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Maltrattamenti in presenza o a danno di minori e sospensione della responsabilità genitoriale È legittima la comminazione obbligatoria della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale a seguito di condanna per il delitto di maltrattamenti commesso in presenza ovvero a danno di minori con abuso della responsabilità genitoriale?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

Viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2 c.p. nella parte in cui prevede che la condanna per il delitto ex art. 572, comma 2, c.p., commesso, in presenza o a danno di minori, con abuso della responsabilità genitoriale, comporta la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporla. – Corte cost. 22 aprile 2025, n. 55 (sospensione della responsabilità genitoriale).

Il Tribunale di Siena sollevava questione di legittimità del reato succitato in quanto chiamato a giudicare sulla responsabilità penale di due genitori per il reato di maltrattamenti in famiglia «perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, ponevano in essere abitualmente, con finalità educative, condotte violente ed aggressive nei confronti dei figli minori conviventi». Una volta riconosciuta quest’ultima, lo stesso riteneva ultronea nell’an e nel quantum l’applicazione della pena accessoria della sospensione dalla responsabilità genitoriale. La motivazione risiedeva nel lungo lasso temporale intercorso tra i fatti e il procedimento, nel corso del quale vi era stata una ricomposizione del nucleo familiare. In particolare, il giudice remittente contestava tanto l’obbligatorietà della sanzione conseguentemente alla pena per maltrattamenti quanto il suo lasso temporale (il doppio rispetto alla pena per maltrattamenti).

L’excursus del giudice di merito partiva da un richiamo alla precedente sentenza della Consulta 222/2018; essa descriveva la discrezionalità del giudice nel determinare la pena in concreto, in quanto naturale prosecuzione dei principi costituzionali. Applicando tali principi, il giudice a quo evidenziava come in questo caso le risposte sanzionatorie rischino di rivelarsi manifestatamente sproporzionate rispetto a casi meno gravi [1] e, di conseguenza, incompatibili con il principio di individualizzazione della pena ex artt. 3 e 27 Cost. Al contempo, viene richiamata l’ulteriore sent. 102/2020 con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della pena accessoria obbligatoria della sospensione con riferimento al reato di sottrazione e trattenimento di minore all’estero (art. 574bis, comma 3 c.p.).

I Giudici della Consulta illustravano preliminarmente l’inammissibilità del primo motivo di doglianza, il quale era stato parametrato alla Convenzione dei Diritti del fanciullo. Quest’ultima veniva, infatti, evocata come riferimento immediato e non come norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.

L’iter argomentativo proseguiva suddividendo la valutazione del quesito in due filoni: da una parte, la valutazione dell’automatica applicazione della pena accessoria della sospensione (con riferimento agli artt. 2, 3 e 30 Cost.) e, dall’altra, la valutazione sul quantum.

Tre le sentenze della Corte costituzionale che si annoverano sul tema per motivare il primo quesito. Punto di partenza è costituito dalla sent. 31/2012. Con tale pronuncia la Corte si è espressa sul reato di alterazione di stato, in base al combinato disposto degli artt. 569 e 567, comma 2 c.p. In particolare, si evidenziava come ad essere coinvolto fosse l’interesse del figlio minorea vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione” (Corte cost. 31/2012). Il concetto è stato poi rimarcato dalla successiva sent. 7/2013, dichiarante l’incostituzionalità dell’art. 569 c.p. e concluso con la sent. 102/2020 sull’illegittimità del delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero.

In particolare, l’interesse del minore ex artt. 30 Cost. e 147 c.c. è inevitabilmente coinvolto dalla decisione del Giudice della decadenza dalla responsabilità genitoriale. Lo stesso si manifesta nell’obbligo dei genitori di assicurare ai figli un completo percorso educativo che garantisca loro benessere, salute e crescita fisica e spirituali, sulla base delle condizioni socioeconomiche dei genitori. Solo il venir meno di tali obblighi, pertanto, giustifica la decadenza del genitore dal suo ruolo e sempre e unicamente per salvaguardare le esigenze educative e affettive del minore. In virtù del complesso equilibrio di diritti e doveri così delineato, “è irragionevole precludere «al giudice ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso concreto, tra l’interesse stesso e la necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso, tali da giustificare la detta applicazione appunto a tutela di quell’interesse»” (Corte cost. 22 aprile 2025, n. 55). La commissione del reato da parte del genitore, infatti, può costituire un indice delle mancanze provocate e non una irragionevole presunzione assoluta di inidoneità al ruolo. Diversamente, anche il minore si ritroverebbe ad essere direttamente colpito dalla sanzione e dalla conseguente perdita di diritti, poteri e obblighi che il genitore possiede nei suoi riguardi. Inoltre, tale circostanza risulta irragionevole anche alla luce del momento di comminazione, ossia con il passaggio in giudicato della sentenza che spesso viene in essere molto dopo lo svolgimento dei fatti, con il rischio di interrompere percorsi di riparazione del rapporto affettivo, così come avvenuto nel caso di specie. A conclusione, la Corte indicava come assorbite le questioni ex artt. 27 e 29 Cost. e invitava il legislatore a meglio delineare la competenza in materia di decadenza dalla responsabilità genitoriale tra il giudice per i minorenni o ordinario.

A conclusione, la Corte dichiarava l’inammissibilità della questione inerente al quantum della pena per contraddittorietà della motivazione a quo.

[1] La «rigidità applicativa» che esse richiedono, infatti, determinerebbe risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso «rispetto ai fatti commessi con abuso di responsabilità genitoriale meno gravi», non consentirebbe di tenere in considerazione l’interesse del minore alla preservazione del nucleo familiare e si rivelerebbe distonica rispetto al principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, con violazione degli artt. 3 e 27 Cost.

 

(*Contributo in tema di “Maltrattamenti in presenza o a danno di minori e sospensione della responsabilità genitoriale”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Annullamento con rinvio erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso Deve disporsi l’annullamento con rinvio ex art. 105 c.p.a. della sentenza del giudice di primo grado che abbia erroneamente dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, deve disporsi l’annullamento con rinvio ex art. 105 c.p.a. della sentenza di primo grado che abbia erroneamente dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse (Consiglio di Stato, sez. IV, 9 aprile 2025, n. 3009).

I Giudici di Palazzo Spada evidenziano che deve disporsi l’annullamento con rinvio ex art. 105 c.p.a. della sentenza del giudice di primo grado che abbia erroneamente dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse. In tale contesto, rileva quanto stabilito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 20 novembre 2024, n. 16, secondo la quale le pronunce di inammissibilità che omettono l’esame del merito danno luogo ad una pronuncia di annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., in ragione della nullità della sentenza per motivazione apparente. Tale orientamento è coerente con quanto già affermato dalle sent. 10 e 11/2018 dell’Adunanza Plenaria, le quali hanno sottolineato come anche un errore di rito manifestamente erroneo, che impedisca l’esame dei motivi di ricorso, integri i presupposti per l’annullamento con rinvio. In particolare, l’Adunanza ha chiarito che la ricostruzione del quadro normativo consente di rendere coerenti tra loro le disciplinate dall’art. 105 c.p.a., in quanto sia in caso di nullità della sentenza (per palese errore di giudizio sulle condizioni dell’azione) che in quelli di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea estinzione o perenzione, viene in rilievo non qualsiasi errore di giudizio, ma quell’errore di giudizio che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.

Questa interpretazione consente di evitare disparità di trattamento tra i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 2, c.p.a., che impongono l’annullamento con rinvio, e i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma1, c.p.a., non espressamente richiamati dall’art. 105 c.p.a. Non appare, infatti, ragionevole trattare in modo differente il ricorrente colpito da un’erronea dichiarazione di inammissibilità rispetto a quello destinatario di una corretta dichiarazione di estinzione del giudizio.

Il principio di diritto che si è consolidato prevede, dunque, che il Consiglio di Stato rimetta la causa al giudice di primo grado qualora dichiari la nullità della sentenza, anche nei casi in cui quest’ultima abbia erroneamente dichiarato inammissibile il ricorso, escludendo in modo palese la legittimazione o l’interesse del ricorrente.

Nel caso di specie, il T.A.R ha erroneamente ritenuto insussistente l’interesse a ricorrere sulla base del solo rilievo del vincolo derivante dalla cauzione, omettendo tuttavia di considerare le argomentazioni della ricorrente in ordine al proprio interesse a conseguire il bene della vita oggetto delle domande azionate. Pertanto, la sentenza appellata deve essere annullata con rinvio al medesimo T.A.R. ex art. 105 c.p.a., in ragione dell’accertata erroneità della pronuncia di inammissibilità per difetto di interesse.

 

(*Contributo in tema di “Annullamento con rinvio ed erroneità della declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Il contratto di locazione ispirato a finalità distrattive Un contratto di locazione può essere dichiarato nullo per contrarietà a norma imperativa ove ispirato a finalità distrattive?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Davide Venturi

 

Un contratto di locazione può essere dichiarato nullo per contrarietà a norma imperativa ove ispirato a finalità distrattive. – Cass., sez. I, ord. 9 aprile 2025, n. 9357.

Nell’ordinanza in esame la Suprema Corte ha specificato che in linea di principio, in assenza di una norma che vieti in via generale di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, un contratto lesivo dei diritti e delle pretese satisfattorie dei creditori non è di per sé illecito. Ne deriva che non può essere dichiarato nullo per illiceità della causa, né per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alle parti (se il contratto è stipulato con finalità vietata dall’ordinamento perché contraria norma imperativa, all’ordine pubblico o al buon costume), in quanto l’ordinamento appresta, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione di inefficacia.

Qualora però, oltre al pregiudizio dei creditori, un contratto violi anche una norma imperativa penale, l’atto negoziale è nullo ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.

Trattasi delle ipotesi c.d. di reato-contratto (come la vendita di sostanze stupefacenti, la ricettazione, il commercio di prodotti con segni falsi, il trasferimento di un bene in pagamento di un debito usurario) ove il contratto collide così gravemente con interessi di indole generale da assurgere di per sé alla qualificazione di reato.

Allo stesso modo, anche gli atti attraverso cui la società, poi assoggettata a procedura concorsuale, abbia determinato il trasferimento in favore di terzi di beni propri, così distraendoli alla soddisfazione della massa dei creditori, risultano assoggettati alla sanzione di nullità in quanto compiuti in violazione di norme incriminatrici, in materia di bancarotta (oggi liquidazione coatta amministrativa), norme altresì applicabili anche all’amministrazione straordinaria di una grande impresa dichiarata insolvente a norma dell’art. 95, comma 1 del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270.

Ciò rende evidente che l’area delle norme inderogabili la cui violazione può determinare la nullità del contratto è più ampia e non comporta di far riferimento al solo contenuto del contratto medesimo, ma ricomprende anche tutte quelle norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni, oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto.

Tuttavia, se al momento della dichiarazione giudiziale di insolvenza non sussiste più alcun pericolo concreto di per le ragioni dei creditori, essendosi posto effettivo rimedio agli atti distrattivi precedentemente compiuti (la c.d. bancarotta “riparata”), non sussisterebbe più l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, con la conseguenza che è da escludersi la nullità dei contratti in essere.

Ebbene, un contratto di locazione, dedotto a sostegno della domanda di ammissione al passivo del credito dell’imposta di registro sostenuta, non può essere considerato nullo poiché elemento concorrente alle operazioni distrattive volte a depauperare parte del patrimonio societario (la cui integrità è il bene giuridico tutelato dal precetto penale quale norma imperativa di riferimento) se dall’operazione distrattiva compiutamente realizzata per effetto di precedenti delibere assembleari ormai definitive non risulti il collegamento funzionale del contratto di locazione medesimo con le operazioni societarie distrattive stesse di cessione degli immobili sociali al creditore che vanta il credito stesso. Per la Suprema Corte, il collegamento, invero, può risultare da dati fattuali quali la misura abnorme dei canoni pattuiti, altrimenti il contratto è valido.

 

(*Contributo in tema di “Il contratto di locazione ispirato a finalità distrattive”, a cura di Valentina Riente e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Interdittiva antimafia nei confronti di una persona fisica non esercente attività imprenditoriale Vi è risarcimento nel caso di illegittima interdittiva antimafia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, vi è risarcimento in caso di illegittima interdittiva antimafia ricorrendo la colpa della P.A. per scorretta applicazione degli artt. 84, comma 3, e 85 del D.Lgs. 159/2011. – Cons. Stato, sez. II, 27 marzo 2025, n. 2564.

Il Consiglio di Stato conferma che l’emissione di un’interdittiva antimafia nei confronti di una persona fisica non esercente attività imprenditoriale costituisce un vizio sostanziale insanabile, in quanto in contrasto con l’art. 85 del D.Lgs. 159/2011, il quale delimita tassativamente i soggetti destinatari delle misure antimafia.

La Sezione afferma con chiarezza che l’illegittimità non può ritenersi scusabile ove l’amministrazione, in difetto di un quadro normativo realmente incerto, travalichi i limiti oggettivi e soggettivi dell’azione amministrativa discrezionale.

Inoltre, i Giudici di Palazzo Spada enunciano la sussistenza del nesso causale tra il provvedimento illegittimo e il danno subito dal professionista, riconoscendone l’esistenza sulla base del concorso di cause che hanno prodotto un danno di immagine e di riduzione degli incarichi professionali. Il Consiglio evidenzia che, qualora l’evento dannoso si ricolleghi a una pluralità di condotte, trova applicazione l’art. 41 c.p., che costituisce norma di carattere generale valevole in materia di responsabilità civile, in base alla quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute non esclude il nesso di causalità, tranne che si accerti l’esclusiva efficienza causale di una di esse.

Pertanto, nel solco della giurisprudenza più recente in tema di responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, si conferma l’esigenza di rigore nell’applicazione delle misure di prevenzione, specie quando incidono su diritti fondamentali della persona, come il diritto al lavoro e alla reputazione professionale.

Nel caso di specie, facendo applicazione dei su esposti principi, il Consiglio di Stato ha condannato l’Amministrazione al risarcimento del danno.

 

(*Contributo in tema di “Interdittiva antimafia nei confronti di una persona fisica non esercente attività imprenditoriale”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Divieto di prevalenza dell’attenuante e circostanza aggravante della recidiva reiterata È legittimo il divieto di prevalenza della circostanza attenuante ex art. 625 bis c.p. sulla recidiva reiterata (art. 99, comma 4 c.p.)?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4 c.p. nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza dell’attenuante della collaborazione del reo, prevista dall’art. 625bis dello stesso codice, sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata. – Corte cost. 22 aprile 2025, n. 56 (Divieto di prevalenza dell’attenuante).

La questione veniva sollevata con ordinanza dal Tribunale di Perugia, il quale era stato chiamato a decidere su un furto in abitazione. Nel caso trattato dal giudice a quo l’imputato veniva fermato dal proprietario dell’immobile in cui stava effettuando il furto dopo aver tentato la fuga, trovando refurtiva di poco valore. Nel corso dell’interrogatorio reso in occasione dell’udienza di convalida dell’arresto, l’imputato ammetteva l’addebito e consentiva l’identificazione del correo.

Il riconoscimento del fatto così come contestato è indubbio: sussistenti erano tutti gli elementi del furto in abitazione, così come la circostanza attenuante ad effetto speciale prevista all’art. 625bis c.p. e la contestata recidiva. Infatti, l’imputato aveva collaborato con le autorità per l’individuazione dei correi e, al contempo, era gravato da due precedenti specifici. Il Giudice remittente aggiungeva considerazioni sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione: la prima sulla base della ben inferiore sanzione irrogabile, la seconda per manifesta irragionevolezza rispetto alla ratio della circostanza attenuante, parametrandolo all’art. 3 Cost.. La circostanza attenuante di cui all’art. 625bis c.p. sarebbe «espressione di una scelta di politica criminale di tipo premiale, volta a incentivare, mediante una sensibile diminuzione di pena, il ravvedimento post-delittuoso dell’imputato, rispondendo, sia all’esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati contro il patrimonio». A ciò si aggiunga che per il riconoscimento dell’attenuante non è richiesta la spontaneità della collaborazione, ma solo il ruolo effettivamente avuto nell’individuazione dei correi. La norma posta al vaglio di legittimità della Consulta fornisce una rilevanza quasi insuperabile della condotta criminosa, anche rispetto alla collaborazione successiva del reo. Sistematicamente, questo aspetto si rivela scorretto su più fronti: da una parte, la collaborazione rappresenterebbe un disconoscimento del fatto illecito e un allontanamento dalla condizione di illegalità; dall’altra, la condotta contemporanea o susseguente al reato è indice di valutazione della capacità a delinquere del reo ai sensi dell’art. 133 c.p. e il Giudice di merito deve tenerne conto anche nella comparazione di circostanze eterogenee concorrenti.

La norma censurata, inoltre, ad avviso del giudice a quo, sarebbe costituzionalmente illegittima in un’ottica comparativa. In primo luogo, risulta incompatibile con il trattamento della circostanza attenuante a effetto speciale per i delitti di stampo mafioso, la quale non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee ed è obbligatoria. In secondo luogo, rispetto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4 c.p. come sostituito dalla dall’art. 3 della L. 251/2005 nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante a effetto speciale di cui all’art. 73, comma 7 D.P.R. 309/1990 sulla recidiva reiterata (Corte cost. 74/2016).

La Corte dichiara la fondatezza della questione prospettata, riferendosi a ben dodici pronunce antecedenti che hanno colpito il divieto di prevalenza di date circostanze attenuanti rispetto alla suddetta recidiva reiterata. Infatti, scopo del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee è quello di permettere al giudice di “valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono” (Corte cost. 38/1985). D’altra parte, deroghe al regime del bilanciamento sono ammissibili e rientranti nella discrezionalità del legislatore, purché non travalichino i confini della manifesta irragionevolezza o dell’arbitrio anche con riferimento ai principi costituzionali. Sulla base di queste considerazioni, la Consulta ha rinvenuto alterazioni degli equilibri in relazione a circostanze espressive di un minor disvalore del fatto. I filoni argomentativi si suddividono in tre tipologie.

Secondo il primo, la ratio della illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza è stata individuata nella centralità del fatto oggettivo rispetto alla qualità soggettiva del colpevole, in base alla quale deve escludersi che aspetti relativi alla maggiore colpevolezza o pericolosità dell’agente possano assumere nel processo di individualizzazione della pena una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo (Corte cost. 141/2023).

Proseguendo con il secondo, tali pronunce hanno fatto venire meno il divieto di prevalenza anche rispetto a circostanze inerenti alla persona del colpevole per la circostanza attenuante del vizio parziale di mente (Corte cost. 73/2020) e per quella di cui all’art. 116 c.p. (Corte cost. 55/2021). Una terza ratio, infine, attiene all’incentivo alla collaborazione del reo post delictum (Corte cost. 74/2016 e, da ultimo, Corte cost. 201/2023); scopo di quest’ultima è quella di incentivare, mediante una sensibile riduzione di pena, il ravvedimento dell’imputato rispetto alla condotta criminosa attuata rispondendo alle esigenze di tutela del bene giuridico e di prevenzione o repressione di condotte delittuose.

A conclusione, viene rimarcato dalla Consulta che il divieto assoluto di operare la diminuzione di pena consentita dall’attenuante, in presenza di recidiva reiterata, impedisce alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e ne frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio. Tale circostanza può in tal modo essere percepita come ingiusta dal cittadino, impedendo l’assolvimento della finalità rieducativa a cui deve aspirare la sanzione penale. Inoltre, in relazione al furto in abitazione, la scelta di incentivare la collaborazione non è venuta meno neppure nei successivi interventi legislativi. Pertanto, la suddetta norma veniva dichiarata costituzionalmente illegittima.

(*Contributo in tema di “Divieto di prevalenza dell’attenuante e circostanza aggravante della recidiva reiterata”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Intervento edificatorio e responsabilità per vizi dell’opera Nell’ambito di un intervento edificatorio, quando l’appaltatore è responsabile per i vizi dell’opera avendo seguito il progetto o le istruzioni impartite dal committente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Davide Venturi

 

L’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori. – Cass., sez. II, ord. 18 aprile 2025, n. 10231 (vizi dell’opera).

L’appaltatore, per essere esonerato da ogni responsabilità, in virtù del disposto dell’art. 2697 c.c. in relazione agli artt. 1667 e 1669 c.c., deve dimostrare di aver agito come un mero esecutore privo di libertà decisionale; pertanto, non spetta al committente provare di aver impartito istruzioni in modo sufficiente ed esatto.

In particolare, secondo giurisprudenza consolidata, l’appaltatore ha l’onere di dimostrare di aver segnalato le eventuali carenze e gli errori nel progetto e nelle indicazioni ricevute dal committente (nel caso di specie l’esecuzione di fondazioni senza un preliminare progetto geotecnico e senza la preventiva richiesta di un collaudatore di opere strutturali) e di aver eseguito comunque l’intervento poiché la committenza deteneva un rigido potere di direzione e controllo dell’attività.

In altri termini, posto che l’appaltatore – professionista o imprenditore – ha l’obbligo di realizzare l’opera oggetto del contratto nel rispetto della diligenza qualificata di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., ovverosia a “regola d’arte”, quindi con l’osservanza dei criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, previo rilievo e correzione di eventuali errori, qualora egli esegua i lavori senza manifestare dissenso alcuno, magari anche garantendo la bontà dell’esecuzione dell’opera commissionatagli, egli è, di fatto, responsabile dei danni occorsi a terzi a titolo di responsabilità contrattuale derivante dalla propria obbligazione di risultato, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori.

 

(*Contributo in tema di “Intervento edificatorio e responsabilità per vizi dell’opera”, a cura di Valentina Riente e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Estromissione processuale e legittimità ad agire L’estromissione si pone su un piano diverso dal difetto di legittimazione passiva?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, l’estromissione processuale si pone su un piano diverso dal difetto di legittimazione passiva, intendendosi come riduzione del numero delle parti del giudizio per effetto di un’ordinanza del giudice che accerti il sopraggiungere di circostanze di natura sostanziale. – TAR Lazio, Roma, sez. IIbis, 3 marzo 2025, n. 4522.

La Sezione evidenzia che l’estromissione processuale, intesa come riduzione del numero delle parti del giudizio per effetto di un’ordinanza del giudice che accerti il sopraggiungere di circostanze di natura sostanziale, è ammessa esclusivamente nei casi espressamente previsti dalla legge. Essa va tenuta distinta dalla diversa ipotesi in cui la parte resistente eccepisce, in capo a sè, il difetto di titolarità della situazione giuridica soggettiva fatta valere (c.d. difetto di legittimazione passiva) e chiede l’adozione di una sentenza parziale non definitiva e di merito, volta ad accertare l’insussistenza di corrispondenza tra la domanda proposta dal ricorrente e l’effettiva titolarità passiva della situazione giuridica dedotta in giudizio.

Nel processo civile, la titolarità della situazione giuridica soggettiva e il difetto di legittimazione passiva costituiscono categorie concettualmente distinte: la prima attiene al merito della controversia, la seconda al rito. Diversamente, nel processo amministrativo tali nozioni tendono a sovrapporsi, rendendo insufficiente che il ricorrente si limiti ad allegare la sussistenza della legittimazione attiva/passiva. È, infatti, richiesta la dimostrazione dell’effettiva titolarità di una situazione giudica soggettiva configurabile come interesse legittimo, sia esso pretensivo o oppositivo. A differenza del processo civile, nel quale l’accertamento della titolarità pone fine alla questione processuale, nel processo amministrativo tale accertamento non è sufficiente a definire il giudizio. Occorre, infatti, che nella fase di merito l’interesse legittimo del ricorrente sia confrontato con l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione, al fine di stabilirne l’eventuale prevalenza. In tale ottica, la legittimazione ad agire assume una valenza sostanziale, in quanto si configura come manifestazione processuale dell’interesse legittimo stesso.

 

(*Contributo in tema di “Estromissione processuale e legittimità ad agire ”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Locazione di immobili per finalità turistica in forma non imprenditoriale Il comune ha poteri inibitori in materia di locazione di immobili per finalità turistica in forma non imprenditoriale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il comune non ha poteri inibitori in materia di locazione di immobili per finalità turistica in forma non imprenditoriale. – Cons. Stato, sez. V, 7 aprile 2025, n. 2928.

In via preliminare, si rileva che la materia del turismo rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni, ferma restando la possibilità di intervento dello Stato nella materia dell’ordinamento civile di sua competenza esclusiva di cui all’art. 117, comma 2, lett. l) Cost., ambito nel quale si colloca la disciplina della libertà contrattuale, rilevante anche con riferimento ai rapporti di locazione turistica e suscettibili di incidere anche sul settore del turismo.

La Sezione evidenzia che l’attività di locazione a fini turistici svolta in forma non imprenditoriale, riconducibile al mero godimento indiretto di beni immobili, non è soggetta alla segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), di cui all’art. 19 L. 241/1990, ma richiede unicamente una comunicazione di inizio attività (CIA), avente finalità di monitoraggio. Ne consegue che tale attività non può essere assoggettata a poteri prescrittivi o inibitori da parte dell’amministrazione locale.

Dunque, gli immobili destinati alla locazione per finalità turistiche devono essere conformi ai requisiti edilizi e igienico-sanitari previsti dalla normativa primaria e secondaria per le civili abitazioni; tuttavia, l’eventuale difetto di tali requisiti potrà incidere sulla validità o sull’esecuzione del contratto di locazione eventualmente stipulato, ma non legittima l’amministrazione a vietarne la stipula.

 

(*Contributo in tema di “Locazione di immobili per finalità turistica in forma non imprenditoriale”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Eredità devoluta a minori incapaci e accettazione con beneficio d’inventario L’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario fatta dal legale rappresentante del minore, senza la successiva redazione dell’inventario, consente al minore di rinunciare all’eredità entro l’anno dal raggiungimento della maggiore età o tale facoltà gli è preclusa e il minore può solo redigere l’inventario nel termine di legge?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

In tema di eredità devoluta a minori o incapaci, la dichiarazione di accettazione con beneficio d’inventario resa dal legale rappresentante, ancorché non seguita dall’inventario, comporta per il minore l’acquisto della qualità di erede e, pertanto, rende inefficace la rinuncia all’eredità da lui manifestata una volta divenuto maggiorenne (Cass., Sez. Un., 6 dicembre 2024, n. 31310).

 L’art. 471 c.c. prescrive che l’eredità a favore di minori o interdetti deve essere accettata con beneficio di inventario. La ratio della disciplina risiede nell’esigenza di tutelare i predetti soggetti dal rischio di depauperare il loro patrimonio a causa di debiti altrui. In questa prospettiva si giustifica la previsione della nullità della dichiarazione di accettazione dell’eredità pura e semplice da parte del legale rappresentante. Pertanto, all’accettazione dell’eredità mediante dichiarazione con forma scritta ad substantiam si pone come unica alternativa la rinuncia.

Ai sensi dell’art. 471 c.c. la redazione dell’inventario deve avvenire entro un anno dal conseguimento della maggiore età, quindi entro un termine ben più ampio di quello previsto a favore del chiamato all’eredità maggiorenne che, invece, deve procedere all’inventario entro tre mesi ai sensi dell’art. 485 c.c. La circostanza che l’esecuzione dell’inventario si realizzi a distanza di tempo dalla dichiarazione di accettazione dell’eredità ha indotto la dottrina e la giurisprudenza ad assumere posizioni discordanti sul rapporto accettazione-inventario.

Posto che la dichiarazione di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario esprime la volontà del chiamato di accettare l’eredità e che tale dichiarazione è irrevocabile, secondo un primo indirizzo giurisprudenziale la dichiarazione è ex se idonea a far acquisire, ancorché in via provvisoria, il beneficio, i cui effetti si consolideranno una volta redatto l’inventario nei termini previsti. Si individua, in altri termini, in capo all’erede un onere di redigere l’inventario e in caso di mancato adempimento si decade dal beneficio (Cass., sez. lav., 2 marzo 1987, n. 2198; Cass., sez. II, 1° aprile 1995, n. 3842). Viceversa, un altro orientamento individua nell’accettazione con beneficio d’inventario una fattispecie a formazione progressiva, ove tanto la dichiarazione quanto l’esecuzione dell’inventario dell’eredità sono indispensabili per acquisire l’effetto della limitazione della responsabilità. La dichiarazione, infatti, ha una propria efficacia ma la limitazione delle responsabilità deriva dall’inventario, mancando il quale l’accettante è considerato erede puro e semplice (Cass., sez. II, 26 marzo 2018, n. 7477).

Tuttavia, con particolare riguardo all’ipotesi in cui il chiamato all’eredità sia un minore una parte della giurisprudenza sostiene che una volta raggiunta la maggiore età l’erede possa rinunciare all’eredità, ritenendo inoperante la disciplina di cui all’art. 485 c.c. (Cass., sez. II, 6 dicembre 2016, n. 841; Cass., sez. II, 16 novembre 2018, n. 29665).

Secondo un opposto orientamento, invece, in caso di accettazione con beneficio di inventario da parte di un minore, una volta che questi raggiunge la maggiore età, trova applicazione la disciplina di cui all’art. 489 c.c. In forza di questa disposizione il minore divenuto maggiorenne non può rinunciare all’eredità ma può solo procedere all’inventario la cui omissione comporta che egli sia considerato erede puro e semplice (Cass., sez. II, 23 agosto 1999, n. 8832; Cass., sez. II, 5 giugno 2019, n. 15267).

Questo orientamento è stato condiviso anche dalla Cassazione a sezioni unite secondo cui l’accettazione, seppur beneficiata, è sempre accettazione dell’eredità ed esprime la volontà del chiamato a succedere nel patrimonio del defunto. Inoltre, la decadenza dal beneficio di inventario ex art. 489 c.c. fa si che il minore divenuto maggiorenne sia considerato erede puro e semplice. A ulteriore sostegno di questa conclusione la Cassazione invoca l’art. 320, comma 3, c.c. che prevede che l’accettazione dell’eredità del minore sia sottoposta all’autorizzazione del giudice tutelare e l’art. 484 c.c che prevede l’inserzione della dichiarazione di accettazione beneficiata, disgiunta dall’inventario, nel registro delle successioni e la sua trascrizione nei registi immobiliari.

 

(*Contributo in tema di “Eredità devoluta a minori incapaci e accettazione con beneficio d’inventario”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Abuso edilizio e ipoteca iscritta a favore del creditore Sono costituzionalmente legittimi gli artt. 7, comma 3, L. 28 febbraio 1985, n. 47 e 31, comma 3, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 nella parte in cui non prevedono la permanenza dell’ipoteca a garanzia del creditore nel caso in cui l’immobile abusivo sia oggetto di confisca edilizia?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 per contrarietà agli artt. 3, 24, 42 Cost., nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.

È altresì costituzionalmente illegittimo, in via consequenziale, l’art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, D.P.R. 380/2001, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire (Corte cost. 3 ottobre 2024, n. 160).

La Corte costituzionale ha ritenuto l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 costituzionalmente illegittimo in quanto impone al creditore, titolare di un diritto di ipoteca su un immobile abusivo, un sacrificio irragionevole ed eccessivamente sproporzionato, a più forte ragione se non ha concorso in alcun modo all’abuso edilizio. Questo sacrificio deriva dalla confisca edilizia di un immobile abusivo prevista allorquando il responsabile dell’abuso non provvede nei termini di legge alla demolizione dell’immobile e al ripristino dello stato dei luoghi. Questa previsione normativa, prima dell’intervento della Consulta, era corroborata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che prevedeva la caducazione di ipoteche, pesi e vincoli preesistenti, neutralizzando oltremodo l’eventuale anteriorità della trascrizione o iscrizione. In questo modo, dunque, venivano meno tutte le prerogative relative al diritto di ipoteca: lo ius sequelae, lo ius distrahendi, lo ius prelationis.

Tuttavia, se si guarda alla funzione della confisca edilizia, questa risponde ad una sanzione in senso stretto che rappresenta una reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima esegue un’opera abusiva, e poi, non adempie all’obbligo di demolirla (Corte cost. 15 luglio 1991, n. 345; Cass., sez. III, 26 gennaio 2006, n. 1693). Pertanto, sulla scorta della natura sanzionatoria della confisca, appare oltremodo irragionevole che ne subisca le conseguenze anche il creditore ipotecario del tutto estraneo all’abuso. Siffatta conclusione trova ulteriore conferma nel fatto che il creditore non è neppure obbligato propter rem alla demolizione, in quanto il diritto reale di garanzia non gli attribuisce né il possesso né la detenzione del bene.

Il sacrificio previsto nei confronti del creditore, oltre ad essere irragionevole, risulta sproporzionato, in quanto la norma che non fa salvo il suo diritto reale, di fatto, lo espone ad attività eccessivamente gravose, tra le quali una vigilanza continua sull’immobile al fine di chiedere all’autorità giudiziaria la cessazione degli atti del debitore e dei terzi, idonei a creare i presupposti per la confisca edilizia (Cass. 5 agosto 2021, n. 22352; Cass. 8 febbraio 2019, n. 3797; Cass. 11 marzo 2016, n. 4865).

Quanto, invece, all’art. 31, comma 3, D.P.R. 380/2001, tale disposizione condivide con l’art. 7, comma 3, L. 47/1985 il medesimo tenore letterale e prevede l’acquisto originario in capo al comune con estinzione del diritto di ipoteca precedentemente iscritto. In ragione di ciò la Consulta ha ritenuto costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire.

 

(*Contributo in tema di “Abuso edilizio e ipoteca iscritta a favore del creditore”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)