assegnazione casa familiare

Assegnazione casa familiare: comprende anche i mobili Per la Cassazione, l'assegnazione della casa familiare si estende anche agli arredi e ai mobili essendo legata alla collocazione dei figli

Assegnazione della casa familiare

L’assegnazione della casa familiare si estende anche agli arredi essendo legata alla collocazione dei figli. E’ quanto stabilito dalla prima sezione civile della Cassazione nell’ordinanza n. 16691/2024.

La vicenda

Nella vicenda, con sentenza il tribunale di Trieste riconosceva il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie e le assegnava la casa coniugale. Il marito impugnava il provvedimento innanzi la Corte d’appello lamentando, tra l’altro, che la casa coniugale di sua proprietà comprendeva anche gli arredi, per cui l’assegnazione degli stessi era giuridicamente insostenibile, in quanto “legislativamente non prevista” e ne chiedeva, pertanto, la restituzione. La corte territoriale gli dava ragione. E la questione approdava in Cassazione dove l’ex moglie, tra le varie doglianze sosteneva che “gli arredi devono essere considerati parte integrante dell’habitat domestico tutelato dall’art. 337 sexies c.c.”.

Assegnazione casa familiare comprende gli arredi

Per gli Ermellini, il motivo è fondato. “L’assegnazione della casa familiare – affermano infatti – si estende anche a mobili ed arredi, essendo indissolubilmente legata alla collocazione dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti, i quali hanno diritto di conservare l’habitat domestico nel quale sono nati o cresciuti, composto delle mura e degli arredi. L’assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi, ai sensi dell’art. 155, comma 4, c.c., ricomprende, per la finalità sopraindicate, non il solo immobile, ma anche i mobili, gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’eccezione dei beni strettamente personali che soddisfano esigenze peculiari dell’altro ex coniuge (Cass., n. 5189/1998; Cass, n. 878/1986; Cass., n. 7303/1983)”.

Il logico collegamento, proseguono dal Palazzaccio, “tra immobile e mobili ai fini di tutelare l’interesse del minore alla conservazione dell’ambiente familiare va ribadito anche se la proprietà dell’immobile è di proprietà esclusiva del coniuge non proprietario dei beni mobili al fine di garantire al minore quel complesso di comfort e di servizi che durante la convivenza ha caratterizzato lo standard di vita familiare. In tale direzione è principio costantemente ribadito da questa Corte che il collegamento stabile con l’abitazione del genitore, caratterizzato da coabitazione anche non quotidiana ma compatibile con assenze giustificate da motivi riconducibili al percorso formativo, purché vi faccia ritorno periodicamente e sia accertato che la casa familiare sia luogo nel quale è conservato il proprio habitat domestico. Uno degli indici probatori può essere la circostanza che l’effettiva presenza sia temporalmente prevalente in relazione ad una determinata unità di tempo (Cass., n. 29977/2020; Cass., n. 16134/2019, Cass., n. 21749/2022)”.

La decisione

Nella specie, la Corte territoriale ha del tutto omesso di esaminare e porre in relazione con il diritto all’assegnazione della casa familiare nella sua completezza, la non autosufficienza economica della figlia maggiorenne delle parti, non oggetto di contestazione e la sua collocazione presso la predetta casa familiare. Per cui il ricorso principale è accolto e la sentenza cassata con rinvio.

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incontri padre figlia

Incontri padre-figlia sospesi se pesano alla minore Incontri padre-figlia: vanno sospesi se si rivelano contrari all’interesse del minore a causa dell’immaturità del padre

Incontri padre-figlia: sospesi se la minore li patisce

Gli incontri padre – figlia devono essere sospesi se creano sofferenza alla minore adolescente. I giudici di merito hanno accertato che il padre è immaturo, autocentrato, ossessivo e persecutore. La minore invece, grazie all’affido agli zii materni, al supporto dei servizi sociali e di quelli psicologici, è risultata matura ed equilibrata. Lo ha sancito la Cassazione nell’ordinanza n. 21969-2024.

Minore affidata agli zii paterni

Nell’ambito di un procedimento di separazione coniugale con problematiche legate all’affidamento della minore, la Corte d’Appello dispone l’interruzione degli incontri della minore con entrambi i genitori. La minore deve essere seguita dai servizi sociali e dal servizio di psicologia dell’età evolutiva e deve essere lasciata libera di riprendere gli incontri, previa valutazione degli operatori dei servizi.

Incontri padre-figlia: per il padre sono un diritto del minore

Il padre impugna la decisione di fronte alla Corte di Cassazione. L’uomo afferma che il suo rapporto con la figlia è stato compromesso a causa della malattia della madre e delle denunce che questa ha sporto nei suoi confronti. Questo situazione ha sicuramente impedito la creazione di un rapporto con la figlia.

Il ricorrente ritiene inoltre che la decisione sia del tutto nulla perché l’art. 8 della Cedu ha sancito il principio di non ingerenza dello Stato nella vita familiare. L’articolo 24 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE riconosce al minore il diritto di aver rapporti diretti e regolari con i genitori. L’uomo denuncia inoltre il mancato ascolto dei nonni paterni e l’affido della minore agli zii paterni.

Padre inidoneo ad avere rapporti sereni con la figlia

La Cassazione dichiara inammissibili i motivi sollevati dal padre. Gli Ermellini rilevano come la Corte d’appello sia giunta alla decisione oggetto di impugnazione per diverse ragioni. La stessa ha rilevato la non idoneità del padre ad avere rapporti sereni con la figlia minore. L’uomo risulta immaturo e affetto da ossessioni patologiche.

Da sospendere gli incontri padre-figlia se la minore mostra avversione

La Corte ricorda inoltre che in base ai principi sanciti dalla Convenzione di New York sui diritti del Fanciullo il giudice possa sospendere gli incontri padre-figlio se il minoredivenuto ormai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa – a tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante li supporto di strutture sociali e psicopedagogiche”. 

Non rilevano ai fini della sospensione degli incontri le responsabilità dei genitori o la fondatezza delle ragioni che il minore adduce per dare una giustificazione ai suoi sentimenti. Il Giudice deve solo valutare la profondità e l’intensità del sentire del minore per decidere se gli incontri possono portare al superamento della animosità o una sua dannosa radicalizzazione.

Sospensione degli incontri nell’interesse primario del minore

La Corte di Appello ha rispettato i principi indicati dalla Cassazione e ha attuato l’interesse primario della minore. La ragazzina è dotata intellettivamente ed è più matura della sua età. Ella è autonoma nel giudizio ed è risultata lucida nel fornire la lettura degli eventi e delle condotte dei genitori e degli altri adulti. Durante il giudizio si è dimostrata calma ed equilibrata.

Il padre, all’opposto, è immaturo, autocentrante, presenta dei disturbi ossessivi e persecutori, non ha un ruolo tutelante e negli anni non ha compiuto alcun progresso. La figlia soffre per questa situazione, ma ha anche mostrato sollievo per la sospensione degli incontri con il padre.

Da quando gli zii paterni l’hanno presa in affidamento la ragazzina ha compiuto miglioramenti progressivi. La Cassazione ritiene quindi di non poter accogliere le doglianze del padre perché finalizzate a contestare il riesame delle prove e del merito dei fatti.

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assegno divorzile

Assegno divorzile: 25 mesi di matrimonio non bastano Assegno divorzile: la breve durata del matrimonio non esclude l’assegno a meno che manchi la comunione morale e materiale

Assegno divorzile: l’assenza di comunione di vita può escluderlo

Sull’assegno divorzile torna a pronunciarsi la Cassazione nella sentenza n. 21955-2024. Gli Ermellini precisano che la breve durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell’assegno divorzile, ma non sulla sussistenza del diritto allo stesso. Questa regola vale a meno che tra i coniugi non si sia realizzata una comunione di vita materiale e spirituale.

Assegno divorzile per l’ex moglie malata

Due coniugi restano uniti in matrimonio per pochi mesi. La moglie chiede la separazione, ma poco dopo la coppia si riconcilia. A distanza di poco più di due anni i due si separano per una seconda volta. La coppia non ha figli. Nel giudizio di divorzio il Tribunale riconosce alla moglie un assegno divorzio di Euro 450,00 con funzione assistenziale. Il Tribunale precisa però che la malattia da cui è  affetta la donna non è invalidante e non rappresenta un ostacolo allo svolgimento di un’attività lavorativa.

Ridotto l’assegno divorzile: comunione spirituale e materiale quasi assente

Il marito impugna la decisione per contestare il riconoscimento dell’assegno di divorzio. La Corte d’Appello accoglie il ricorso del marito e riduce l’importo dell’assegno a 350 euro mensili. Per la il giudice dell’impugnazione non sussistono i presupposti necessari per riconoscere un assegno divorzile con funzione perequativa e compensativa.

Matrimonio breve e convivenza assente

Tra i coniugi non si è mai instaurata una comunione di vita affettiva a causa della brevissima durata del matrimonio. La coppia non ha mai convissuto stabilmente insieme, perché la donna ha conservato una sua abitazione. Da questi fatti si può anche desumere che la donna non abbia mai partecipato e contribuito alla formazione di un patrimonio comune, in effetti del tutto inesistente, o del patrimonio personale del marito. Il coniuge infatti al momento del matrimonio ha ereditato i beni di famiglia e risulta nudo proprietario dell’abitazione gravata dall’usufrutto in favore della madre. Il marito inoltre, di professione avvocato da vari decenni, ha un suo patrimonio. La moglie  in tutto questo non ha dato alcun contributo, neppure morale, al marito.

Assegno divorzile con funzione assistenziale

L’assegno di 350,00 euro è riconosciuto solo in funzione assistenziale, dopo aver valutato le condizioni di salute della donna. La certificazione medica prodotta attesta infatti la presenza di sclerosi multipla nella forma relapsing remittente, caratterizzata dall’alternanza di periodi acuti con periodi di rimessione. Per la Corte però la donna potrebbe lavorare, anche grazie a una laurea in lingue e a pregresse esperienze lavorative. La donna potrebbe conseguire un reddito discreto, ma non risulta che si sia attivata nella ricerca di un lavoro o di prestazioni assistenziali dopo la fine del matrimonio. L’assegno non può essere eliminato, ma sicuramene va ridotto considerata la ridotta capacità lavorativa della moglie nei periodi di recidiva della malattia.

Assenza di comunione di vita e matrimonio breve: niente assegno

Il marito impugna la sentenza davanti alla Cassazione per contestare il riconoscimento dell’assegno divorzile.

La Cassazione accoglie i primi due motivi del ricorso perché fondati. Corretta la deduzione della non spettanza dell’assegno divorzile alla luce della mancata instaurazione di una comunione di vita conseguente alla scarsissima durata del matrimonio e all’assenza di una convivenza effettiva. La Corte di Appello ha infatti rilevato la breve durata del matrimonio, l’assenza di una costante convivenza e la conseguente assenza di una comunione di vita, che è l’essenza del matrimonio. Il giudice dell’impugnazione tuttavia ha riconosciuto l’assegno, seppur in misura ridotta rispetto al giudice di primo grado.

Sulla questione però la Cassazione afferma da tempo che “in tema di divorzio, la durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell’assegno … ma non anchesalvo nei casi eccezionali in cui non si sia realizzata alcuna comunione materiale spirituale tra i coniugi – sul riconoscimento dellassegno divorzile”.

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carta dedicata a te carburanti

Carta Dedicata a te: sconto carburanti Il Mimit ha rinnovato la convenzione per lo sconto sui carburanti per i possessori della carta "Dedicata a te". Misura importante per un milione e 300mila famiglie

E’ stata sottoscritta, alla presenza del sottosegretario Massimo Bitonci, la convenzione tra il Ministero delle Imprese e del Made in Italy e le principali associazioni del settore carburanti, che rinnova l’applicazione della scontistica per i possessori della carta ‘Dedicata a te’. Lo comunica il MIMIT con una nota del 1° agosto.

Come per la precedente iniziativa, la convenzione – siglata da Assocostieri, Federchimica- Assogasliquidi, Assogasmetano, Assopetroli – Assoenergia, Federmetano e Unem – disciplina le condizioni e le modalità operative attraverso cui le imprese autorizzate alla vendita aderiscono ai piani di contenimento dei costi del prezzo alla pompa.

Questo accordo consentirà, da settembre, a un milione e 300 mila famiglie di beneficiare di un plafond rinforzato a 500 euro, spendibile anche nei rifornimenti – ha sottolineato il sottosegretario Massimo Bitonci -. Il rinnovo della convenzione rappresenta una misura fondamentale per i meno abbienti, uno sgravio alla mobilità dei più bisognosi. Ringrazio i gestori per l’impegno profuso, che si somma allo sforzo del Governo con lo stanziamento di 670 milioni”.

Sconto carburanti: come funziona

Lo “Sconto carburanti” è un’iniziativa che consente agli aderenti di applicare uno sconto volontario ai possessori della carta “Dedicata a te” sull’acquisto di carburanti effettuato con la carta stessa che verrà ricaricata o attivata dai primi giorni di settembre 2024. (Decreto 4 giugno 2024 pubblicato in GU Serie Generale n. 146 del 24 giugno 2024).

Le imprese aderenti all’iniziativa offriranno:

  • uno sconto immediato sull’importo del rifornimento
  • oppure un buono da utilizzare per un successivo acquisto di carburante.

L’adesione delle imprese all’iniziativa avviene su base volontaria.

Gli aderenti rendono nota all’utente, secondo proprie modalità organizzative, compresa la facoltà di pubblicare sul proprio sito web e/o app gli elenchi dei punti vendita aderenti, la scontistica e le modalità di fruizione dello sconto che intendono applicare a favore dei possessori della carta “Dedicata a te”.

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spese per i figli

Spese per i figli: quali vanno concordate La Cassazione chiarisce che le spese per i figli da concordare preventivamente con l'ex coniuge sono quelle che non rientrano nel regime di spesa ordinario

Spese per i figli: vanno concordate solo quelle eccezionali

I genitori non devono concordare tutte le spese per i figli. Il genitore collocatario non deve chiedere il consenso dell’ex prima di sostenerle, se hanno natura ordinaria. L’accordo preventivo è richiesto solo per quelle spese che “per rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità” non rientrano nel regime di spesa ordinario per i figli. In ogni caso, se il genitore collocatario non informa sempre e preventivamente l’ex, anche in relazione a queste spese, non significa che non possa richiedere il rimborso della quota a carico dell’altra parte, dopo averle sostenute. Questa la decisione della Cassazione nella sentenza n. 21785-2024.

Non dovute le spese per i figli straordinarie se non concordate

Un padre si oppone a un decreto ingiuntivo con cui l’ex coniuge gli ingiunge di pagare la somma di 1687,25 euro, oltre accessori. La donna chiede la somma a titolo di rimborso, nella misura del 50%, delle spese straordinarie sostenute per figlie minori.

Le spese si riferiscono alle rette della scuola privata, alla quota della palestra, ai corsi in un centro sportivo e alle gite scolastiche. Il Giudice di pace revoca il decreto e condanna l’opponente a pagare la minore somma di Euro 1.626,25.

Il padre appella la decisione e in questa sede l’autorità giudiziaria precisa che le rette per la scuola sono spese straordinarie da concordare. Le spese relative all’attività sportiva invece hanno natura di spese straordinarie routinarie, che il padre non ha mai contestato. Per quanto riguarda infine le spese per le gite scolastiche il tribunale rileva come il giudice di Pace abbia già decurtato dall’importo del decreto ingiuntivo modificato il 50% delle stesse.

Solo alcune spese straordinarie vanno concordate

Il padre però, ancora insoddisfatto dell’esito del giudizio, impugna la decisione in Cassazione.

Con il secondo motivo contesta al Tribunale di aver inserito nel protocollo delle spese straordinarie assunto in sede di divorzio anche le rette per la scuola privata e le spese sportive.

Con il terzo invece critica la decisione del Tribunale relativa alle spese sportive che hanno comportato l’acquisto della necessaria attrezzatura e di averle fatte rientrare tra quelle che non richiedono un accordo preventivo tra i coniugi.

La Cassazione rigetta il ricorso e si esprime poi sulla natura straordinaria delle spese e sulla necessità del preventivo accordo tra genitori.

Gli Ermellini rilevano come il tribunale abbia ritenuto che l’utilizzo del termine “tasse” per la scuola privata, come indicato nel protocollo, fosse improprio. Tale termine non può non comprendere le rette, da intendersi come spese straordinarie. Per quanto riguarda invece le spese per l’attività sportiva il tribunale ha ritenuto che il mancato riferimento nel protocollo di queste voci di spesa non attribuiva alle stesse la natura di spese ordinarie. Era necessaria una valutazione più in linea con gli orientamenti della giurisprudenza.

Spese da concordare: giurisprudenza recente

La Cassazione ricorda comunque che la decisione del tribunale sul preventivo accordo sulle spese straordinarie è conforme alla recente giurisprudenza.

Quest’ultima afferma infatti che: riguardando il preventivo accordo solo quelle spese straordinarie che per rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita della prole, fermo restando che, anche per queste ultime, la mancanza della preventiva informazione ed assenso non determina automaticamente il venir meno del diritto del genitore che le ha sostenute, alla ripetizione della quota di spettanza dell’altro, dovendo il giudice valutarne la rispondenza all’interesse preminente del minore e al tenore di vita familiare.”

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Congedo parentale: procedura aggiornata L'Inps ha aggiornato la procedura per la presentazione delle domande di congedo parentale e congedo parentale a ore in virtù delle modifiche introdotte dalle ultime leggi di bilancio

Congedo parentale procedura domande

Congedo parentale, procedura aggiornata dall’Inps. Con il messaggio n. 2704/2024, l’istituto ha comunicato infatti l’aggiornamento della procedura di presentazione delle domande di congedo parentale e congedo parentale a ore in virtù delle modifiche introdotte dalle ultime due leggi di bilancio all’art. 34 del Dlgs n. 151/2001.

Congedo parentale, le novità nelle ultime leggi di bilancio

L’articolo 1, comma 359, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (legge di Bilancio 2023), e l’articolo 1, comma 179, della legge 30 dicembre 2023, n. 213 (legge di Bilancio 2024), hanno disposto, rispettivamente, “l’elevazione dal 30% all’80% della retribuzione dell’indennità di congedo parentale per un mese da fruire entro il sesto anno di vita del figlio (o entro i 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età) e l’elevazione dell’indennità di congedo parentale per un ulteriore mese dal 30% al 60% della retribuzione per la durata massima di un mese di congedo e fino al sesto anno di vita del bambino (o entro i 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età), elevata all’80% per il solo anno 2024”.

Le disposizioni in commento, ricorda l’Inps, si applicano anche ai lavoratori dipendenti di Amministrazioni pubbliche, tuttavia, per costoro “il riconoscimento del diritto al congedo e l’erogazione del relativo trattamento economico sono a cura dell’Amministrazione con la quale intercorre il rapporto di lavoro, secondo le indicazioni dalla stessa fornite”.

La nuova procedura per le domande di congedo parentale

La procedura per l’acquisizione delle domande di congedo parentale e congedo parentale a ore dei lavoratori dipendenti implementata dall’istituto permette di presentare la domanda con la richiesta di indennità maggiorata. Non è necessario presentare una nuova domanda per i periodi pregressi già indennizzati con le maggiorazioni normativamente previste.

A tale fine è necessario spuntare con “SI” la nuova dichiarazione “Dichiaro di voler richiedere l’indennizzo con aliquota maggiorata” inserita nella pagina “Dati domanda”.

La procedura richiede di valorizzare la data relativa alla fine del congedo di maternità o di paternità (obbligatorio o alternativo) nel caso in cui la data del parto o la data di ingresso in famiglia per affidamento/adozione ricada nell’anno 2022. Nel caso in cui, invece, l’evento ricada nell’anno 2023, l’inserimento di almeno una delle suddette date, se successiva al 31 dicembre 2023, è necessaria per il diritto all’ulteriore mese con quota maggiorata al 60% (80% solo per l’anno 2024).

Nel caso in cui, infine, l’evento nascita o l’ingresso in famiglia si verifichi a partire dal 1° gennaio 2024, si applicano le disposizioni della legge di Bilancio 2024 e non è quindi necessario, ai fini del diritto alla fruizione dell’ulteriore mese della quota maggiorata al 60% (80% solo per l’anno 2024), l’accertamento relativo alla data di fine congedo di maternità o paternità (obbligatorio o alternativo). Stesso criterio nel caso di figli nati a partire dal 1° gennaio 2023 in relazione a quanto previsto dall’articolo 1, comma 359, della legge di Bilancio 2023.

Domande per periodi successivi

Inoltre, la procedura di acquisizione della domanda è stata modificata consentendo, attualmente, di presentare la domanda di congedo parentale per i soli periodi che iniziano non più tardi di due mesi rispetto alla data di presentazione della domanda stessa.

In tale modo si garantisce una maggiore efficienza amministrativa in quanto la definizione delle domande può seguire l’ordine cronologico di fruizione dei periodi, evitando sovrapposizioni nel tempo e richieste di modifiche o annullamento di periodi di congedo parentale richiesti e non fruiti.

L’implementazione effettuata non preclude la possibilità per il lavoratore di comunicare la necessità di fruire del congedo parentale con un maggiore preavviso al datore di lavoro. A tale proposito rammenta, infatti l’Inps, il termine contenuto nell’articolo 32 del decreto legislativo n. 151/2001 prevede un preavviso minimo, non inferiore a 5 giorni (2 giorni per il congedo parentale fruito a ore), ma non esclude un preavviso superiore.

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convivente di fatto familiare

Il convivente di fatto è un familiare La disciplina dell'impresa familiare si applica dunque anche al convivente di fatto. Illegittimi gli artt. 230bis e 230-ter c.c.

Convivente di fatto e impresa familiare

Il convivente di fatto è un familiare perciò si applica la disciplina dell’impresa di famiglia. E’ quanto ha affermato la Corte Costituzionale (sentenza n. 148/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare – oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo – anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto».

Inoltre, in via consequenziale, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (cosiddetta legge Cirinnà), riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta.

Conviventi di fatto: la legge e la giurisprudenza

Per «conviventi di fatto» – secondo la definizione prevista dall’art. 1, comma 36, di tale legge – si intendono «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».

Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare – in riferimento, in particolare, agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione – nella parte in cui il convivente more uxorio non era incluso nel novero dei «familiari».

La Corte costituzionale ha accolto le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.

L’impresa familiare

“Rimangono – osserva ancora la Corte – le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio; ma quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni”.

Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che, “nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.

La decisione

Nel sottolineare che “la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare” la Consulta ha quindi ritenuto irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.

“All’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che – nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare – comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione”.

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matrimonio breve niente mantenimento

Matrimonio breve? Niente mantenimento Per la Cassazione, la breve durata del matrimonio deve essere valutata per stabilire la spettanza del diritto e quantificare l’assegno di mantenimento

Durata matrimonio e assegno di mantenimento

Se il matrimonio è di breve durata l’assegno di mantenimento può non spettare al coniuge richiedente. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 20507-2024. 

La vicenda

La vicenda nasce nell’ambito di un giudizio di separazione giudiziale relativa a un rapporto coniugale da cui non sono nati i figli. La Corte d’Appello respinge l’impugnazione del marito gravato dal dover contribuire al mantenimento della moglie corrispondendo un assegno mensile di 3000 euro. Respinta la richiesta del marito di addebito della separazione alla moglie la Corte conferma il mantenimento in favore della donna alla luce dello squilibrio economico delle parti.

L’uomo nel ricorrere in Cassazione solleva quattro motivi di doglianza, tra i quali assume particolare rilievo e interesse il terzo, con il quale invoca la nullità della sentenza per l’omesso esame di due fatti storici decisivi come la breve durata del matrimonio e la giovane età della richiedente, al fine di stabilire la spettanza e il quantum dell’assegno di mantenimento.

Esclusione diritto al mantenimento

La Cassazione dichiara inammissibile il primo, il secondo e il quarto motivo sollevati dal ricorrente, accoglie invece il terzo perché fondato.

Sull’assegno di mantenimento conseguente alla separazione la Cassazione a Sezioni Unite, nella pronuncia n. 32914/2022 ha osservato che “La separazione personale tra i coniugi non estingue il dovere reciproco di assistenza materiale, espressione del dovere, più ampio, di solidarietà coniugale, ma il venir meno della convivenza comporta significativi mutamenti:

  1. a) il coniuge cui non è stata addebitata separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di mantenimento, qualora non abbia mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacita concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato, che può essere liquidato in via provvisoria nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 708 del codice di procedura civile;
  1. b) il coniuge separato cui è addebitata la separazione perde, invece, il diritto al mantenimento e può pretendere solo la corresponsione di un assegno alimentare se versa in stato di bisogno”. 

Ai fini della corresponsione dell’assegno di mantenimento rileva anche la durata del matrimonio, anche se la Cassazione fino al 2017 ha circoscritto questo profilo alla quantificazione dell’assegno di mantenimento.

Con pronunce successive a questa data però la Corte ha stabilito che la breve durata del rapporto coniugale, se da una parte non esclude automaticamente il diritto all’assegno, dall’altra può non instaurare una comunione spirituale e materiale tra i coniugi. In queste ipotesi può quindi rappresentare una causa di esclusione del diritto al mantenimento.

La decisione

La decisione impugnata dal marito in effetti non ha preso in considerazione la durata estremamente breve del rapporto coniugale sotto il profilo della spettanza e della quantificazione, anche se in sede di merito era stato accertato che la donna si era allontanata dalla casa coniugale a pochi mesi dal matrimonio. La sentenza va quindi cassata affinché la Corte d’appello riesamini la decisione alla luce dei principi suddetti relativi al mantenimento conseguente alla separazione, tra i quali assume rilievo la breve durata del matrimonio.

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giurista risponde

Assegno divorzile e incentivo all’esodo L’assegno divorzile può essere riferito anche all’incentivo all’esodo, oltre che al trattamento di fine rapporto (ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970)?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

La quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1979, al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, concerne non tutte le erogazioni corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, ma le sole indennità, comunque denominate, che, maturando in quel momento, sono determinate in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore; tra esse non è pertanto ricompresa l’indennità di incentivo all’esodo con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro. – Cass., Sez. Un., 7 marzo 2024, n. 6229.

La vicenda è quella di due ex coniugi, uno dei quali si è visto riconosciuto il diritto all’assegno di divorzio ex art. 5, comma 6, L. 898/1970, mentre l’altro aveva conseguito somme a titolo di indennità di fine rapporto (a cui si riferisce l’art. 12bis della legge citata) e di incentivo all’esodo. Più nello specifico, il giudizio di primo grado fra le due parti si era concluso nel senso del riconoscimento del diritto all’assegno di divorzio, il cui importo è stato però determinato tenendo conto del solo trattamento di fine rapporto. La pronuncia veniva confermata in appello, con un discostamento da un precedente di legittimità favorevole a riferire il menzionato art. 12bis anche all’incentivo all’esodo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171). Si è quindi ricorso in Cassazione, con successiva rimessione alle Sezioni Unite.

È opportuno, preliminarmente, prendere le mosse dall’analisi del dato normativo. L’art. 12bis, L. 898/1970 stabilisce che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e se titolare dell’assegno di cui all’art. 5 della medesima, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, anche se maturata dopo la sentenza. Tale indennità è pari al 40% dell’indennità riferibile agli anni di coincidenza fra rapporto di lavoro e matrimonio.

L’incentivo all’esodo, invece, è la prestazione cui è tenuto il datore di lavoro a fronte della disponibilità del lavoratore ad addivenire allo scioglimento anticipato del rapporto di prestazione d’opera, oggetto di accordo negoziale.

Si evidenzia l’esistenza di un contrasto, relativo alla natura dell’incentivo all’esodo e, in conseguenza, della riferibilità ad esso dell’art. 12bis (testualmente riferito solo all’indennità di fine rapporto).

Per un primo orientamento, infatti, la menzionata norma sarebbe riferita a ogni indennità di natura retributiva, comunque ricollegabile all’apporto fattuale indiretto del coniuge percettore dell’assegno divorzile, e derivante dalla risoluzione del rapporto di lavoro svolto in costanza di matrimonio. Le somme erogate a tale titolo costituirebbero reddito da lavoro dipendente, in quanto finalizzate a sollecitare e remunerare una vera e propria controprestazione, consistente nel consenso del lavoratore alla risoluzione anticipata. A sostegno di tale soluzione si evidenzia altresì la parificazione, da parte del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (artt. 17 e 19, D.P.R. 917/1986), delle discipline del trattamento di fine rapporto e dell’incentivo (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171).

Per un secondo orientamento, invece, l’art. 12bis farebbe riferimento all’indennità menzionata ed unicamente ad essa. Sarebbe riferito, più nello specifico, all’indennità – comunque denominata – che maturi alla cessazione del rapporto di lavoro e che sia determinata in proporzione alla durata dello stesso e all’entità della retribuzione corrisposta (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294).

L’indennità di fine rapporto non è più determinata in base all’ultima retribuzione del prestatore, ma sui compensi tempo per tempo erogatigli e periodicamente rivalutati: in sintesi, si tratta di un compenso ancorato allo sviluppo economico della carriera, e gli è comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita (per tutte: Cass. 8 gennaio 2016, n. 164 e Cass. 14 maggio 2013, n. 11479). Tenendo presente ciò, si rende ben evidente la ratio dell’art. 12bis, L. 898/1970, che ha le stesse finalità – assistenziale e perequativo-compensativa – dell’assegno divorzile: in base al principio di solidarietà, si riconosce un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, deve tener conto non solo del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Si deve, cioè, far sì di appianare la condizione di squilibrio riconducibile al sacrificio di aspettative professionali e reddituali, conseguente all’assunzione di un ruolo all’interno della famiglia. La ratio solidaristica e assistenziale dell’art. 12bis viene evidenziata, peraltro, anche nei relativi lavori parlamentari, ed altresì dalla Consulta (Corte cost. 24 gennaio 1991, n. 24). Si attua una partecipazione, posticipata, che realizza non solo una funzione assistenziale, ma anche una compensativa, ovvero è rapportata al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (Cass. 30 dicembre 2005, n. 28278).

L’automatismo percentuale di cui all’art. 12bis, rilevano le Sezioni Unite in commento, si giustifica solo in base alla condivisione della medesima ratio dell’assegno divorzile. D’altronde, ciò a cui si partecipa in base all’art. 12bis è una porzione reddituale maturata nel corso del rapporto e accantonata periodicamente, che diviene esigibile al momento della cessazione del rapporto: si tratta, quindi, di un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che si è sacrificato. È quindi assai significativo, in tal senso, il riferimento agli anni in cui il rapporto è coinciso con il matrimonio (art. 12bis, comma 2).

Tale digressione è necessaria giacché, evidenziata la ratio dell’art. 12bis, si pone il problema del se esso si riferisca unicamente all’indennità di fine rapporto, o abbia oggetto più ampio. Invero, non si ha perfetta coincidenza con l’art. 2120 c.c. (che riguarda il trattamento di fine rapporto), e da ciò viene evinto un campo di applicazione dell’art. 12bis che è più ampio. La parziale coincidenza lessicale, osserva però la Suprema Corte, deve far propendere per l’interpretazione per cui l’art. 12bis non si riferisce a tutte le prestazioni a cui il lavoratore ha diritto in dipendenza della cessazione del contratto, ma solo a quelle che condividono la logica del trattamento di fine rapporto. L’art. 12bis, cioè, si applica a tutte quelle indennità, comunque denominate, che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e sono determinate proporzionalmente alla sua durata e all’entità della retribuzione corrisposta, qualificandosi come quota differita della retribuzione condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309). È, questo, il criterio discretivo fra ciò che il coniuge beneficiario dell’assegno divorzile può e non può esigere ai sensi dell’art. 12bis, L. 898/1970.

Ciò posto, è evidentemente estranea all’indicata nozione di indennità di fine rapporto anche l’indennità di incentivo all’esodo. Tale indennità, infatti, non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sottoforma di assegno divorzile (Cass.17 aprile 1997, n. 3294). Tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, e quindi non ricorre l’esigenza di assicurare (in chiave assistenziale e perequativo-compensativa) una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio: si è, piuttosto, innanzi a un’attribuzione patrimoniale che discende da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro.

Non vengono ritenuti dirimenti, inoltre, gli argomenti basati sul Testo Unico delle Imposte sui Redditi, a cui si è accennato (Cass. 12 luglio 2067, n. 14171): la Suprema Corte, infatti, ritiene che il regime fiscale dell’indennità non interferisca con la qualificazione civilistica della stessa.

Le Sezioni Unite, per ciò, concludono nel senso della non spettanza al coniuge divorziato della quota del 40% dell’indennità in questione, nei termini riportati in massima.

*Contributo in tema di “Assegno divorzile”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

stop mantenimento figlio

Stop mantenimento al figlio iscritto da 14 anni all’università Linea dura della Cassazione contro i figli "bamboccioni": non spetta il mantenimento al figlio ultratrentenne che in 14 anni di università ha dato solo un esame

Mantenimento figlio maggiorenne

Il figlio ultratrentenne, che ha trascorso 14 anni all’università sostenendo un solo esame, non ha più diritto all’assegno di mantenimento a carico del padre. Lo stesso non è stato in grado di dimostrare di essersi impegnato nel conseguire una qualificazione professionale o nella ricerca di un impiego per collocarsi nel mondo del lavoro e acquisire la propria indipendenza economica. Lo ha stabilito la corte di Cassazione nell’ordinanza n. 19955-2024.

Revoca mantenimento figlio

Nell’ambito di una procedura di separazione coniugale il Tribunale stabilisce a carico del padre l’obbligo di versare al figlio maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente, il mantenimento di 500 euro mensili, oltre al pagamento del 70% delle spese straordinarie.

Alla separazione segue il divorzio e la sentenza riduce a 350 euro mensili il mantenimento dovuto dal padre al figlio maggiorenne, ma conserva il contributo nella misura del 70% delle spese straordinarie e l’assegnazione della casa familiare alla moglie, che convive con il figlio.

Il padre appella la decisione, chiedendo anche la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio.

Mancata ricerca di un lavoro

La Corte d’appello però respinge la richiesta, limitandosi a ridurre il mantenimento per il figlio a 200 euro mensili.

Per la Corte il mantenimento al figlio non deve essere ancorato al raggiungimento della maggiore età, ma a quello della autosufficienza economica. Per far cessare l’obbligo del mantenimento è sufficiente che il figlio percepisca delle entrate, anche derivanti da un lavoro non stabile o che lo stesso possegga un patrimonio tale da garantirgli un reddito corrispondente alla professionalità acquisita e che abbia un’appropriata collocazione nel contesto economico in cui lo stesso è inserito adeguata alle attitudini e alle aspirazioni.

Incontestato che il ragazzo ormai ultratrentenne risulti privo di un’occupazione lavorativa in grado di garantirgli la propria indipendenza economica. Lo stesso ha più volte cambiato percorso di studi e ha cercato lavoro, prestando attività presso la Croce Rossa senza però conseguire una stabilità lavorativa. In seguito ha lasciato l’università, è  tornato a vivere con la madre, ma ha avuto difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro anche a causa della sopravvenuta pandemia. Lo stesso è stato anche vittima di un infortunio, che ha comportato un intervento chirurgico e una prognosi di 60 giorni. Queste le ragioni per le quali la Corte, in considerazione dell’età del figlio, si è limitata a ridurre il mantenimento a 200 euro, lasciando invariata la misura del contributo per le spese straordinarie.

Il padre, insoddisfatto della decisione della Corte di Appello, la impugna di fronte alla Cassazione.

Onere della prova

Gli Ermellini ritengono fondato il motivo del ricorso con il quale il padre lamenta la mancata revoca del mantenimento dovuto al figlio. Per il ricorrente il fatto che il figlio abbia sostenuto un solo esame in 14 anni di università sufficiente a giustificare la revoca del mantenimento. Di fatto il figlio non ha mai dimostrato di aver messo in atto dei tentativi seri per trovare un’occupazione e collocarsi in modo stabile nel mondo del lavoro.

La Cassazione ricorda di aver affermato di recente che l’onere della prova relativa alle ragioni che fondano il mantenimento sono a carico del richiedente. Spetta infatti al figlio dimostrare di aver curato con impegno la propria preparazione professionale e tecnica o di essersi attivato nella ricerca di un lavoro. È sempre onere del richiedente inoltre provare la mancanza di indipendenza economica perché pre-condizione necessaria ai fini della richiesta del mantenimento.

L’onere della prova dei presupposti necessari per il mantenimento però è più facile quando il figlio ha da poco superato la maggiore età e negli anni successivi, soprattutto se ha iniziato un percorso di studi, perché in questo modo dimostra l’impegno di entrare a far parte del mondo degli adulti. Con l’avanzare dell’età l’onere della prova diventa più gravoso. La decisione sul mantenimento rende necessaria la valutazione del caso concreto e un’indagine sulle scelte di vita compiute e sull’impegno del figlio nell’acquisire una qualificazione professionale.

La decisione

Nel caso di specie la Corte di merito ha ritenuto conclusa la formazione universitaria del figlio anche senza il conseguimento di un risultato e ha ritenuto incontestato il fatto che lo stesso,  ultratrentenne, fosse senza lavoro e senza autonomia economica. La Corte non ha indagato se nel corso di tutti questi anni abbia comunque cercato una sua collocazione nel mondo del lavoro. La stessa si è accontentata nel considerare come esistenti e giustificate le difficoltà riscontrate negli ultimi anni e imputate al COVID, all’infortunio e alla crisi del mercato.

 

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