disdetta contratto locazione

Disdetta contratto di locazione La disdetta consente di non rinnovare il contratto di locazione alla scadenza concordata tra le parti, vediamo come funziona nei principali tipi di contratto

Disdetta del contratto di locazione: cos’è

La disdetta del contratto di locazione è un istituto giuridico che consente di non rinnovare il contratto stipulato alla scadenza contrattuale concordata. La disdetta non deve essere confusa con il recesso, che consente di porre fine al contratto in anticipo in presenza di gravi motivi.

La disdetta, con cui si comunica il desiderio di non rinnovare il contratto, è un diritto che la legge disciplina dettagliatamente quando spetta al locatore, al fine di tutelare il conduttore, che è la parte debole del contratto. Vediamo in quali casi e come si deve procedere per dare la disdetta di un contratto di locazione in modo corretto.

Locazioni di immobili: durata e rinnovo

Per comprendere il perché della disdetta è necessario precisare che nel nostro ordinamento i principali contratti di locazione immobiliari ad uso abitativo sono disciplinati dalla legge n. 431/1998 e che gli stessi hanno durate diverse:

  • contratti di locazione di durata non inferiore a quattro anni rinnovabili per altri quattro anni (4+4);
  • contratti di locazione a canone concordato della durata minima di tre anni rinnovabile di altri due (3+2).

Regole e termini particolari per la disdetta e il recesso sono previsti per i contratti di locazione ad uso transitorio e per gli studenti universitari.

Disdetta nelle locazioni 4+4

Per i contratti di locazione di durata non inferiore a 4 anni rinnovabili per un periodo di altri 4 la legge prevede che il secondo rinnovo possa venire meno se il locatore manifesti l’intenzione di adibire l’immobile ad usi particolari, di effettuare sullo stesso delle opere o di venderlo in modi e a condizioni particolari.

Alla seconda scadenza del contratto sia il locatore che il conduttore possono infatti decidere di rinnovarlo a nuove condizioni oppure di rinunciare, comunicando la propria intenzione all’altra parte con lettera raccomandata da inviare almeno sei mesi prima della scadenza. Chi riceve la lettera deve  rispondere a sua volta con lettera raccomandata nel termine di 60 giorni dal ricevimento.

Disdetta nelle locazioni a canone concordato 3+2

I contratti di locazione a canone concordato invece non possono avere una durata inferiore ai 3 anni. Alla prima scadenza del contratto, se le parti non si accordano sul rinnovo, il contratto è prorogato di diritto per altri 2 anni a meno che il locatore non intenda dare disdetta per adibire l’immobile a determinati usi, effettuare sullo stesso delle opere o venderlo a determinate condizioni e nel rispetto di determinate modalità. Quando scade il periodo di proroga biennale del contratto sia il locatore che il conduttore possono decidere di rinnovarlo a nuove condizioni o rinunciare a rinnovo dell’accordo comunicando la propria intenzione all’altra parte con lettera raccomandata da inviare almeno sei mesi prima della scadenza.

Disdetta del locatore: condizioni e modalità

Nei contratti di locazione 4+4 e 3+2 il locatore alla prima scadenza del contratto può quindi negare il rinnovo previa comunicazione al conduttore almeno sei mesi prima per i seguenti motivi:

  • volontà di destinare l’immobile ad uso abitativo commerciale, artigianale, professionale proprio o del coniuge, dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado;
  • volontà del locatore persona giuridica società o ente pubblico di destinare l’immobile all’esercizio di attività con finalità pubbliche, sociali mutualistiche, cooperative, assistenziali, culturali o di culto purché contestualmente offra al conduttore un altro immobile;
  • il conduttore ha la piena disponibilità di un altro immobile libero nello stesso comune;
  • l’immobile locato fa parte di un edificio gravemente danneggiato, che necessita di essere ricostruito o di cui deve essere assicurata alla stabilità e la presenza del conduttore impedisce i lavori;
  • l’immobile è compreso all’interno di un fabbricato che necessita di essere integralmente ristrutturato, demolito o trasformato o sopraelevato (se collocato all’ultimo piano) e per ragioni tecniche è necessario che l’appartamento venga sgomberato;
  • il conduttore non occupa continuativamente l’immobile senza un giustificato motivo e senza una successione legittima nel contratto;
  • il locatore vuole vendere l’immobile a terzi e non ha la proprietà di altri immobili a parte quello già adibito ad abitazione. In questo caso però la legge prevede in favore del conduttore un diritto di prelazione all’acquisto.

Il recesso del conduttore

In relazione ai due principali tipi di locazione immobiliare ad uso abitativo analizzati ovvero il 4+4 e il 3+2, anche il conduttore può decidere di porre fine al contratto anzi tempo. La legge però, in questo caso, non richiede motivazioni particolari, come per il locatore. Il conduttore infatti, in base a quanto previsto dal comma 6 dall’articolo 3 della legge n. 431/1998, può recedere in qualsiasi momento dall’accordo in presenza di gravi motivi, dando un  preavviso di 6 mesi al locatore.

La norma non precisa quali siano i gravi motivi che giustifichino il recesso del conduttore. Per fortuna la giurisprudenza nel tempo ha colmato questo vuoto. La Cassazione ad esempio ha identificato il grave motivo con l’incendio che colpisce l’immobile e che lo rende inservibile alle esigenze del conduttore. Un altro grave motivo è rappresentato dall’inadempimento del locatore nel procedere alle necessarie riparazioni dell’immobile locato. Altri gravi motivi sono stati identificati con la perdita del lavoro da parte del conduttore, con la presenza di problemi familiari gravi e tali da richiedere il trasferimento del conduttore, con il disinteresse manifestato dal locatore in relazione a gravi problemi strutturali dell’edificio, che non lo rendono sicuro per le esigenze abitative del conduttore.

La lettera di disdetta

Per manifestare adeguatamente la volontà di non rinnovare il contratto di locazione la legge richiede l’invio formale di una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno (o pec) da inviare almeno sei mesi rispetto alla scadenza.

Nella lettera di disdetta non possono mancare i seguenti dati essenziali:

  • i motivi per i quali si intende dare la disdetta;
  • i dati identificativi del contratto di locazione;
  • la data di decorrenza della disdetta.
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Banca paga se fa bonifico a IBAN sbagliato Cassazione: la banca è responsabile per il pagamento effettuato su un IBAN sbagliato se non dimostra di aver adottato le necessarie cautele

Responsabilità della banca

La banca che accredita una somma su un IBAN che è stato indicato in maniera errata da chi ha effettuato il bonifico, diretta a un beneficiario non titolare di conto presso la stessa banca, è responsabile verso il beneficiario che non ha ricevuto il pagamento. La stessa va esente da responsabilità solo se dimostra di aver adottato tutte le cautele necessarie per scongiurare l’accredito errato della somma, o se dimostrare di essersi adoperata adeguatamente per dare modo al pagatore di individuare il destinatario del pagamento comunicandogli, se occorre, i dati anagrafici o della società. Questa necessità scavalca la tutela della privacy. L’interesse alla riservatezza dei dati passa in secondo piano di fronte alla necessità di tutelare l’interesse del beneficiario a ricevere effettivamente il pagamento che gli è dovuto. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza numero 17415/2024.

Richiesta risarcitoria per errato pagamento

Con ricorso 702 c.p.c. un fallimento chiede la condanna al risarcimento del danno di 40.000 euro alla banca. L’attore espone di essere creditore di una somma di 40.000 euro a titolo di indennizzo di cui però non ha ricevuto il pagamento perché la compagnia assicuratrice lo ha corrisposto a mezzo bonifico bancario in modo erroneo a un altro soggetto.

Per l’attore la banca è responsabile perché avrebbe dovuto accorgersi che il titolare del conto corrente a cui ha accreditato la somma disposta a mezzo bonifico non era intestata al soggetto a cui avrebbe dovuto pagarla. L’istituto di credito convenuto rivendica la correttezza del proprio operato, ma il tribunale lo ritiene responsabile, a fronte di un ordine di bonifico di importo così elevato ha infatti tenuto una condotta negligente perché avrebbe dovuto verificare la corrispondenza tra il codice IBAN e il nome del beneficiario effettivo del bonifico.

Parte soccombente ricorre in appello la decisione, ma anche la corte la ritiene responsabile in quanto non avrebbe fornito alcuna indicazione sulle cautele adottate per consentire al terzo il recupero della somma corrisposta indebitamente ad altri. La decisione di secondo grado viene portata infine all’attenzione della Corte di Cassazione.

Responsabilità della banca  per danni al cliente o al terzo

La Suprema Corte, preso atto della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, rileva come in materia di servizi di pagamento elettronici siano intervenuti diversi interventi normativi da parte del legislatore italiano e di quello comunitario.

Tirando le fila, alla luce della normativa, della giurisprudenza e della dottrina in materia, per gli Ermellini occorre distinguere due ipotesi:

  • la responsabilità della banca nell’eseguire operazioni di pagamento dopo una disposizione errata qualora l’operazione provochi un danno al proprio cliente che utilizza il servizio di pagamento come pagatore o destinatario dei fondi dell’operazione;
  • la responsabilità della banca rispetto all’ipotesi in cui l’operazione cagioni un danno al beneficiario di una dispositiva di pagamento qualora questo soggetto non sia titolare di un conto da credito presso la banca stessa.

Nel primo caso per ritenere la banca responsabile è necessario dimostrare che la stessa sia consapevole dell’errore del cliente. Per andare esente da colpa la Banca deve dimostrare di aver eseguito l’operazione tramite un sistema completamente automatizzato perché in tal modo la stessa non è tenuta a eseguire un controllo sulla congruità dell’operazione. Se il pagamento è automatico infatti la banca non può avere la consapevolezza dell’eventuale errore dell’utente per cui spetterà quest’ultimo dimostrare che la banca è consapevole dell’ordine errato.

Nel secondo caso la banca ha invece un dovere di diligenza nei confronti del beneficiario effettivo e del pagamento rimasto insoddisfatto. Per andare esente da responsabilità deve dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per scongiurare l’erronea individuazione del beneficiario o, quantomeno, deve provare di essersi comportata in modo tale da rendere possibile la corretta individuazione del soggetto gratificato dal pagamento che è stato effettuato in maniera erronea.

I prestatori di servizi di pagamento che senza porre in essere verifiche specifiche risultano consapevoli dell’esattezza dell’IBAN che è stato fornito dal proprio cliente devono adoperarsi affinché l’operazione di pagamento venga effettuata correttamente. Il prestatore che esegue il pagamento nonostante la consapevolezza di un IBAN inesatto tiene una condotta pregiudizievole e di tale condotta deve essere  ritenuta responsabile.

Responsabilità della banca per il bonifico se l’IBAN è errato

Questo infine il principio di diritto sancito dalla Corte di Cassazione: “In tema di responsabilità di una banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, allorquando li beneficiario, nominativamente indicato, di un pagamento da eseguirsi tramite bonifico sia sprovvisto di conto di accredito presso la banca intermediaria, sicché nemmeno è utilizzabile la specifica disciplina ex art. 24 del d.lgs. n. 1 del 2010, si applicano le regole di diritto comune, per cui grava sull’intermediaria stessa, responsabile, secondo la teoria del “contatto sociale qualificato”, nei confronti del beneficiario rimasto insoddisfatto a causa dell’indicazione, rivelatasi inesatta, del proprio IBAN, l’onere di dimostrare di aver compiuto l’operazione di pagamento, richiestagli dal solvens, adottando tutte le cautele necessarie al fine di scongiurare il rischio di un’erronea individuazione di detto beneficiario, o quanto meno, di essersi adoperata per consentirgli la individuazione del soggetto concretamente gratificato del pagamento destinato, invece, al primo, anche comunicandogli, ove necessario, i relativi dati anagrafici o societari”. 

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note 171 ter cpc dubbi

Note 171-ter c.p.c.: le incertezze della riforma Allo studio del Governo i correttivi alla Riforma Cartabia, anche per dirimere le incertezze sul decreto ex art. 171-bis e sui suoi rapporti con le note integrative ex art. 171-ter

I rapporti tra le note integrative e il decreto ex art. 171-bis c.p.c.

Se la Riforma Cartabia si prefiggeva l’obiettivo di portare chiarezza, semplificazione e rapidità nell’ambito del processo civile, purtroppo non si può dire che ciò sia avvenuto con specifico riferimento al tema delle memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c. e del decreto che il giudice dovrebbe emanare a margine delle verifiche preliminari ex art. 171-bis.

Sul punto si è verificata una certa confusione e divergenza di opinioni tra gli addetti ai lavori, sfociata in una diversità di operato da parte degli avvocati e nel contrastante tenore dei provvedimenti adottati dai giudici dei Tribunali.

Ricapitoliamo brevemente la materia, per poi concentrarci sui più recenti interventi legislativi, che intendono apportare correttivi alla riforma Cartabia per riportare, quanto meno, la dovuta chiarezza normativa sul tema.

Le memorie integrative dopo la Riforma Cartabia

Come risaputo, le note integrative ex art. 171-ter c.p.c. sostituiscono, sostanzialmente, le vecchie memorie ex art. 183, sesto comma, e consentono alle parti di modificare e precisare domande, eccezioni e richieste istruttorie in un momento che precede la celebrazione della prima udienza.

Ciò allo scopo, diversamente da quanto accadeva nel rito pre-riforma, di mettere il giudice in condizioni di arrivare alla prima udienza già consapevole del thema decidendum ed istruttorio.

Ebbene, secondo le previsioni dell’articolo in questione, tali memorie possono essere depositate dalle parti entro determinati termini (pari a quaranta, venti e dieci giorni prima) da calcolarsi a ritroso, rispetto alla data di udienza di prima comparizione.

Già, ma qual è, di preciso, questa data? Ecco il vero nodo della questione.

Data della prima udienza di comparizione: il decreto ex art. 171-bis

Di regola, la data dell’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. è quella indicata dall’attore nell’atto di citazione.

Il convenuto è tenuto a costituirsi entro 70 giorni prima di tale data, e dalla scadenza di tale termine il giudice, ex art. 171-bis, ha quindici giorni (termine ordinatorio, si badi) per compiere le verifiche preliminari sulla regolarità del contraddittorio e per indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione.

Ebbene, quando pronuncia tali provvedimenti, il giudice ha facoltà di fissare una nuova data per l’udienza di comparizione delle parti, “rispetto alla quale decorrono i termini indicati dall’articolo 171-ter” (art. 171-bis, secondo comma). Inoltre, se non provvede in tal senso, egli “conferma o differisce, fino ad un massimo di quarantacinque giorni, la data della prima udienza”, ed anche in tal caso i termini ex art. 171-ter decorrono con riferimento a tale nuova data.

Adesso, il dilemma che si è posto all’attenzione di dottrina e giurisprudenza è il seguente: il giudice è tenuto in ogni caso ad adottare il decreto di cui all’art. 171-bis, o in mancanza è da ritenersi implicita la conferma della data fissata dall’attore? E cosa succede se adotta il decreto decorso il termine ordinatorio di quindici giorni indicato da tale articolo, e in particolare se tale decreto sopraggiunga dopo l’avvenuto deposito di note ex art. 171-ter da parte degli avvocati?

E ancora: il decreto del giudice vale ad autorizzare il deposito delle memorie integrative, o queste possono essere presentate anche senza alcuna concessione da parte del giudice?

Incertezze in giurisprudenza sulle memorie integrative ex art. 171-ter

Come si vede, il proposito di semplificare e velocizzare la procedura, proprio della Riforma Cartabia, è stato frustrato, in questo caso, dalla mancanza di chiarezza riguardo alla necessità, o meno, dell’adozione del decreto di conferma, differimento o fissazione di una nuova udienza da parte del giudice, ex art. 171-bis.

E così, si sono verificati casi in cui il Tribunale ha ritenuto erroneo il deposito di memorie integrative ex art. 171-ter in assenza di decreto del giudice (Trib. Treviso 25.01.2024 o anche il provvedimento del Trib. Pistoia, 22.09.2023, con cui, in sostanza, si riteneva che la decorrenza dei termini per il deposito delle note non potesse considerarsi ancora iniziata, mancando il provvedimento giudiziale); e casi in cui il Tribunale ha espressamente fatto salvi i termini ex art. 171-ter, facendoli decorrere dalla data di udienza fissata dall’attore, in un caso in cui il decreto di fissazione dell’udienza era stato adottato oltre il termine di quindici giorni previsto dall’art. 171-bis (Trib. Firenze, 19.01.2024).

Il Tribunale di Piacenza è andato ancora oltre, con un provvedimento del 01.05.2023, sostenendo espressamente che il deposito delle note ex art. 171-ter debba essere autorizzato dal giudice, sul modello del previgente rito in cui il codice prevedeva una formale concessione dei termini per le note ex art. 183 sesto comma, possibile peraltro solo su apposita richiesta di parte.

Correttivo sulla necessità del decreto all’esito delle verifiche preliminari

Insomma, un po’ di confusione si è fatta, e forse la colpa non è nemmeno di una Riforma tutto sommato ben scritta sul punto, ma piuttosto di un certo eccesso nello sforzo interpretativo da parte degli operatori: non appare, in fin dei conti, così scontato ritenere che l’intenzione del legislatore fosse quella di rendere necessario in tutti i casi un decreto relativo alla data di prima udienza, e tanto meno che dall’adozione di questo dipendesse, addirittura, la possibilità o meno di depositare le memorie integrative.

Lo schema di decreto legislativo presentato a marzo

Ma tant’è, i dubbi e le interpretazioni discordanti ci sono stati, e così siamo arrivati alla situazione attuale: la necessità di un correttivo alla Riforma Cartabia, che è in effetti ai lavori, sotto forma di Schema di decreto legislativo, presentato in data 18 marzo 2024 e concernente disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149.

Nel dettaglio, a dirimere d’ora in poi ogni dubbio sul tema sopra affrontato, il documento prevede all’art. 3 (Modifiche al codice di procedura civile) la riformulazione dell’art. 171-bis nel senso di prevedere “che la fase delle verifiche preliminari debba comunque concludersi con un decreto del giudice istruttore” e di precisare che “i termini di cui all’art. 171-ter per il deposito di memorie integrative iniziano a decorrere dalla data del decreto”, computandosi gli stessi rispetto all’udienza fissata nell’atto di citazione o dal giudice istruttore.

Tale modifica, viene precisato nell’atto di delega al Governo, “ha anche lo scopo di eliminare ogni dubbio circa il fatto che in sede di verifiche preliminari il giudice deve in ogni caso emettere un provvedimento di conferma o differimento dell’udienza, anche se non adotta uno dei provvedimenti relativi alla corretta instaurazione del contraddittorio”.

giurista risponde

Assegno non trasferibile: pagamento in favore di persona non legittimata Chi materialmente paga un assegno non trasferibile a persona diversa dall’intestatario, ha comunque la possibilità di provare la propria estraneità?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli

 

La responsabilità cui si espone il banchiere che abbia negoziato un assegno non trasferibile in favore di persona non legittimata ha natura contrattuale. La banca negoziatrice, ai sensi dell’art. 43, comma 2, legge assegni (R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736), è chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento di assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario; è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176, comma 2, c.c. – Cass., sez. I, ord. 22 aprile 2024, n. 10711.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se, oltre l’ onere probatorio gravante su Poste italiane s.p.a. di dimostrare di aver agito con diligenza, vi fosse l’onere di Unipol di dimostrare il contrario, evidenziando la presenza di contraffazioni visibili ictu oculi sul titolo o sui documenti.

Nella sentenza di primo grado, il Tribunale adito riconosceva la responsabilità di Poste, condannandola al risarcimento dei danni. In secondo grado, la Corte territoriale ha respinto le istanze dell’appellante, osservando che «La regola della cd. responsabilità da “contatto sociale” prevede una presunzione di colpa a carico del debitore inadempiente perché utilizza i criteri della responsabilità contrattuale. L’appellante avrebbe dunque dovuto specificare quali circostanze di fatto emerse nel giudizio di primo grado dimostrassero che il controllo dei documenti fosse avvenuto con la diligenza richiedibile a un operatore professionale. L’onere della prova dell’assenza di colpa era a carico di Poste Italiane s.p.a. e non era stato assolto per il solo fatto che i documenti d’identificazione esibiti fossero falsi. Esistono falsi grossolani ed esistono regole cautelari – ricordate dalla difesa dell’appellato – volte a ridurre il rischio di raggiri attraverso una tecnica truffaldina già nota, anche all’epoca di fatti oggetto del presente processo, a Poste Italiane s.p.a. L’appellante avrebbe dovuto provare di aver assunto una condotta conforme alla diligenza media di un “accorto banchiere”, riferibile alla natura dell’attività esercitata e all’obbligo di verifica visiva e tattile del documento cartaceo esibito per l’incasso dell’assegno» (Cass., Sez. Un., 21 maggio 2018, n. 12477).

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando le argomentazioni utilizzate dalla corte per giustificare la ivi ritenuta sussistenza della responsabilità di Poste Italiane s.p.a.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando il ricorso inammissibile, ha ricordato quanto stabilito da Cass., Sez. Un., 21 maggio 2018, n. 12477, secondo cui, al fine di sottrarsi alla responsabilità, la banca è tenuta a provare di aver assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere anche in ipotesi di colpa lieve. È stato chiarito, inoltre, che lo scopo della clausola di intrasferibilità consiste non solo nell’assicurare all’effettivo prenditore il conseguimento della prestazione dovuta, ma anche e soprattutto nell’impedire la circolazione del titolo: a conferma di tale assunto è stato richiamato l’art. 73 del R.D. 1736/1933, il quale esclude l’ammortamento dell’assegno non trasferibile proprio perché lo stesso non può essere azionato da un portatore di buona fede, conferendo nel contempo al prenditore, ma solo come conseguenza indiretta, la maggior sicurezza di poterne ottenere un duplicato denunciandone lo smarrimento, la distruzione o la sottrazione al trattario o al traente.

Nel caso di specie, non resta che prendere atto dell’accertamento di merito effettuato dalla Corte suddetta, rispetto al quale le argomentazioni della censura, sul punto, si rivelano erronee.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

*Contributo in tema di “Assegno non trasferibile: pagamento in favore di persona non legittimata”, a cura di Manuel Mazzamurro e Incoronata Monopoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

tribunale unificato brevetti tub

Tribunale unificato dei brevetti europei: inaugurata la sede di Milano Inaugurata l'1 luglio 2024 la sede di Milano del TUB. Per il ministro Nordio si tratta di "una innovazione e una conquista"

TUB Milano

“Una innovazione e una conquista”. Così ilMinistro della Giustizia, Carlo Nordio, alla conferenza che ha preceduto l’inaugurazione della terza divisione centrale del Tribunale Unificato dei Brevetti, svoltasi l’1 luglio, a Milano, presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo.

Cos’è il TUB e di cosa si occupa

Il tribunale dei brevetti è suddiviso in sedi per garantire una copertura efficace in tutta l’Unione. Comprende tre divisioni centrali, situate a Parigi, Monaco di Baviera e dall’1 luglio 2024 anche a Milano, e diverse divisioni locali distribuite negli Stati membri.

Oltre alle Divisioni Centrali, ci sono diverse Divisioni Locali e Regionali distribuite nei vari Stati membri. Le Divisioni Locali si trovano in città come Vienna, Düsseldorf e anche già a Milano, tra le altre. Ogni Divisione Locale gestisce le controversie relative ai brevetti che coinvolgono principalmente imprese e individui del proprio Paese.

Nella sede meneghina, dove era già presente la sezione locale operativa da circa un anno, le competenze del TUB saranno: farmaceutica (eccetto brevetti con certificati complementari di protezione), agroalimentare, fitosanitario, moda (abbigliamento e calzature)).

Italia protagonista in un ambito delicato

Il Guardasigilli, nel corso del suo intervento, ha rimarcato l’impegno che ha permesso di ottenere, dopo la sezione locale, anche la terza Divisione Centrale (oltre a Parigi e Monaco di Baviera), dopo l’uscita di Londra dall’Ue: “E’ stato un lavoro duro, che colloca l’Italia tra le protagoniste assolute in questo ambito così delicato”. Il risultato raggiunto – ha precisato Nordio- è stato il frutto di “una assoluta concordanza di intenti e di organizzazione, fra magistratura, enti locali e Governo, abbiamo fatto sistema”. 

Alla cerimonia del taglio del nastro nel palazzo del tribunale, in via san Barnaba 50, sono intervenuti anche Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Valentino Valentini, Viceministro delle Imprese e del Made in Italy, Attilio Fontana, Presidente della Regione Lombardia, Giuseppe Ondei, Presidente della Corte d’Appello di Milano, Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano e altre autorità.

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WhatsApp: è prova nel processo Il tribunale di Urbino ribadisce che i messaggi WhatsApp possono assumere la veste di prova nel processo

Messaggi WhatsApp prova

“I messaggi WhatsApp possono assumere la veste di prova nel processo, in quanto, con l’avvento delle nuove tecnologie, sempre più persone si affidano, anche per le pratiche commerciali, a Short Messages oad altro tipo di messaggeria”. Così il tribunale di Urbino con ordinanza del 7 giugno 2024 sciogliendo la riserva in una controversia relativa al mancato pagamento di un credito.

Art. 2712 e art. 2719 c.c.

A tal proposito, ribadisce il tribunale, l’art. 2712 c.c. dispone che “ogni rappresentazione meccanica di fatti e cose forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentante. se colui contro il quale sono state prodotte non ne disconosce la conformità”. Ed ancora l’art. 2719 c.c. sancisce “le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta”.

A tal stregua, per il giudice, si collocano i messaggi WhatsApp, nei confronti dei quali, nel caso di specie parte opponente non ha disconosciuto la paternità.

Perizia tecnica

Tuttavia, in conformità a quanto sancito dalla Cassazione, la quale ha affermato che “in merito all’utilizzabilità dei messaggi WhatsApp che essi hanno valore di prova purché vi siano i supporti informatici (gli smartphone o il pc) nei quali sono presenti le conversazioni (sentenza .n 49016 del 2017)”, il giudice ha ritenuto necessario procedere con la perizia tecnica sul dispositivo. A tal fine, quindi, ha nominato CTU affinché, acquisito il dispositivo, verifichi l’autenticità delle conversazioni Whatsapp tra le parti nonché la collocazione temporale dei messaggi stessi.

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giurista risponde

Obbligazione solidale debiti diversi Sussiste un’obbligazione solidale tra debiti aventi diversa natura?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

Ai fini della responsabilità solidale di cui all’art. 2055, comma 1, c.c., che è norma sulla causalità materiale integrata nel senso dell’art. 41 c.p., è richiesto solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale), in quanto la norma considera essenzialmente l’unicità del fatto dannoso, e tale unicità riferisce unicamente al danneggiato, senza intenderla come identità di norme giuridiche violate; la fattispecie di responsabilità implica che sia accertato il nesso di causalità tra le condotte caso per caso, per modo da potersi escludere se a uno degli antecedenti causali possa essere riconosciuta efficienza determinante e assorbente tale da escludere il nesso tra l’evento dannoso e gli altri fatti ridotti al semplice rango di occasioni. – Cass. Sez. Un. 27 aprile 2022, n. 13143.

Le obbligazioni solidali passive identificano quelle obbligazioni in cui più debitori devono eseguire la stessa prestazione, ma l’adempimento da parte di uno di essi libera anche gli altri. Dal punto di vista funzionale, la solidarietà passiva assolve a una funzione unitaria e chiaramente identificabile, quella di rendere più sicuro e agevole il conseguimento del credito da parte del creditore, delineando una sorta di generica funzione di garanzia e di rafforzamento delle ragioni creditorie.

Come per tutte le obbligazioni plurisoggettive, gli elementi costitutivi sono: la pluralità di soggetti, l’identità della prestazione dovuta (eadem res debita) e, infine, l’unicità della fonte di obbligazione (eadem causa obligandi).

Quest’ultimo elemento, tuttavia, si atteggia in modo peculiare con riferimento alle obbligazioni risarcitorie da fatto illecito, che, ai sensi dell’art. 2055 c.c., si pongono in nesso di solidarietà allorché “il fatto dannoso” sia imputabile a più persone. In ossequio al principio generale del favor riparationis che informa la disciplina della responsabilità aquiliana, la giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 15 luglio 2009, n. 16503) ha chiarito che l’espressione “fatto dannoso va riferita non già, in prospettiva “autoriale”, alla condotta attiva o omissiva che ha causato l’evento, bensì, in prospettiva “vittimologica”, alla conseguenza dannosa. In altri termini, affinché i più danneggianti rispondano in solido ex art. 2055 c.c., ciò che necessita è l’unicità del danno e non anche della condotta che lo ha cagionato ovvero del titolo della responsabilità dei danneggianti (che ben possono aver concorso a cagionare l’evento dannoso con distinte violazioni di diversi doveri giuridici). La pluralità delle condotte e/o il diverso titolo della responsabilità dei danneggianti (contrattuale o extracontrattuale) non osta, pertanto, alla solidarietà delle obbligazioni risarcitorie degli stessi allorché si accerti che hanno efficacemente contribuito alla produzione di un’unitaria conseguenza dannosa.

Il problema sorge, tuttavia, quando sia diversa la natura delle obbligazioni.

Orbene, l’orientamento tradizionale (cfr. Cass. 11 dicembre 2019, n. 32402) nega, salva diversa previsione delle parti, la solidarietà tra obbligazioni aventi natura differente come l’obbligazione principale e quella di garanzia autonoma. Si rileva che la prestazione del garante autonomo non è omogenea rispetto a quella del debitore principale, attesa la sua natura indennitaria: l’obbligo del garante, infatti, non è quello di adempiere la stessa prestazione dell’obbligato principale, ma di tenere indenne il creditore dall’inadempimento del debitore principale.

Questa impostazione, tuttavia, è stata sottoposta a revisione dalla giurisprudenza più recente.

In una prima decisione, infatti, la Suprema Corte (21 agosto 2020, n. 17553) ha affermato che se la causa concreta della garanzia autonoma è di trasferire da un soggetto a un altro il rischio economico connesso alla mancata esecuzione dell’obbligazione principale, al contempo, da ciò, non può automaticamente discendere la natura non solidale della garanzia autonoma, come emerge dall’art. 1293 c.c. secondo cui la solidarietà non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità diverse, o il debitore comune sia tenuto con modalità diverse di fronte ai singoli creditori, sicché il carattere di solidarietà tra il credito del garante e il credito del debitore principale non può ritenersi escluso “ex se” dalla natura autonoma della garanzia.

In un’altra pronuncia (11 marzo 2020, n. 7016), ancora, la Cassazione ha considerato solidali l’obbligazione risarcitoria (nel caso di specie della Consob, per mancata vigilanza) e restitutoria (dell’intermediario finanziario, in correlazione alla invalidità dell’operazione di investimento), nei confronti di un investitore danneggiato da un’operazione finanziaria per lui nociva.

Questo secondo orientamento ha ricevuto il definitivo sigillo dalle Sezioni Unite nella decisione ine same, per le quali in contrapposizione all’art. 2043 c.c. – che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un fatto doloso o colposo – l’art. 2055 c.c. considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso”; sicché, mentre la prima norma si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno a favore del quale è stabilita la solidarietà. In tale prospettiva viene richiamata e condivisa la precedente decisione a Sezioni Unite (Cass. 16503/2009) secondo cui l’art. 2055 c.c. «richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate.

In particolare, il caso di specie riguardava un’azione risarcitoria promossa da degli investitori ex L. 1966/1939 contro una società fiduciaria, al fine di ottenere la restituzione del capitale consegnato per inadempimento della stessa, e contro il MISE (Ministero dello sviluppo economico) per omessa vigilanza. Affermata la solidarietà tra i due debiti (restitutorio e risarcitorio), è stata riconosciuta l’efficacia interruttiva della prescrizione della domanda, con cui il ricorrente si era insinuato al passivo della procedura concorsuale per il recupero della somma versata, anche nei confronti della separata azione attivata contro il Ministero per il risarcimento del danno. Non si dubita, a detta delle Sezioni Unite, infatti, dell’applicazione dell’art. 1310, comma 1, c.c. perché l’effetto precipuo di ogni atto interruttivo consiste nella “conservazione” del diritto del creditore a ricevere la prestazione nei confronti di tutti i debitori solidali, e quindi nella cessazione di qualsiasi utilità del periodo di tempo già decorso prima dell’atto interruttivo e nell’inizio di un periodo nuovo, senza rilevanza della conoscenza o meno dell’atto medesimo da parte dei singoli.

Responsabilità del revisore: l’intervento della Consulta Per la Consulta, non è incostituzionale far decorrere dal deposito della relazione bilancio la prescrizione del risarcimento del danno della società che ha conferito l'incarico

Responsabilità del revisore

“Nella disciplina delle azioni di responsabilità nei confronti dei revisori legali dei conti, non è manifestamente irragionevole far decorrere, dalla data di deposito della relazione sul bilancio, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno che può far valere la società che ha conferito l’incarico”. È quanto si legge nella sentenza n. 115-2024, depositata oggi dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità, sollevate dal Tribunale di Milano sull’articolo 15, comma 3, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, sul presupposto che l’ambito applicativo della disposizione si intenda riferito alla sola azione risarcitoria della società.

Ampio margine di discrezionalità del legislatore

“Il legislatore ha un ampio margine di discrezionalità nel disciplinare la decorrenza della prescrizione – ha ricordato il giudice delle leggi – e, nel caso delle azioni risarcitorie, deve contemperare l’interesse del danneggiato a far valere il proprio diritto al risarcimento con le esigenze di certezza del diritto e di tutela dell’interesse del danneggiante a non doversi difendere a distanza di molto tempo da richieste di danni”.

Il caso dei revisori legali

Nel caso dei revisori legali, “il bilanciamento realizzato dalla norma censurata non – è – manifestamente irragionevole quando l’azione risarcitoria è fatta valere dalla stessa società che ha conferito l’incarico”. In siffatta ipotesi, da un lato, infatti, ha osservato la Consulta, “il revisore è esposto a una responsabilità solidale con gli amministratori”, dall’altro, “sin dal deposito di una relazione inesatta o scorretta, il suo inadempimento produce un danno alla società che ha conferito l’incarico, la quale può già far valere una pretesa risarcitoria”.

“Quel medesimo termine – invece – non può valere per soci e terzi, i quali, fintantoché l’affidamento ingenerato dalla relazione erronea o scorretta non abbia determinato un concreto sviamento della loro autonomia negoziale, non subiscono danni”. Ad essi, dunque, ha concluso la Corte, dovrà “applicarsi la regola generale dell’art. 2947 c.c., che fa decorrere la prescrizione dal fatto illecito produttivo di danni”.

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Diritto di proprietà: prova del danno tramite presunzioni In caso di limitazione delle facoltà insite nel diritto di proprietà, l'esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni

Diritto di proprietà

Il diritto di proprietà ha insite le facoltà di godimento e disponibilità del bene. Per cui una volta limitate le stesse, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni. E’ quanto ha statuito la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 17758-2024.

La vicenda

Nella vicenda, avente ad oggetto il risarcimento dei danni causati dall’installazione illegittima di una canna fumaria posta a 38 centimetri di distanza dal balcone dell’attore, la Corte d’appello rigettava la sua domanda risarcitoria ritenendo insussistente il danno alla salute e carente di prova il danno derivante dalla compromissione del godimento del bene.

Il ricorso in Cassazione

La proprietaria adiva quindi il Palazzaccio, dolendosi, con l’unico motivo di ricorso, del fatto che la corte territtoriale, pur avendo accertato l’intrinseca pericolosità della canna fumaria posta a distanza inferiore a quella legale, avesse rigettato la domanda risarcitoria “senza tener conto che l’esistenza di un manufatto in amianto limiterebbe il godimento del bene”. La ricorrente contesta la “fallacia del ragionamento inferenziale, che, in tema di violazione delle distanze, ammette il ricorso ad elementi presuntivi per l’accertamento e la determinazione del danno” e richiama l’orientamento di legittimità che riconosce il danno in re ipsa nell’ipotesi di violazione delle distanze.

Rispetto distanze

Per gli Ermellini, il motivo è fondato.
“Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’art. 890 c.c. – affermano preliminarmente – è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che è assoluta ove prevista da una norma del regolamento edilizio comunale, ed è invece relativa – e, come tale, superabile con la dimostrazione che, in relazione alla peculiarità della fattispecie ed agli accorgimenti usati, non esiste danno o pericolo per li fondo vicino – ove manchi una simile norma regolamentare (cfr. Cass. 15246/2017). Nel caso di specie, la Corte di merito, proseguono i giudici della S.C., “ha accertato la violazione delle distanze della canna fumaria dal balcone di proprietà dell’attrice e la sua intrinseca pericolosità, attesa la sua composizione in amianto e le pessime condizioni manutentive, pericolosità che era superabile con la dimostrazione da parte dei convenuti di aver adottato idonee cautele tecniche al fine di salvaguardare la dispersione nell’ambiente di sostanze nocive”.
La sentenza impugnata, ha escluso il risarcimento in assenza di un danno diretto alla salute, “omettendo però di valutare, anche in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante dall’esposizione ad amianto, abbia limitato il godimento del bene, a prescindere dalla verifica delle immissioni nocive”.

Prova del danno

Quanto alla tutela risarcitoria, le Sezioni Unite, con sentenza del 15.11.2022, n. 33645, in tema di prova del danno da violazione del diritto di proprietà e di altri diritti reali, ricordano ancora dalla S.C., “hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della I Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile. La questione se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria è risolta dalle Sezioni Unite in senso positivo”. E’ stato dato seguito al principio di diritto, più volte affermato dalla Cassazione, “secondo cui, in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria (ex multis Cass. Sez. 11, 18.7.2013, п.17635)”. La linea evolutiva della giurisprudenza della S.C., ha sostituito la locuzione “danno in re ipsa” con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato. Ed è stato quindi definito “il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà: esso riguarda non la cosa ma li diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione”. Per cui, il nesso di causalità giuridica si stabilisce “fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il
requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire”.

Prova per presunzioni

Quindi, “nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Per cui ha errato la Corte d’appello ad escludere la tutela risarcitoria “senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a
compromettere li godimento del bene, come l’intrinseca pericolosità della canna fumaria per la composizione in amianto, la difformità della canna alle prescrizioni di legge ed il suo cattivo stato di conservazione”. I giudici avrebbero dovuto accertare, invero, se “per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile per il rischio di dispersione nell’aria di sostanze altamente nocive”.
La sentenza impugnata, quindi concludono dalla S.C., non si pone in linea con l’orientamento di legittimità in tema di presunzione di danno correlato alla normale utilità del bene, “basato sull’assunto che il diritto di proprietà ha insite
le facoltà di godimento e disponibilità del bene ne è oggetto, sicché una volta soppresse o limitate tali facoltà, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni (Cassazione Civile, Sez. II, 23.6.2023, n.18108)”.

Il principio di diritto

Da qui l’accoglimento del ricorso con rinvio alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, che dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: “In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore”.

Allegati

revisore legale funzioni

Revisore legale: chi è e cosa fa Chi e il revisore legale, che attività svolge, come si accede alla professione, a quali responsabilità può andare incontro

Chi è il revisore legale

Il revisore legale è un professionista che effettua la revisione legale del bilancio nel rispetto delle disposizioni del codice civile e del decreto legislativo n. 39/2010. L’esercizio della attività di revisione legale è riservata ai soggetti iscritti nel Registro dei revisori legali tenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, al quale sono iscritti sia i revisori legali persone fisiche che le società di revisione, soggette a regole in parte diverse rispetto a quelle a cui sono soggetti i revisori persone fisiche.

Riferimenti normativi

Il principale riferimento disciplinare della professione del revisore legale è il decreto legislativo n. 39/2010, che ha attuato la direttiva 2006/43/CE sulle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati.

Abilitazione alla revisione legale

Come anticipato, l’esercizio della revisione legale può essere svolto solo da soggetti regolarmente iscritti nel Registro. Possono chiedere l’iscrizione al Registro le persone fisiche che:

  • possiedono i necessari requisiti di onorabilità definiti dal Ministro dell’economia e delle finanze sentita la Consob e sanciti da apposito regolamento;
  • abbiano conseguito una laurea della durata minima di tre anni tra quelle individuate dal Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la Consob;
  • abbiano svolto regolare tirocinio;
  • abbiano superato l’esame di idoneità professionale.

Al Registro possono iscriversi anche le società che soddisfino tutta una serie di condizioni previste e dettagliate dal comma 4 dell’articolo 2 del decreto legislativo 39/2010.

Tirocinio formativo

Il tirocinio professionale ha lo scopo di far acquisire al futuro revisore la capacità di applicare le conoscenze teoriche al caso concreto per fargli superare l’esame di idoneità ed esercitare la professione. Il tirocinio ha una durata triennale e viene svolto presso un revisore legale o un’impresa di revisione legale abilitata, che siano in grado di garantire al tirocinante una formazione di tipo pratico. I tirocinanti sono iscritti nell’apposito registro in cui sono indicate le generalità, il recapito, la data di inizio del tirocinio, il soggetto presso il quale viene svolto e tutti gli eventi modificativi che incidono sul suo svolgimento. Il tirocinante è obbligato, entro 60 giorni dal termine di ogni anno di tirocinio, a redigere una relazione sull’attività svolta.

Esame di abilitazione

L’esame per l’abilitazione professionale all’esercizio della professione di revisore legale viene indetto almeno una volta all’anno dal Ministero dell’Economia delle Finanze d’intesa con il Ministero della Giustizia.

L’esame di idoneità, finalizzato a verificare la capacità di applicazione concreta delle conoscenze teoriche verte su diverse materie, tra le quali figurano la contabilità generale, quella analitica e di gestione, la disciplina del bilancio di esercizio e del bilancio consolidato, i principi contabili nazionali internazionali, i principi di revisione nazionale internazionale, la deontologia, il diritto civile, commerciale, fallimentare, tributario, del lavoro, della previdenza, la matematica e la statistica, i principi di gestione finanziaria e l’economia politica, aziendale e finanziaria.

Ai sensi del comma 4 bis dell’articolo. 4 del dlgs n. 39/2010 sono esonerati dallo svolgimento

dell’esame di idoneità ai fini dell’iscrizione nel Registro coloro che hanno superato l’esame di Stato per l’abilitazione alla professione di dottore commercialista, fermo restando l’obbligo del tirocinio.

La formazione continua

I revisori legali iscritti al Registro hanno l’obbligo della formazione continua, che consiste nel partecipare a programmi di aggiornamento professionale che vengono stabiliti ogni anno dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e che hanno la finalità di perfezionare e mantenere le conoscenze teoriche così come le capacità professionali. Il periodo di formazione continua ha una durata triennale e l’impegno è espresso in crediti formativi. Ogni anno l’iscritto deve acquisire un minimo di 20 crediti formativi per un totale minimo di 60 crediti durante il triennio.

La revisione legale: i principi

Nello svolgimento dell’attività di revisione legale i soggetti abilitati devono rispettare i principi di deontologia professionale. Nel corso dell’intera revisione il professionista deve esercitare lo “scetticismo professionale”, riconoscendo la possibilità che si verifichino errori significativi a fatti o comportamenti dei quali possono emergere irregolarità, ma anche frodi.

Le informazioni e i documenti a cui il revisore ha accesso sono coperti dall’obbligo della riservatezza e dal segreto professionale, che valgono anche dopo la partecipazione all’incarico di revisione. Il revisore legale deve essere indipendente dalla società soggetta a revisione e non deve essere coinvolto nel processo decisionale. Il  requisito dell’indipendenza deve sussistere per tutto il periodo a cui si riferiscono i bilanci da revisionare e durante l’intera attività di revisione legale.

Il requisito dell’indipendenza è talmente rilevante che il revisore legale, prima di accettare o proseguire l’incarico, deve valutare e documentare il possesso dei requisiti di indipendenza ed obiettività, la presenza eventuale di rischi per la sua indipendenza, la disponibilità di personale competente, di tempo e di risorse necessarie per svolgere adeguatamente l’incarico.

Il revisore legale esprime con relazione un giudizio sul bilancio di esercizio ed eventualmente su quello consolidato, illustrando i risultati dell’attività svolta, la corretta tenuta della contabilità e la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture.

Responsabilità del revisore legale

Il revisore legale risponde in solido con gli amministratori nei confronti della società che gli ha conferito l’incarico per i danni derivanti dall’inadempimento dei propri doveri. Nei rapporti interni tra debitori solidali i revisori sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno provocato. L’azione di risarcimento si prescrive nel termine di cinque anni, decorrenti dalla data della relazione di revisione sul bilancio.