intelligenza artificiale

Dalla fantascienza alla realtà: l’intelligenza artificiale che cambia il mondo Un saggio sul rapporto tra uomo e macchina: il ruolo dell'IA tra etica, diritto e società con focus sulle normative italiana ed europea

L’Intelligenza Artificiale, un tempo relegata alle pagine della fantascienza, è oggi una realtà tangibile che permea numerosi aspetti della nostra vita quotidiana.

Se ci pensiamo, l’idea di creare esseri artificiali dotati di intelligenza affonda le sue radici in miti antichissimi.

Già nella mitologia greca si narra la storia di Pigmalione, un talentuoso scultore di Cipro che scolpì una statua d’avorio rappresentante la donna ideale. Tanto era perfetta la sua creazione che Pigmalione se ne innamorò perdutamente. Commossa dalla sincerità del suo amore, la dea Afrodite esaudì il suo desiderio, infondendo vita alla statua, che prese il nome di Galatea.

Questo antico mito riflette il persistente desiderio umano di infondere vita nell’inanimato, di dare forma concreta alle proprie fantasie, creando esseri che incarnino l’ideale di perfezione spesso percepito come irraggiungibile per l’uomo.

L’essere umano è da sempre spinto da un impulso innato a superare i propri limiti, a esplorare l’ignoto e a trascendere le barriere imposte dalla natura. Questo desiderio si manifesta oggi nella creazione di intelligenze artificiali avanzate, strumenti progettati per ampliare le nostre capacità cognitive e operative.

Di fronte a questa svolta, emerge una domanda cruciale: quali sono i confini tra l’uomo e la macchina[1]?

La riflessione non può che prendere le mosse dalla formazione di cui siamo figli: una cultura umanista, che pone l’uomo al centro dell’Universo. Siamo gli eredi di una visione che si sviluppa lungo le linee della cultura greca, giudaica e cristiana, convergenti nell’idea che l’uomo sia mensura rerum[2].

Tuttavia, declinare l’umanesimo in epoca moderna, significa fare i conti con le nuove discipline scientifiche e riflettere sul nuovo ruolo dell’uomo in una società dove la tecnologia prende il sopravvento.

D’altra parte, l’umanesimo contemporaneo appare segnato da una contraddizione di fondo: come può l’uomo mantenere un ruolo centrale se lo sviluppo tecnologico è spesso concepito in sua  sostituzione?

Tecnologie emergenti come le interfacce cervello-computer e i dispositivi in grado di interagire direttamente con il sistema nervoso – le cosiddette tecnologie neuro-digitali[3] – aprono scenari di straordinaria portata, con applicazioni che vanno dal recupero di funzioni motorie e sensoriali fino al potenziamento cognitivo. Ma sollevano, al tempo stesso, domande radicali sull’identità personale, sulla libertà interiore e sulla tutela dei dati neurali, ponendo con forza il tema del limite tra l’uomo e la macchina.

Resta aperto l’interrogativo su come garantire che lo sviluppo tecnologico continui a ispirarsi a principi etici, evitando derive che possano tradursi in un “impossessamento” dell’uomo.

L’Intelligenza Artificiale è spesso presentata (rectius giustificata) come uno strumento di potenziamento umano; ma quando le affidiamo persino le mansioni più semplici ci si dovrebbe domandare se stiamo davvero ampliando le nostre capacità o se stiamo, in realtà, rinunciando a esercitarle.

Una delega indiscriminata può, tra l’altro, portare a distorsioni significative.

Un caso emblematico è avvenuto recentemente a Firenze, dove un avvocato ha presentato in tribunale una memoria difensiva redatta con l’ausilio di chatGPT: le sentenze citate a supporto erano completamente inventate dall’IA[4]. Questo episodio ha sollevato seri interrogativi sull’affidabilità delle informazioni generate artificialmente e sull’importanza del controllo umano.

A tale riguardo, il 19 marzo 2025, con 85 voti favorevoli e 42 contrari, è stato approvato dal Senato il disegno di legge sull’Intelligenza Artificiale (Ddl AI) con cui il legislatore si propone di disciplinare l’uso dell’intelligenza artificiale in ambito professionale e giuridico.

L’art. 12 del Ddl prevede che:

L’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali è consentito esclusivamente per esercitare attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera.

Per assicurare il rapporto fiduciario tra professionista e cliente, le informazioni relative ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dal professionista sono comunicate al soggetto destinatario della prestazione intellettuale con linguaggio chiaro, semplice ed esaustivo”.

Il legislatore, dunque, mette nero su bianco la risposta all’interrogativo nato insieme all’IA: la macchina non può e non deve sostituire l’uomo.

Diventa dunque imprescindibile governare il cambiamento che ci attende. Governarlo, però, non significa semplicemente accogliere le innovazioni, bensì guidarne l’impatto sulla società, affinché la tecnologia, pur nella sua forza propulsiva, continui a essere uno strumento al servizio della persona, e non il contrario[5].

Gli aspetti positivi dell’intelligenza artificiale sono ormai ben noti: la capacità di automatizzare i processi con conseguente aumento della produttività e una riduzione dei tempi; la diminuzione degli errori umani; la semplificazione nell’accesso ai dati; la personalizzazione dell’esperienza in rete dell’utente; la rivoluzione dell’assistenza alle persone con disabilità con tecnologie come la domotica.

D’altro canto, però, l’avanzata dell’intelligenza artificiale non è priva di criticità. L’automazione crescente, ad esempio, solleva interrogativi concreti sul futuro del lavoro e impone un impegno sistematico nella formazione continua e nella riqualificazione professionale.

Ci sono poi i  c.d. bias di incertezza, cioè i pregiudizi che possono influenzare in modo distorto il comportamento dell’IA, derivante da dati imparziali, da errori nei modelli di apprendimento o dalle scelte fatte dagli sviluppatori durante la progettazione dell’algoritmo.

A ciò si aggiunge una questione cruciale: la gestione dei dati personali. L’estensione capillare delle tecnologie di raccolta e analisi solleva nuove urgenze in materia di privacy, esponendo cittadini e istituzioni a vulnerabilità non trascurabili. I recenti casi di violazioni informatiche hanno infatti riportato al centro dell’attenzione il tema della protezione delle informazioni sensibili, con un impatto diretto sulla fiducia nei confronti dell’innovazione digitale.

Non solo. Gli episodi di black box dimostrano che chi utilizza una macchina intelligente non ne ha sempre il pieno controllo, poichè le tecnologie spesso operano come un misterioso sistema chiuso, con meccanismi interni sconosciuti che rendono difficile identificare e correggere errori o bias [6].

Diviene poi fondamentale riflettere anche sull’impiego dell’intelligenza artificiale in ambito medico, soprattutto per quanto riguarda la responsabilità legata agli errori nelle diagnosi e nelle terapie. La necessità di individuare chi debba rispondere degli sbagli causati dall’IA diventa cruciale, soprattutto quando non è chiaro chi detenga effettivamente il controllo delle macchine e dei sistemi che le alimentano.

Anche le strategie imprenditoriali stanno subendo una profonda evoluzione grazie all’apporto dell’Intelligenza Artificiale: le aziende ne sfruttano la potenzialità per migliorare l’efficienza operativa, personalizzare l’offerta in base alle esigenze dei clienti e adottare decisioni fondate su analisi più rapide e accurate.

Nel marketing, ad esempio, l’IA rende possibile anticipare i comportamenti dei clienti, proporre contenuti su misura e costruire campagne pubblicitarie mirate con una precisione mai vista prima.

Sul fronte del servizio clienti, trasforma l’esperienza dell’utente grazie a chatbot capaci di rispondere in tempo reale, 24 ore su 24, alleggerendo al contempo il carico del personale.

Infine, uno dei contributi più rilevanti riguarda l’analisi dei dati: l’IA è in grado di elaborare grandi quantità di informazioni, restituendo indicazioni strategiche che supportano scelte più consapevoli e mirate da parte delle imprese.

Secondo l’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano, nel 2024 il mercato italiano delle soluzioni e dei servizi di IA ha raggiunto un valore di 1,2 miliardi di euro, registrando una crescita del 58% rispetto all’anno precedente. Questo incremento è stato trainato principalmente dalle sperimentazioni che utilizzano la Generative AI, che rappresentano il 43% del valore totale.

Per quanto riguarda l’adozione dell’IA nelle imprese italiane, il 59% delle grandi aziende ha già un progetto attivo in questo ambito, posizionando l’Italia all’ultimo posto tra otto Paesi europei analizzati, dove la media è del 69%. Tra le PMI, solo il 7% delle piccole e il 15% delle medie imprese hanno avviato progetti di IA, evidenziando un ritardo significativo rispetto alle grandi aziende [7].

Quindi, l’Intelligenza Artificiale sta progressivamente attraversando l’intero tessuto sociale, incidendo su tutti i livelli e permeando ogni ambito lavorativo, senza che alcun settore possa dirsi estraneo a questa trasformazione.

In questo contesto, il diritto assume un ruolo centrale. È essenziale adottare leggi che  stabiliscano limiti all’IA, assicurando trasparenza, sicurezza ed equità.

A livello europeo, già nel dicembre 2018, la Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ) del Consiglio d’Europa ha adottato la Carta Etica Europea sull’uso dell’Intelligenza Artificiale nei sistemi giudiziari e in ambiti connessi, stabilendo principi fondamentali per garantire che l’uso dell’IA rispetti i diritti fondamentali.

Nel 2024 è stato inoltre adottato il Regolamento (UE) 2024/1689, noto come Artificial Intelligence Act (AI Act), volto a stabilire norme armonizzate per l’Intelligenza Artificiale, con l’obiettivo di assicurare che i sistemi di IA siano sicuri e rispettino i diritti fondamentali e i valori dell’UE.

Ancor più recentemente, il 4 febbraio 2025, la Commissione Europea ha pubblicato le Linee Guida sulle Pratiche di IA vietate, che forniscono una panoramica delle pratiche di IA considerate inaccettabili a causa dei potenziali rischi per i valori europei e i diritti fondamentali. Queste linee guida affrontano specificamente pratiche come la manipolazione dannosa, il punteggio sociale e l’identificazione biometrica remota in tempo reale.

A livello nazionale, il quadro normativo sull’intelligenza artificiale si è recentemente consolidato con l’approvazione del già citato Disegno di legge n. 1146/24 da parte del Senato il 20 marzo 2025. Questo provvedimento, intitolato “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”, mira a stabilire un quadro normativo nazionale coerente con il Regolamento (UE) 2024/1689 (AI Act).

Dal quadro sin qui delineato, seppur in forma sintetica, emerge chiaramente come l’Intelligenza Artificiale non rappresenti soltanto una questione tecnologica, ma, paradossalmente, una tematica profondamente umana. Essa coinvolge l’etica, le scelte politiche, l’economia e il diritto e coinvolge i valori collettivi e la responsabilità individuale.

Rappresenta una sfida che trascende l’ambito tecnico, incidendo le fondamenta della nostra società. Affrontarla richiede un impegno condiviso per sviluppare e implementare principi etici, regolamentazioni adeguate e una governance responsabile, affinchè l’Intelligenza Artificiale sia guidata dall’uomo e non diventi essa stessa guida dell’umanità.

 

[1] Secondo A. BARBANO “non ci sono un umano e un tecnologico separati, perché la tecnica è parte dell’umano, l’abbiamo inventata noi.(…) L’umano si qualifica nel rapporto con la tecnica, tramite questo si allena, cresce. (…) Se la macchina serve come strumento che aumenta la conoscenza dell’umano per decidere nella libertà, allora è uno strumento grandioso, che aiuta l’umano. Quindi il problema è sempre l’uso. Quando le tecnologie sviluppano queste accelerazioni, in una prima fase ti danno la sensazione che la libertà dell’umano sia vincolata. Poi però per fortuna l’umano si riappropria dei suoi spazi, e io sono fiducioso che anche nel governo di questa tecnologia noi riusciremo a difendere, anzi ad aumentare, gli spazi di differenziazione e di libertà”, su https://www.nagora.org/barbano-dallia-piu-promesse-che-minacce

[2] Pico della Mirandola, nel suo celebre Discorso sulla dignità dell’uomo, sosteneva che l’uomo ha la libertà di plasmare se stesso e di elevarsi quasi a livello divino grazie alla propria volontà e intelligenza: «Già il Sommo Padre, Dio creatore […] accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”», Oratio de hominis dignitate.

[3] Le tecnologie neuro-digitali, o neurotecnologie, comprendono strumenti e dispositivi in grado di interagire direttamente con il sistema nervoso, monitorando o modulando l’attività cerebrale. Tra queste rientrano le interfacce cervello-computer (BCI), che permettono al cervello di comunicare con dispositivi esterni, e le tecniche di stimolazione neurale per scopi medici o riabilitativi. Sebbene promettano importanti applicazioni terapeutiche e cognitive, sollevano interrogativi etici su identità, libertà e tutela dei dati neurali.

[4] “Firenze, 30 marzo 2025 – Un processo su plagio e riproduzione di marchio industriale, si è trasformato in un caso-scuola su giustizia e intelligenza artificiale. Tutto inizia durante la discussione in aula: l’avvocato della parte reclamante presenta nella memoria difensiva delle sentenze di Cassazione in tema di acquisto di merce contraffatta. Le sentenze, però, non esistono, non sono mai state pubblicate. E il legale si difende spiegando che “i riferimenti giurisprudenziali citati nell’atto erano il frutto della ricerca effettuata da una collaboratrice di studio mediante lo strumento dell’intelligenza artificiale ChatGpt, del cui utilizzo lui non era a conoscenza”. Il cervellone artificiale, capace di fornire risposte alle domande più disparate, ha fatto quindi cilecca. Inventandosi dispositivi giuridici che mai sono stati emessi dalla Cassazione. (…) I giudici del tribunale di Firenze, sezione imprese, nelle motivazione della sentenza parlano di “allucinazioni giurisprudenzialiprovocate dall’intelligenza artificiale. Ovvero quando “l’IA genera risultati errati che, anche a seguito di una seconda interrogazione, vengono confermati come veritieri”. P. Mecarozzi, L’intelligenza artificiale in tribunale: avvocato cita sentenze di ChatGpt, ma non esistono, La Nazione

[5] A. BARBANO ritiene che: “(…) questa accelerazione che si è prodotta, che ci dà a volte la sensazione di un non governo e che effettivamente si è prodotta in maniera anarcoide, determinando delle rotture di equilibri preesistenti, si riposizionerà dentro un equilibrio di valore capace di restituire all’umano la sua signoria, come è giusto che sia. Su questo, però, è chiaro che ci dobbiamo applicare con consapevolezza e maturità. Per esempio, dobbiamo capire che il diritto d’autore non è un orpello del capitalismo da debellare, ma è una garanzia dei diritti individuali da proteggere. (…) Siccome il futuro è aperto, io da liberale vedo un futuro aperto, non dico che vinceremo certamente questa sfida, però dico che questa sfida la possiamo vincere. Dipende sempre dall’uomo”, intervista cit.

[6] Questo accade soprattutto con le tecnologie basate sul deep learning. Per tecnologie basate sul deep learning si intendono sistemi di intelligenza artificiale che utilizzano reti neurali artificiali multilivello per elaborare grandi quantità di dati e apprendere in modo autonomo. Questi modelli non seguono istruzioni predefinite, ma sviluppano schemi decisionali complessi attraverso l’esperienza.

[7] Osservatorio Artificial Intelligence, Politecnico di Milano- Osservatori Digital Innovation, 2024, disponibile su: https://www.osservatori.net/comunicato/artificial-intelligence/intelligenza-artificiale-italia

danno da perdita di chance

Danno da perdita di chance Danno da perdita di chance: cos’è, normativa, prova, calcolo, differenze con il lucro cessante e giurisprudenza della Cassazione

Cos’è la perdita di chance

Il danno da perdita di chance è una particolare  voce di danno risarcibile nel nostro ordinamento, che riguarda la perdita di una concreta possibilità di ottenere un vantaggio futuro, sia esso economico, lavorativo o esistenziale. Non si tratta del mancato conseguimento del risultato, ma della frustrazione della probabilità seria e concreta di conseguirlo. Nel tempo, la giurisprudenza ha progressivamente riconosciuto la risarcibilità di questo danno, delineandone i presupposti, i criteri di prova e le modalità di liquidazione.

Definizione giuridica

La perdita di chance è intesa come il pregiudizio attuale e autonomo derivante dalla perdita della possibilità, seria e fondata, di conseguire un risultato favorevole. Non è, quindi, il danno futuro legato al mancato guadagno (lucro cessante), ma un danno attuale, rappresentato dalla scomparsa di un’opportunità concreta, con un valore patrimoniale o non patrimoniale proprio.

Normativa di riferimento

La perdita di chance non è regolata da una norma specifica, ma viene riconosciuta in base ai principi generali della responsabilità civile:

  • Art. 2043 c.c. (danno extracontrattuale): “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.”
  • Art. 1223 c.c. (danno da inadempimento contrattuale): prevede il risarcimento per la perdita subita e il mancato guadagno, includendo anche il valore della chance.

Come si prova il danno da perdita di chance

La prova della perdita di chance è uno degli aspetti più complessi, poiché si tratta di un evento non realizzatosi, ma che avrebbe potuto realizzarsi in base a una certa probabilità. Secondo la giurisprudenza, la chance, per essere risarcibile, deve essere:

  • seria: non meramente ipotetica o astratta;
  • concreta: basata su elementi oggettivi e verificabili;
  • attuale: riferita a una perdita già maturata.

La recente pronuncia della Cassazione n. 18568/2024 ha infatti chiarito che il risarcimento del danno da chance si configura come il ristoro per la perdita della concreta possibilità di ottenere un determinato risultato, possibilità che ha un valore giuridico ed economico autonomo rispetto al mancato raggiungimento del risultato stesso.

La prova può essere fornita tramite:

  • documentazione (es. bandi, graduatorie, offerte di lavoro);
  • testimonianze;
  • elementi statistici o peritali;
  • ricostruzioni logiche e presuntive, purché fondate.

Come si calcola la perdita di chance

Il giudice può procedere con liquidazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., valutando:

  1. il valore del risultato perduto (es. stipendio, premio, incarico);
  2. la probabilità di conseguirlo, espressa anche in termini percentuali;
  3. il nesso causale tra condotta illecita e perdita dell’opportunità.

La Cassazione ha più volte ribadito che la liquidazione del danno da perdita di chance debba avvenire sulla base di una valutazione probabilistica del vantaggio perso, la quale deve essere fondata su elementi oggettivi e attendibili.

Differenza tra perdita di chance e lucro cessante

La perdita di chance e il lucro cessante rappresentano due concetti distinti:

Elemento

Perdita di chance

Lucro cessante

Oggetto

Perdita di una possibilità

Perdita di un guadagno certo o altamente probabile

Natura

Danno attuale e autonomo

Danno futuro e conseguente

Prova richiesta

Probabilità seria e concreta

Prova rigorosa della certezza del guadagno

Liquidazione

Equitativa e proporzionale alla probabilità

Quantificazione precisa o fondata su proiezioni

Ambiti applicativi danno da perdita di chance

Il danno da perdita di chance è riconosciuto in numerosi contesti:

  • Diritto del lavoro: mancata assunzione, esclusione illegittima da un concorso pubblico;
  • Responsabilità medica: perdita della possibilità di guarigione o sopravvivenza;
  • Procedimenti amministrativi: mancata aggiudicazione di un appalto pubblico;
  • Responsabilità contrattuale: ritardo o inadempimento che esclude opportunità economiche.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 5641/2018: il concetto di chance, originariamente sviluppato per danni patrimoniali, mal si adatta alla sfera del danno non patrimoniale, richiamando l’attenzione sulla distinzione cruciale tra il danno inteso come evento lesivo e l’accertamento del nesso di causalità.

Cassazione n. 31136/2022: nel valutare una richiesta di risarcimento per danno alla persona, il giudice deve innanzitutto stabilire se la domanda mira al risarcimento totale per l’evento dannoso o per la perdita di chance, trattandosi di danni concettualmente differenti che richiedono una diversa valutazione del nesso causale. Se si lamenta la perdita di un bene della vita, il giudice deve verificare, attraverso un ragionamento ipotetico, se un comportamento alternativo avrebbe con maggiore probabilità evitato il danno. Diversamente, nel caso di perdita di chance, l’accertamento riguarda se la condotta abbia causato la perdita di una concreta possibilità di ottenere un risultato sperato, e non il mancato ottenimento del risultato in sé, poiché l’oggetto del risarcimento è proprio la perdita di tale opportunità.

Cassazione n. 25910/2023: Chi chiede il risarcimento per perdita di chance deve dimostrare l’esistenza concreta e significativa dell’opportunità perduta, il potenziale beneficio che ne sarebbe derivato e il legame causale tra la condotta dannosa o l’inadempimento e la perdita di tale opportunità.

 

Leggi anche: Danno da perdita di chance: basta la revisione della decisione 

divieto di nova

Divieto di nova Divieto di nova nel giudizio di appello: definizione, normativa, giurisprudenza ed eccezioni al principio

Cos’è il divieto di nova

Il divieto di nova rappresenta uno dei principi fondamentali del processo civile in sede di appello. Esso vieta alle parti di introdurre nuove domande, eccezioni o prove rispetto a quelle formulate nel primo grado di giudizio. L’obiettivo principale di tale limite è quello di preservare la natura revisoria dell’appello, evitando che si trasformi in un nuovo giudizio di merito.

Il divieto di nova in appello costituisce un presidio di legalità processuale, volto a evitare che il giudizio di secondo grado si trasformi in un processo ex novo. L’art. 345 c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza, ammette modificazioni compatibili con il principio del contraddittorio e impone un uso responsabile del diritto di difesa.

Normativa divieto di nova: l’art. 345 c.p.c.

Il divieto di nova trova la sua base normativa nell’art. 345 del codice di procedura civile, che così dispone: “1. Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti  e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. 2. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio. 3. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio. “

La norma, pertanto, opera una chiara distinzione tra il divieto assoluto di nova (domande ed eccezioni) e un divieto relativo per quanto concerne le prove.

Giurisprudenza della Cassazione

La giurisprudenza di legittimità è intervenuta ripetutamente a chiarire l’ambito di applicazione del divieto di nova.

Cassazione n. 34/2025: nel procedimento d’appello, la preclusione all’introduzione di nuove prove documentali non si applica quando si tratta di fatti sopravvenuti, ovvero eventi accaduti successivamente alla scadenza del termine utile per presentarli nel giudizio di primo grado. Questa eccezione si giustifica perché l’impossibilità di sollevare una specifica eccezione nel primo grado a causa della sua inesistenza temporale non pregiudica il principio del doppio grado di giudizio nel merito. In particolare, la nuova formulazione dell’articolo 345, comma 3, del codice di procedura civile consente, in deroga al generale divieto di nuove prove in appello, la produzione di documenti qualora la parte dimostri di non aver avuto la possibilità di proporli o produrli nel corso del primo giudizio.

Cassazione n. 6614/2023: la richiesta di restituzione delle somme versate in ottemperanza alla sentenza di primo grado o al decreto ingiuntivo può essere legittimamente avanzata nel giudizio d’appello, senza che ciò configuri una violazione del divieto di nuove domande stabilito dall’articolo 345 del codice di procedura civile. Questa ammissibilità si fonda sull’applicazione analogica del principio generale che, in un’ottica di economia processuale, consente di proporre in appello domande accessorie e consequenziali. La domanda di restituzione rappresenta un corollario diretto della riforma o dell’annullamento della decisione di primo grado, mirando a ripristinare la situazione patrimoniale antecedente all’esecuzione.

Cassazione n. 1244/2019: non si configura una violazione del divieto di introdurre nuove questioni in appello, sancito dall’articolo 345 del codice di procedura civile, qualora il giudice di secondo grado, pur mantenendosi entro i limiti della controversia definiti nel giudizio di primo grado, accolga la domanda applicando una diversa interpretazione giuridica dei fatti, che siano già stati acquisiti al processo, sia in modo implicito che esplicito. In sostanza, la riqualificazione giuridica dei fatti da parte del giudice d’appello non costituisce una novità vietata, purché non alteri i termini sostanziali della disputa originaria.

Eccezioni al divieto

Fanno eccezione al divieto:

  • le eccezioni rilevabili d’ufficio (es. nullità, decadenze legali);
  • I mezzi di prova nuovi, purché la parte dimostri la non imputabilità della loro mancata produzione in primo grado o la loro indispensabilità.

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esportazione contanti in Russia

Esportazione contanti in Russia: divieto anche per cure mediche La Corte UE ribadisce che il divieto europeo di esportazione di contanti in Russia vale anche per le cure mediche

Divieto UE di esportazione contanti in Russia

La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza resa nella causa C-246/24, ha stabilito che il divieto di esportazione di banconote in euro o in valuta ufficiale di uno Stato membro verso la Russia si applica anche quando il denaro è destinato al pagamento di trattamenti sanitari. La deroga al divieto è limitata esclusivamente alle spese strettamente necessarie per il viaggio e il soggiorno personale.

Il caso: passeggera diretta in Russia con 15.000 euro

Durante un controllo doganale all’aeroporto di Francoforte sul Meno, una passeggera in partenza per la Russia è stata trovata in possesso di circa 15.000 euro in contanti. L’interessata ha dichiarato che il denaro serviva sia a coprire le spese del viaggio, sia a finanziare cure mediche in Russia, tra cui:

  • trattamenti odontoiatrici,

  • terapia ormonale presso una clinica per la procreazione assistita,

  • follow-up chirurgico a seguito di un’operazione estetica.

I funzionari doganali hanno proceduto al sequestro dell’importo, trattenendo solo una somma minima (circa 1.000 euro) per garantire le esigenze basilari del viaggio.

Misure restrittive dell’UE contro la Russia

Esportazione contanti in Russia: a seguito dell’aggressione militare della Federazione Russa ai danni dell’Ucraina, l’Unione europea ha adottato misure restrittive volte a limitare il supporto economico al regime russo. Tra queste, figura il divieto di esportazione verso la Russia di banconote denominate in euro o in valute ufficiali degli Stati membri.

Questa misura intende ostacolare l’accesso della Russia al denaro contante in valuta forte, con l’obiettivo di incrementare il costo economico delle sue azioni militari.

Tuttavia, la normativa prevede un’eccezione: è consentito esportare denaro limitatamente alle somme necessarie per l’uso personale del viaggiatore o dei familiari stretti che lo accompagnano.

Il chiarimento della Corte UE

Il tribunale tedesco investito del caso ha sollevato una questione pregiudiziale chiedendo se le spese mediche potessero rientrare nell’ambito delle deroghe previste dal regolamento europeo.

La Corte di giustizia UE ha escluso questa possibilità, precisando che:

  • i trattamenti medici programmati in Russia non costituiscono una spesa necessaria per l’uso personale del viaggiatore, ai sensi delle deroghe previste;

  • l’eccezione riguarda unicamente le somme utili a garantire il viaggio e la permanenza, non altre finalità, pur se personali.

La Corte ha inoltre ricordato che l’UE non vieta il diritto di recarsi in Russia, ma mira a evitare che risorse finanziarie in valuta europea sostengano direttamente o indirettamente l’economia russa.

integratori alimentari

Integratori alimentari: vietata la pubblicità sui benefici alla salute Integratori alimentari e pubblicità: la Corte UE vieta le indicazioni sulla salute per le sostanze botaniche senza autorizzazione europea

Integratori alimentari e pubblicità

La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza nella causa C-386/23, ha confermato il divieto di utilizzare indicazioni sulla salute riferite a sostanze botaniche nella pubblicità di integratori alimentari, fino a quando tali claim non siano espressamente autorizzati dalla Commissione europea.

Cosa prevede il diritto Ue in materia di health claims

Secondo il Regolamento CE n. 1924/2006, le indicazioni sulla salute (health claims) possono essere impiegate nel marketing di alimenti e integratori solo se autorizzate a livello europeo e inserite in appositi elenchi ufficiali. L’obiettivo è garantire che ogni affermazione sia scientificamente fondata, tutelando così la salute pubblica e i diritti dei consumatori.

Attualmente, però, l’esame delle indicazioni sulla salute relative alle sostanze di origine botanica non è ancora concluso. Pertanto, tali affermazioni non sono presenti negli elenchi delle indicazioni autorizzate e, salvo eccezioni previste dal regime transitorio, non possono essere utilizzate nella promozione commerciale.

Il caso

La controversia ha coinvolto la società tedesca Novel Nutriology, che pubblicizzava un integratore alimentare a base di zafferano e succo di melone, sostenendo che tali componenti fossero in grado di migliorare l’umore e ridurre stress e stanchezza.

Una associazione professionale tedesca ha impugnato tali affermazioni, ritenendole illegittime in base al diritto UE. La questione è quindi giunta davanti alla Corte federale di giustizia tedesca, che ha sollevato una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia europea.

La decisione della Corte UE

La Corte ha ribadito che:

  • le indicazioni sulla salute non ancora esaminate e approvate dalla Commissione non possono essere utilizzate nella pubblicità di alimenti e integratori;

  • le indicazioni botaniche sono soggette alle stesse regole e richiedono autorizzazione esplicita;

  • una deroga è ammessa solo se l’indicazione rientra nel regime transitorio previsto dal regolamento, condizione che non ricorre nel caso in esame.

Nel caso di Novel Nutriology, le affermazioni riguardavano funzioni psicologiche non ancora valutate dalle autorità tedesche prima dell’entrata in vigore del regolamento. Inoltre, l’impresa non ha presentato la necessaria domanda di autorizzazione entro il termine previsto (19 gennaio 2008).

lettera di patronage

Lettera di patronage Lettera di patronage: cos'è, normativa, funzione, tipologie, differenze con la fideiussione e modello

Cos’è la lettera di patronage

La lettera di patronage è uno strumento giuridico atipico e largamente utilizzato nella pratica commerciale, soprattutto in ambito bancario e finanziario. Sebbene non espressamente disciplinata dal codice civile, essa assume una rilevanza fondamentale nel garantire indirettamente il rispetto di obbligazioni assunte da società controllate o partecipate, tramite l’intervento della società capogruppo (patron).

Essa consiste in una dichiarazione unilaterale con cui una società (generalmente la holding o capogruppo) esprime il proprio impegno morale o giuridico a sostenere un soggetto terzo (di solito una società controllata) nell’adempimento di obbligazioni contrattuali assunte verso un creditore (es. una banca o un fornitore).

Il suo scopo è quello di rafforzare l’affidabilità del debitore principale, senza ricorrere a una garanzia vera e propria, come accade con la fideiussione.

Normativa di riferimento

La lettera di patronage è un negozio atipico e, pertanto, non regolato da specifiche norme del codice civile. Tuttavia, trova applicazione nei principi generali del diritto contrattuale (artt. 1321 e ss. c.c.), nel principio di buona fede (art. 1375 c.c.) e, in caso di inadempimento, nei criteri di responsabilità precontrattuale o extracontrattuale (artt. 2043 e 1218 c.c.).

Funzione della lettera di patronage

Lo scopo principale della lettera di patronage è quello di rassicurare il creditore circa la solidità e l’affidabilità del debitore. In particolare, la società madre si impegna, a seconda dei casi, a:

  • fornire supporto finanziario alla controllata;
  • mantenere il controllo societario su di essa;
  • evitare situazioni che compromettano l’adempimento dell’obbligazione contrattuale;
  • in alcuni casi, a garantire direttamente o indirettamente il pagamento.

Tipologie di lettere di patronage: forti e deboli

Le lettere di patronage si distinguono in due categorie principali, che determinano il livello di vincolatività dell’impegno assunto.

1. Lettere di patronage forti

  • Contengono un impegno giuridicamente vincolante.
  • La società patron si obbliga a garantire o a intervenire direttamente in caso di inadempimento.
  • Possono generare una responsabilità contrattuale in caso di inadempimento.
  • Hanno un contenuto simile a una fideiussione attenuata, ma restano strumenti distinti.

2. Lettere di patronage deboli

  • Esplicitano un mero impegno morale o di buona fede.
  • La società capogruppo non assume un’obbligazione esecutiva, ma solo un dovere di vigilanza o supporto.
  • In caso di inadempimento, la responsabilità è extracontrattuale o precontrattuale, più difficile da provare.

Differenze tra lettera di patronage e fideiussione

Aspetto

Lettera di patronage

Fideiussione

Natura giuridica

Negozio atipico

Contratto tipico (art. 1936 c.c.)

Impegno assunto

Morale o giuridico, a seconda del tipo

Impegno diretto e giuridicamente vincolante

Azionabilità in giudizio

Solo se “forte” o se provata responsabilità

Sempre azionabile in caso di inadempimento

Registrazione e forma

Libera, spesso in forma scritta

Forma scritta richiesta ex art. 1937 c.c.

Diffusione d’uso

Rapporti bancari, leasing, forniture

Obbligazioni garantite formalmente

Fac-simile di lettera di patronage (debole)

La redazione accurata del testo è fondamentale per evitare ambiguità e contenziosi, specie nel distinguere tra lettere deboli e forti. È sempre consigliabile avvalersi dell’assistenza di un avvocato esperto in contrattualistica per redigere o valutare simili documenti. Il modello fornito è un’esemplificazione da utilizzare puramente come spunto.

[Ragione Sociale – Società Capogruppo]

[Indirizzo]

[CAP – Città]

[Telefono – Email]

Alla cortese attenzione di

[Nome della Banca o del Fornitore]

[Indirizzo]

Oggetto: Lettera di patronage in favore di [Ragione sociale della controllata]

Gentili Signori,

con la presente, la scrivente [Società Capogruppo], in qualità di azionista di controllo della società [Società controllata], dichiara di essere a conoscenza del rapporto contrattuale instaurato tra quest’ultima e la Vostra spettabile società, relativo a [breve descrizione del contratto].

In tale contesto, la scrivente conferma il proprio interesse al buon esito dell’operazione e si impegna, nei limiti delle proprie possibilità, a mantenere il controllo societario su [Società controllata], affinché siano create le condizioni per il regolare adempimento degli obblighi contrattuali assunti dalla medesima.

La presente non costituisce garanzia ai sensi degli artt. 1936 e ss. c.c., né potrà essere interpretata come assunzione di obblighi patrimoniali diretti a favore della Vostra società.

Cordiali saluti,

[Luogo e data]

[Firma del Legale Rappresentante]

 

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giurista risponde

Unioni di fatto e doveri di natura morale e sociale Sono configurabili doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro in relazione ad attribuzioni economiche o patrimoniali effettuate dopo la cessazione della convivenza more uxorio?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Le unioni di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, che trova tutela nell’art. 2 Cost., e sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che possono concretizzarsi in attività di assistenza materiale e di contribuzione economica prestata non solo nel corso del rapporto di convivenza, ma anche nel periodo successivo alla cessazione dello stesso e che possono configurarsi, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, come adempimento di un’obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034 c.c., ove siano ricorrenti pure gli ulteriori requisiti della proporzionalità, spontaneità ed adeguatezza (Cass., sez. I, 2 gennaio 2025, n. 28).

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte trae origine dalla richiesta avanzata dal ricorrente al fratello maggiore unilaterale (generato dallo stesso padre ma da madre diversa) di restituzione delle somme versate dalla madre al padre dopo la cessazione della loro convivenza, nonché della metà delle spese sostenute in proprio per il mantenimento del padre dopo la morte della madre.

In primo e secondo grado era stata accolta soltanto la seconda richiesta, mentre la prima era stata rigettata in quanto, secondo i giudici di merito, il contributo dato dalla madre al padre si configurava come adempimento di un’obbligazione naturale.

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, poiché, per il ricorrente, una volta cessata la convivenza non è configurabile alcun obbligo morale di un convivente nei confronti dell’altro.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha preliminarmente rammentato quanto stabilito da Cass., sez. II, 30 settembre 2016, n. 19578 e cioè che, per valutare la sussistenza dell’obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c. occorre dapprima accertare se ricorra, in rapporto alla valutazione corrente nella società, un dovere morale o sociale e, successivamente, se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza.

La giurisprudenza consolidata ha già riconosciuto l’esistenza di un obbligo di assistenza reciproca nelle unioni di fatto, sicché le attribuzioni finanziarie effettuate nel corso del rapporto per le esigenze della famiglia configurano l’adempimento di un’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., sempre che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, da valutare in relazione alle circostanze del caso concreto e non devono essere restituite (così Cass. 13 giugno 2023, n. 16864).

Tuttavia, nel caso di specie, la Cassazione ha dovuto affrontare una questione diversa, sulla quale non constano precedenti giurisprudenziali, e cioè se l’obbligo di assistenza reciproca perduri dopo la cessazione della convivenza.

La Suprema Corte, aderendo alla soluzione adottata dalle Corti di merito, ha dato risposta affermativa, ritenendo che, poiché le convivenze di fatto sono sempre più diffuse, addirittura superando in numero le famiglie fondate sul matrimonio, il mantenimento dell’ex convivente sia conforme “alla valutazione corrente nella società” e sia, pertanto, tale da integrare un’obbligazione naturale, al ricorrere degli altri requisiti previsti dalla legge.

 

(*Contributo in tema di “Unioni di fatto e i doveri di natura morale e sociale”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: iscrizione a ruolo con la sola istanza Gratuito patrocinio: per l'iscrizione a ruolo è sufficiente l'istanza di ammissione protocollata

Istanza gratuito patrocinio e iscrizione a ruolo

Con la circolare del 24 aprile 2025, protocollo n. 81673.U, la Direzione Generale degli Affari Interni del Dipartimento per gli Affari di Giustizia ha fornito importanti chiarimenti sulla procedura di iscrizione a ruolo nei casi di deposito dell’istanza di ammissione al patrocinio gratuito, priva della delibera di ammissione del Consiglio dell’Ordine. Si chiede alla direzione di chiarire in sostanza se si può procedere all’iscrizione della causa a ruolo con la sola istanza depositata, che deve essere  protocollata presso il Consiglio dell’Ordine competente.

Normativa sul gratuito patrocinio a spese dello Stato

Per fornire una risposta coerente con il quadro normativo e giurisprudenziale la Direzione richiama il Testo Unico sulle Spese di Giustizia che contiene anche la disciplina sull’ammissione al patrocinio gratuito. La normativa prevede in particolare che l’’interessato debba presenta l’istanza al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati competente, ossia quello del luogo dove ha sede il magistrato della causa, che decide sull’istanza entro dieci giorni dal deposito. E’ l’articolo 126 del D.P.R. n. 115/2002 a stabilire questo termine.

La Direzione rileva tuttavia che il termine di dieci giorni non viene sempre rispettato. Finora, infatti l’iscrizione a ruolo è stata effettuata con la sola istanza protocollata, con la riserva di provvedere al deposito del provvedimento di accoglimento successivamente. La Direzione Generale della Giustizia Civile del resto aveva implicitamente confermato questa prassi con la nota prot. DAG 103148.U del 14.07.2015.

Obbligo contributo unificato per l’iscrizione a ruolo

La Legge di Bilancio per il 2025 poi ha introdotto nuove disposizioni per cui è lecito domandarsi  se la prassi sia ancora valida. La legge n. 207/2024 ha previsto infatti l’obbligatorietà del versamento del contributo unificato minimo di 43,00 euro. Un importo minore è previsto infatti solo per specifici procedimenti.

Patrocinio gratuito, difesa e iscrizione a ruolo

La Direzione Generale risponde al quesito sottolineando prima di tutto come il diritto di accesso alla difesa sia fondamentale. La Costituzione lo garantisce all’articolo 24 ed eventuali ritardi nella valutazione dell’istanza di patrocinio non possono pregiudicare questo diritto. Se il ritardo non è imputabile alla parte, l’ufficio giudiziario deve procedere all’iscrizione a ruolo anche con la sola istanza di ammissione purché regolarmente depositata e protocollata dal Consiglio dell’Ordine competente.

La Cassazione sulla retroattività

Del resto la Suprema Corte di Cassazione di recente si è espressa sulla retroazione del provvedimento di ammissione con la sentenza la n. 6888/2025, chiarendo un principio di diritto consolidato. Se l’istanza respinta dal Consiglio dell’Ordine viene accolta dal giudice, gli effetti dell’ammissione retroagiscono dalla data di presentazione al Consiglio dell’Ordine. Lo Stato quindi deve farsi carico delle spese legali sostenute in questo intervallo di tempo.

Indicazioni operative istanza gratuito patrocinio

Alla luce della normativa e della giurisprudenza analizzate, la Direzione  stabilisce che gli uffici giudiziari debbano iscrivere a ruolo i procedimenti civili anche senza la delibera del Consiglio dell’Ordine. L’avvocato dovrà allegare l’istanza di ammissione regolarmente depositata e protocollata e la cancelleria dovrà aprire un foglio notizie. Se l’istanza dovesse essere respinta e non confermata dal magistrato, si procederà alla riscossione delle spese.

 

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condizione risolutiva

La condizione risolutiva Condizione risolutiva: cos’è, normativa, funzionamento, differenze con la clausola risolutiva espressa, giurisprudenza

Cos’è la condizione risolutiva

La condizione risolutiva è una clausola contrattuale che prevede l’estinzione di un contratto se si verifica un determinato evento futuro e incerto. Essa si distingue dalla condizione sospensiva, che condiziona l’efficacia al verificarsi di un evento futuro.

La condizione risolutiva infatti opera quando il contratto è già in vigore e cessa di avere effetto quando si verifica l’evento condizionante. La condizione risolutiva permette, dunque, di “annullare” l’effetto del contratto al verificarsi dell’evento stabilito. Non c’è quindi la necessità di risolvere giudizialmente l’accordo.

Normativa di riferimento

La condizione risolutiva è disciplinata dal Codice Civile Italiano, dall’articolo 1359 c.c, che si occupa delle condizioni contrattuali. Esso stabilisce che “La condizione può essere sospensiva o risolutiva. La condizione risolutiva è quella che determina la cessazione dell’efficacia del contratto se si verifica l’evento futuro e incerto.”

Il Codice Civile non fornisce una definizione dettagliata di condizione risolutiva. Esso si limita stabilire che la stessa produce un effetto automatico, senza bisogno di il ricorrere a una pronuncia giudiziale.

Come funziona la condizione risolutiva

Il funzionamento di questa condizione, da quanto detto finora, è piuttosto semplice. Un contratto può prevedere che, al verificarsi di un determinato evento futuro (ma non certo), questo faccia cessare gli effetti del contratto stesso. Questo significa che, una volta che la condizione si realizza, il contratto si estingue automaticamente. Non sono necessarie cioè comunicazioni o formalizzazione ulteriori.

Esempio di applicazione pratica

Immaginiamo un contratto di vendita sottosto alla condizione del conseguimento del finanziamento da parte dell’acquirente. Se, nel termine stabilito, l’acquirente non ottiene il prestito necessario, il contratto si risolve automaticamente, senza la necessità di una dichiarazione formale da parte delle parti.

Questo tipo di clausola viene utilizzato soprattutto quando le parti vogliono tutelarsi contro il rischio di un imprevisto che potrebbe rendere il contratto inefficace. La condizione risolutiva, dunque, offre maggiore flessibilità rispetto a un contratto definitivo.

Differenza con la clausola risolutiva espressa

La condizione risolutiva viene spesso confusa con la clausola risolutiva espressa, che è una clausola tipica dei contratti stipulati tra le parti. Sebbene entrambe abbiano la funzione di determinare la risoluzione di un contratto, le due sono concettualmente diverse e si applicano in contesti distinti.

La condizione risolutiva si applica quando il contratto prevede che si annulli o cessi di essere efficace al verificarsi di un evento futuro e incerto. Non è necessaria una decisione delle parti per risolvere il contratto, esso si scioglie automaticamente. In un contratto di vendita, ad esempio se la condizione risolutiva è subordinata alla mancata concessione del finanziamento all’acquirente, il contratto si risolve automaticamente.

La clausola risolutiva espressa, invece, prevede che il contratto venga risolto in maniera automatica e immediata se una delle parti non adempie a una determinata obbligazione, senza necessità di una condizione sospensiva. La differenza fondamentale con la condizione risolutiva è che la clausola risolutiva espressa agisce per inadempimento di una delle parti. Se in un contratto di appalto l’appaltatore non esegue una prestazione essenziale, la clausola risolutiva espressa farà cessare automaticamente l’efficacia del contratto, senza che ci sia bisogno di un intervento giudiziale.

In sintesi la condizione risolutiva dipende dal verificarsi di un evento futuro e incerto, mentre la clausola risolutiva espressa dipende dall’inadempimento o dalla violazione di un obbligo espressamente pattuito nel contratto.

Giurisprudenza sulla condizione risolutiva

La giurisprudenza italiana ha avuto numerosi pronunciamenti sul tema della condizione risolutiva, chiarendo il suo funzionamento in vari ambiti. Ecco alcuni esempi significativi.

Cassazione n. 24318/2022

La clausola inserita nel preliminare di vendita, che prevede la risoluzione automatica del contratto se i permessi di costruzione non vengono rilasciati entro una data stabilita per cause indipendenti dalla volontà delle parti, configura una condizione risolutiva. Ciò significa che l’efficacia del contratto è subordinata a un evento futuro e incerto, ovvero il rilascio dei permessi entro il termine concordato. Se tale evento non si verifica, il contratto si considera risolto fin dall’origine, come se non fosse mai stato stipulato, senza necessità di ulteriori azioni da parte dei contraenti. La clausola non attribuisce al venditore la facoltà di sciogliersi unilateralmente dal contratto, ma stabilisce una conseguenza automatica al verificarsi di una circostanza oggettiva.

Cassazione n. 21427/2022

Se una parte viola l’obbligo di agire in buona fede durante il periodo in cui una condizione sospensiva è pendente, come richiesto dall’articolo 1358 del codice civile, il momento in cui si verifica tale violazione, che è fondamentale per calcolare il danno risarcibile e quando inizia a decorrere, non è quando la parte in malafede chiede al giudice di annullare il contratto (che era già diventato inefficace perché la condizione non si è verificata). Piuttosto, il momento rilevante è l’ultimo istante in cui si può dimostrare che la parte non ha fatto ciò che era necessario per permettere alla condizione di avverarsi. In altre parole, il danno viene calcolato a partire dal momento in cui la parte ha smesso di agire in buona fede, non da quando ha cercato di sfruttare la situazione in tribunale.

Cassazione n. 9550/2018

Quando un contratto è soggetto a una condizione, sia essa sospensiva (che ne ritarda l’efficacia) o risolutiva (che ne determina la cessazione), e le parti non stabiliscono un termine preciso per il verificarsi di tale condizione, la legge interviene per evitare situazioni di incertezza prolungata. In questi casi, se trascorre un periodo di tempo considerato ragionevolmente sufficiente senza che la condizione si avveri (nel caso di condizione sospensiva) o si verifichi (nel caso di condizione risolutiva), una delle parti può rivolgersi al giudice per ottenere una dichiarazione di inefficacia del contratto. Il giudice, valutando le circostanze specifiche e la natura dell’evento condizionante, determinerà se il tempo trascorso è da considerarsi eccessivo, portando così alla caducazione del contratto. In sostanza, anche in assenza di un termine esplicito, la legge prevede un limite temporale implicito, volto a garantire la certezza dei rapporti giuridici.

 

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giurista risponde

Accordo patrimoniale tra ex conviventi e inadempimento L’accordo patrimoniale tra genitori ex conviventi può essere risolto per inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

In tema di mantenimento dei figli nati da genitori non coniugati, alla luce del disposto di cui all’art. 337ter, comma 4 c.c., anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori non coniugati e non conviventi, al fine di disciplinare le modalità di contribuzione degli stessi ai bisogni e necessità dei figli, è riconosciuto valido come espressione dell’autonomia privata e pienamente lecito nella materia, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo; tuttavia, avendo tale accordo ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege”, l’autonomia contrattuale delle parti assolve allo scopo solo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta e incontra un limite, sotto il profilo della perdurante e definitiva vincolatività fra le parti del negozio concluso, nell’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale della prole. Ne consegue l’applicazione a detti accordi dei principi contenuti in materia contrattuale e, quindi, anche delle norme in tema di risoluzione e di inadempimento (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 1324 – Accordo patrimoniale tra ex conviventi).

La vicenda trae origine da una scrittura privata sottoscritta dalle parti, ex conviventi, per definire gli aspetti relativi al mantenimento del figlio e le questioni patrimoniali insorte nella coppia.

Ivi le parti avevano inserito una clausola con cui una di esse si impegnava a vendere l’immobile di sua proprietà e a corrispondere una cospicua somma all’altra parte, a condizione che questi assolvesse agli obblighi di mantenimento del figlio.

In primo grado il Tribunale aveva ritenuto tale accordo di natura transattiva e ne aveva dichiarato la risoluzione per grave inadempimento di una delle parti.

In secondo grado, la Corte d’Appello aveva qualificato diversamente la scrittura privata, attribuendole natura di accordo stipulato in occasione di una crisi familiare ex art. 337ter, comma 4 c.c. a struttura non sinallagmatica, ritenendo inammissibile l’azione di risoluzione per inadempimento.

Avverso tale decisione è stato proposto ricorso per Cassazione.

Preliminarmente, la Cassazione ha rammentato la giurisprudenza in materia di diversa qualificazione giuridica del rapporto d’ufficio, che la ammette anche in difetto di specifico motivo di impugnazione, in quanto il giudice d’appello ha il potere dovere di inquadrare nell’esatta disciplina giuridica gli atti e i fatti che formano oggetto della controversia. Tuttavia, occorre rispettare due limiti: lasciare inalterati il “petitum” e la “causa petendi” e non introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto (così Cass. 26 giugno 2012, n. 10617; Cass. 17 febbraio 2020, n. 3893).

La Suprema Corte ha affermato nella decisione de quo che l’accordo negoziale di cui all’art. 337ter comma 4 c.c. è espressione dell’autonomia privata ed è pienamente lecito, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo.

Esso ha ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege, consistente nel mantenimento della prole; pertanto, l’autonomia contrattuale delle parti deve limitarsi a regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta garantendo l’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale dei figli (così Cass., 11 gennaio 2022, n. 633).

Ne consegue l’applicazione a detti accordi dei principi contenuti in materia contrattuale e, quindi, anche delle norme in tema di risoluzione e di inadempimento.

Per tale motivo, la Cassazione ha cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

(*Contributo in tema di “Accordo patrimoniale tra ex conviventi e inadempimento”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)