagli eredi dello stipulante la polizza assicurativa e cassano la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviano alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

 

(*Contributo in tema di “Il pagamento al creditore apparente: la tutela dell’art. 1189 c.c.”, a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Somministrazione del vaccino e responsabilità ASL Esiste un nesso causale tra l’esecuzione delle vaccinazioni e l’autismo?

Quesito con risposta a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone

 

 

Va negata l’esistenza di un nesso causale tra la somministrazione di un vaccino e i problemi fisici e psicofisici riconducibili allo spettro dell’autismo, sulla base delle più accreditate ricerche scientifiche (Cass., sez. III, ord. 7 novembre 2024, n. 28691).

Nel caso oggetto di attenzione, il Supremo Consesso analizza una relativa al rapporto tra il consenso informato e la somministrazione di un vaccino non obbligatorio a un soggetto minorenne e l’insorgenza, all’indomani, di una progressiva e grave regressione psico-fisica, culminata in una forma di autismo.

I ricorrenti lamentavano, in uno dei quattro motivi, che la Corte d’Appello di Bari aveva accolto solo le doglianze in merito al mancato consenso informato e non anche quelle relative al risarcimento dei danni da somministrazione del vaccino, senza, per altro, tener conto del fatto che, se adeguatamente informati, non avrebbero acconsentito alla somministrazione dello stesso vaccino al figlio (minorenne).

I giudici di legittimità sul punto, riprendendo e condividendo il percorso logico-argomentativo sviluppato dai giudici della Corte d’Appello di Bari, asseriscono che il motivo sollevato dai ricorrenti è infondato. Innanzitutto, si riconosce il capo all’ASL un deficit informativo circa i rischi di eventuali reazioni fisiche conseguenti la somministrazione del vaccino. Tuttavia, si rileva che sulla base delle più accreditate ricerche scientifiche non si può determinare alcuna relazione di causalità tra la somministrazione del vaccino e le successive patologie fisiche e psico-fisiche riconducibili allo spettro dell’autismo.

Sulla base di tale conclusione scientifica, è stata esclusa ogni relazione casuale tra l’iniezione del vaccino e la sindrome di autismo. Si è negato, così, l’an del diritto al risarcimento e correttamente non si è sviluppata alcuna istruttoria in ordine al quantum debeatur.

 

(*Contributo a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Legittimazione a impugnare e azione popolare (Art. 9 D.lgs. 267/2000) Ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia se si presuppone l’esistenza di una situazione giuridica attiva in capo all’ente da tutelare mediante azione giudiziale e l’inerzia dello stesso ente nel far valere detta situazione giuridica in sede processuale (Cons. Stato, sez. V, 12 novembre 2024, n. 9046 – Legittimazione a impugnare, azione popolare, art. 9 d.lgs. 267/2000).

Nella fattispecie concreta il ricorrente ha agito in giudizio ai sensi dell’art. 9, comma 1, D.Lgs. 267/2000, e cioè in via sostitutiva dell’ente comunale e provinciale.

La suddetta disposizione prevede che ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia. Dunque, si tratta di un particolare meccanismo di sostituzione processuale dell’ente locale a beneficio degli elettori che presuppone l’esistenza di un’azione giudiziale di spettanza dell’ente e la sua inerzia nell’esercitarla.

La natura dello strumento non è correttiva, bensì suppletiva e il suo presupposto necessario va rinvenuto nell’omissione, da parte dell’ente, dell’esercizio delle proprie azioni e ricorsi. Infatti, l’attore non può porsi in contrasto con l’ente stesso al fine di rimuovere gli errori e le illegittimità da questo commessi.

Pertanto, occorre che l’azione e il ricorso siano volti alla tutela di posizioni giuridiche dell’ente locale cui l’elettore si sostituisce, in specie nei confronti di possibili pregiudizi derivanti da azioni od omissioni di terzi, da fatti o atti compiuti da privati o anche da altre pubbliche amministrazioni.

L’iniziativa sostitutiva postula dunque, da un lato, una situazione giuridica attiva in capo all’ente da tutelare mediante azione giudiziale, dall’altro, l’inerzia dello stesso ente nel far valere detta situazione giuridica in sede processuale.

 

(*Contributo in tema di “Legittimazione a impugnare, azione popolare, art. 9 d.lgs. 267/2000”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)