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Divieto di maternità surrogata e accertamento paternità Il divieto di maternità surrogata ostacola il riconoscimento del provvedimento straniero che accerta il rapporto di filiazione del minore nato all’estero con il partner del padre biologico?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Poiché la pratica della maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, non è automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d’intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità della lex loci. Nondimeno, anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi della L. 184/1983, art. 44, comma 1, lett. d). Allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, l’adozione rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita. – Cass. Sez. Un. 30 dicembre 2022, n. 38162.  

La decisione della Corte d’appello impugnata aveva stabilito che «la circostanza che nel sistema delle fonti interne non sia previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, e quindi che non sia concesso di attribuire automaticamente a entrambi la responsabilità genitoriale del minore nato dalla procreazione medicalmente assistita, si risolve nell’evidenza di una diversità di discipline sostanziali, ma non è di per sé indice dell’esistenza di un principio superiore, fondante e irrinunciabile, dell’assetto costituzionale italiano o dell’ordinamento dell’Unione europea». Quanto al divieto di ricorrere alla surrogazione di maternità (art. 12, comma 6, L. 40/2004), la Corte d’appello ha osservato che «le scelte del legislatore italiano sono frutto di discrezionalità e non esprimono principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l’ordine pubblico», tali da impedire la trascrizione del provvedimento straniero che accerta il rapporto di filiazione del minore nato all’estero con il partner del padre biologico.

La questione è giunta all’attenzione della Suprema Corte di legittimità. La Prima Sezione civile ha preso atto che nel frattempo era stata depositata la sentenza delle Sezioni Unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore d’intenzione, ma ha dubitato della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralità di parametri costituzionali. Ha dunque sollevato incidente di costituzionalità, questione dichiarata però inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sent. 33/2021.

La questione è dunque stata rimessa alle Sezioni Unite. La Sezione rimettente ha sottolineato che «dubitato della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralità di parametri costituzionali degli strumenti normativi esistenti (delibazione e trascrizione) per verificare se sussista un insuperabile ostacolo alla loro utilizzazione derivante dalla natura di ordine pubblico del divieto di maternità surrogata». La questione riguarda in definitiva la possibilità di riconoscere o meno il provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che ha concorso nella scelta di ricorrere alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti, in un caso nel quale la gestante ha confermato, dopo il parto, la volontà di non voler divenire madre e di riconoscere altri come genitori del nato.

Nella sentenza in esame, in primis, le Sezioni Unite ritengono infatti che la sentenza della Corte costituzionale non abbia determinato alcun vuoto normativo. La Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale delle norme che non consentono, rispetto al genitore non biologico, la trascrizione dell’atto di nascita del bambino nato all’estero a seguito di un contratto di maternità surrogata, ha invitato il legislatore – per garantire il riconoscimento giuridico del legame di filiazione con il bambino – a disciplinare un procedimento di adozione idoneo a realizzare il superiore interesse del minore e a instaurare quel legame di filiazione anche con il genitore non biologico all’interno di una coppia omoaffettiva. Nello specifico, la sent. 33/2021 ha reputato non del tutto adeguata ai principi costituzionali e sovranazionali l’adozione in casi particolari di cui all’art. 44 della L. 184/1983, in quanto questa non determina un rapporto di filiazione pieno, dato che non crea legami del bambino con i parenti dell’adottante, e ha il limite di richiedere, come condizione insuperabile, l’assenso del genitore biologico, che potrebbe mancare in caso di crisi della coppia. La citata sent. 33/2021 è una decisione di inammissibilità-monito, non di illegittimità costituzionale.

Si tratta di materia di particolare rilevanza etico-sociale: è dunque il legislatore rappresentativo a doversi porre quale interprete della coscienza sociale, ad avere le antenne per intercettarla e tradurla in atti normativi. Il procedimento adottivo prefigurato dalla sent. 33/2021 deve essere caratterizzato da una maggiore speditezza, dalla parificazione degli effetti a quelli dell’adozione legittimante e dall’abbandono dell’assenso condizionante del genitore biologico dell’adottando.

Nell’attesa dell’intervento, sempre possibile e auspicabile, del legislatore, il giudice, trovandosi a dover decidere una questione relativa allo status del figlio di una coppia omoaffettiva, non può lasciare i diritti del bambino indefinitamente sospesi, ma deve ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare, nel caso concreto, la protezione dei beni costituzionali implicati, tenendo conto delle indicazioni ricavabili dalla citata sentenza della Corte costituzionale.

Tuttavia, precisa la Corte, la valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l’assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore.

La Corte rileva che in materia di maternità surrogata, la sentenza della Corte costituzionale 33/2021, accertando le insufficienze dell’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), della L. 184/1983, non ha determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2019.

La Corte costituzionale ha semplicemente affermato che gli orientamenti espressi dalla Corte EDU e i principi costituzionali non ostano alla soluzione della non trascrivibilità del provvedimento giurisdizionale straniero e ha ribadito che la maternità surrogata è lesiva della dignità della donna. La pronuncia del Giudice delle leggi ha perciò inciso nella parte relativa alla tutela dei diritti del minore, ritenendo l’adozione in casi particolari strumento non del tutto adeguato.

Si evidenzia inoltre la sopravvenienza di una pronuncia della Corte costituzionale che ha eliminato una delle criticità sottolineate dallo stesso Giudice delle leggi. Con la sent. 79/2022, depositata successivamente all’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la Corte costituzionale ha rimosso l’impedimento alla costituzione di rapporti civili con i parenti dell’adottante (art. 55 della L. 184/1983, in relazione all’art. 300, comma 2, cod. civ.), intervenendo su uno snodo centrale della disciplina dell’adozione in casi particolari all’insegna della piena attuazione del principio di unità dello stato di figlio.

Con riguardo all’altro aspetto critico rilevato dalla Corte Cost., e cioè l’impossibilità di costituire il rapporto adottivo, secondo la disciplina dei casi particolari, in mancanza dell’assenso del genitore biologico, le Sezioni Unite rilevano che la giurisprudenza è in realtà già pervenuta a una lettura restrittiva della disposizione, ritenendo che per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso impedisce l’adozione particolare, debbono intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore. Seguendo quest’ordine di idee, si è considerato superabile, in ragione del preminente interesse del minore, il dissenso all’adozione manifestato dal genitore dell’adottando che non eserciti in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sul figlio, con il quale non intrattenga alcun rapporto affettivo.

La soluzione dell’adozione da parte del genitore d’intenzione privo di legame biologico presenta tuttavia altri aspetti problematici. L’adozione è, ancora, non pienamente adeguata nella prospettiva di una tutela piena del generato nei confronti di chi, partecipando al progetto procreativo, ha assunto la responsabilità di farlo venire al mondo, perché l’istituto dell’adozione, in tutte le sue forme, presuppone che il genitore assuma l’iniziativa.

Il minore non può rivendicare la costituzione del rapporto genitoriale per il tramite dell’adozione. Qualora il partecipante al progetto procreativo, che non abbia legami genetici con il minore, cambi idea e non voglia più instaurare alcun rapporto giuridico con il nato, il minore non ha alcun diritto alla costituzione, attraverso l’adozione, di un rapporto con il genitore d’intenzione privo di legame genetico.

Tuttavia, la Corte rileva che la constatazione di questa evenienza particolare non conduce, tuttavia, ad ammettere o a giustificare l’automatismo della trascrizione. L’automatico riconoscimento della genitorialità intenzionale già accertata all’estero non realizza la pienezza di tutela del minore, che richiede invece una particolare conformazione, con i caratteri della effettività e della stabilità, impressa dalla concomitante e acclarata situazione di fatto.

Quella constatazione impone, invece, ove si presenti il caso, che siano ricercati nel sistema gli strumenti affinché siano riconosciuti al minore, in una logica rimediale, tutti i diritti connessi allo status di figlio anche nei confronti del committente privo di legame biologico, subordinatamente a una verifica in concreto di conformità al superiore interesse del minore. Difatti, chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo o un contratto, quest’ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente”.

L’adeguatezza dell’istituto dell’adozione in casi particolari deve essere valutata considerando anche la celerità del relativo procedimento, che non deve lasciare il legame genitore-figlio privo di riconoscimento troppo a lungo. Come ha sottolineato, anche di recente, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 22 novembre 2022, D.B. e altri c. Svizzera), il vincolo deve poter trovare riconoscimento al più tardi quando, secondo l’apprezzamento delle circostanze di ciascun caso, il legame tra il bambino e il genitore d’intenzione si è concretizzato.

Pertanto, secondo le Sezioni Unite, per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale 79/2022 e prospettandosi la possibilità di una interpretazione adeguatrice del requisito del necessario assenso del genitore biologico, l’adozione in casi particolari, per come attualmente disciplinata, si profila come uno strumento potenzialmente adeguato al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali, restando la valutazione in ogni caso sottoposta al vaglio del giudice nella concretezza della singola vicenda e ferma la possibilità per il legislatore di intervenire in ogni momento per dettare una disciplina ancora più aderente alle peculiarità della situazione.

In secondo luogo, le Sezioni Unite rispondono all’interrogativo sollevato dall’ordinanza di rimessione,, e cioè se, essendo nel caso di specie stato chiesto il riconoscimento di effetti del provvedimento giurisdizionale straniero che accerta il rapporto di filiazione anche con il genitore intenzionale, il rifiuto sia giustificato dal contrasto con l’ordine pubblico internazionale, l’adozione rappresentando l’unico modo per dare forma giuridica al rapporto con il genitore intenzionale.

La Corte ricorda che il riconoscimento della sentenza straniera è subordinato al fatto che le sue disposizioni non producano effetti contrari all’ordine pubblico. L’art. 64, comma 1, lett. g), della L. 218/1995 focalizza l’attenzione sugli effetti che la pronuncia straniera è destinata a produrre nel nostro ordinamento. A questo proposito, è pacifico che la mera diversità delle soluzioni legislative nazionali in merito a una determinata questione non può di per sé considerarsi dar luogo a un problema di compatibilità con l’ordine pubblico, giacché, ove si accogliesse una simile lettura estensiva del limite in questione, le regole di diritto internazionale privato verrebbero private della loro ragione d’essere, insita nella diversità degli ordinamenti giuridici nazionali e nell’opportunità di realizzare tra di loro un profilo di coordinamento, funzionale ad agevolare la vita internazionale delle persone.

Tuttavia, nemmeno può presumersi, all’inverso, una apertura del tutto incondizionata degli ordinamenti giuridici statali al coordinamento con gli altri ordinamenti, tale da permettere senza limiti l’attribuzione di effetti a provvedimenti giurisdizionali stranieri, rinunciando a un qualsiasi controllo in ordine alla loro compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico del foro.

Ciò premesso, nella nozione di ordine pubblico internazionale rientrano, quindi, anzitutto quei principi fondamentali, quei valori della nostra Costituzione che esprimono la fisionomia inconfondibile della comunità nazionale. L’ordine pubblico internazionale comprende anche quelle altre regole che, pur non collocate nella Costituzione, danno concreta attuazione ai principi costituzionali o esprimono un principio generale di sistema.

L’operazione che il giudice deve svolgere ha a oggetto, non la coerenza della normazione interna di uno o più istituti con quella estera che ha condotto alla formazione del provvedimento giurisdizionale di cui si chiede il riconoscimento, ma la verifica della compatibilità degli effetti che l’atto produce con i limiti non oltrepassabili. Essi sono costituiti: dai principi fondanti l’autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori; dal principio del preminente interesse del minore, di origine convenzionale ma ampiamente attuato in numerose leggi interne e in particolare nella recente riforma della filiazione; dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all’identità e al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonché relazionale, sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell’orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che fonda la genitorialità sociale sulla base del quale la legge interna e il diritto vivente hanno concorso a creare una pluralità di modelli di genitorialità adottiva, unificati dall’obiettivo di conservare la continuità affettiva e relazionale ove già stabilizzatasi nella comunità familiare (Cass. Sez. Un. 31 marzo 2021, n. 9006, cit.).

Ad avviso delle Sezioni Unite, l’art. 12, comma 6, della L. 40/2004, che considera fattispecie di reato ogni forma di maternità surrogata, con sanzione rivolta a tutti i soggetti coinvolti, compresi i genitori intenzionali, è norma di ordine pubblico internazionale.

Costituisce indice univoco della rilevanza del divieto, quale limite di ordine pubblico, la natura penale della sanzione posta dalla disposizione di legge a presidio del valore fondamentale della dignità della persona umana.

L’operazione che tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione e così smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto, riducendo la prima a mero servizio gestazionale e il secondo ad atto conclusivo di tale prestazione servente, costituisce una ferita alla dignità della donna.

L’art. 12, comma 6, della L. 40/2004 esprime l’esigenza di porre un confine al desiderio di genitorialità a ogni costo, che pretende di essere soddisfatto attraverso il corpo di un’altra persona utilizzato come mero supporto materiale per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile.

Nell’ordinanza di rimessione si metteva in dubbio che sia lesiva della dignità della donna una pratica considerata lecita nell’ordinamento di origine quando sia frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile fino alla nascita del bambino e soprattutto indipendente da contropartite economiche. In questa prospettiva, la trascrizione di atti di nascita o la delibazione di sentenze provenienti da ordinamenti che consentono la surrogazione di maternità – si osserva nell’ordinanza interlocutoria della Prima Sezione – sarebbe possibile, e non si porrebbe in contrasto con limiti di ordine pubblico, al ricorrere di talune circostanze, quali lo spirito di solidarietà per altri, la presenza del diritto della gestante al ripensamento e la sussistenza del legame genetico del nato con almeno uno dei partner della coppia committente.

Tuttavia, le Sezioni Unite non condividono tale ricostruzione e non ritengono di escludere il contrasto con l’ordine pubblico, e quindi di ammettere la delibazione, là dove la pratica della gestazione per altri sia considerata lecita nell’ordinamento di origine, in quanto frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile sino alla nascita del bambino e indipendente da contropartite economiche. Il legislatore italiano, infatti, nel disapprovare ogni forma di maternità surrogata, ha inteso tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione oggettiva, nella considerazione che nulla cambia per la madre e per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito.

Tuttavia, le Sezioni Unite rilevanti che concorre a formare l’ordine pubblico internazionale anche il best interest of the child. È un principio, questo, riconducibile agli artt. 2, 30 e 31 Cost. e proclamato da molteplici fonti internazionali ed europee, a cominciare dall’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la L. 176/1991, nonché dall’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L’interesse del minore non legittima comportamenti disapprovati dall’ordinamento, ma esige e impone che sia assicurata tutela all’interesse al riconoscimento giuridico del rapporto con il genitore d’intenzione.

È “imprescindibile” – afferma la Corte costituzionale – la necessità di assicurare tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con chi ne abbia voluto la nascita in un Paese estero in conformità della lex loci e lo abbia poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale (sent. 33/2021).

L’inserimento, nell’ordine pubblico internazionale, dell’interesse del minore apre uno scenario nuovo. L’ordine pubblico internazionale, tradizionalmente concepito con funzione meramente preclusiva od oppositiva, viene infatti ad assumere una funzione positiva, consistente nel favorire l’ingresso di nuove relazioni genitoriali. Ne deriva un temperamento, una mitigazione (non già, beninteso, un superamento) della aspirazione identitaria connessa al tradizionale modello di filiazione, in nome di un valore uniforme rappresentato dal miglior interesse del bambino.

Poste queste coordinate, deve allora escludersi la trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il padre d’intenzione. L’ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è assicurata attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), della L. 184/1983, che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita.

Il provvedimento giudiziario starnerò non è trascrivibile per un triplice ordine di ragioni: per la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane; perché va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo; infine perché il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato a uno strumento di carattere automatico, dato che l’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza.

La Corte rileva che va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner. L’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass., sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte cost. 230/2020). La stessa Cassazione lo ha ribadito ammettendo il riconoscimento e la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa, per aver la prima donato l’ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto (Cass., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599).

La Corte rileva quindi che l’interesse del minore deve essere soddisfatto attraverso ladozione in casi particolari, ammettendo il riconoscimento giuridico del rapporto genitore/figlio con valutazione ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice. Non si manifesta, in tal modo, alcuna insidiosa vicinanza alla logica del fatto compiuto, ma si guarda alla condizione materiale del minore e al suo interesse affinché l’accudimento prestato da colui che ha condiviso in concreto il progetto procreativo assuma, con la costituzione dello status, la doverosità tipica della responsabilità genitoriale.

La stessa Corte EDU sottolinea come l’adozione possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato, e a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino.

In conclusione, la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “Poiché la pratica della maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, non è automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d’intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità della lex loci. Nondimeno, anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), della L. 184/1983. Allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, l’adozione rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita”.

giurista risponde

Restituzione assegno di mantenimento Quando devono essere restituite le somme versate con l’assegno di mantenimento o divorzile?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere:

  1. a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile;
  2. b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) a una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purché sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica;
  3. c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità. – Sez. Un. 8 novembre 2022, n. 32914.

 

La Cassazione del 2021 aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione se i crediti relativi agli assegni che derivano dalla crisi familiare abbiano tutti le caratteristiche della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità dei crediti alimentari; se tali caratteristiche, se presenti, dipendano o meno dalla entità della somma; se nel caso in cui sia in discussione la non debenza dell’assegno sia possibile scorporare la quota di esso avente finalità alimentare.

Il caso riguardava una vicenda relativa alla richiesta di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, avanzata dall’ex moglie.

La Cassazione, nella pronuncia in esame, ha dato risposta ai quesiti indicati seguendo un analitico schema argomentativo.

Le Sezioni Unite rilevano che la questione riguarda la condanna della ricorrente, disposta dalla Corte d’appello, alla restituzione delle somme percepite dal coniuge separato e poi divorziato, dall’ottobre 2009, a titolo di assegno di mantenimento, alla asserita irripetibilità, in tutto o in parte (nei limiti della modesta entità dell’importo del contributo), delle somme versate a titolo di mantenimento, stante la natura sostanzialmente alimentare dell’obbligazione.

La questione implica, a sua volta, la soluzione di alcuni fondamentali quesiti: a) quello circa la sussistenza o meno di un principio generale di irripetibilità delle statuizioni economiche in sede di giudizio di separazione e divorzio (in relazione ai coniugi e ai figli), ricavabile dalla disciplina processuale; b) quello relativo alla natura alimentare (in tutto o in parte) o para-alimentare o con finalità anche alimentare dell’assegno di mantenimento del coniuge separato o divorzile, ricavabile dal diritto sostanziale e circa l’effettivo carattere di irripetibilità della prestazione di alimenti, desumibile, in difetto di un’espressa disposizione normativa, dalla complessiva disciplina dettata in materia o da principi costituzionali.

La Corte premette che in generale, sul contributo al mantenimento del coniuge, vanno svolte alcune considerazioni generali in ordine agli effetti della separazione e del divorzio (e della crisi del rapporto di coppia, avuto riguardo alle unioni civili) sui rapporti patrimoniali fra i coniugi, con riguardo all’assegno di mantenimento del coniuge (e dei figli).

La separazione personale tra i coniugi non estingue il dovere reciproco di assistenza materiale, espressione del dovere, più ampio, di solidarietà coniugale, ma il venir meno della convivenza comporta significati mutamenti: a) il coniuge cui non è stata addebitata la separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di mantenimento, qualora non abbia mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato, che può essere liquidato in via provvisoria nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 708 c.p.c.; b) il coniuge separato cui è addebitata la separazione perde invece il diritto al mantenimento e può pretendere solo la corresponsione di un assegno alimentare se versa in stato di bisogno.

Si afferma, con orientamento prevalente, che il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato sorge e decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio.

Invece, l’assegno divorzile, del tutto autonomo rispetto a quello di mantenimento concesso al coniuge separato, a seguito della riforma introdotta nel 1987, e dell’intervento chiarificatore da ultimo espresso da queste Sezioni Unite nella sent. 18287/2018, ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce a occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico), nel senso che i criteri previsti dall’art. 5 L.div. (tra i quali la durata del matrimonio, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune e le ragioni della decisione) rilevano nel loro insieme sia al fine di decidere l’an della concessione sia al fine di determinare il quantum dell’assegno.

Si è quindi evidenziato (Cass. Sez. Un. 18287/2018) che “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile – al pari dell’assegno di mantenimento in sede di separazione -, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”. In sostanza, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti, patrimoniale e reddituale, occorrerà verificare se esso, in termini di correlazione causale, sia o meno il frutto delle scelte comuni di conduzione della vita familiare che abbiano comportato il sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi.

Quanto alla decorrenza dell’assegno divorzile, se, vigente la disciplina dettata dal testo originario della L. 898/1970, si era individuato tale momento, in correlazione con la definitiva acquisizione da parte dei coniugi dello status di divorziati, con riferimento al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, che segna lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del vincolo coniugale e che rispetto allo status predetto ha efficacia costitutiva (Cass. 3038/1977; Cass. 6485/1986), la riforma del 1987 ha introdotto un temperamento, prevedendo che la sentenza di primo grado volta a determinare la misura dell’assegno sia provvisoriamente esecutiva, riguardo ai provvedimenti di natura economica, e che il tribunale, nell’emanare la sentenza non definitiva (e questa Corte ne ha esteso la portata anche all’ipotesi in cui sia stata emessa sentenza definitiva di divorzio, Cass. 5140/2011, o di contestuale pronuncia sul divorzio e sull’assegno, Cass. 7458/1990), possa stabilire, motivatamente, che l’assegno decorra, ancor prima, a partire dalla data della domanda giudiziale, ex art. 4, pur in mancanza di una specifica richiesta di parte (Cass. 3351/2003; Cass. 19330/2020). Per il periodo precedente, la situazione economica rimane disciplinata dalla normativa sulla separazione dei coniugi (ove il divorzio sia pronunciato per il protrarsi della stessa).

Sia l’assegno di mantenimento sia quello divorzile possono subire variazioni, in aumento o in diminuzione, per effetto del cambiamento della situazione patrimoniale relativa al debitore o al creditore considerata al momento della sentenza. Quanto all’assegno divorzile se la necessità di un assegno si manifesti dopo il passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo status, esso verrà liquidato in separato giudizio, restando ferma la possibilità di avanzare la domanda successivamente alla sentenza di divorzio, anche in difetto di pregressa domanda giudiziale (Cass. 2198/2003, ove si è chiarito che il deterioramento delle condizioni economiche di uno o di entrambi gli ex coniugi, che consente il riconoscimento dell’assegno, può verificarsi anche dopo il divorzio, proprio perché trova fondamento nel dovere di assistenza, e non nel nesso di causalità o di concomitanza tra divorzio e deterioramento delle condizioni di vita). Ove si verifichino mutamenti di circostanza, così da richiedere una modifica dell’assegno, la pronuncia potrebbe far retroagire tale aumento dal momento (successivo alla domanda) del mutamento di circostanza o addirittura disporlo a far data dalla decisione (cfr., sul punto, Cass. 15 marzo 1986, n. 3202).

La Corte osserva, in generale, sul tema degli alimenti, che l’obbligazione legale di alimenti, vale a dire la corresponsione dei mezzi atti a soddisfare i bisogni essenziali necessari alla persona per condurre una vita dignitosa (a es. vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, trasporto), trova anch’essa fondamento, al pari del diritto al mantenimento del coniuge e dei figli, nella solidarietà familiare, peraltro in un’accezione, quanto all’individuazione dei soggetti obbligati ex lege, di famiglia più estesa di quella nucleare cui è dedicato il libro primo del codice (rilevando rapporti di parentela, affinità, coniugio, unione civile, convivenza di fatto), ma essa può sorgere anche tra estranei. Si deve quindi tener conto (ai sensi del 2 comma dell’art. 438 c.c.) dei bisogni specifici del richiedente e delle condizioni economiche dell’obbligato (prevedendosi, conseguentemente, che vi siano più soggetti tenuti all’adempimento del dovere). La misura degli alimenti che il creditore può pretendere, non fissata dal legislatore in modo fisso, non dovrebbe superare, in generale, quanto sia necessario per la vita dell’alimentando (tenuto conto dei bisogni non solo materiali ma anche civili), avuto anche riguardo alla sua posizione sociale (vale a dire ai bisogni essenziali che si manifestino in concreto in relazione anche alla personalità e alle abitudini pregresse), senza sperperi o sregolatezza, mentre è limitata allo “stretto necessario” quando l’obbligazione sorge tra fratelli e la prestazione deve comprendere le spese per l’educazione e l’istruzione se l’alimentato è minorenne. In ogni caso, la valutazione deve essere operata in concreto e personalizzata.

Si è osservato che l’obbligazione alimentare si differenzi dall’obbligazione tipica civile per alcuni caratteri peculiari della sua specifica regolamentazione, dettata dall’art. 433 c.c. e ss., che si spiegano in relazione alla sua funzione: un regolamento di interessi rivolto alla realizzazione dei bisogni esistenziali di un soggetto privo dei mezzi necessari per provvedervi.

Ancora, la prestazione alimentare prescinde dallo stato soggettivo del creditore, salva la possibilità (art. 440, comma 1, c.c.) di riduzione (non di esclusione) degli alimenti, in considerazione della condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato. L’art. 448 bis c.c. (introdotto dalla Riforma della filiazione con L. 219/2012) contempla invece la perdita del diritto agli alimenti, a favore dei figli (e i loro discendenti), che vengono quindi esonerati dall’obbligazione alimentare, in caso di pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 330 c.c.

In ambito successorio, in sede di separazione personale, nasce poi, a favore del coniuge cui sia addebitabile la stessa e che versi in stato di bisogno, un’obbligazione di natura anche alimentare nelle forme di un assegno vitalizio (art. 548 c.c.). L’art. 9bis L. div. prevede poi, in presenza di determinati presupposti, quali la titolarità dell’assegno di divorzio e lo stato di bisogno, la possibilità di attribuire, dopo il decesso dell’obbligato, un assegno periodico a carico dell’eredità, tenuto conto dell’importo dell’assegno post-coniugale, dell’entità del bisogno, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. Ai sensi dell’art. 440 c.c., la sentenza è sempre subordinata alla clausola rebus sic stantibus e quindi, venendo meno uno dei presupposti del credito alimentare, se ne potrà chiedere la riduzione o la cessazione (ovvero l’aumento in caso di peggioramento delle condizioni economiche). Secondo Cass. 1231/1967, “La possibilità che, per una causa qualsiasi, lo stato di bisogno dell’alimentando si manifesti o si aggravi da un momento all’altro, modificandosi la precedente situazione di fatto, importa, da una parte, che nell’obbligazione alimentare deve ritenersi insito il carattere di prestazione rebus sic stantibus, suscettibile, come tale, di adeguamenti e modifiche, e, dall’altra, che, nello stabilire se il diritto a tale prestazione sussista o non e, nell’affermativa, in quale misura questa debba essere eseguita, il giudice ben può tener conto di tutti i mutamenti verificatisi rispetto alla situazione di fatto in precedenza considerata, non esclusi quelli eventualmente prodottisi nel corso del giudizio” (conf. Cass. 1577/2019, stante l’inequivoco tenore dell’art. 440 c.c.).

Quanto alla decorrenza, l’art. 445 c.c., prescrive, per le obbligazioni alimentari legali (non quelle da negozio giuridico, Cass. 3525/1968, la cui decorrenza è fissata in via pattizia) che gli alimenti siano dovuti dalla domanda ovvero dalla costituzione in mora del debitore, cui deve però seguire entro sei mesi la domanda giudiziale (Cass. 4011/1999: “Il principio secondo cui l’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento decorre (in applicazione della regola fissata per gli alimenti dall’art. 445 c.c.) dalla data della presentazione della domanda da parte dell’avente diritto riguarda soltanto il profilo dell’an debeatur della domanda stessa, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il quantum tenendo conto dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, né sulla legittimità della fissazione di misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati”).

La Corte, previa analisi del quadro normativo e dei contrapposti orientamenti giurisprudenziali, indaga la natura o meno alimentare o “para-alimentare” o con finalità anche assistenziale della prestazione di mantenimento, nella separazione e divorzio.

Pur nella comune riconduzione al concetto di solidarietà familiare (a eccezione del rapporto donatatario/donante), sussistono indubbie differenze strutturali e funzionali tra gli alimenti, secondo la modalità di somministrazione periodica di somma di denaro, e l’assegno di mantenimento del coniuge separato e di divorzio (al di fuori dell’ipotesi di corresponsione in unica soluzione): a) il diritto al mantenimento del coniuge separato, cui non sia addebitabile la separazione, presuppone la mancanza di mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato; b) l’assegno divorzile ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce a occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico); c) presupposti del diritto agli alimenti sono lo stato di bisogno del soggetto richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato, rilevando, come criterio per determinarne la misura concreta, anche la capacità economica dell’obbligato di provvedere alle necessità del bisognoso (riferita, quanto al donatario, anche al valore della donazione ricevuta).

Solo il diritto agli alimenti richiede tra i presupposti costitutivi uno stato di totale assenza di mezzi di sostentamento e, di regola, tende ad appagare le più elementari e basilari esigenze di vita quali il vitto, l’alloggio, il trasporto e le cure mediche, ma anche bisogni “civili”, quali l’istruzione, avuto anche riguardo alla sua posizione sociale (vale a dire ai bisogni essenziali che si manifestino in concreto in relazione anche alla personalità e alle abitudini pregresse), senza sperperi o sregolatezza, mentre è limitata allo “stretto necessario” quando l’obbligazione sorge tra fratelli e la prestazione deve comprendere le spese per l’educazione e l’istruzione se l’alimentato è minorenne.

Tuttavia, costituisce acquisizione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui, nonostante la sostanziale diversità delle condizioni che legittimano le due domande, la richiesta di alimenti non costituisce una domanda nuova, ma un minus necessariamente ricompreso nella più ampia richiesta di mantenimento (Cass. 4702/1978; Cass. 51/1981, Cass. 5698/1988; Cass. 2128/1994; Cass. 5677/1996; Cass. 5381/1997; Cass. 4198/1998; Cass. 1761/2008; Cass. 10718/2013; Cass. 27695/2017).

La stessa Corte Costituzionale, con la sent. 17/2000, ha, di fatto, nel ritenere l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, ricompreso tra i crediti privilegiati di cui all’art. 2751, n. 4, c.c. e art. 2778, n. 17, c.c., i crediti di mantenimento in caso di separazione e i crediti da assegni divorzili, rispondendo entrambi i crediti alla medesima funzione, precisando che il credito da mantenimento del coniuge separato o divorziato ha un contenuto più esteso di quello alimentare in senso stretto.

In sostanza, si è inteso dare rilievo al comune carattere (o meglio alla comune finalità) “assistenziale” delle diverse prestazioni e al fatto che anche l’assegno di mantenimento del coniuge separato e l’assegno divorzile, nella sua componente propriamente assistenziale, nonché l’assegno di mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti economicamente, rispondano, al pari degli alimenti, alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, sia pure in un’accezione più ampia e non essendo necessario uno stato di indigenza o bisogno, come negli alimenti.

Il richiamo, nelle situazioni di crisi della famiglia, ai principi costituzionali generali (artt. 2 e 29 Cost.), strumenti più duttili e quindi più efficienti, talvolta, della disciplina positiva, si realizza anche attraverso il riferimento al “principio di solidarietà sociale”, che nel settore della società familiare prende il nome di “solidarietà familiare” o “solidarietà post – familiare”, che deve ispirare i componenti della famiglia a comportamenti di correttezza e di buona fede, finalizzati, pur a fronte della rottura della famiglia, a un riequilibrio del rapporto di coppia e tra genitori e figli, al fine di evitare tendenzialmente, nei rapporti reciproci, conflittualità e abusi.

Infine, la Corte verifica la questione dell’effettiva irripetibilità delle prestazioni alimentari, e la possibile giustificazione di una parziale irripetibilità delle prestazioni di mantenimento nelle situazioni di crisi del rapporto di coppia, con i suoi imiti.

È stato affermato dalla Cassazione che la retroattività della sentenza, nel rapporto tra sentenza di primo grado e sentenza di appello, nel caso in cui escluda o riduca l’assegno stabilito nella sentenza impugnata, può operare solo a favore del beneficiario dell’assegno, considerato il carattere “latamente alimentare” o la funzione anche alimentare dell’assegno (nel senso della ricomprensione del minus alimentare nella più ampia obbligazione di mantenimento) e la conseguente applicabilità, per analogia, agli assegni separativi o divorzili del trattamento riservato agli alimenti, ragione questa per cui l’effetto retroattivo della sentenza debba in ogni caso conciliarsi con i caratteri della impignorabilità, della non compensabilità e “della irripetibilità” dell’assegno di mantenimento “desumibili dall’art. 447 c.c., e art. 545 c.p.c.”, propri della disciplina dell’assegno alimentare Ora, in effetti, non si rinviene nell’ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno propriamente alimentare provvisoriamente disposto a favore dell’alimentando, atteso che l’art. 447 c.c., si occupa di disciplinare la cessione del credito alimentare e la sua compensazione con un controcredito dell’obbligato, ma non ne sancisce l’irripetibilità, mentre gli artt. 545 e 671 c.p.c., contemplano l’impignorabilità (non assoluta, essendo pignorabili i crediti a loro volta alimentari, a condizione dell’autorizzazione del giudice) e l’insequestrabilità dei crediti alimentari. Le stesse disposizioni specifiche degli artt. 440 e 446 c.c., non escludono la possibilità del ricorso al generale rimedio dell’azione di ripetizione di indebito, nelle ipotesi di riduzione dell’assegno alimentare fissato in via cautelare e provvisoria dal Presidente del Tribunale o di esclusione del diritto con il provvedimento definitivo.

Di conseguenza, non può negarsi l’efficacia caducatoria e ripristinatoria dello status quo ante e dunque sostitutiva della sentenza impugnata propria della sentenza emessa in esito al successivo grado di giudizio, sulla base del semplice riferimento alla disciplina dettata per gli alimenti in senso proprio.

Peraltro, riguardo alla questione che in questa sede interessa, non si tratterebbe di sancire l’obbligo di restituzione di quanto percepito a titolo strettamente alimentare, ma di restituire somme di denaro versate sulla base di un supposto e inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme di denaro versate sulla base di un supposto e parzialmente inesistente diritto al mantenimento.

In realtà, un temperamento al principio di piena ripetibilità trova giustificazione solo per ragioni equitative, di stampo c.d. “pretorio”.

Invero, l’opinione, pacifica in giurisprudenza, secondo cui la sentenza che escluda o riduca l’assegno alimentare concesso con provvedimento provvisorio o con la sentenza definitiva del grado inferiore del processo non potrebbe, a determinate condizioni, comportare la ripetibilità delle maggiori somme già versate, si giustifica su di un piano “equitativo”, sulla base nei principi costituzionali di solidarietà umana (art. 2 Cost.) e familiare in senso ampio (art. 29 Cost.: la società “naturale” costituita dalla famiglia), e solo nella misura in cui si esoneri il soggetto beneficiario, dal restituire quanto percepito provvisoriamente anche “per finalità alimentare”, sul presupposto che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state verosimilmente consumate per far fronte proprio alle essenziali necessità della vita (argomento tratto da art. 438, comma 2, c.c.).

Occorre dunque dare il giusto rilievo alle esigenze equitative-solidaristiche, espressione di quella solidarietà che trova sede anche nella peculiare comunità sociale rappresentata dalla famiglia e anche nelle situazioni di crisi della unione, in un’ottica di temperamento della generale operatività della regola civilistica della ripetizione di indebito (art. 2033 c.c.), nel quadro di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della stessa.

Non si tratta di dettare una regola di “automatica irripetibilità” delle prestazioni rese in esecuzione di obblighi di mantenimento, quanto di operare un necessario bilanciamento tra l’esigenza – palesata nel presente giudizio dal controricorrente – di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza, di stampo solidaristico, di tutela del soggetto che sia stato riconosciuto parte debole nel rapporto.

Ora, ove con la sentenza venga escluso in radice e “ab origine” (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” del soggetto richiedente (inteso, nell’accezione più propria dell’assegno di mantenimento o di divorzio, come mancanza di redditi adeguati), ovvero si addebiti la separazione al coniuge che, nelle more, abbia goduto di un assegno con funzione non meramente alimentare, non vi sono ragioni per escludere l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità).

Per converso, si deve affermare che, invece, non sorge, a favore del coniuge separato o dell’ex coniuge, obbligato o richiesto, il diritto di ripetere le maggiori somme provvisoriamente versate sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) a una rivalutazione, con effetto ex tunc, delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione) sia nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale (o nel rapporto tra la sentenza definitiva di un grado di giudizio rispetto a quella, sostitutiva, del grado successivo) venga rimodulato “al ribasso”; il tutto sempre se l’assegno in questione non superi la misura che garantisca al soggetto debole di far fronte alle normali esigenze di vita della persona media, tale che la somma di denaro possa ragionevolmente e verosimilmente ritenersi pressoché tutta consumata, nel periodo per il quale è stata prevista la sua corresponsione.

Ciò si giustifica in considerazione della tutela di quella solidarietà post-familiare, sottesa in tutta la disciplina relativa alla crisi della famiglia, e del fatto che non è in discussione, in tali ipotesi, l’esistenza e la permanenza, in giudizio, di un soggetto in condizioni di debolezza economica. Si deve infatti ragionevolmente presumere, in rapporto all’entità della somma di denaro litigiosa, che le maggiori somme (attribuite in via provvisoria o in via definitiva con la sentenza di primo grado), versate medio tempore dal richiesto al richiedente, siano state comunque (in atto o in potenza) consumate, proprio per fini di sostentamento, dal coniuge debole.

Si tratta, oltretutto, di una regola anche di esperienza pratica, in quanto il denaro, nell’ambito di cifre di modesta entità, percepito in funzione del necessario sostentamento del coniuge, è da presumere che sia stato speso a quel fine, con conseguente esclusione di ogni, inutile, azione di ripetizione.

L’entità, necessariamente, modesta di tale somma di denaro non può essere determinata in maniera fissa e astratta, considerato che il legislatore non ha fissato in maniera rigida la misura e il contenuto neppure della prestazione alimentare in senso proprio, essendosi ritenuta necessaria una valutazione personalizzata e in concreto, la cui determinazione è riservata al giudice di merito, valutate tutte le variabili del caso concreto: la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica, nonché il contesto socio-economico e territoriale in cui i coniugi o gli ex coniugi sono inseriti.

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Articolo di stampa e diritto all’oblio È lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In tema di trattamento dei dati personali e di diritto all’oblio, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato, purché, a richiesta dell’interessato, l’articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l’archivio storico del quotidiano e purché, a richiesta documentata dell’interessato, all’articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell’esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato, in tal modo contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost. della collettività a essere informata e a conservare memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale. – Cass. I, ord. 31 gennaio 2023, n. 2893.

La Cassazione, con l’ordinanza in esame, è intervenuta in riferimento alla deindicizzazione degli articoli dai normali motori di ricerca, ove relativi a casi di cronaca giudiziaria.

In conformità al principio che richiede l’aggiornamento e la contestualizzazione dei dati personali riferibili all’interessato, la Corte ha ritenuto che al fine di un corretto bilanciamento degli interessi in conflitto non sia sufficiente la cancellazione dell’articolo dall’archivio on line del quotidiano, ma sia necessario procedere all’aggiornamento della notizia.

Difatti, il mero accoglimento della richiesta di cancellazione negherebbe senza mezzi termini il diritto dei consociati alla memoria storica e documentale, interesse di rilievo costituzionale ai sensi degli artt. 21 e 33 Cost, a esclusivo favore del diritto alla riservatezza e all’identità personale del soggetto coinvolto nella vicenda giudiziaria.

Diversamente, l’accoglimento della richiesta di aggiornamento mediante apposizione in calce all’articolo di una nota informativa volta a dar conto del successivo esito del procedimento giudiziario con l’eventuale assoluzione dell’interessato, garantirebbe un equo bilanciamento tra il diritto all’identità personale e il diritto alla memoria storica e documentale, secondo il principio del minimo mezzo.

La Corte ha perciò considerata lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato. Ciò, tuttavia, ha specificato la Corte, a condizione che: a) a richiesta dell’interessato, l’articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l’archivio storico del quotidiano e purché; b) a richiesta documentata dell’interessato, all’articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell’esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato. La soddisfazione di tali requisiti, infatti, consente una contemperazione bilanciata del diritto, ex art. 21 Cost., della collettività a essere informata e a conservare memoria del fatto storico e del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale.

giurista risponde

Condominio consumatore Il condominio può considerarsi consumatore?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

L’art. 1, par. 1 e l’art. 2, lett. b) e c), della direttiva 93/2013 devono essere interpretati nel senso che una persona fisica, proprietaria di un’unità immobiliare in un edificio condominiale, debba essere considerata un «consumatore» qualora stipuli un contratto con un amministratore di condominio al fine della gestione e della manutenzione delle parti comuni anche in presenza di una determinazione legale di alcuni aspetti del rapporto.

Nel caso in cui il contratto con l’amministratore di condominio sia stipulato dall’assemblea dei condomini o dall’associazione dei proprietari, il singolo condòmino può essere considerato «consumatore» qualora possa essere qualificato come «parte» del contratto, sia una persona fisica e non utilizzi la propria unità immobiliare esclusivamente per scopi che rientrano nella sua attività professionale.

La legislazione di recepimento della direttiva – e la giurisprudenza nazionale che ne fa applicazione – può estendere l’applicazione delle norme a tutela dei consumatori anche oltre l’ambito stabilito nella direttiva stessa e, quindi, anche a soggetti giuridici, come i condominii, privi di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti. – Corte Giust. UE, sez. VIII, 27 ottobre 2022, C-485/21.

La Corte di Giustizia, nella decisione in rassegna, ha in primo luogo chiarito che la circostanza che una parte delle attività di gestione e manutenzione delle parti comuni dell’immobile in condominio e le spese annuali percepite a tale titolo da detto amministratore di condominio derivino dalla necessità di rispettare requisiti specifici in materia di sicurezza e di pianificazione territoriale, previsti dalla legislazione nazionale applicabile, non è idonea a sottrarre tali attività dal campo di applicazione dell’art. 2, lett. c), della direttiva 93/2013 e, di conseguenza, il contratto di cui al punto 12 della presente sentenza dal campo di applicazione di questa direttiva.

Si precisa al riguardo che se è vero che, ai sensi dell’art. 1, par. 2, della direttiva 93/2013, quando siffatte disposizioni legislative sono imperative, le clausole contrattuali che le riproducono siano escluse dall’ambito di applicazione di tale direttiva, è altrettanto vero che la validità di altre clausole, contenute nel medesimo contratto e non coperte dalle suddette disposizioni, possa essere valutata dal giudice nazionale alla luce di detta direttiva (v., in tal senso, sent. 21 dicembre 2021, Trapeza Peiraios, C-243/20, EU:C:2021:1045, punto 39 e giurisprudenza ivi citata).

Il giudice europeo aggiunge che nell’ipotesi in cui un contratto relativo alla gestione e alla manutenzione delle parti comuni di un immobile in condominio sia stipulato tra l’amministratore di condominio e l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di tale immobile, il proprietario di un appartamento facente parte di detto immobile è considerato un «consumatore», ai sensi dell’art. 2, lett. b), della direttiva 93/2013, purché tale proprietario, innanzitutto, possa essere qualificato come «parte» di detto contratto; inoltre, sia una persona fisica e, infine, non utilizzi tale appartamento esclusivamente per scopi che rientrano nella sua attività professionale. A quest’ultimo proposito, si precisa che non può essere esclusa dal campo di intervento della nozione di «consumatore» la fattispecie in cui una persona fisica utilizzi l’appartamento che costituisce il suo domicilio personale anche a fini professionali, come nell’ambito di un telelavoro subordinato o dell’esercizio di una libera professione.

Diversamente, quando tale proprietario di appartamento non può essere qualificato come «parte» di detto contratto, e poiché l’assemblea generale dei condòmini o l’associazione di proprietari di un immobile non è, per definizione, una «persona fisica», ai sensi di tale art. 2, lett. b) e, pertanto, non può essere qualificata come «consumatore» ai sensi di tale disposizione, tale contratto è sottratto all’ambito di applicazione della direttiva 93/13 (v., per analogia, sent. 2 aprile 2020, Condominio di Milano, via Meda, C-329/19, EU:C:2020:263, punto 29).

La Corte, infine, ribadisce che l’art. 1, par. 1, e l’art. 2, lett. b), di tale direttiva non ostano a una giurisprudenza nazionale che interpreti la normativa di recepimento di detta direttiva nel diritto interno in modo che le norme a tutela dei consumatori che essa contiene siano applicabili anche a un contratto concluso da un soggetto giuridico, quale un condominio privo di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, anche se un simile soggetto giuridico non rientra nell’ambito di applicazione della medesima direttiva (v., in tal senso, sent. 2 aprile 2020, Condominio di Milano, via Meda, C-329/19, EU:C:2020:263, punti 18 e 38).

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Mutuo fondiario oltre il limite Quali sono le conseguenze in caso di mutuo fondiario concesso oltre il limite di finanziabilità?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità di cui all’art. 38, comma 2, del D.Lgs. 385/1993, non è elemento essenziale del contenuto del contratto, non trattandosi di norma determinativa del contenuto del contratto o posta a presidio della validità dello stesso, ma di un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto del contratto; non integra norma imperativa la disposizione – qual è quella con la quale il legislatore ha demandato all’Autorità di vigilanza sul sistema bancario di fissare il limite di finanziabilità nell’ambito della «vigilanza prudenziale» (cfr. artt. 51 ss. e 53 TUB) – la cui violazione, se posta a fondamento della nullità (e del travolgimento) del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), potrebbe condurrebbe al risultato di pregiudicare proprio l’interesse che la norma intendeva proteggere, che è quello alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito.

Qualora i contraenti abbiano inteso stipulare un mutuo fondiario corrispondente al modello legale (finanziamento a medio o lungo termine concesso da una banca garantito da ipoteca di primo grado su immobili), essendo la loro volontà comune in tal senso incontestata (o, quando contestata, accertata dal giudice di merito), non è consentito al giudice riqualificare d’ufficio il contratto, al fine di neutralizzarne gli effetti legali propri del tipo o sottotipo negoziale validamente prescelto dai contraenti per ricondurlo al tipo generale di appartenenza (mutuo ordinario) o a tipi contrattuali diversi, pure in presenza di una contestazione della validità sotto il profilo del superamento del limite di finanziabilità, la quale implicitamente postula la corretta qualificazione del contratto in termini di mutuo fondiario. – Cass. Sez. Un. 16 novembre 2022, n. 33719.

Sul quesito iniziale, prima dell’intervento delle sezioni unite, si confrontavano due orientamenti contrastanti.

Un primo indirizzo giurisprudenziale ha escluso che la previsione del limite di finanziabilità di cui all’art. 38, comma 2, TUB costituisca una ipotesi rientrante nell’ambito applicativo dell’art. 117 TUB il cui comma 8 stabilisce che: «la Banca d’Italia può prescrivere che determinati contratti, individuati attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi, abbiano un contenuto tipico determinato. I contratti difformi sono nulli. Resta ferma la responsabilità della banca o dell’intermediario finanziario per la violazione delle prescrizioni della Banca d’Italia».

Tale ricostruzione è stata criticata da un secondo orientamento (Cass. 17352/2017, 19016/2017, 6586, 11201, 13286 e 29745/2018, 10788/2022) che ha ritenuto che la prescrizione del limite massimo di finanziabilità da parte della Banca d’Italia «si inserisce in ogni caso tra gli elementi essenziali perché un contratto di mutuo possa dirsi fondiario». Si è in particolare rilevato che la fissazione di un limite di finanziabilità non è confinabile nell’area del comportamento della contrattazione tra banca e cliente. Né è correlabile alla fase attuativa. Trattandosi di regole di condotta, se è indubbio che l’art. 38, comma 2, TUB incide su di un contegno della banca, è altrettanto innegabile che la soglia stabilita per il finanziamento ha la funzione di regolare il quantum della prestazione creditizia, per modo da incidere direttamente sulla fattispecie. Si è inoltre opinato che in caso di sconfinamento del limite di finanziabilità, è configurabile la «nullità dell’intero contratto fondiario», non essendo le sanzioni amministrative irrogabili alla banca adeguate a tutelare l’interesse sotteso alla norma violata, né potendosi ravvisare una ipotesi di nullità parziale, riguardante cioè il mutuo fondiario e la corrispondente iscrizione ipotecaria solo per la eccedenza rispetto ai limiti di legge.

Si è infine osservato che l’unica modalità di recupero del contratto nullo è quella della conversione in un contratto diverso (art. 1424 c.c.); circostanza questa non rilevabile d’ufficio dal giudice, ma su istanza di parte.

Anche l’ordinanza interlocutoria 4117/2022 della Prima Sezione Civile della Cassazione ha suggerito, come percorso alternativo alla nullità, la riqualificazione del contratto alla stregua di un mutuo ipotecario ordinario, prescindendo dal nomen iuris adoperato dalle parti e sterilizzandolo delle tutele speciali previste dalla legge, in favore del mutuante, per i finanziamenti fondiari.

Le Sezioni Unite, nella decisione in esame, conformemente a quanto osservato nell’ordinanza interlocutoria, hanno affermato che la nullità è predicabile per violazione di norme di fattispecie o di struttura negoziale solo se immediatamente percepibile dal testo contrattuale, senza laboriose indagini rimesse a valutazioni tecniche opinabili compiute ex post da esperti del settore, come sono invece quelle compiute dai periti cui sia demandato il compito di stimare il bene, ai fini del giudizio sul rispetto del limite di finanziabilità. Il rischio, viene puntualizzato nella sentenza in esame, è quello di minare la sicurezza dei traffici e di esporre il contratto in corso a intollerabili incertezze derivanti da eventi successivi – che non dovrebbero interferire con la questione, che è formale prima che sostanziale, della validità del contratto stesso – dipendenti dai comportamenti delle parti nella fase esecutiva (come l’inadempimento o l’insolvenza del mutuatario), tali da innescare la crisi del rapporto negoziale con l’esigenza di verificare ex post l’osservanza del limite di finanziabilità. Nessuna delle parti potrebbe fare affidamento sulla stabilità e sulla validità ab origine del contratto stipulato, essendo ben possibile che il valore immobiliare, sia pure oggetto di iniziale perizia estimativa, sia stato inconsapevolmente sopravvalutato. Viene posta inoltre l’attenzione sul fatto che il legislatore è intervenuto più volte con disposizioni che hanno previsto espressamente nuove ipotesi di nullità negoziale per violazione di specifiche norme di settore, anche nel TUB (art. 117), proprio per la difficoltà di considerare imperative le singole norme prescrittive o per evitare incertezze interpretative al riguardo. Nella specie, il silenzio del legislatore sulle conseguenze dell’esondazione del finanziamento rispetto al valore dell’immobile e alla garanzia prestata non è irrilevante. Come rilevato anche dal Procuratore Generale «l’assenza di un’esplicita previsione legislativa di invalidità del mutuo esondante, pertanto, costituisce un elemento che unitamente [ad altri], milita a favore dell’esclusione di una voluntas legis tendente a sanzionare con l’invalidità un finanziamento bancario con garanzia insufficiente». Tanto più che il mutuatario nessun pregiudizio risente dalla stipulazione di un mutuo esondante, essendo l’adeguatezza della garanzia reale posta a esclusiva tutela del finanziatore. Neppure la tutela della par condicio creditorum potrebbe dirsi affidata al rimedio della invalidità-nullità del contratto, essendo pacifico che gli atti negoziali pregiudizievoli nei confronti dei terzi (per abusiva erogazione del credito o in frode ai creditori) non sono illeciti né nulli, ferma restando la tutela risarcitoria nei casi di colpevole concorso dell’ente mutuante nel dissesto del cliente finanziato (Cass. 20576/2010; 23158/2014; 11695/2018, 18610 e 24725/2021, 15844/2022); eventualità ipotizzabile anche nel caso di dolosa o colposa concessione di finanziamento ultra-soglia che sia stata causa determinante di conseguenze dannose per il soggetto finanziato o i terzi.

Esclusa, a conclusione di ampia e articolata motivazione, la sanzione della nullità del contratto di mutuo fondiario, rimanendo la questione delle conseguenze disciplinari nei confronti dell’istituto di credito, cui sia imputabile il superamento del limite di finanziabilità, rilevante sul diverso piano del rapporto con l’autorità di vigilanza, viene enunciato il seguente principio di diritto: «in tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità di cui all’art. 38, comma 2, del D.Lgs. 385/1993, non è elemento essenziale del contenuto del contratto, non trattandosi di norma determinativa del contenuto del contratto o posta a presidio della validità dello stesso, ma di un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto del contratto; non integra norma imperativa la disposizione – qual è quella con la quale il legislatore ha demandato all’Autorità di vigilanza sul sistema bancario di fissare il limite di finanziabilità nell’ambito della «vigilanza prudenziale» (cfr. artt. 51 ss. e 53 TUB) – la cui violazione, se posta a fondamento della nullità (e del travolgimento) del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), potrebbe condurrebbe al risultato di pregiudicare proprio l’interesse che la norma intendeva proteggere, che è quello alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito».

Tornando alla fattispecie, viene esclusa la riqualificazione d’ufficio del contratto come ordinario mutuo ipotecario, risolvendosi in una impropria correzione o manipolazione del regolamento di interessi validamente convenuto tra le parti, al fine di privarlo in concreto dei relativi effetti legali. Da qui il secondo principio di diritto: «qualora i contraenti abbiano inteso stipulare un mutuo fondiario corrispondente al modello legale (finanziamento a medio o lungo termine concesso da una banca garantito da ipoteca di primo grado su immobili), essendo la loro volontà comune in tal senso incontestata (o, quando contestata, accertata dal giudice di merito), non è consentito al giudice riqualificare d’ufficio il contratto, al fine di neutralizzarne gli effetti legali propri del tipo o sottotipo negoziale validamente prescelto dai contraenti per ricondurlo al tipo generale di appartenenza (mutuo ordinario) o a tipi contrattuali diversi, pure in presenza di una contestazione della validità sotto il profilo del superamento del limite di finanziabilità, la quale implicitamente postula la corretta qualificazione del contratto in termini di mutuo fondiario».

giurista risponde

Vincolo prezzo edilizia convenzionata Il vincolo del prezzo massimo di cessione di immobili in edilizia convenzionata è opponibile anche alle alienazioni successive alla prima?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

In materia di edilizia residenziale pubblica, a seguito degli interventi legislativi di cui al D.L. 70/2011, art. 5, comma 3bis, introdotto in sede di conversione dalla L. 106/2011, e al D.L. 119/2018, art. 25undecies introdotto in sede di conversione dalla L. 136/2018, il vincolo del prezzo massimo di cessione degli immobili permane fino a quando lo stesso non venga eliminato con la procedura di affrancazione di cui alla L. 448/1998, art. 31, comma 49bis. Tale vincolo sussiste, in virtù della sostanziale equiparazione disposta dal L. 662/1996, art. 3, comma 63, e dalla L. 448/1998, art. 31, comma 46, sia per le convenzioni di cui all’art. 35 della L. 865/1971 (c.d. convenzioni PEEP) sia per quelle di cui alla L. 10/1977, artt. 7 e 8 (c.d. convenzioni Bucalossi), poi trasferiti, senza significative modifiche, nel D.P.R. 380/2001, artt. 17 e 18.

La procedura di affrancazione finalizzata all’eliminazione del vincolo di prezzo per i successivi acquirenti degli immobili di edilizia residenziale pubblica, che D.L. 119/2018, art. 25undecies, ha esteso in favore di tutti gli interessati, è consentita, secondo la previsione del comma 2 della citata disposizione, anche in relazione agli atti di cessione avvenuti anteriormente alla data di entrata in vigore del D.L. 70/2011, art. 5, comma 3bis, (13 luglio 2011); e la pendenza della procedura di rimozione dei vincoli determina la limitazione degli effetti dei relativi contratti di trasferimento degli immobili nei termini di cui alla L. 448/1998, art. 31, comma 49quater. – Cass. Sez. Un. 6 luglio 2022, n. 21348.

Nella pronuncia in esame le Sezioni Unite hanno sciolto un contrasto relativo all’efficacia del vincolo massimo di cessione nell’ambito delle varie convenzioni stipulate per l’edilizia popolare.

Secondo la decisione, la previsione di cui all’art. 35, comma 15 e 19, L. 865/1971, relativa al divieto temporaneo, a pena di nullità, di alienazione di alloggi costruiti su aree comprese nei piani per l’edilizia economica e popolare (P.E.E.P.) e cedute in proprietà ai comuni, costituisce una prescrizione di ordine pubblico generale dettata dal legislatore per prevenire l’eventualità che le agevolazioni concesse nel quadro di una politica abitativa di interesse sociale possano trasformarsi in un inammissibile strumento di speculazione; il comune – pertanto – non ha il potere di introdurre deroghe al divieto di alienazione, indipendentemente dalla qualità di contraente di una convenzione stipulata con la società cooperativa acquirente dell’area su cui è stato costruito l’alloggio, ovvero dalla circostanza che per la costruzione degli alloggi siano stati o meno concessi contributi pubblici. Si determina, quindi, con riferimento alle convezioni “P.E.E.P.” (in genere realizzato mediate la costituzione di un diritto di superficie), un vincolo sul prezzo che va oltre il primo rapporto di alienazione e che può essere opposto, efficacemente, anche nei confronti dei successivi acquirenti.

In tale prospettiva, il problema della vendita degli alloggi di edilizia convenzionata soggetti al vincolo sulla determinazione del prezzo viene risolto tenendo conto del carattere imperativo della relativa disciplina normativa, seppur mediata da convenzioni tra il Comune e il concessionario: con la conseguenza che l’eventuale violazione dei parametri legali sul prezzo di cessione cagiona la nullità della clausola ex art. 1418 c.c. e la sostituzione mediante inserzione automatica del corrispettivo imposto dalla legge (artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.) . In altri termini, qualora il proprietario di un immobile costruito in regime di edilizia residenziale convenzionata sulla base di una convenzione con il comune abbia stipulato un contratto per la cessione dell’immobile a un prezzo superiore a quello massimo indicato nella convenzione, il predetto prezzo può essere adeguato, ex art. 1339 c.c., a quello stabilito nella convenzione stessa.

Per quanto precede, e posto che la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi in materia di edilizia convenzionata è determinata sulla base di un dato normativo – che ha, a sua volta, istituito la relativa convenzione con il Comune – sono considerati compresi nella previsione dell’art. 1339 c.c., alla quale si collega quella dell’art. 1419, comma 2, c.c., i casi di difformità di una clausola negoziale da una norma imperativa, la quale peraltro non importa la nullità del contratto quando tale clausola sia sostituita di diritto da norme imperative.

Con riferimento, invece, all’edilizia popolare viene precisato che in seguito all’entrata in vigore (in data 19 febbraio 1994) del nuovo testo dell’art. 20, L. 179/1992, come sostituito dall’art. 3, L. 85/1994, è stata – di fatto – liberalizzata la cessione degli alloggi di edilizia agevolata una volta decorso il termine di cinque anni dalla loro assegnazione o dal loro acquisto, a nulla rilevando che l’assegnazione dell’alloggio risalga a epoca anteriore all’entrata in vigore della l. n. 179/1992, né la presenza, in provvedimenti amministrativi o negli strumenti convenzionali, di clausole contrastanti con tale regime di libera alienabilità post-quinquennale.

Conseguenza di tale situazione è che chi ha comprato un alloggio di edilizia residenziale convenzionata a prezzo di mercato ha diritto alla restituzione della differenza tra quanto versato e quanto invece dovuto in base ai vincoli stabiliti dalla convenzione originaria di assegnazione del diritto di superficie. Tale limitazione, nella più recente giurisprudenza, non riguarda solo il primo acquirente, in quanto il vincolo del prezzo massimo di cessione di immobili realizzati nell’ambito dell’edilizia economica e popolare ai sensi dell’art. 35, L. 865/1971 non spiega efficacia limitata al primo trasferimento, o in ordine a quello intervenuto tra il costruttore e il primo avente causa, ma segue l’immobile, a titolo di onere reale, in tutti i successivi passaggi di proprietà.

Secondo una parte della giurisprudenza, per contro, le convenzioni poc’anzi richiamate erano disciplinate da diverse finalità e regole, nel senso che le convenzioni previste sia dall’art. 35, L. 865/1971, sia dagli artt. 7 e 8, L. 10/1977, pur concorrenza a costituire l’edilizia abitativa convenzionata, non sono soggette dalla medesima disciplina, posto che all’edilizia convenzionata disciplinata dalla prima delle menzionate norme va applicata la medesima disciplina speciale e non quella contenuta nell’art. 8, L. 10/1977. Per le prime, in particolare, il vincolo sul prezzo era opponibile anche ai successivi acquirenti, salva la procedura di affrancazione, mentre nella seconda tipologia di convenzioni tale limite sussisterebbe solo nei confronti della prima alienazione.

Nella pronuncia in esame, a chiarimento della complessa situazione creatasi in forza della stratificazione normativa, la Suprema Corte sancisce che alla base delle due tipologie di convenzioni vi è la necessità di offrire una abitazione a prezzi contenuti, evitando speculazioni nelle fasi successive. Per questo, pur se differentemente disciplinate, le due tipologie in commento seguono la medesima finalità sociale, con conseguente applicazione del limite del prezzo di vendita, da ritenersi valido e opponibile a tutte le alienazioni successive, salva la procedura di affrancazione.

giurista risponde

Clausola di garanzia autonoma consumatore È da considerarsi vessatoria la clausola di garanzia autonoma nel caso in cui il garante sia un consumatore? Quali sono le conseguenze in caso di risposta affermativa?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del codice del consumo trova applicazione anche ai contratti atipici e ciò, quanto alla previsione dell’art. 36, comma 1, anche là dove la clausola accertata come abusiva esprima il profilo di atipicità del contratto. In relazione al contratto atipico di garanzia a prima richiesta e senza eccezioni, l’accertamento dell’eventuale posizione di consumatore del garante deve avvenire con riferimento a esso e non sulla base del contratto garantito e nel caso di riconoscimento al garante della posizione di consumatore è applicabile a sua tutela la disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del codice del consumo e in particolare la previsione dell’art. 33, lett. t) e ciò, quanto alla clausola di limitazione della proponibilità di eccezioni, sia con riferimento alle limitazioni inerenti a eventuali eccezioni relative allo stesso contratto di garanzia, sia con riferimento all’esclusione della proponibilità di eccezioni relative all’inadempimento del rapporto garantito da parte del debitore garantito. In quest’ultimo caso, ove la clausola venga riconosciuta abusiva, il contratto conserverà validità ai sensi del comma 1 del citato art. 36 e il garante potrà opporre dette eccezioni. – Cass. III, ord. 18 febbraio 2022, n. 5423.

La giurisprudenza interna ed eurounitaria si è chiesta, in modo particolare, se possa essere considerato consumatore un fideiussore non professionista che garantisca un’operazione negoziale (ad esempio un mutuo) strumentale alla professione del garantito.

La risposta è stata affermativa in quanto si è rilevato che la sola presenza della garanzia non è idonea a colmare l’asimmetria contrattuale sussistente tra il beneficiario del credito e il professionista (la banca) concedente, quest’ultimo titolare di un potere negoziale tale da poter predisporre unilateralmente le condizioni del contratto, sul cui contenuto la controparte non può incidere (Corte di Giustizia UE, VI, ord. 19 novembre 2015, C-74/15, Cass. 16 gennaio 2020, n. 742); Suprema Corte (18 febbraio 2022, n. 5423).

Il principio, con riferimento a una garanzia autonoma, è stato successivamente ribadito dalla Suprema Corte, nella decisione in rassegna. Nella circostanza la Cassazione ha altresì stabilito che nel caso di riconoscimento al garante della posizione di consumatore è applicabile a sua tutela la disciplina degli artt. 33, 34, 35 e 36 del Codice del Consumo e in particolare la previsione dell’art. 33, lett. t). Secondo la pronuncia tale disposizione si applica sia alla clausola di limitazione della proponibilità di eccezioni, sia con riferimento alle limitazioni inerenti a eventuali eccezioni relative allo stesso contratto di garanzia, sia con riferimento all’esclusione della proponibilità di eccezioni relative all’inadempimento del rapporto garantito da parte del debitore garantito. In tal caso, ove la clausola venga riconosciuta abusiva, e quindi espunta, il contratto conserverà validità ai sensi dell’art. 36, co. 1, cod. cons. e il garante, conseguentemente, potrà opporre dette eccezioni.

Per la Suprema Corte, inoltre, l’eliminazione per abusività della clausola “a prima richiesta e senza eccezioni” fa sì venir meno la funzione contrattuale che ne esprime l’atipicità, ma ciò non esclude la vincolatività del contratto di garanzia fra le parti. Il contratto, quindi, pur con diversa struttura, è comunque in grado di esprimere una funzione regolatrice dell’assetto di interessi, data la possibilità del garante di opporre le eccezioni relative al rapporto garantito che la clausola “a prima richiesta” impediva di opporre.

Questa soluzione, tuttavia, ha attirato diverse critiche. Si è infatti ben rilevato (Pagliantini) che con l’espunzione della clausola a prima richiesta viene travolta la stessa funzione contrattuale atipica dell’operazione: essa, infatti, non costituisce un contenuto secondario del contratto de quo, ma la causa dello stesso. La decisione ha, in sostanza, determinato un vero e proprio divorzio tra contratto autonomo di garanzia e consumatore.

giurista risponde

Giudizio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c. Quali sono i criteri per il giudizio di meritevolezza ex art.1322, comma 2, c.c.? È immeritevole La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra valuta domestica e straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322 , comma 2, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà.

La clausola inserita in un contratto di Leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone vari in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica e una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del D.Lgs. 58/1998. – Cass. Sez.Un. 23 febbraio 2023, n. 5657.

 

Le Sezioni Unite in questa recentissima sentenza, chiamate a valutare la validità di una clausola di indicizzazione in un contratto di leasing, hanno svolto delle rilevanti considerazioni con riferimento alla meritevolezza di un contratto e al potere giudiziale di intervento nel riequilibrare un negozio iniquo.

In primis hanno ricordato come la Cassazione in passato avesse già stabilito che il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., non coincide col giudizio di liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa. In particolare, secondo la Relazione al Codice civile la meritevolezza è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta che dir si voglia (ex aliis, Sez.Un. 17 febbraio 2017, nn. 4222, 4223 e 4224; sez. III 28 aprile 2017, n. 10506). Il risultato del contratto può dirsi immeritevole solo quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume o all’ordine pubblico (così la Relazione al Codice, §603, II capoverso). La pronuncia aggiunge che tale principio, se pur anteriore alla promulgazione della Carta costituzionale, è stato da questa ripreso e consacrato negli artt. 2, secondo periodo; 4, comma 2, e 41, comma 2, Cost.

Ne deriva, per la sentenza, che un contratto, dunque, non può dirsi “immeritevole” sol perché poco conveniente per una delle parti. L’ordinamento, infatti, garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato, non quello che, libero e informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici.

Da tali considerazioni, le Sezioni Unite rilevano che affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i princìpi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.

 

Viene, quindi, illustrata dal massimo organo della nomofilachia, una interessante casistica giurisprudenziale su contratti o patti contrattuali ritenuti immeritevoli, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., che pur formalmente rispettosi della legge, avevano per scopo o per effetto di:

 

  1. a) attribuire a una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l’altra ( 22950/2015; 19559/2015);
  2. b) porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra ( 4222/2017; 3080/2013; 12454/2009; 1898/2000; 9975/1995);
  3. c) costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti ( 14343/2009).

 

In un altro passaggio della pronuncia, le Sezioni Unite hanno sostanzialmente escluso che nel giudizio di meritevolezza possa avere rilievo l’equilibrio economico delle prestazioni.

Il caso di specie riguardava un contratto di leasing che conteneva una clausola di indicizzazione dei canoni, ancorata a due parametri: il Libor CHF (trimestrale) e il cambio franchi svizzeri-euro.

La variazione dei suddetti parametri non incideva sul canone concordato dalle due società, ma determinavano i guadagni e le perdite di ciascuna delle due parti del contratto.

La Corte d’appello ha ritenuto che tale clausola di indicizzazione fosse “immeritevole” perché le contrapposte obbligazioni delle parti erano “squilibrate”; e le ha ritenute squilibrate perché la misura della variazione del saggio degli interessi non era simmetrica: una pari variazione del rapporto di cambio tra il franco svizzero e l’euro avrebbe infatti comportato variazioni diverse del saggio di interessi, a seconda che la variazione fosse stata a favore del concedente o dell’utilizzatore.

La Corte d’appello, quindi, secondo le Sezioni Unite ha mostrato implicitamente – ma inequivocamente – di ritenere che: a) il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni; b) ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità. Ambedue queste affermazioni sono tuttavia considerate erronee, per più ragioni.

Diverse le obiezioni delle Sezioni unite a queste conclusioni.

In primo luogo – si rileva – che il diritto dei contratti non impone l’assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali. Si ricorda, al riguardo, che la libertà negoziale è principio cardine del nostro ordinamento e del diritto dei contratti. L’ordinamento garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Se il soggetto abilitato all’esercizio del credito ha il dovere di rispettare le regole del gioco e comportarsi in buona fede, nondimeno ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, con ampiezza di motivazioni, sez. I 21 gennaio 2020, n. 1184; nello stesso senso, sez. III, ord. 14 ottobre 2021, n. 28022). Non è dunque lo iato tra prestazione e controprestazione che può rendere un contratto “immeritevole” di tutela ex art. 1322 c.c., se quella differenza sia stata in piena libertà e autonomia compresa e accettata.

In secondo luogo, si afferma che lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Chi ha fatto un cattivo affare, pertanto, non può pretendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle prestazioni”. Segue quindi un passaggio di grande rilievo che sembra rispondere all’ampio potere di intervento giudiziale, a mezzo della clausola di buona fede, riconosciuto, invece dalla Corte costituzionale con sent. 27 gennaio 2023, n. 8. Per le Sezioni Unite, infatti: l’intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale (così, ex multis, sez. VI, ord. 25 novembre 2021, n. 36740).

In terzo luogo, ancora, si obietta che lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni (così la pronuncia) circa la “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”.

In quarto luogo si afferma che, anche ad ammettere che il calcolo del conguaglio degli interessi, per come previsto dal contratto oggetto del contenzioso, fosse più vantaggioso per il concedente rispetto all’utilizzatore, questa circostanza non basta di per sé a rendere “immeritevole” ex art. 1322 c.c. Si potrà discutere se questa clausola sia valida ex art. 1341 c.c.; oppure se sia frutto dell’approfittamento d’uno stato di bisogno; o ancora se non sia stata adeguatamente illustrata in sede precontrattuale: ma nel primo caso soccorrerà il rimedio della nullità; nel secondo quello della rescissione; nel terzo quello dell’annullamento del contratto per errore o del risarcimento del danno.

In conclusione, le Sezioni Unite in modo alquanto perentorio affermano che il giudizio di “immeritevolezza” di cui è menzione nell’art.1322 c.c. non può mai trasformarsi in una viamagica porta di Ishtar» nella sentenza) attraverso la quale veicolare un inammissibile intervento del giudice sulla convenienza dell’affare.

Ancora, in riferimento al giudizio di validità o meritevolezza di un patto contrattuale le Sezioni Unite chiariscono che non potrebbe mai limitarsi all’esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa, diversamente da quanto compiuto dalla Corte. In questo modo, per la pronuncia in esame, la decisione impugnata ha violato il millenario principio per cui soltanto cum nulla subest causa, constare non potest obligatio.

Si aggiunge che il giudizio de quo non può essere formulato in astratto ed ex ante, limitandosi a considerare il solo contenuto oggettivo dei patti contrattuali, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando – beninteso, iuxta alligata et probata partium – lo scopo perseguito dalle parti.

Passando al tema del derivato implicito nel leasing, il Supremo Collegio premette come in merito a questa tematica non possa configurarsi, nella sostanza, un contrasto di giurisprudenza di legittimità. Che la clausola indicizzata — la quale faccia dipendere gli interessi dovuti dall’utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme a un indice monetario (come nella specie) – non possa ritenersi uno strumento derivato, tantomeno implicito, è stato stabilito dalle decisioni 4569/2021 e 26358/2021 e viene ribadito anche nella pronuncia qui annotata. Difatti, la causa nulla ha in comune con quella dei derivati elencati dalla legge; difettano poi gli elementi essenziali che accomunano la maggior parte degli strumenti finanziari derivati tipici. Rientrano nella categoria degli “strumenti finanziari collegati alla valuta” soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull’andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d’una prestazione rinviando a un indice monetario, comunque determinato (Cass. 19226/2009). Discostandosi dalla posizione di parte della dottrina sul punto, le Sezioni Unite ritengono che non meriti dignità concettuale il derivato implicito per esso intendendosi un patto dotato di autonomia causale ma aggiunto o accessorio ad altro negozio. Viene precisato dalle Sezioni Unite che il contratto di leasing ha ovviamente sempre una funzione (anche) di finanziamento, e un finanziamento può legittimamente essere concesso in valuta nazionale od in valuta estera. Un finanziamento in valuta estera ha lo scopo di evitare i rischi connessi alla svalutazione della moneta nazionale (e cioè il rischio della svalutazione per il creditore, e il rischio della rivalutazione per il debitore). Un finanziamento (non importa se in forma di mutuo o di leasing) il cui importo è parametrato a un rapporto di cambio è un debito di valore e non di valuta.

Nella specie, si tratta di una normale clausola-valore, attraverso la quale le parti individuano il criterio al quale commisurare la prestazione del debitore. In questa direzione: 1) l’aleatorietà del contratto non è che un effetto naturale della clausola-valore; 2) la previsione che eventuali conguagli a favore dell’una o dell’altra parte fossero regolati a parte e non incidessero sul valore della rata non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti sulla qualificazione del contratto.

Concludono le Sezioni Unite evidenziando che la clausola di rischio cambio non snatura la causa del contratto di leasing. Per qualificare un contratto il giudice deve avere riguardo all’intento negoziale delle parti, non al risultato economico di esso, e tanto meno alla sua convenienza per una delle parti. Il contratto non muta natura e causa soltanto perché uno dei suoi elementi presenti un’occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico. Viene precisato che un contratto può dirsi atipico soltanto quando il rapporto per come disciplinato dalle parti diventi «del tutto estraneo al tipo normativo, perché trae le proprie ragioni di essere dall’adeguamento degli strumenti giuridici alle mutevoli esigenze della vita sociale e dei rapporti economici» (v. Cass. 3645/1969; Cass. 116/1974; Cass. 982/2002; Cass. 11096/2004). Da ultimo, viene rammentato che le prestazioni atipiche poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico. Ragion per cui la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti non è, di per sé, sufficiente a concludere che quel contratto, mercé la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa o natura e sia diventato atipico.

In conclusione, la clausola di indicizzazione quale quella in esame viene ritenuta lecita e non può costituire, da sola, la violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario. In ogni caso, l’eventuale violazione di questi doveri di correttezza nella fase delle trattative non potrebbe condurre a una dichiarazione di immeritevolezza del contratto. Al più, potrebbe configurarsi l’annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo), oppure una responsabilità precontrattuale o ancora il risarcimento del danno. Il giudizio sulla meritevolezza serve difatti a stabilire se il contratto possa produrre effetti. Il contratto immeritevole è improduttivo di effetti mentre il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno. Viene conseguentemente cassata dalle Sezioni Unite la decisione impugnata con rinvio della causa alla Corte territoriale per provvedere, in diversa composizione, sulla base dei due principi di diritto sopra richiamati.

giurista risponde

Occupazione senza titolo e danno da perdita subita Nel caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il danno da perdita subita sofferto dal proprietario è in re ipsa o va provato, quale danno conseguenza?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta.

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato.

Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto a un prezzo più conveniente di quello di mercato. – Cass. Sez. Un. 15 novembre 2022, nn. 33645 -33659.

L’occupazione illegittima di un immobile altrui, realizzata da un privato o da un PA, offre al proprietario leso una doppia tutela del diritto di proprietà, sia sul piano reale che su quello risarcitorio.

Con riferimento al primo viene in rilievo, evidentemente, l’azione di rivendicazione, coniata dall’art. 948 c.c., oltre alla tutela possessoria; con riferimento al secondo, invece, entra in funzione il meccanismo della responsabilità aquiliana, delineato dall’art. 2043 c.c.

Né è posto in dubbio che le due forme di tutela, pur differenziandosi, operino in sinergia assicurando al proprietario usurpato una protezione piena, integrata e completa.

Il dibattitto concerne, piuttosto, l’individuazione del danno ristorabile in sede risarcitoria per mezzo della tutela aquiliana.

Ci si domanda, infatti, quale sia il danno risarcibile in caso di occupazione abusiva dell’immobile altrui, interrogandosi non solo sull’esistenza ma anche sulla consistenza del pregiudizio subito dal proprietario occupato.

Per un primo filone ermeneutico il danno risarcibile sarebbe sempre e solo il danno-conseguenza patito dal proprietario, comprensivo sia della perdita subita che del mancato guadagno, a norma degli artt. 2056 e 1223 c.c. Spetterebbe, quindi, al proprietario-danneggiato-attore dimostrare l’entità del pregiudizio economico riportato in conseguenza della violazione del proprio diritto dominicale perché il giudice possa accogliere la domanda proposta e liquidare il risarcimento del danno dovuto dall’usurpatore-danneggiante.

Si tratta, in particolare, della tesi c.d. causale del danno che mantiene salda la dicotomia tipica della responsabilità aquiliana fondata sia sulla causalità materiale, da cui origina il danno-evento, che su quella giuridica, rivelatrice del danno-conseguenza.

Per una seconda opzione esegetica, invece, la violazione del diritto di proprietà porterebbe alla luce un danno in re ipsa, quantificabile a prescindere dalla prova concreta fornita dal proprietario danneggiato se solo si considera la natura fruttifera del bene in proprietà.

L’immobile oggetto del diritto dominicale è suscettibile, infatti, non solo di essere trasferito a titolo oneroso, quale estrinsecazione del potere di disposizione riconosciuto al proprietario, ma anche di essere concesso in godimento a terzi, attraverso un contratto di locazione o di comodato, rivelando il profilo dinamico del potere di godimento spettante altresì al proprietario, ai sensi dell’art. 832 c.c. Seguendo tale prospettiva, dunque, la sussistenza del diritto al risarcimento ben può essere determinata dal giudice sulla base di elementi presuntivi, facendo riferimento al c.d. danno figurativo, con riguardo al valore locativo del cespite abusivamente occupato.

Nell’ipotesi di occupazione abusiva, in definitiva, il danno patito dal proprietario è presuntivamente correlato alla fruttuosità dell’immobile, ossia al canone di locazione di mercato di un immobile analogo.

Trattandosi di una presumptio hominis, iuris tantum, la quantificazione del danno parametrata al valore locativo ben può essere superata, peraltro, da allegazioni e dimostrazioni specifiche provenienti o dall’attore danneggiante, che fornisca la prova concreta di un maggior danno, o dal convenuto danneggiato, che dimostri come nel caso di specie il proprietario abbia subito un minor danno o non abbia patito alcun danno.

Si tratta, d’altronde, di un indirizzo avallato anche dal giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato 897/2017 e 3428/2019) che, con un analogo percorso motivazionale, raffronta il danno da occupazione sine titulo al valore locativo di mercato del bene, discorrendo apertamente di danno in re ipsa.

Questa seconda ricostruzione ammicca, invero, alla teoria normativa del danno, di origine tedesca, secondo cui l’oggetto del danno coincide con il contenuto del diritto violato: il danno è in re ipsa, quindi, perché immanente appunto alla violazione del diritto.

Tale tesi si espone, tuttavia, alla facile obiezione di estromettere del tutto il danno-conseguenza per arrestare l’illecito aquiliano al mero danno-evento, attribuendo all’obbligo risarcitorio una funzione sanzionatoria che normalmente le è priva sì da far temere per l’introduzione di un danno punitivo extra legem.

L’evidenza del contrasto interpretativo ha portato, da ultimo, il giudice della nomofilachia a rimettere la questione alle Sezioni Unite, per mezzo di ben due ordinanze interlocutorie (Cass., sez. III, 17 gennaio 2022, n. 1162 e Cass., sez. II, 8 febbraio 2022, n. 3946).

Le sentenze della Cass. Sez. Un. 15 novembre 2022, nn. 33645 e 33659 risolvono la questione con una motivazione ricca, completa e sistematica che ripercorre lucidamente le due tesi proposte e ricostruisce il quadro generale della tutela reale e aquiliana del diritto di proprietà.

Dopo aver distinto le regole di proprietà (property rules) dalle regole di responsabilità (liability rules), orientate le une al futuro e le altre al passato, la Corte ribadisce con forza che l’azione risarcitoria non può coincidere con quella di rivendicazione, dovendosi modellare sulla struttura propria della fattispecie descritta dall’art. 2043 c.c. In aggiunta alla violazione del diritto di proprietà – id est il danno-evento – deve verificarsi, dunque, l’esistenza dell’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile, ossia il danno-conseguenza.

Ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica, quale acquisizione risalente della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 576 e Cass. Sez. Un. 11 novembre 2008, n. 26972), confermando che «se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria».

In tale prospettiva, la tesi del danno in re ipsa, una volta depurata dall’antesignano storico di matrice tedesca, non rinnega, invero, il danno-conseguenza, bensì si limita a introdurre un alleggerimento del carico probatorio gravante sul proprietario danneggiato per mezzo del meccanismo generale delle presunzioni tracciato dagli artt. 2727 e ss. c.c.

Si intende individuare, in tal modo, un punto di mediazione fra la teoria normativa del danno e quella della teoria causale, salvaguardando la distinzione tra la tutela reale e quella risarcitoria che l’ordinamento appresta al diritto di proprietà.

La teoria del danno in re ipsa non esautora, infatti, il requisito necessario del danno-conseguenza, accorciando la responsabilità civile al presupposto del solo danno-evento con l’esito di parificarla, in definitiva, alla tutela reale, ma si limita a intervenire sul piano probatorio-processuale, senza intaccare in alcun modo la struttura della fattispecie aquiliana.

In tal senso, allora, le Sezioni Unite suggeriscono di sostituire alla locuzione “danno in re ipsa” quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato.

Un’esplicita indicazione normativa in favore della liquidazione presuntiva del danno patrimoniale subito dal proprietario proviene, invero, dalla stessa legislazione in materia di espropriazione per pubblica utilità (D.P.R. 327/2001). La determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite), costituisce, infatti, una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione.

Ebbene, qual è il danno presunto o il danno normale in caso di occupazione abusiva di un immobile altrui? Il valore locativo di mercato del bene. Tale parametro di liquidazione ben può essere allegato specificamente dal proprietario-danneggiato; del pari, in assenza di una prova precisa, assurge presuntivamente a metro di misura per il giudice, chiamato a svolgere una valutazione equitativa del danno-conseguenza a norma dell’art. 1226 c.c., fermo restando la possibilità per entrambe le parti del giudizio di fornire una prova concreta, volta a ottenere una liquidazione in melius o in peius del danno concretamente risarcibile nel caso di specie.

giurista risponde

Mantenimento figli e trattenute stipendio Ai fini della determinazione del reddito da lavoro dipendente funzionale alla determinazione del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, occorre prendere in considerazione ogni trattenuta effettuata dal datore di lavoro?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

In tema di assegno divorzile e di contributo al mantenimento del figlio, la determinazione del reddito da lavoro dipendente del soggetto a carico del quale sono richieste quelle prestazioni impone di tenere conto delle ritenute fiscali e contributive operategli in busta paga sulla retribuzione, mentre il rilievo attribuibile, per il medesimo fine, ad altre trattenute ivi eventualmente effettuategli dal datore di lavoro può variare a seconda del loro specifico titolo, dovendosi valutare il grado di necessità del corrispondente esborso. – Cass., sez. I, 3 marzo 2023, n. 6515.

La questione oggetto della pronuncia della Suprema Corte trae origine dal caso di un genitore con una retribuzione netta di media di circa 1.500,00 mensili, gravata da pesanti oneri finanziari (in particolare, una cessione di Euro 397,00 e un prestito di Euro 347,00) che è stato condannato dal Tribunale al pagamento, a titolo di contributo per il mantenimento della prole, di Euro 300,00 per il figlio e di Euro 300,00 a titolo di assegno divorzile.

In sede di impugnazione, la Corte d’Appello ha rideterminato in Euro 250,00 sia l’assegno divorzile che il contributo in favore del figlio.

Avverso tale pronuncia la ricorrente ha adito i Giudici della Suprema Corte denunciando, per quanto qui di rilievo, la violazione e falsa applicazione della L. 898/1970, art. 5, comma 6 e dell’art. 316bis c.c. e della Costituzione, artt. 2 e 29.

In particolare, la censura muove dall’assunto che non ogni trattenuta che venga operata in busta paga sulla retribuzione di un lavoratore dipendente debba essere presa in considerazione ai fini della determinazione del suo reddito.

Si lamenta che la Corte territoriale avrebbe disposto la riduzione dell’assegno valorizzando, sic et simpliciter, in modo indiscriminato, gli oneri finanziari gravanti sullo stipendio di controparte, senza prendere in considerazione le ragioni poste a fondamento dei medesimi.

La Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato.

In particolare, ha affermato che non ogni trattenuta che viene operata in busta paga sulla retribuzione di un lavoratore dipendente va presa in considerazione ai fini della determinazione del suo reddito. La Corte opera una distinzione tra le ritenute fiscali e contributive, che certamente vanno prese in considerazione perché la loro applicazione da luogo alla determinazione del reddito disponibile da parte del soggetto, e le altre trattenute eventualmente operate dal datore di lavoro, le quali corrispondono, nella generalità dei casi, a titoli che, a differenza dei primi, non prescindono dalla volontà dell’obbligato e derivano, invece, da suoi atti di disposizione.

Secondo la Corte, il rilievo attribuibile a tali ritenute, in sede di determinazione della condizione economica del coniuge ai fini dell’assegno di separazione, può variare a seconda del loro specifico titolo, dovendosi valutare il grado di necessità del corrispondente esborso.

Nell’accogliere il ricorso, dunque, la Corte rammenta che sarebbe stato necessario, laddove la sentenza impugnata ha proceduto alla riduzione dell’entità dell’assegno, che la Corte avesse verificato da cosa fossero concretamente scaturite le altre trattenute operate in busta paga dal datore di lavoro, evidentemente derivanti, da atti di disposizione di quest’ultimo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 21 giugno 2012, n. 10380