giurista risponde

Fecondazione ovulo e termine revoca consenso È costituzionalmente legittimo l’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della L. 40/2004, in relazione da un lato, agli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2, della Costituzione e dall’altro, artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso»?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

L’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della L. 40/2004, viola, da un lato, gli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2, della Costituzione e dall’altro, gli artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso». – Corte cost. 24 luglio 2023, n. 161.

Nel caso di specie la Corte Costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo L. 40/2004 che nel disciplinare il consenso informato della coppia all’accesso alla pratica di procreazione medicalmente assistita, ne prevede la revoca fino al momento della fecondazione dell’ovulo.

La questione trae origine dalle sentenze della Corte Costituzionale (Corte cost. 8 maggio 2009, n. 151 e Corte cost. 5 giugno 2015, n. 96) che avrebbero fatto venir meno il sostanziale divieto di crioconservazione, sicché la norma sull’irrevocabilità del consenso si troverebbe oggi ad operare in un contesto radicalmente diverso, in cui il trasferimento in utero dell’embrione potrebbe intervenire non più necessariamente «nell’immediatezza della formazione dell’embrione» (formulazione ancora contenuta all’art. 14, comma 3, L. 40/2004) ma anche «a distanza di anni» e, quindi, in una situazione profondamente mutata.

Poiché l’art. 5, comma 1, della L. 40/2004 permette di accedere alla PMA «solo a coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi», nell’ipotesi in cui «venga meno il progetto di coppia prima del trasferimento dell’impianto», dovrebbe ritenersi sempre possibile la revoca del consenso.

Secondo il giudice rimettente la norma censurata contrasterebbe da un lato, con il diritto all’autodeterminazione in ordine alla decisione di non diventare genitore (artt. 2 e 117 Cost., con quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU) e dall’altro, con gli artt. 3 e 13 Cost. poiché, consentendo che la donna chieda l’impianto malgrado il sopravvenuto dissenso dell’uomo, la suddetta disciplina normativa irragionevolmente lo costringerebbe «a diventare genitore contro la sua volontà», determinando anche una disparità di trattamento tra i genitori intenzionali, potendo, infatti, la donna sempre rifiutare il trasferimento in utero dell’embrione formatosi a seguito della fecondazione, che non potrebbe esserle imposto in quanto lesivo della sua integrità psicofisica.

La norma sospettata si porrebbe in contrasto, infine, con l’art. 32, comma 2, Cost., giacché assoggetterebbe l’uomo a un trattamento sanitario obbligatorio.

La questione relativa alla violazione del principio di uguaglianza viene ritenuto infondata.

La situazione in cui versa la donna è, infatti, profondamente diversa da quella dell’uomo: come ha correttamente rilevato l’Avvocatura generale dello Stato, dopo la fecondazione solo lei resta esposta «all’azione medica», che può sempre «legittimamente rifiutarsi di subire», data l’«ovvia incoercibilità del trattamento», al quale si contrappone la tutela dell’integrità psico-fisica.

Proprio tale eterogeneità di situazioni conduce a escludere la prospettata violazione del principio di eguaglianza: secondo il costante orientamento di questa Corte, si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. solo «qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili».

Infondate sono anche le censure relative agli artt. 2 e 3 Cost.

Va innanzitutto precisato che l’autodeterminazione dell’uomo matura in un contesto in cui egli è reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione, come introdotta dalla giurisprudenza costituzionale, e anche a questa eventualità presta, quindi, il suo consenso.

Inoltre, va precisato che il consenso prestato ai sensi dell’art. 6 della L. 40/2004 ha una portata diversa e ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla mera nozione di “consenso informato” al trattamento medico, in quanto si è in presenza di un atto finalisticamente orientato a fondare lo stato di figlio che comporta un’assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione.

Va poi considerato che, oltre quelli inerenti alla sfera individuale dell’uomo, il consenso da questi manifestato alla PMA determina il coinvolgimento degli altri interessi costituzionalmente rilevanti, in primo luogo attinenti alla donna. Essa, infatti, è sottoposta a impegnativi cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l’insorgenza di patologie, anche gravi; al prelievo dell’ovocita, nel caso di fecondazione in vitro, al prelievo dell’ovocita, che necessariamente (a differenza di quanto accade per l’uomo) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo; ad ulteriori trattamenti farmacologici e analisi; nonché interventi medici, successivi alla fecondazione.

L’irrevocabilità di tale consenso appare quindi funzionale a salvaguardare l’integrità psicofisica della donna – coinvolta, come si è visto, in misura ben maggiore rispetto all’uomo – dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla fecondazione.

Del resto, proprio il coinvolgimento del corpo della donna ha portato questa Corte a ritenere «insindacabile» la «scelta politico-legislativa» di lasciarla «unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza», senza riconoscere rilevanza alla volontà del padre del concepito, precisando «che tale scelta non può considerarsi irrazionale in quanto è coerente al disegno dell’intera normativa e, in particolare, all’incidenza, se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica che psichica della donna»

Complementari a queste considerazioni sono quelle inerenti alla dignità dell’embrione: la PMA, infatti, «mira a favorire la vita» (Corte cost. 9 aprile 2014, n. 162), volendo assistere la procreazione – cioè, la nuova nascita – e non la (sola) fecondazione, per cui non è precluso che la relativa disciplina possa privilegiare, anche nella sopraggiunta crisi della coppia.

Tale conclusione non è d’altro canto preclusa dal rilievo dell’indubbio interesse del nato grazie alla PMA a una stabile relazione con il padre, che si potrebbe ritenere ostacolata dalla sopravvenuta separazione dei genitori. Altro è la dissolubilità del legame tra i genitori, altro è l’indissolubilità del vincolo di filiazione, che è comunque assicurata, nella L. 40/2004, dai ricordati artt. 8 e 9.

Del resto, la considerazione dell’ulteriore interesse del minore a un contesto familiare non conflittuale non può essere enfatizzata al punto da far ritenere che essa integri una condizione esistenziale talmente determinante da far preferire la non vita.

Infine, per ciò che concerne la violazione dell’art. 8 CEDE, la Corte Costituzionale richiama la stessa giurisprudenza della Corte Edu intervenuta a vagliare la compatibilità convenzionale del diritto inglese il quale, contrariamente a quello italiano, riconosce la revocabilità del consenso dell’uomo fino all’impianto dell’embrione nell’utero. In tal caso la Corte Edu, rilevando l’assenza di un comune consenso europeo sul punto ha rimarcato l’ampio margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati nel risolvere un dilemma a fronte del quale qualsiasi soluzione adottata dalle autorità nazionali avrebbe come conseguenza la totale vanificazione degli interessi dell’una o dell’altra parte, concludendo per l’insussistenza di motivi per ritenere che la soluzione adottata dal legislatore inglese avesse superato il margine di apprezzamento concesso dall’art. 8 CEDU.

In conclusione, la previsione dell’irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma censurata mantiene un non insufficiente grado di coerenza anche nel nuovo contesto ordinamentale risultante dagli interventi di questa Corte.

giurista risponde

Diritti di abitazione e uso coniuge separato I diritti di abitazione e uso spettano al coniuge separato senza addebito?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

I diritti di abitazione e uso, accordati al coniuge superstite dall’art. 540, comma 2, c.c. spettano anche al coniuge separato senza addebito, eccettuato il caso in cui, dopo la separazione, la casa sia stata lasciata da entrambi i coniugi o abbia comunque perduto ogni collegamento, anche solo parziale o potenziale, con l’originaria destinazione familiare. – Cass. II, 26 luglio 2023, n. 22566.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la spettanza al coniuge separato senza addebito del diritto di abitazione ed uso di cui all’art. 540, comma 2, c.c.

Quest’ultimo consiste in un diritto personale di godimento riconosciuto al coniuge superstite, la cui ratio si individua nella necessità di garantire allo stesso la permanenza nella c.d. “casa familiare” in modo da evitare un significativo mutamento del proprio aspetto personale.

Tali attribuzioni vengono qualificati dalla giurisprudenza come prelegati, ossia legati (in questo caso ex lege) a favore dell’erede ed a carico dell’eredità.

In relazioni ad essi si è posto il problema della loro spettanza in favore del coniuge separato senza addebito, nonostante la parificazione normativa, in punto successorio, tra la posizione dello stesso e quella del coniuge non separato.

Secondo un primo orientamento, infatti, per “casa familiare” si dovrebbe intendere la sola la casa di residenza comune al momento dell’apertura della successione.

Ai sensi di una seconda tesi, invece, oggetto dei diritti di abitazione e di uso dovrebbe essere l’ultima casa che fu di residenza comune, benché in un tempo precedente all’apertura della successione, ed i mobili che la corredavano.

Infine, secondo un terzo orientamento la “casa familiare” andrebbe vista nella residenza comune dei due coniuge id in cui quello superstite si trovi ancora al momento di apertura della successione. A tale soluzione, tuttavia, è stato rimproverato di introdurre una disparità di trattamento nei confronti del coniuge senza prole o che vi abbia rinunziato all’assegnazione della casa familiare per ragioni legittime o al quale per qualsiasi motivo, il giudice non abbia attribuito il diritto di abitazione.

Appare dunque preferibile la tesi che esclude che la residenza familiare debba ancora essere in atto al momento dell’apertura della successione, posto che da un lato, la norma non annovera tra i presupposti per l’attribuzione dei diritti in esame la convivenza fra i coniugi e, dall’altro, l’art. 548 c.c. è chiaro nel parificare i diritti successori del coniuge separato senza addebito a quelli del coniuge non separato.

In un tale contesto, l’unico fattore ostativo al riconoscimento del diritto di abitazione e d’uso al coniuge superstite si ha solo qualora il medesimo, dopo la separazione, abbia abbandonato l’abitazione o questa avesse perso ogni collegamento con la destinazione familiare.

In tali ipotesi, infatti, viene meno la stessa esigenza che sorregge l’istituto in esame, ossia la perpetrazione dell’habitat familiare e la tutela dell’assetto di vita goduto durante il rapporto di coniugo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Cass., sez. II, 12 giugno 2014; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22456
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Rinuncia azione di riduzione e donazione La rinuncia all’azione di riduzione può integrare una donazione indiretta?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

La rinuncia del coniuge all’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di legittima può comportare un arricchimento nel patrimonio della figlia beneficiata, nominata erede universale, tale da integrare gli estremi di una donazione indiretta se corra un nesso di causalità diretta tra donazione e arricchimento. – Cass., sez. II, ord. 28 luglio 2023, n. 23036.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare se la condotta di colui che rinuncia all’azione di riduzione possa o meno integrare una donazione indiretta, ossia quegli atti di liberalità in cui l’intento donativo viene raggiunto con un diverso negozio avente autonoma struttura e funzione, e che sono sottoposte allo stesso regime sostanziale delle donazioni dirette.

La giurisprudenza, per ciò che concerne gli atti di rinuncia, ha più volte affermato come gli stessi possano integrare donazioni indirette.

Il principio è in particolare stato ribadito con riguardo alla rinuncia abdicativa di un diritto reale minore, come l’usufrutto, che pur si estingue con la morte del titolare ma che, se estinto anticipatamente per rinuncia, ispirata da animus donandi, del nudo proprietario, si risolve nel conseguimento da parte del dominus dei vantaggi patrimoniali inerenti all’acquisizione del godimento immediato del bene, che gli sarebbe stato sottratto se l’usufrutto fosse durato fino alla sua naturale scadenza (Cass., sez. II, 30 ottobre 1997, n. 1311). O, ancora, con riguardo alla rinuncia alla quota di comproprietà di un bene, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comunisti, mediante eliminazione dello stato di compressione in cui il diritto di questi ultimi si trovava a causa dell’appartenenza in comunione anche ad un altro soggetto”, ritenuta donazione indiretta, senza che sia all’uopo necessaria la forma dell’atto pubblico, essendo utilizzato per la realizzazione del fine di liberalità un negozio diverso dal contratto di donazione (Cass., sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819).

Nel caso in esame, tuttavia, la Corte di Appello ha escluso che a tali tipi di donazioni indirette possano essere ricondotti i casi di rinuncia dell’azione di riduzione, avendo questa ad oggetto beni di cui il soggetto non è mai stato proprietario, mancando dunque degli elementi essenziali tipici della donazione tra i quali l’impoverimento del donante.

Tale assunto non è condiviso dalla Corte di Cassazione.

La Corte distrettuale oblitera la circostanza che le donazioni indirette “hanno in comune con l’archetipo l’arricchimento senza corrispettivo, voluto per spirito liberale da un soggetto a favore dell’altro, ma se ne distinguono perché l’arricchimento del beneficiario non si realizza con l’attribuzione di un diritto o con l’assunzione di un obbligo da parte del disponente, ma in modo diverso”.

Da ciò discende che lo stesso concetto di impoverimento del donante non va necessariamente inteso come attuale depauperamento patrimoniale, ma assume connotati più ampi, tali da ricomprendere il mero consapevole esercizio – sorretto da intento liberale – della possibilità di arricchire il proprio patrimonio, in favore della parte che da tale azione ne sarebbe risultata impoverita.

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Danno non patrimoniale e limiti tabelle milanesi Nella liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, è possibile superare i limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

Costituisce principio consolidato quello per cui, in sede di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, il giudice possa discostarsi dai limiti tabellari, purché tale operazione sia adeguatamente motivata in modo da giustificare tale “personalizzazione”. – Cass. III, 11 luglio 2023 n. 19731.

La vicenda scaturisce dalle riportate lesioni gravi ed invalidità permanente, a seguito delle quali i congiunti del danneggiato presentano richieste risarcitorie da lesione del rapporto parentale. Il giudice di prime cure riconosce la fondatezza delle relative domande, e tale conclusione viene confermata dalla Corte d’appello, benché la stessa proceda a ridurre il quantum debeatur risarcitorio, censurando il superamento in primo grado dei limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi.

La Suprema Corte viene quindi chiamata a pronunciarsi in relazione alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1226 c.c., per essersi in secondo grado erroneamente censurato l’aumento effettuato dal giudice di prime cure nella liquidazione del danno da lesione del rapporto parentale, sul presupposto dell’impossibilità di superare i limiti massimi stabiliti dalle tabelle milanesi. Tale doglianza viene ritenuta fondata, nella parte in cui si osserva che la liquidazione equitativa del danno consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, per cui il giudice deve dar conto del peso attribuito a ciascuno di essi in motivazione, ossequiando i principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Per ciò, ove il giudice non indichi le ragioni dell’operato apprezzamento né richiami gli specifici criteri adottati nella liquidazione, si incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione che in quello di violazione dell’art. 1226 c.c.

Più nello specifico, l’assunto per cui non è possibile superare i limiti delle tabelle milanesi è in diritto errata: in sede di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, infatti, il giudice ben può discostarsi dai limiti tabellari, ma tale operazione deve essere supportata da un’adeguata motivazione, la quale renda manifeste le circostanze – anomale ed irripetibili (e provate dalla parte danneggiata) – che hanno richiesto una “personalizzazione” in aumento rispetto ai limiti tabellari, che renderebbero altrimenti inidonea la liquidazione rispetto all’entità del danno patito.

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello, che dovrà procedere ad una nuova liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale.

giurista risponde

Risoluzione per impossibilità sopravvenuta e caparra A fronte della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione, è possibile condannare al pagamento del doppio della caparra, di cui all’art. 1385, comma 2, c.c.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

La pronuncia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione, in quanto fondata su fatto non imputabile ai contraenti, dà luogo solo agli obblighi restitutori derivanti dallo scioglimento del vincolo contrattuale, essendo divenute indebite le prestazioni rese. Essa non consente di condannare il debitore al pagamento del doppio della caparra, giacché ciò presuppone l’inadempimento. – Cass. II, 31 luglio 2023, n. 23209.

La decisione scaturisce da un’articolata trattativa per una vendita immobiliare, in cui la stipulazione del preliminare viene accompagnata dalla dazione di una caparra, che culmina nel recesso del promittente venditore per inadempimento della controparte, a cui questa reagisce con le domande giudiziali di inadempimento del preliminare, risarcimento e versamento del doppio della caparra. Il giudice di prime cure dichiara l’impossibilità dell’esecuzione dei contratti preliminari e tale statuizione, non oggetto di alcun motivo di gravame in appello, passa in giudicato. In appello, invece, si pronuncia la condanna dei ricorrenti al pagamento del doppio della caparra.

La Suprema Corte osserva come non possa che reputarsi giuridicamente scorretta, nonché intrinsecamente contradditoria, la decisione di secondo grado.

L’art. 1385, comma 2, c.c. stabilisce che i meccanismi speculari di ritenzione della caparra e di pretesa del suo doppio (a seconda della parte) trovano fondamento nell’inadempimento della controparte, mentre il comma successivo stabilisce che, se la parte non inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, allora il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.

Osserva la Suprema Corte come il diritto di recesso sia una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, che presuppone un inadempimento della controparte connotato dagli stessi caratteri richiesti da quello che giustifica la risoluzione giudiziale: in ambo i casi, a fronte di tale presupposto si ha la caducazione ex tunc degli effetti del contratto. Per ciò, il recesso (con ritenzione della caparra) è legittimamente esercitato se l’inadempimento è di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c., nonché gravemente colpevole e cioè imputabile ex artt. 1218 e 1256 c.c. (Cass. Sez. Un. 14 gennaio 2009, n. 553). Ciò posto, l’interazione da attenzionare non è quella fra recesso e risoluzione, ma quella fra incamerare la caparra (o il suo doppio) ed instaurare un giudizio per ottenere un maggiore risarcimento. La vera antinomia è, insomma, fra azione di risarcimento ordinaria e ritenzione della caparra (Cass. Sez. Un. 14 gennaio 2009, n. 553): la finalità della liquidazione immediata, forfettaria e stragiudiziale della pretesa alla sola caparra viene esclusa dalla pretesa giudiziale al risarcimento del maggior danno da risarcire (e provare). Alla stregua di ciò, una domanda principale di risoluzione contrattuale correlata a una richiesta risarcitoria nei limiti della caparra altro non è che una domanda di accertamento del recesso.

Dalla risoluzione del contratto per inadempimento (anche se stragiudiziale da recesso) va distinta la risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex artt. 1256 e 1463 c.c., dato che tale impossibilità non è imputabile al debitore e paralizza la domanda di adempimento, determinando nei contratti a prestazioni corrispettive l’estinzione dell’obbligazione e la risoluzione di diritto (Cass. 28 gennaio 1995, n. 1037). Risoluzione per inadempimento (anche se stragiudiziale da recesso) e risoluzione per impossibilità sopravvenuta hanno presupposti e natura diversi: la prima ha carattere sanzionatorio, tende a una pronuncia costitutiva e si fonda sul comportamento doloso o colpevole della parte; la seconda tende ad una pronuncia di accertamento e si fonda su un fatto estraneo alla sfera di imputabilità dei contraenti. La non imputabilità dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione comporta l’estinzione dell’obbligazione, mentre l’imputabilità determina la conversione dell’obbligazione di adempimento in quella di risarcimento del danno e, se il contratto è a prestazione corrispettive, dà altresì luogo all’azione di risoluzione per inadempimento (Cass. 22 dicembre 1983, n. 7580).

Se, come nel caso di specie (la relativa statuizione è passata in giudicato), si afferma l’impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione del contratto, allora perdono significato tutte le questioni relative al comportamento delle parti, e residuano i soli obblighi restitutori generati dal venir meno del vincolo contrattuale, essendo divenuta indebita la ritenzione delle prestazioni eseguite. Da ciò consegue che, se è stata versata caparra confirmatoria, la condanna non può che vertere sulla restituzione della stessa, e non del suo doppio.

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello: pur a fronte della – coperta da giudicato – risoluzione del contratto preliminare per impossibilità sopravvenuta della prestazione, infatti, essa ha confermato una statuizione di condanna al pagamento del doppio della caparra che, avendo una natura risarcitoria (anche se limitata nel quantum), postula invece l’accertamento dell’inadempimento.

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Responsabilità artt. 1669 e 2043 c.c. Qual è il rapporto fra le fattispecie di responsabilità di cui agli artt. 1669 e 2043 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis

 

Rispetto alla costruzione di un edificio, è possibile invocare la responsabilità ex art. 2043 c.c. soltanto ove non ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità ex art. 1669 c.c., purché non per superare i limiti temporali entro i quali l’ordinamento ne consente l’operatività, ovvero senza aggirare lo speciale regime di prescrizione e decadenza che la caratterizza. – Cass. II, 17 luglio 2023, n. 20450.

La vicenda scaturisce dall’appalto di lavori di copertura di alcune unità immobiliari, successivamente ai quali si verificano delle infiltrazioni. Il giudice di prime cure rileva come l’azione ex art. 1669 c.c. sia stata intentata oltre il termine annuale di prescrizione richiesto dal relativo comma 2, e che la domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. sia da considerare nuova, giacché proposta solo nella prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. ed ampliante il thema decidendum. Data la specialità della disciplina di cui all’art. 1669 c.c. rispetto a quella ex art. 2043 c.c., si ritiene in primo grado che quest’ultima potrebbe invocarsi solo in assenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della prima, e comunque non per derogare ai suoi limiti prescrizionali e decadenziali. Di diverso avviso il giudice dell’appello, ritenendo che la domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. non sarebbe nuova – giacché ambo le norme implicherebbero una prospettazione di responsabilità extracontrattuale –, e anzi sarebbe fondata.

La Suprema Corte viene chiamata a pronunciarsi anzitutto sull’ammissibilità della domanda ex art. 2043 c.c., benché formulata per la prima volta nella menzionata memoria e, in secundis, sulla sua riconosciuta fondatezza nonostante il difetto dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti, e la prescrizione della domanda ex art. 1669 c.c.

La Corte rileva come la domanda fosse ammissibile e come, per orientamento consolidato (da ultimo, Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284), vi sia compatibilità delle domande ex artt. 1669 e 2043 c.c. rispetto al medesimo evento. Più nello specifico, l’art. 1669 c.c. dà luogo ad un’ipotesi di responsabilità aquiliana perché, pur presupponendo un rapporto contrattuale, ne supera i confini e si configura come una obbligazione derivante dalla legge per finalità e ragioni di carattere generale. Si ammette il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale tutte le volte che un unico evento dannoso nella sua genesi soggettiva (cioè: un comportamento risalente allo stesso autore) appaia in sé lesivo non solo di diritti specifici derivanti da clausole contrattuali, ma anche di diritti assoluti quali la tutela della proprietà ex art. 832 c.c. La norma ex art. 1669 c.c. è diretta, infatti, a tutelare l’interessepubblico e trascendente quello individuale – alla stabilità e solidità degli immobili destinati a lunga durata, nell’ottica della sicurezza dei cittadini. Si ha quindi una disciplina derogatoria rispetto a quella generale di cui all’art. 2043 c.c., sia nell’atto illecito (che deve consistere in gravi difetti di costruzione per violazione delle regole dell’arte o per vizi del suolo preesistenti) che nel danno ingiusto (consistente nella rovina dell’edificio, o nel relativo pericolo). La specialità dell’art. 1669 c.c. rispetto all’art. 2043 c.c. implica che quest’ultimo sia applicabile ove non lo sia il primo: ritenere diversamente rischierebbe di produrre un effetto distonico rispetto alla ratio di tutela dell’art. 1669 c.c., giacché il danno verificatosi oltre il decennio non sarebbe idoneo a dar luogo a responsabilità, creando una inammissibile zona franca. Come affermato già da Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284, l’art. 1669 c.c. non è infatti norma di favore per il costruttore, ma di più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale: si ha un regime di responsabilità più rigoroso rispetto a quello ex art. 2043 c.c., per la presenza della presunzione iuris tantum di responsabilità dell’appaltatore, che viene compensata da una restrizione temporale. Se la ratio del 1669 è di tutela, in assenza dei suoi presupposti sarebbe irragionevole – a fronte di una responsabilità della medesima natura – ritenere non invocabile l’art. 2043 c.c., ovviamente con l’applicazione delle relative regole (soprattutto in punto di regime probatorio). Può quindi invocarsi l’art. 2043 c.c. quando, ad esempio, il danno si sia manifestato e prodotto oltre il decennio dal compimento dell’opera. È, in definitiva, senz’altro possibile invocare la responsabilità ex art. 2043 c.c. ove non ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità ex art. 1669 c.c., ma non per superare i limiti temporali entro i quali l’ordinamento ne consente l’operatività, ovvero senza aggirare lo speciale regime di prescrizione e decadenza che la caratterizza

La Suprema Corte, quindi, cassa con rinvio la decisione della Corte d’appello: a fronte dell’intervenuta prescrizione del diritto fatto valere con l’azione ex 1669 c.c. (essendo trascorso più di un anno dalla denuncia dei vizi costruttivi), accertata dal giudice di prime cure e passata in giudicato, il giudice dell’appello ha ritenuto di ammettere la tutela risarcitoria generale di cui all’art. 2043 c.c., che però non era più riconoscibile.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 3 febbraio 2014, n. 2284
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Morte congiunto sinistro stradale e danno parentale Come si liquida il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale a seguito della morte di un prossimo congiunto coinvolto in un sinistro stradale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

In caso di perdita definitiva del rapporto parentale ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto. – Cass., sez. VI, 13 dicembre 2022, n. 32697

A seguito di un sinistro stradale nel quale morì una ragazza che viaggiava in qualità di trasportata, i parenti della stessa chiedevano al Tribunale la condanna della compagnia assicurativa del veicolo al risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale. La madre e la sorella della deceduta, non ritenendo satisfattive le somme corrisposte dalla convenuta a titolo di indennizzo, deducevano che la prova dell’intensità del vincolo affettivo fosse desumibile dalla documentazione prodotta e che la morte della loro congiunta, stante la dinamica del sinistro, fosse dipesa esclusivamente dalla condotta gravemente colposa della conducente del veicolo. In termini analoghi, ma con distinti atti di citazione hanno provveduto i nonni, i due fratelli e il padre della vittima, ritenendo non satisfattivo l’indennizzo corrisposto al padre, nonché ingiustificato il mancato riconoscimento di un danno in capo ai nonni.

Integrato il contraddittorio nei confronti del proprietario del veicolo su cui si trovava come trasportata la vittima e disposta la riunione dei giudizi, il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere, per intervenuta transazione, in relazione al rapporto processuale tra la sorella della vittima e la compagnia assicuratrice. Venivano inoltre rigettate tutte le domande proposte dagli attori, non ritenendo sussistenti rapporti affettivi idonei a giustificare un risarcimento maggiore rispetto a quello riconosciuto in sede stragiudiziale, con compensazione delle spese di lite.

Avverso tale decisione venivano proposti distinti gravami alla Corte di appello. La compagnia assicuratrice, costituendosi, chiedeva il rigetto delle domande degli appellanti e, in caso di accoglimento, l’accertamento del concorso di colpa della vittima nella causazione del sinistro, con conseguente riduzione proporzionale del risarcimento eventualmente riconosciuto in eccedenza rispetto a quanto già accordato.

Riuniti i due procedimenti, la Corte di appello imputava la morte della vittima nella misura del 30% a sua colpa concorrente e, nella misura del 70%, a colpa della conducente del veicolo, condannando la compagnia assicuratrice, in solido con il proprietario dell’autovettura, al risarcimento del danno da perdita di legame parentale. Venivano dunque liquidati importi diversi in favore di ciascuno dei familiari superstiti. La Corte di merito ha ritenuto, inoltre, non meritevole di accoglimento la domanda proposta iure proprio dal padre della giovane deceduta, confermando sul punto la decisione di primo grado, sia pure con diversa motivazione.

Avverso la richiamata sentenza veniva proposto ricorso per cassazione per due motivi. Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2059 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, sostenendo che la Corte di appello avrebbe liquidato, in suo favore, sulla base della “non effettività del legame padre figlia”, il danno da perdita parentale al di sotto dei valori minimi di cui alle Tabelle di Milano, “senza motivare” al riguardo, così violando l’art. 1226 c.c. La Corte territoriale avrebbe, secondo il ricorrente, fondato la sua decisione esclusivamente sulla base di mere dichiarazioni, omettendo di valutare le ulteriori dichiarazioni rese dallo stesso e dagli operatori dei Servizi Sociali del Comune, da cui sarebbe emersa la volontà del padre di riavvicinarsi alla figlia e la conseguente permanenza del vincolo affettivo.

Si lamenta, inoltre, una disparità di trattamento con la madre della vittima, alla quale sarebbe stato riconosciuto un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante, sostiene il ricorrente, avesse avuto un “trascorso di vita del tutto simile al padre, caratterizzato dall’analoga carenza del rapporto di convivenza con la figlia”.

Secondo la Corte di Cassazione, tuttavia, il motivo di ricorso non merita accoglimento. La Corte territoriale ha infatti espressamente richiamato l’orientamento della Corte di Cassazione in tema di danno da perdita del rapporto parentale, secondo cui «è onere dei congiunti provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità. Il giudice può discostarsi dalla misura minima prevista dalle Tabelle di Milano purché dia conto nella motivazione della specifica situazione che giustifica la decurtazione» (Cass. 14 novembre 2019, n. 29495; Cass. 20 ottobre 2016, n. 21230; Cass. 8 aprile 2020, n. 7743).

Correttamente, dunque, la Corte di merito ha applicato tali principi e correttamente ha motivato il lamentato discostamento dai valori tabellari con riferimento alla situazione specifica.

Più precisamente secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale, nel ritenere non provata l’effettività del rapporto parentale con riguardo alla relazione padre-figlia, ha in primis valutato la travagliata storia familiare della vittima e, stante l’assenza di una stabile convivenza con entrambi i suoi genitori, ha ancorato tale valutazione a quanto complessivamente risultante agli atti. Tale disamina è stata effettuata disgiuntamente e con ampiezza di argomentazioni in relazione ai rapporti con ognuno dei genitori, risultando così evidente la diversa consistenza di tali rapporti. Non può, pertanto, essere condivisa l’argomentazione del ricorrente, il quale ha rilevato come il rapporto parentale della figlia con la madre sia stato considerato effettivo ed abbia condotto ad un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante il “trascorso di vita del tutto simile al padre”.

La Corte di appello ha concluso per la non effettività del rapporto parentale con il padre, non limitando il suo convincimento alle dichiarazioni rese innanzi al Tribunale per i Minorenni, bensì considerando anche che, per stessa ammissione del padre, il rapporto con la figlia constava in contatti telefonici e manifestava la sua fragilità nella non partecipazione del padre agli incontri organizzati dai Servizi Sociali, nonché nel fatto che non si fosse mai posto il problema del mantenimento della figlia. Peraltro, va evidenziato che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prova che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso, né gli è richiesto di dar conto nella motivazione dell’esame di tutte le allegazioni e prospettazioni delle parti e di tutte le prove acquisite al processo, essendo sufficiente che egli esponga – in maniera concisa ma logicamente adeguata – gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto.

Stante la chiarezza e la logicità della motivazione in merito al discostamento tra il danno liquidato e quanto astrattamente previsto dalle Tabelle di Milano, non può considerarsi violata la disciplina della liquidazione del danno in via equitativa né risultano sussistenti gli ulteriori vizi dedotti, sicché il primo motivo di ricorso è ritenuto infondato.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano, dei parametri dalle stesse forniti e del principio di valutazione equitativa del danno previsto dall’art. 1226 c. c., dall’art. 2056 c. c. e dall’art. 2059 c. c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”. In qualità di erede del nonno della vittima, il ricorrente sostiene che la Corte di appello sarebbe incorsa in una incongrua motivazione in relazione alla mancata applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano nella quantificazione del danno da perdita parentale con riferimento al nonno paterno della vittima, in quanto ai fini di tale liquidazione, nonostante abbia riconosciuto l’intensità e la presenza del legame parentale tra i nonni paterni e la nipote, avrebbe ritenuto di procedere alla determinazione del quantum senza l’utilizzo delle Tabelle, bensì procedendo in via equitativa. L’incongruità della motivazione, argomenta il ricorrente, consterebbe nell’essersi la Corte limitata a considerare il difetto di convivenza con la nipote, l’esiguo lasso di tempo intercorso tra la morte della stessa e quella del nonno e la presenza di altri familiari a sostegno del dolore patito dal nonno paterno in tale periodo.

Anche il secondo motivo di doglianza, secondo la Suprema Corte, è incentrato su un’asserita incongruità e contraddittorietà della motivazione in merito al discostamento effettuato dai valori astrattamente predisposti dalle Tabelle di Milano e alla diversa quantificazione del danno operata in favore dei due nonni paterni, con conseguente – ad avviso del ricorrente – violazione dell’art. 1226 c.c. La Corte territoriale, in assenza di allegazioni specifiche, ha individuato il quantum del risarcimento del danno per la nonna paterna nel minimo previsto dalle tabelle milanesi; nel caso del nonno paterno, invece, ha posto in rilievo l’esiguità del tempo di sopravvivenza dello stesso rispetto alla data di morte della nipote e, stante l’assenza di convivenza della ragazza con i nonni ed il sostegno verosimilmente ricevuto dal resto della famiglia, ha rideterminato il quantum in via equitativa. Anche in questo caso, secondo la Corte di Cassazione, la motivazione risulta logica e congrua, né sussistono gli ulteriori lamentati vizi, poiché la durata della sopravvivenza al parente defunto (sette mesi) e il sostegno ricevuto verosimilmente dagli altri componenti della famiglia sono parametri che ben possono essere considerati ai fini della liquidazione del danno da perdita parentale. Anche il secondo motivo di ricorso è, quindi, infondato.

Conclusivamente, il ricorso viene rigettato, con liquidazione delle spese di lite secondo la regola della soccombenza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ. 29495/2019; Cass. civ. 21230/2016; Cass. civ. 7743/2020
giurista risponde

Denuncia vizi ex art. 1495 c.c. e termine di decadenza Da quando decorre il termine di decadenza per la denuncia dei vizi dei beni acquistati dal compratore ex art. 1495 c.c., qualora si tratti di vizi rilevabili attraverso un accertamento tecnico giudiziale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

In tema di garanzia per i vizi della cosa venduta, una volta eccepita dal venditore la tardività della denuncia rispetto alla data di consegna della merce, incombe sull’acquirente l’onere della prova di aver denunciato i vizi nel termine di decadenza previsto dall’art. 1495 c.c., pari ad otto giorni dalla scoperta del vizio occulto, e, per altro verso, che tale termine decorre dal momento in cui il compratore ne ha acquisito certezza obiettiva e completa: ma solo se la scoperta del vizio avvenga gradatamente ed in tempi diversi e successivi (ma, in difetto di accertamento sul punto e di una censura dello stesso per omesso esame di fatti decisivi, non è questo il caso), in modo da riverberarsi sulla consapevolezza della sua entità, occorre far riferimento al momento in cui detta scoperta, se del caso a seguito di un accertamento tecnico preventivo, si sia completata. – Cass. sez. VI, 22 novembre 2022, n. 34290.

La Corte di Appello ha riformato la sentenza di primo grado, la quale ha accolto la domanda di risoluzione dei contratti di compravendita, stipulati tra l’attore e la società appellante, per la dedotta mancanza, ex art. 1490 c.c., delle qualità che la venditrice aveva promesso e garantito, vale a dire “l’autenticità e l’esclusività di ogni singola opera acquistata”.

In particolare, la Corte d’Appello ha accolto l’eccezione di decadenza e di prescrizione che la società convenuta aveva sollevato, evidenziando che: 1) il compratore, a norma dell’art. 1495 c.c., ha l’onere di denunciare i vizi rinvenuti entro il termine di otto giorni dalla scoperta; 2) tale termine, se si tratta vizi occulti, decorre dalla scoperta degli stessi nella loro manifestazione esteriore mentre, se si tratta di vizi normalmente riconoscibili decorre dal momento in cui sia stato possibile acquisire, in base ad elementi obiettivi e con apprezzabile grado di approssimazione e certezza e secondo buona fede, la conoscenza degli stessi, e cioè, di regola, dalla consegna o, comunque, dal momento dell’acquisizione della certezza oggettivo del difetto; 3) l’onere della prova della tempestività della denuncia incombe sull’acquirente poiché detta denuncia costituisce una condizione necessaria dell’azione; 4) l’inosservanza dell’obbligo di denuncia preclude l’esperimento tanto dell’azione di risoluzione prevista dall’art. 1492 c.c., quanto dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1494 c.c.; 5) l’azione si prescrive in ogni caso si prescrive entro un anno dalla consegna.

Nel caso in esame la Corte ha ritenuto, innanzitutto, che non si tratta di vizi occulti, in quanto inerenti all’assenza del valore artistico dei beni acquistati, ed, in secondo luogo, che le consegne dei beni erano avvenute in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, mentre l’unica denuncia documentata risale al settembre 2011. Inoltre, nell’atto introduttivo del giudizio l’attore ha dedotto di aver “di recente” verificato, “a mezzo di esperti di arte e studiosi della materia”, che “i beni acquistati non contenevano e conservavano alcun valore artistico, trattandosi di opere normalmente rivendute presso qualsivoglia rivenditore e privi di valore sia artistico che economico”, senza aver, tuttavia, prodotto “alcuna documentazione scritta di una denuncia tempestivamente inviata entro gli otto giorni dalla consegna o dall’eventuale scoperta”, avendo, piuttosto, fornito elementi che evidenziano chiaramente come “i vizi furono lamentati con missiva in una data del tutto sganciata da qualsiasi conoscenza dei vizi denunciati”.

Né, secondo la Corte, si potrebbe ricondurre la conoscenza dei vizi alla lettura di un articolo pubblicato da un quotidiano in data 4-4-2010, il quale riportava la notizia di una class action nei confronti della venditrice per aver venduto libri non rivendibili perché ritenuti senza alcun valore da esperti e galleristi. Tale articolo, infatti, risale al 2010, mentre la prima ed unica missiva di denuncia dei vizi risale solo al mese di “settembre 2011”, quando “era ampiamente maturata la decadenza e la prescrizione dell’azione”.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello il compratore ha proposto ricorso in Cassazione per violazione e la falsa applicazione dell’art. 1497 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Secondo il ricorrente, l’acquirente non aveva alcuna cognizione tecnica della mancanza delle qualità promesse tanto che, per averne esatta e specifica cognizione, aveva promosso il giudizio per l’accertamento delle dedotte ed eventuali carenze delle qualità promesse, individuate, tra l’altro, nelle pregresse pronunce giudiziali rese ai danni della venditrice. Soltanto all’esito di queste ultime il ricorrente avrebbe quindi compreso che i beni acquistati non avevano alcun pregio artistico né alcun valore tale da legittimare il prezzo pagato. La domanda giudiziale era, dunque, l’unico rimedio che il compratore poteva proporre per ottenere, in relazione all’oggetto delle vendite, l’accertamento necessario ai fini della risoluzione dei contratti, non potendo valutare autonomamente l’esatto valore dei beni venduti.

La Suprema Corte, tuttavia, nel richiamare quanto argomentato dalla Corte d’Appello, dichiara di non condividere le censure dedotte dal ricorrente. Infatti l’acquirente, pur avendo sostenuto in giudizio di aver “di recenteverificato, “a mezzo di esperti di arte e studiosi della materia”, che i beni acquistati “non contenevano e conservavano alcun valore artistico, trattandosi di opere normalmente rivendute presso qualsivoglia rivenditore”, ed erano, quindi, privi delle qualità promesse e garantite dalla venditrice, vale a dire “l’autenticità e l’esclusività di ogni singola opera acquistata”, non aveva, poi, fornito in giudizio la prova di “una denuncia tempestivamente inviata entro gli otto giorni dalla consegna o dall’eventuale scoperta”, così conseguita, dei vizi lamentati. L’attore aveva infatti soltanto documentato, pur a fronte di consegne avvenute in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, un’unica denuncia, risalente al mese di settembre 2011, vale a dire quando “era ampiamente maturata la decadenza e la prescrizione dell’azione”.

Correttamente, dunque, la Corte d’Appello ha ritenuto che, a fronte di beni consegnati in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, l’azione si era anche prescritta. Infatti, in tema di compravendita, l’azione del compratore contro il venditore per far valere la garanzia prevista dall’art. 1495 c.c. si prescrive, in ogni caso, nel termine di un anno dalla consegna del bene compravenduto, e ciò anche se i vizi non siano stati scoperti o non siano stati tempestivamente denunciati o la denuncia non fosse neppure necessaria, sempre che la consegna abbia avuto luogo dopo la conclusione del contratto, coincidendo, altrimenti, l’inizio della prescrizione con quest’ultimo evento (Cass. 15 dicembre 2020, n. 28454; Cass. 5 maggio 2017, n. 11037; Cass. 15 dicembre 2011, n. 26967).

In conclusione, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso perché manifestamente infondato, liquidando le spese di lite secondo la regola della soccombenza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., S.U., 328/1991; Cass. civ. 5142/2003; Cass. civ. 13695/2007;
Cass. civ. 844/1997; Cass. civ. 11046/2016; Cass. civ. 28454/2020;
Cass. civ. 11037/2017; Cass. civ. 26967/2011
giurista risponde

Responsabilità per custodia e condotta colposa della vittima Il custode risponde della caduta nella buca se la condotta colposa della vittima era imprevedibile?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

Ove sia dedotta la responsabilità del custode per la caduta di un pedone in corrispondenza di una sconnessione o buca stradale, l’accertamento della responsabilità deve essere condotto ai sensi dell’art. 2051 c.c. e non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227, commi 1 o 2, c.c.), richiedendosi, per l’integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, così da degradare la condizione della cosa al rango di mera occasione dell’evento di danno. – Cass. III, 19 dicembre 2022, n. 37059

La vicenda riguardava la domanda di risarcimento danni avanzata contro un supercondominio e il suo gestore per la caduta in una buca adiacente allo scalino del marciapiede. La Cassazione – con la sent. 37059/2022 – ha respinto il ragionamento con cui il giudice di secondo grado aveva cancellato il ristoro dei danni deciso in primo grado nella misura di 41mila euro. La sentenza annullata con rinvio aveva accolto l’argomento difensivo secondo cui il pedone conosceva l’esistenza della buca e le condizioni di luce e di posizionamento della stessa non costituivano in sé un pericolo, ma è la condotta colpevole e scevra di prudenza della vittima che avrebbero determinato il danno interrompendo così il nesso causale di esso con la cosa (la buca). Per la Cassazione non basta dimostrare la colpa, ma anche l’imprevedibilità e l’inevitabilità del fatto dovuto alla condotta della vittima. Così come i giudici di appello, sempre secondo la Cassazione, non potevano escludere il nesso causale tra il danno e la cosa affermando che quest’ultima non conteneva in sé alcun elemento di pericolo inevitabile con l’ordinaria diligenza e prudenza. Ma ciò non basta a evitare che il custode risponda dei danni: va provato il caso fortuito.

La Cassazione precisa che i criteri con cui si giudica la responsabilità aquiliana ex art. 2043 del Codice civile non sono sovrapponibili a quelli che determinano la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. Infatti, nel caso del custode non va accertata la sua colpa nell’aver determinato l’evento dannoso in quanto è sufficiente il suo rapporto giuridico con la cosa custodita. Da cui scaturisce automaticamente la sua responsabilità per i danni arrecati dalla cosa a meno che provi che l’evento si è determinato per un fatto imprevedibile ascrivibile come caso fortuito. Prova, la sola, che spezza il nesso giuridico tra il danno e la cosa che pur materialmente sono tra loro connessi.

L’inattesa condotta da parte di una persona sensata o l’avverarsi di comportamenti mai verificatisi prima può far venir meno il nesso causale tra la cosa e il danno verificatosi. Infatti, la condotta colposa del danneggiato deve risultare imprevedibile e non prevenibile al fine di far degradare la cosa da cui si origina l’infortunio a mera occasione del verificarsi.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 31 ottobre 2017, n. 25837; Cass. 24 giugno 2020, n. 26524;
Cass. 16 febbraio 2021, n. 4035
giurista risponde

Immobile indivisibile e istanza del condividente Nell’applicazione dell’art. 720 c.c., l’inclusione dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente presuppone l’espressa e specifica istanza del condividente interessato?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

L’espressa e specifica istanza del condividente interessato assurge ad imprescindibile presupposto dell’attribuzione, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dall’art. 720 c.c. si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non abbia fatto esplicita richiesta al riguardo (benché titolare della maggior quota).

Accertata la non comoda divisibilità di uno più immobili ereditari (da intendersi in relazione alla struttura del bene e al numero dei condividenti, e rilevante anche per uno solo di essi), l’inclusione di essi nelle porzioni di più coeredi non può aver luogo ove questi non ne abbiano richiesta congiuntamente l’attribuzione, essendo di base vietato il c.d. raggruppamento parziale delle porzioni – cioè la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisce comunione fra gruppi di condividenti – allorché non vi sia il consenso di costoro. – Cass. VI, 15 dicembre 2022 n. 36736.

La vicenda scaturisce dalla decisione assunta dal giudice di prime cure – e confermata in appello –, di sciogliere la comunione ereditaria sub iudice assegnando all’attore (il coniuge superstite) determinati beni, e altri beni congiuntamente ai convenuti (i fratelli del de cuius), gravandoli altresì del pagamento di un conguaglio. Il Tribunale assumeva tale decisione tenuto conto della non comoda divisibilità dei beni – ostativa ad una omogenea distribuzione di essi tra i coeredi –, che avrebbe imposto l’applicazione dell’art. 720 c.c., con l’attribuzione congiunta a più condividenti. Nello specifico il Tribunale, tenuto conto della richiesta di attribuzione di determinati beni da parte dell’attore, le dava seguito, assegnando i restanti beni congiuntamente ai convenuti.

I ricorrenti in Cassazione lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 720 c.c., per l’essersi disposta l’assegnazione congiuntamente ad essi, in assenza di una richiesta in tal senso e data la non comoda divisibilità dei beni.

Segnatamente, l’art. 720 c.c. descrive un meccanismo per cui, a fronte della presenza nell’eredità di beni immobili non comodamente divisibili (o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o igiene) e della impossibilità di procedere alla divisione dell’intera sostanza senza il loro frazionamento, detti immobili devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto la quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se manca la disponibilità in tal senso, in estremo subordine si dà luogo a vendita all’incanto. Nel caso in esame, i ricorrenti (convenuti in primo grado), non avevano avanzato alcuna richiesta di attribuzione a fronte della valutazione di non comoda divisibilità, ma solo la disponibilità ad aderire alle proposte conciliative dell’attore, e purché non fossero gravati del pagamento di conguagli. Non avendo avuto seguito le menzionate proposte, il giudice – ritengono i ricorrenti – avrebbe dovuto attivare il meccanismo residuale della vendita dei beni non oggetto di richiesta, piuttosto che procedere come avvenuto. La Suprema Corte condivide tali doglianze, osservando preliminarmente come, nell’ambito della comunione ereditaria, il diritto di ciascun erede alla quota in natura (art. 718 c.c.) non sia quello a una porzione di ciascun bene, bensì a una porzione formata in modo da riprodurre quanto più è possibile la composizione qualitativa della massa (art. 727, comma 1, c.c.): ciò significa che la divisione deve avvenire non dividendo, ma distribuendo in porzioni i singoli beni, secondo un criterio di proporzione quantitativa e qualitativa. Ciò posto in via di principio, è comune che tale regola non possa applicarsi a pieno in relazione agli immobili, essendo gli stessi o numericamente insufficienti o qualitativamente troppo eterogenei: in questi casi, la divisione va effettuata in primis frazionandoli o, se non comodamente divisibili, tramite il meccanismo ex art. 720 c.c. In tale terreno, come evidenziato, può darsi una preferenza – a discrezione del giudice – per il titolare della maggior quota o di altro coerede, ma ciò solo se vi sono richieste di attribuzione: in caso contrario, deve darsi luogo alla vendita, giacché i poteri discrezionali del giudice non si estendono all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente (anche titolare della maggior quota). Similmente, deve escludersi che possa includersi l’immobile ereditario non comodamente divisibile nella porzione di più coeredi in assenza della loro richiesta congiunta di attribuzione, essendo in linea di principio vietato il menzionato raggruppamento parziale delle porzioni, se manca il consenso dei soggetti interessati.

Rispetto al caso in esame, quindi, la Suprema Corte procede a cassare con rinvio la decisione della Corte d’appello: a fronte della richiesta del solo attore originario di attribuzione di alcuni beni indivisibili, infatti, il giudice di merito non avrebbe potuto attribuire i restanti beni d’ufficio agli altri condividenti né individualmente né congiuntamente, ma avrebbe dovuto disporre la loro vendita.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 29 ottobre 1992, n. 11769; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20250