tribunale unificato brevetti tub

Tribunale unificato dei brevetti europei: inaugurata la sede di Milano Inaugurata l'1 luglio 2024 la sede di Milano del TUB. Per il ministro Nordio si tratta di "una innovazione e una conquista"

TUB Milano

“Una innovazione e una conquista”. Così ilMinistro della Giustizia, Carlo Nordio, alla conferenza che ha preceduto l’inaugurazione della terza divisione centrale del Tribunale Unificato dei Brevetti, svoltasi l’1 luglio, a Milano, presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo.

Cos’è il TUB e di cosa si occupa

Il tribunale dei brevetti è suddiviso in sedi per garantire una copertura efficace in tutta l’Unione. Comprende tre divisioni centrali, situate a Parigi, Monaco di Baviera e dall’1 luglio 2024 anche a Milano, e diverse divisioni locali distribuite negli Stati membri.

Oltre alle Divisioni Centrali, ci sono diverse Divisioni Locali e Regionali distribuite nei vari Stati membri. Le Divisioni Locali si trovano in città come Vienna, Düsseldorf e anche già a Milano, tra le altre. Ogni Divisione Locale gestisce le controversie relative ai brevetti che coinvolgono principalmente imprese e individui del proprio Paese.

Nella sede meneghina, dove era già presente la sezione locale operativa da circa un anno, le competenze del TUB saranno: farmaceutica (eccetto brevetti con certificati complementari di protezione), agroalimentare, fitosanitario, moda (abbigliamento e calzature)).

Italia protagonista in un ambito delicato

Il Guardasigilli, nel corso del suo intervento, ha rimarcato l’impegno che ha permesso di ottenere, dopo la sezione locale, anche la terza Divisione Centrale (oltre a Parigi e Monaco di Baviera), dopo l’uscita di Londra dall’Ue: “E’ stato un lavoro duro, che colloca l’Italia tra le protagoniste assolute in questo ambito così delicato”. Il risultato raggiunto – ha precisato Nordio- è stato il frutto di “una assoluta concordanza di intenti e di organizzazione, fra magistratura, enti locali e Governo, abbiamo fatto sistema”. 

Alla cerimonia del taglio del nastro nel palazzo del tribunale, in via san Barnaba 50, sono intervenuti anche Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Valentino Valentini, Viceministro delle Imprese e del Made in Italy, Attilio Fontana, Presidente della Regione Lombardia, Giuseppe Ondei, Presidente della Corte d’Appello di Milano, Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano e altre autorità.

messaggi whatsapp prova

WhatsApp: è prova nel processo Il tribunale di Urbino ribadisce che i messaggi WhatsApp possono assumere la veste di prova nel processo

Messaggi WhatsApp prova

“I messaggi WhatsApp possono assumere la veste di prova nel processo, in quanto, con l’avvento delle nuove tecnologie, sempre più persone si affidano, anche per le pratiche commerciali, a Short Messages oad altro tipo di messaggeria”. Così il tribunale di Urbino con ordinanza del 7 giugno 2024 sciogliendo la riserva in una controversia relativa al mancato pagamento di un credito.

Art. 2712 e art. 2719 c.c.

A tal proposito, ribadisce il tribunale, l’art. 2712 c.c. dispone che “ogni rappresentazione meccanica di fatti e cose forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentante. se colui contro il quale sono state prodotte non ne disconosce la conformità”. Ed ancora l’art. 2719 c.c. sancisce “le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta”.

A tal stregua, per il giudice, si collocano i messaggi WhatsApp, nei confronti dei quali, nel caso di specie parte opponente non ha disconosciuto la paternità.

Perizia tecnica

Tuttavia, in conformità a quanto sancito dalla Cassazione, la quale ha affermato che “in merito all’utilizzabilità dei messaggi WhatsApp che essi hanno valore di prova purché vi siano i supporti informatici (gli smartphone o il pc) nei quali sono presenti le conversazioni (sentenza .n 49016 del 2017)”, il giudice ha ritenuto necessario procedere con la perizia tecnica sul dispositivo. A tal fine, quindi, ha nominato CTU affinché, acquisito il dispositivo, verifichi l’autenticità delle conversazioni Whatsapp tra le parti nonché la collocazione temporale dei messaggi stessi.

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giurista risponde

Obbligazione solidale debiti diversi Sussiste un’obbligazione solidale tra debiti aventi diversa natura?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Ai fini della responsabilità solidale di cui all’art. 2055, comma 1, c.c., che è norma sulla causalità materiale integrata nel senso dell’art. 41 c.p., è richiesto solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale), in quanto la norma considera essenzialmente l’unicità del fatto dannoso, e tale unicità riferisce unicamente al danneggiato, senza intenderla come identità di norme giuridiche violate; la fattispecie di responsabilità implica che sia accertato il nesso di causalità tra le condotte caso per caso, per modo da potersi escludere se a uno degli antecedenti causali possa essere riconosciuta efficienza determinante e assorbente tale da escludere il nesso tra l’evento dannoso e gli altri fatti ridotti al semplice rango di occasioni. – Cass. Sez. Un. 27 aprile 2022, n. 13143.

Le obbligazioni solidali passive identificano quelle obbligazioni in cui più debitori devono eseguire la stessa prestazione, ma l’adempimento da parte di uno di essi libera anche gli altri. Dal punto di vista funzionale, la solidarietà passiva assolve a una funzione unitaria e chiaramente identificabile, quella di rendere più sicuro e agevole il conseguimento del credito da parte del creditore, delineando una sorta di generica funzione di garanzia e di rafforzamento delle ragioni creditorie.

Come per tutte le obbligazioni plurisoggettive, gli elementi costitutivi sono: la pluralità di soggetti, l’identità della prestazione dovuta (eadem res debita) e, infine, l’unicità della fonte di obbligazione (eadem causa obligandi).

Quest’ultimo elemento, tuttavia, si atteggia in modo peculiare con riferimento alle obbligazioni risarcitorie da fatto illecito, che, ai sensi dell’art. 2055 c.c., si pongono in nesso di solidarietà allorché “il fatto dannoso” sia imputabile a più persone. In ossequio al principio generale del favor riparationis che informa la disciplina della responsabilità aquiliana, la giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503) ha chiarito che l’espressione “fatto dannoso va riferita non già, in prospettiva “autoriale”, alla condotta attiva o omissiva che ha causato l’evento, bensì, in prospettiva “vittimologica”, alla conseguenza dannosa. In altri termini, affinché i più danneggianti rispondano in solido ex art. 2055 c.c., ciò che necessita è l’unicità del danno e non anche della condotta che lo ha cagionato ovvero del titolo della responsabilità dei danneggianti (che ben possono aver concorso a cagionare l’evento dannoso con distinte violazioni di diversi doveri giuridici). La pluralità delle condotte e/o il diverso titolo della responsabilità dei danneggianti (contrattuale o extracontrattuale) non osta, pertanto, alla solidarietà delle obbligazioni risarcitorie degli stessi allorché si accerti che hanno efficacemente contribuito alla produzione di un’unitaria conseguenza dannosa.

Il problema sorge, tuttavia, quando sia diversa la natura delle obbligazioni.

Orbene, l’orientamento tradizionale (cfr. Cass. 11 dicembre 2019, n. 32402) nega, salva diversa previsione delle parti, la solidarietà tra obbligazioni aventi natura differente come l’obbligazione principale e quella di garanzia autonoma. Si rileva che la prestazione del garante autonomo non è omogenea rispetto a quella del debitore principale, attesa la sua natura indennitaria: l’obbligo del garante, infatti, non è quello di adempiere la stessa prestazione dell’obbligato principale, ma di tenere indenne il creditore dall’inadempimento del debitore principale.

Questa impostazione, tuttavia, è stata sottoposta a revisione dalla giurisprudenza più recente.

In una prima decisione, infatti, la Suprema Corte (21 agosto 2020, n. 17553) ha affermato che se la causa concreta della garanzia autonoma è di trasferire da un soggetto a un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione dell’obbligazione principale, al contempo, da ciò, non può automaticamente discendere la natura non solidale della garanzia autonoma, come emerge dall’art. 1293 c.c. secondo cui la solidarietà non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità diverse, o il debitore comune sia tenuto con modalità diverse di fronte ai singoli creditori, sicché il carattere di solidarietà tra il credito del garante e il credito del debitore principale non può ritenersi escluso “ex se” dalla natura autonoma della garanzia.

In un’altra pronuncia (11 marzo 2020, n. 7016), ancora, la Cassazione ha considerato solidali l’obbligazione risarcitoria (nel caso di specie della Consob, per mancata vigilanza) e restitutoria (dell’intermediario finanziario, in correlazione alla invalidità dell’operazione di investimento), nei confronti di un investitore danneggiato da un’operazione finanziaria per lui nociva.

Questo secondo orientamento ha ricevuto il definitivo sigillo dalle Sezioni Unite nella decisione ine same, per le quali in contrapposizione all’art. 2043 c.c. – che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un fatto doloso o colposo – l’art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso”; sicché, mentre la prima norma si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno a favore del quale è stabilita la solidarietà. In tale prospettiva viene richiamata e condivisa la precedente decisione a Sezioni Unite (Cass. 16503/2009) secondo cui l’art. 2055 c.c. «richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate.

In particolare, il caso di specie riguardava un’azione risarcitoria promossa da degli investitori ex L. 1966/1939 contro una società fiduciaria, al fine di ottenere la restituzione del capitale consegnato per inadempimento della stessa, e contro il MISE (Ministero dello sviluppo economico) per omessa vigilanza. Affermata la solidarietà tra i due debiti (restitutorio e risarcitorio), è stata riconosciuta l’efficacia interruttiva della prescrizione della domanda, con cui il ricorrente si era insinuato al passivo della procedura concorsuale per il recupero della somma versata, anche nei confronti della separata azione attivata contro il Ministero per il risarcimento del danno. Non si dubita, a detta delle Sezioni Unite, infatti, dell’applicazione dell’art. 1310, comma 1, c.c. perché l’effetto precipuo di ogni atto interruttivo consiste nella “conservazione” del diritto del creditore a ricevere la prestazione nei confronti di tutti i debitori solidali, e quindi nella cessazione di qualsiasi utilità del periodo di tempo già decorso prima dell’atto interruttivo e nell’inizio di un periodo nuovo, senza rilevanza della conoscenza o meno dell’atto medesimo da parte dei singoli.

Responsabilità del revisore: l’intervento della Consulta Per la Consulta, non è incostituzionale far decorrere dal deposito della relazione bilancio la prescrizione del risarcimento del danno della società che ha conferito l'incarico

Responsabilità del revisore

“Nella disciplina delle azioni di responsabilità nei confronti dei revisori legali dei conti, non è manifestamente irragionevole far decorrere, dalla data di deposito della relazione sul bilancio, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno che può far valere la società che ha conferito l’incarico”. È quanto si legge nella sentenza n. 115-2024, depositata oggi dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità, sollevate dal Tribunale di Milano sull’articolo 15, comma 3, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, sul presupposto che l’ambito applicativo della disposizione si intenda riferito alla sola azione risarcitoria della società.

Ampio margine di discrezionalità del legislatore

“Il legislatore ha un ampio margine di discrezionalità nel disciplinare la decorrenza della prescrizione – ha ricordato il giudice delle leggi – e, nel caso delle azioni risarcitorie, deve contemperare l’interesse del danneggiato a far valere il proprio diritto al risarcimento con le esigenze di certezza del diritto e di tutela dell’interesse del danneggiante a non doversi difendere a distanza di molto tempo da richieste di danni”.

Il caso dei revisori legali

Nel caso dei revisori legali, “il bilanciamento realizzato dalla norma censurata non – è – manifestamente irragionevole quando l’azione risarcitoria è fatta valere dalla stessa società che ha conferito l’incarico”. In siffatta ipotesi, da un lato, infatti, ha osservato la Consulta, “il revisore è esposto a una responsabilità solidale con gli amministratori”, dall’altro, “sin dal deposito di una relazione inesatta o scorretta, il suo inadempimento produce un danno alla società che ha conferito l’incarico, la quale può già far valere una pretesa risarcitoria”.

“Quel medesimo termine – invece – non può valere per soci e terzi, i quali, fintantoché l’affidamento ingenerato dalla relazione erronea o scorretta non abbia determinato un concreto sviamento della loro autonomia negoziale, non subiscono danni”. Ad essi, dunque, ha concluso la Corte, dovrà “applicarsi la regola generale dell’art. 2947 c.c., che fa decorrere la prescrizione dal fatto illecito produttivo di danni”.

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Diritto di proprietà: prova del danno tramite presunzioni In caso di limitazione delle facoltà insite nel diritto di proprietà, l'esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni

Diritto di proprietà

Il diritto di proprietà ha insite le facoltà di godimento e disponibilità del bene. Per cui una volta limitate le stesse, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni. E’ quanto ha statuito la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 17758-2024.

La vicenda

Nella vicenda, avente ad oggetto il risarcimento dei danni causati dall’installazione illegittima di una canna fumaria posta a 38 centimetri di distanza dal balcone dell’attore, la Corte d’appello rigettava la sua domanda risarcitoria ritenendo insussistente il danno alla salute e carente di prova il danno derivante dalla compromissione del godimento del bene.

Il ricorso in Cassazione

La proprietaria adiva quindi il Palazzaccio, dolendosi, con l’unico motivo di ricorso, del fatto che la corte territtoriale, pur avendo accertato l’intrinseca pericolosità della canna fumaria posta a distanza inferiore a quella legale, avesse rigettato la domanda risarcitoria “senza tener conto che l’esistenza di un manufatto in amianto limiterebbe il godimento del bene”. La ricorrente contesta la “fallacia del ragionamento inferenziale, che, in tema di violazione delle distanze, ammette il ricorso ad elementi presuntivi per l’accertamento e la determinazione del danno” e richiama l’orientamento di legittimità che riconosce il danno in re ipsa nell’ipotesi di violazione delle distanze.

Rispetto distanze

Per gli Ermellini, il motivo è fondato.
“Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’art. 890 c.c. – affermano preliminarmente – è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che è assoluta ove prevista da una norma del regolamento edilizio comunale, ed è invece relativa – e, come tale, superabile con la dimostrazione che, in relazione alla peculiarità della fattispecie ed agli accorgimenti usati, non esiste danno o pericolo per li fondo vicino – ove manchi una simile norma regolamentare (cfr. Cass. 15246/2017). Nel caso di specie, la Corte di merito, proseguono i giudici della S.C., “ha accertato la violazione delle distanze della canna fumaria dal balcone di proprietà dell’attrice e la sua intrinseca pericolosità, attesa la sua composizione in amianto e le pessime condizioni manutentive, pericolosità che era superabile con la dimostrazione da parte dei convenuti di aver adottato idonee cautele tecniche al fine di salvaguardare la dispersione nell’ambiente di sostanze nocive”.
La sentenza impugnata, ha escluso il risarcimento in assenza di un danno diretto alla salute, “omettendo però di valutare, anche in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante dall’esposizione ad amianto, abbia limitato il godimento del bene, a prescindere dalla verifica delle immissioni nocive”.

Prova del danno

Quanto alla tutela risarcitoria, le Sezioni Unite, con sentenza del 15.11.2022, n. 33645, in tema di prova del danno da violazione del diritto di proprietà e di altri diritti reali, ricordano ancora dalla S.C., “hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della I Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile. La questione se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria è risolta dalle Sezioni Unite in senso positivo”. E’ stato dato seguito al principio di diritto, più volte affermato dalla Cassazione, “secondo cui, in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria (ex multis Cass. Sez. 11, 18.7.2013, п.17635)”. La linea evolutiva della giurisprudenza della S.C., ha sostituito la locuzione “danno in re ipsa” con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato. Ed è stato quindi definito “il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà: esso riguarda non la cosa ma li diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione”. Per cui, il nesso di causalità giuridica si stabilisce “fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il
requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire”.

Prova per presunzioni

Quindi, “nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Per cui ha errato la Corte d’appello ad escludere la tutela risarcitoria “senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a
compromettere li godimento del bene, come l’intrinseca pericolosità della canna fumaria per la composizione in amianto, la difformità della canna alle prescrizioni di legge ed il suo cattivo stato di conservazione”. I giudici avrebbero dovuto accertare, invero, se “per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile per il rischio di dispersione nell’aria di sostanze altamente nocive”.
La sentenza impugnata, quindi concludono dalla S.C., non si pone in linea con l’orientamento di legittimità in tema di presunzione di danno correlato alla normale utilità del bene, “basato sull’assunto che il diritto di proprietà ha insite
le facoltà di godimento e disponibilità del bene ne è oggetto, sicché una volta soppresse o limitate tali facoltà, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni (Cassazione Civile, Sez. II, 23.6.2023, n.18108)”.

Il principio di diritto

Da qui l’accoglimento del ricorso con rinvio alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, che dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: “In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore”.

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revisore legale funzioni

Revisore legale: chi è e cosa fa Chi e il revisore legale, che attività svolge, come si accede alla professione, a quali responsabilità può andare incontro

Chi è il revisore legale

Il revisore legale è un professionista che effettua la revisione legale del bilancio nel rispetto delle disposizioni del codice civile e del decreto legislativo n. 39/2010. L’esercizio della attività di revisione legale è riservata ai soggetti iscritti nel Registro dei revisori legali tenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, al quale sono iscritti sia i revisori legali persone fisiche che le società di revisione, soggette a regole in parte diverse rispetto a quelle a cui sono soggetti i revisori persone fisiche.

Riferimenti normativi

Il principale riferimento disciplinare della professione del revisore legale è il decreto legislativo n. 39/2010, che ha attuato la direttiva 2006/43/CE sulle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati.

Abilitazione alla revisione legale

Come anticipato, l’esercizio della revisione legale può essere svolto solo da soggetti regolarmente iscritti nel Registro. Possono chiedere l’iscrizione al Registro le persone fisiche che:

  • possiedono i necessari requisiti di onorabilità definiti dal Ministro dell’economia e delle finanze sentita la Consob e sanciti da apposito regolamento;
  • abbiano conseguito una laurea della durata minima di tre anni tra quelle individuate dal Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la Consob;
  • abbiano svolto regolare tirocinio;
  • abbiano superato l’esame di idoneità professionale.

Al Registro possono iscriversi anche le società che soddisfino tutta una serie di condizioni previste e dettagliate dal comma 4 dell’articolo 2 del decreto legislativo 39/2010.

Tirocinio formativo

Il tirocinio professionale ha lo scopo di far acquisire al futuro revisore la capacità di applicare le conoscenze teoriche al caso concreto per fargli superare l’esame di idoneità ed esercitare la professione. Il tirocinio ha una durata triennale e viene svolto presso un revisore legale o un’impresa di revisione legale abilitata, che siano in grado di garantire al tirocinante una formazione di tipo pratico. I tirocinanti sono iscritti nell’apposito registro in cui sono indicate le generalità, il recapito, la data di inizio del tirocinio, il soggetto presso il quale viene svolto e tutti gli eventi modificativi che incidono sul suo svolgimento. Il tirocinante è obbligato, entro 60 giorni dal termine di ogni anno di tirocinio, a redigere una relazione sull’attività svolta.

Esame di abilitazione

L’esame per l’abilitazione professionale all’esercizio della professione di revisore legale viene indetto almeno una volta all’anno dal Ministero dell’Economia delle Finanze d’intesa con il Ministero della Giustizia.

L’esame di idoneità, finalizzato a verificare la capacità di applicazione concreta delle conoscenze teoriche verte su diverse materie, tra le quali figurano la contabilità generale, quella analitica e di gestione, la disciplina del bilancio di esercizio e del bilancio consolidato, i principi contabili nazionali internazionali, i principi di revisione nazionale internazionale, la deontologia, il diritto civile, commerciale, fallimentare, tributario, del lavoro, della previdenza, la matematica e la statistica, i principi di gestione finanziaria e l’economia politica, aziendale e finanziaria.

Ai sensi del comma 4 bis dell’articolo. 4 del dlgs n. 39/2010 sono esonerati dallo svolgimento

dell’esame di idoneità ai fini dell’iscrizione nel Registro coloro che hanno superato l’esame di Stato per l’abilitazione alla professione di dottore commercialista, fermo restando l’obbligo del tirocinio.

La formazione continua

I revisori legali iscritti al Registro hanno l’obbligo della formazione continua, che consiste nel partecipare a programmi di aggiornamento professionale che vengono stabiliti ogni anno dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e che hanno la finalità di perfezionare e mantenere le conoscenze teoriche così come le capacità professionali. Il periodo di formazione continua ha una durata triennale e l’impegno è espresso in crediti formativi. Ogni anno l’iscritto deve acquisire un minimo di 20 crediti formativi per un totale minimo di 60 crediti durante il triennio.

La revisione legale: i principi

Nello svolgimento dell’attività di revisione legale i soggetti abilitati devono rispettare i principi di deontologia professionale. Nel corso dell’intera revisione il professionista deve esercitare lo “scetticismo professionale”, riconoscendo la possibilità che si verifichino errori significativi a fatti o comportamenti dei quali possono emergere irregolarità, ma anche frodi.

Le informazioni e i documenti a cui il revisore ha accesso sono coperti dall’obbligo della riservatezza e dal segreto professionale, che valgono anche dopo la partecipazione all’incarico di revisione. Il revisore legale deve essere indipendente dalla società soggetta a revisione e non deve essere coinvolto nel processo decisionale. Il  requisito dell’indipendenza deve sussistere per tutto il periodo a cui si riferiscono i bilanci da revisionare e durante l’intera attività di revisione legale.

Il requisito dell’indipendenza è talmente rilevante che il revisore legale, prima di accettare o proseguire l’incarico, deve valutare e documentare il possesso dei requisiti di indipendenza ed obiettività, la presenza eventuale di rischi per la sua indipendenza, la disponibilità di personale competente, di tempo e di risorse necessarie per svolgere adeguatamente l’incarico.

Il revisore legale esprime con relazione un giudizio sul bilancio di esercizio ed eventualmente su quello consolidato, illustrando i risultati dell’attività svolta, la corretta tenuta della contabilità e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture.

Responsabilità del revisore legale

Il revisore legale risponde in solido con gli amministratori nei confronti della società che gli ha conferito l’incarico per i danni derivanti dall’inadempimento dei propri doveri. Nei rapporti interni tra debitori solidali i revisori sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno provocato. L’azione di risarcimento si prescrive nel termine di cinque anni, decorrenti dalla data della relazione di revisione sul bilancio.

società benefit legge 208 2015

Società benefit: la guida completa Le società benefit, previste e disciplinate dalla legge n. 208/2015, perseguono fini di lucro e una o più finalità di “beneficio comune” operando in modo sostenibile

Società benefit: cosa sono

Le società benefit sono previste e disciplinate dalla legge n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) commi 376-384.

Si tratta di società che, pur perseguendo finalità lucrative tipiche delle società commerciali, perseguono anche il “beneficio comune” utilizzando metodologie sostenibili nel rispetto delle persone e dell’ambiente.

La principale caratteristica distintiva di queste società è infatti il perseguimento del beneficio comune, che consiste nella riduzione dell’impatto negativo o nell’aumento di un effetto positivo nei confronti di uno o più categorie di stakeholders.

Gli stakeholders a cui fa riferimento la legge sono le persone, le comunità, il territorio, l’ambiente, i beni e le attività di tipo culturale e sociale, gli enti e le associazioni. A queste categorie si aggiungono gli “altri portatori di interessi”, ossia coloro che vengono coinvolti dall’attività della società in modo diretto o indiretto come i lavoratori, i clienti, i finanziatori i creditori, la pubblica amministrazione e la società civile.

Le società benefit acquisiscono tale qualifica e natura se inseriscono nell’oggetto sociale anche il perseguimento dello scopo del “beneficio comune”, senza per questo compromettere le finalità lucrative. Si tratta infatti di obiettivi destinati a camminare in parallelo.

Il mancato ed effettivo perseguimento del beneficio comune è sanzionato dal decreto legislativo n. 145/2007, che si occupa della pubblicità ingannevole e dal Codice del Consumo.

Forme giuridiche delle società benefit

Le società benefit possono avere la forma giuridica tipica delle società commerciali di persone e di capitali.

Le stesse pertanto possono essere costituite nella forma della società semplice, della società in nome collettivo, della società in accomandita semplice, della società per azioni, della società in accomandita per azioni, della società a responsabilità limitata, della società cooperativa e della mutua assicuratrice.

Le società benefit non possono invece acquisire la forma di impresa sociale o di società sportiva dilettantistica perché queste strutture giuridiche sono prive dello scopo di lucro.

Responsabile d’impatto e collegio sindacale

Le società benefit si caratterizzano anche per la presenza, all’interno dell’assetto societario, del   responsabile di impatto, che può essere anche più di uno.

Si tratta di una figura addetta al monitoraggio dell’allineamento delle attività svolte con gli obiettivi di beneficio comune dichiarati al momento della costituzione della società.

Il responsabile deve raccogliere e analizzare i dati sull’impatto dell’attività, deve seguire il processo di rendicontazione e di sostenibilità e deve provvedere alla comunicazione dei risultati raggiunti agli stakeholders.

A questa figura sono pertanto richieste competenze  multidisciplinari. Deve essere infatti esperto di gestione aziendale, di rendicontazione e di sostenibilità.

La valutazione di questa figura, così come il suo trattamento economico, sono in genere influenzati dal raggiungimento degli obiettivi di beneficio comune previsti, così come i risultati ottenuti in termini di sostenibilità ambientale, condizioni di lavoro, relazioni con la società.

Qualora la società benefit presenti una struttura che prevede la presenza del collegio sindacale, a quest’organo è affidato il compito di vigilare sul rispetto della legge e delle clausole statutarie.

Amministrazione della società

Il comma 380 impone di amministrare le società benefit in modo da bilanciare gli interessi dei soci con il perseguimento del beneficio comune e degli interessi delle categorie nei cui confronti operano, al fine di garantire la sostenibilità. Il mancato rispetto di queste regole di amministrazione può configurare un inadempimento degli amministratori per violazione dello statuto e della legge, in questo caso in tema di responsabilità degli amministrazioni si applicano le disposizioni del codice civile previste per ogni tipologia societaria.

Obbligo di redazione relazione annuale

Il comma 382 della legge n. 208/2015 impone inoltre alle società benefit l’obbligo di redigere una relazione annuale sul perseguimento del beneficio comune, che deve essere allegata al bilancio societario.

La relazione deve descrivere gli obiettivi specifici, le modalità e le azioni messe in atto dagli amministratori per perseguire il beneficio comune, indicando le cause di eventuali impedimenti o rallentamenti. Il documento deve contenere anche la valutazione dell’impatto, che è stato generato utilizzando lo standard di valutazione esterno, con le caratteristiche descritte nell’allegato 4 della legge, che comprende le diverse aree di valutazione indicate nell’allegato 5, sempre della legge n. 208/2015.

La relazione, che deve essere pubblicata sul sito della società, se presente, deve infine contenere una sezione dedicata alla descrizione degli obiettivi che la società intende perseguire nell’esercizio successivo.

direttiva ue riparazione elettrodomestici

Diritto alla riparazione degli elettrodomestici La nuova direttiva europea sul diritto alla riparazione degli elettrodomestici rappresenta un passo avanti nella promozione della sostenibilità e nella tutela dei consumatori

Direttiva UE diritto alla riparazione degli elettrodomestici

Il 30 maggio, il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato una direttiva rivoluzionaria sul diritto alla riparazione degli elettrodomestici. Questa normativa rappresenta un significativo passo avanti per i consumatori, che ora avranno maggiori possibilità di riparare i propri beni rotti o difettosi, riducendo la necessità di sostituirli.

La direttiva, in vigore venti giorni dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, dovrà essere recepita dagli Stati membri entro due anni.

Obiettivi della Direttiva

L’introduzione di questa direttiva mira a raggiungere diversi obiettivi fondamentali:

  1. facilitare la riparazione: spesso i consumatori trovano complicato accedere ai servizi di riparazione, portandoli a preferire la sostituzione degli apparecchi. La nuova direttiva rende più agevole e rapido il processo di riparazione, incentivando i consumatori a riparare piuttosto che sostituire i loro elettrodomestici;
  2. combattere l’obsolescenza programmata: la direttiva affronta la problematica dell’obsolescenza programmata, pratica scorretta adottata da alcuni produttori per rendere difficile o impossibile reperire pezzi di ricambio. Con le nuove misure, i consumatori saranno maggiormente incentivati a riparare i propri beni.
  3. ridurre l’impatto ambientale: favorendo le riparazioni, la direttiva contribuisce a ridurre l’impatto ambientale derivante dalla produzione e dallo smaltimento di elettrodomestici. Ogni anno, i cittadini europei spendono circa 12 miliardi di euro per sostituire apparecchi anziché ripararli, producendo 35 milioni di tonnellate di rifiuti.

Misure specifiche della Direttiva

La direttiva introduce diverse misure concrete per raggiungere i suoi obiettivi:

  • piattaforma europea online per le Riparazioni: verrà creata una piattaforma online che permetterà ai consumatori di trovare facilmente riparatori qualificati nella propria località;
  • proroga della garanzia legale: in caso di riparazione di un prodotto difettoso, la garanzia legale verrà prorogata di 12 mesi;
  • riconsegna rapida: i prodotti riparati dovranno essere riconsegnati entro 30 giorni e, nel frattempo, i consumatori riceveranno un prodotto sostitutivo;
  • abolizione del divieto di componenti indipendenti: sarà possibile utilizzare componenti realizzati con la stampante 3D o acquistati da terze parti, e i produttori non potranno rifiutarsi di riparare dispositivi manipolati da terzi.

Impatti e prospettive per i consumatori e per l’ambiente

Questa direttiva è destinata a rivoluzionare il mercato europeo degli elettrodomestici, promuovendo pratiche più sostenibili e responsabili. I consumatori beneficeranno di un accesso più facile e conveniente ai servizi di riparazione e l’ambiente trarrà vantaggio da una significativa riduzione dei rifiuti elettronici. Inoltre, la direttiva apre la strada a nuove opportunità per le aziende specializzate in riparazioni e per i produttori che adotteranno pratiche più trasparenti e sostenibili.

Conclusione. La direttiva europea sul diritto alla riparazione rappresenta un passo fondamentale verso un’economia più circolare e sostenibile. Con l’attuazione di queste nuove regole, l’Unione Europea dimostra il suo impegno verso un futuro più verde e responsabile e si pone all’avanguardia nella lotta contro lo spreco e l’inquinamento, promuovendo un consumo più consapevole e sostenibile. I prossimi anni saranno cruciali per vedere l’implementazione di queste misure e i loro effetti positivi sulla società e sull’ambiente.

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Clausola visto e piaciuto Qual è l’efficacia della clausola visto e piaciuto nei contratti di compravendita? L’acquirente perde il diritto alla garanzia per i vizi del bene?

Clausola visto e piaciuto: cos’è e come funziona

Nelle compravendite di immobili e di veicoli usati come autovetture o motociclette, viene spesso inserita in contratto la clausola visto e piaciuto: di cosa si tratta? E quali sono gli effetti derivanti dalla sua sottoscrizione?

La clausola visto e piaciuto intende riferirsi, in sostanza, al fatto che l’acquirente, dopo avere esaminato il bene (“visto”), lo accetta così com’è (“piaciuto”): è, con tutta evidenza, una previsione contrattuale a tutela della posizione del venditore, che con tale disposizione intende evitare successive contestazioni da parte dell’acquirente e sottrarsi alla garanzia di cui all’art. 1490 c.c., primo comma.

Ma funziona davvero così? L’inserimento della formula vista e piaciuta vale effettivamente a privare l’acquirente della possibilità di lamentele circa le condizioni del veicolo, o dell’immobile, successive all’acquisto?

L’efficacia della clausola visto e piaciuto

In realtà, il valore della clausola visto e piaciuto e di altre simili – come, ad esempio, la clausola come visto e piaciuto nello stato in cui si trova – è piuttosto limitato e non protegge più di tanto il venditore dal rischio di subire contestazioni post-vendita.

Infatti, per essere realmente efficace in tal senso, la clausola dovrebbe accompagnarsi ad una più esplicita previsione contrattuale che prevedesse la rinuncia espressa dell’acquirente alle azioni conseguenti alla scoperta di un difetto del bene successiva all’acquisto.

In mancanza, il rischio è quello che un giudice – cui l’acquirente dovesse rivolgersi – possa considerare la disposizione contrattuale in questione come una mera clausola di stile, priva di qualsiasi potere cogente per le parti e pertanto inidonea a privare l’acquirente del diritto di agire per contestare i vizi del bene.

Come funziona la formula vista e piaciuta?

Ma v’è di più. Anche a voler considerare la clausola come vincolante – e non mancano, in giurisprudenza, giudici che l’abbiano ritenuta tale – la sua portata è comunque limitata.

Per comprendere, infatti, come funziona la formula vista e piaciuta bisogna pensare a cosa avviene al momento della vendita e della sottoscrizione del contratto: l’acquirente compie un esame visivo, necessariamente superficiale e limitato, del bene e si dichiara soddisfatto.

Difetti non notati durante le trattative

È ovvio, però, che, se durante l’utilizzo continuato del bene successivo all’acquisto, emergono dei difetti che era impossibile notare in sede di trattativa, la posizione dell’acquirente debba essere tutelata, anche quando abbia sottoscritto la clausola visto e piaciuto.

Si pensi al malfunzionamento di un veicolo che si manifesti solo dopo qualche giorno di utilizzo, o ad una traccia di umidità che affiori sulla parete dell’immobile appena acquistato. Se tali difetti sono conseguenti ad un vizio preesistente alla sottoscrizione del contratto (un difetto meccanico dell’auto, una tubatura difettosa dell’impianto idrico dell’appartamento), impossibile da rilevare ad un primo sguardo, allora sfuggono completamente all’operatività della formula di vendita vista e piaciuta.

Vizi occulti

Si tratta, infatti, dei c.d. vizi occulti, cioè di quei difetti che si possono rilevare solo con un utilizzo continuato del bene e che non erano riconoscibili dal normale esame del bene, per quanto diligente, in sede di compravendita.

Vendita visto e piaciuto: vizi occulti e art. 1490 c.c.

Le cose cambiano ulteriormente quando il vizio del bene fosse conosciuto dal venditore e da questi dolosamente taciuto: è evidente che, anche in tal caso e a maggior ragione, è impossibile riconoscere alcuna operatività alla clausola visto e piaciuto.

L’intera materia sopra descritta è ben riassunta dalle disposizioni dell’art. 1490 c.c., il quale, da una parte, al primo comma, prevede la responsabilità del venditore per i vizi della cosa che siano tali da renderla inidonea all’uso o che ne diminuiscano il valore. Dall’altra, al secondo comma, permette la possibilità di inserire clausole che escludano la garanzia di cui sopra, ma ne esclude l’efficacia in caso di mala fede del venditore che abbia taciuto l’esistenza del vizio.

Mutui: validi anche senza indicazione del TAN Per la Cassazione, il contratto di finanziamento è valido se sono riportate analiticamente tutte le condizioni economiche, anche se non è espressamente indicato, in termini numerici, il TAN

TAEG e TAN nel contratto di mutuo

Il caso in esame, riguardante l’ingiunzione di pagamento di una somma data in mutuo e dei relativi interessi, ha dato l’occasione alla Corte di Cassazione di pronunciarsi, con ordinanza n. 16456-2024, sulla validità dei contratti di finanziamento privi dell’indicazione del “Tasso Annuo Nominale” (Tan).

La Corte ha anzitutto premesso che il TAEG e il TAN sono entità giuridiche diverse. In particolare, e per quanto qui rileva, il TAN “è il tasso di interesse dovuto al netto della capitalizzazione” ai sensi dell’art. 117, comma 4, del TUB. Mentre, il TAEG indica, in percentuale annua il costo effettivo del credito.

Ciò posto la Corte è poi passata all’analisi della specifica questione sottoposta alla sua attenzione, vale a dire l’obbligatorietà o meno dell’indicazione del TAEG e del TAN nel contratto di finanziamento e le conseguenze della loro eventuale assenza.

La mancata indicazione del TAEG e del TAN

In punto di validità del contratto di mutuo, la Corte ha specificato che l’obbligo di indicare il tasso d’interesse applicato, sussiste sicuramente con riferimento al TAEG, posto che lo stesso, rappresentando il dato aggregato del costo del credito, consente all’interessato di confrontare le condizioni di finanziamento che gli operatori bancari offrono sul mercato.

La mancata indicazione nei contratti bancari del TAEG determina, pertanto, quale conseguenza sul piano negoziale e civile, l’invalidità del contratto stesso poiché colpito da nullità.

Per quanto invece attiene al TAN, la disciplina di settore non prevede espressamente la sanzione della nullità per il caso di sua mancata indicazione all’interno del contratto bancario e occorre pertanto valutare se la nullità del negozio sia da escludere qualora “l’ammontare del saggio di interesse, non specificamente individuato, possa ricavarsi, in base a un calcolo aritmetico, dal testo del contratto che individui il TAEG”.

Condizioni finanziamento

Rispetto al suddetto dubbio interpretativo la Corte, dopo aver ripercorso il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ha condiviso gli esiti del Giudice di merito, in punto di validità del contratto, posto che nel caso specifico, anche se non era espressamente indicato in termini numerici il TAN, erano “analiticamente riportate tutte le condizioni relative al piano di finanziamento”.

Quanto sopra, ha riferito la Corte, può essere affermato in considerazione del fatto che nel contratto di finanziamento di cui trattasi erano indicati “il tasso di indicizzazione, gli interessi di mora, i criteri di indicizzazione, il TAEG o l’indicazione sintetico di costo richiesti dalle Istruzioni fornite dalla Banca d’Italia agli operatori di settore e che le condizioni contrattuali vanno integrate con il piano finanziario, anch’esso concordato dalle parti, dal quale si desume chiaramente il valore dell’operazione nel tempo attraverso il numero delle rate e l’ammontare di ciascuna di esse, con l’incidenza degli interessi, del tasso debitore, delle spese”. Con la conseguenza che, dal complesso del contratto, era possibile ricavare chiaramente il valore dell’operazione, nonché il TAN, desumibile dal piano di ammortamento approvato dalle parti.

La decisione

La Corte di Cassazione ha pertanto concluso il proprio esame condividendo la decisione adottata dalla Corte d’appello sul punto, ritenendo valido il contratto, posto che dal contratto ed i suoi allegati era possibile individuare agevolmente le condizioni economiche del contratto.

Allegati