giurista risponde

Richieste assistenza giudiziaria internazionale È sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale (art. 723 c.p.p.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 6 dicembre 2022, n. 15.

Il Consiglio di Stato enuncia che è sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale.

Si tratta, infatti, di un provvedimento amministrativo discrezionale che sotto il profilo del difetto di motivazione può essere sottoposto al vaglio del giudice amministrativo.

Con riguardo alla vicenda in esame, il collegio si è direttamente pronunciato nel merito degli appelli, accogliendoli, in specie annullando gli atti del Ministero per carenza di motivazione, con particolare riferimento alla possibile violazione del principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, la questione è partita da sei richieste dell’India di notificazione delle citazioni a giudizio ai vertici di una società per rispondere dei reati di corruzione e riciclaggio in pubbliche forniture al Governo straniero. I vertici della società, per i medesimi fatti, erano stati già processati in Italia e assolti in via definitiva. Il Consiglio di Stato ha annullato gli atti del Ministero di accoglimento delle richieste del Governo indiano, affermando che il Ministero non aveva motivato in ordine alle ragioni per cui non aveva esercitato il proprio potere di “blocco”.

L’Adunanza Plenaria evidenziava che, il Ministero esercita un potere discrezionale, in forza del quale è tenuto a valutare tutti i profili presi in considerazione dall’art. 723 c.p.p.”. Pertanto, la motivazione deve essere contenuta nell’atto di accoglimento della richiesta formulata dallo Stato estero o va desunta per relationem da un precedente atto infra-procedimentale.

Nel caso specifico, invece, non si è preso in considerazione il precedente “giudicato assolutorio” con il rischio concreto che “le medesime persone, già assolte, verrebbero nuovamente sottoposte ad un giudizio per i medesimi fatti, davanti all’autorità giudiziaria penale estera”, così ponendo in discussione la sovranità statale.

Nella medesima direzione va anche la possibile violazione della necessità della “doppia incriminazione”, con riguardo all’imputazione di riciclaggio formulata dall’autorità indiana, perché rivolta ai concorrenti nel reato di corruzione presupposta, in violazione dell’incompatibilità sancita invece da diritto penale interno (art. 648bis c.p.).

Tutte questioni sulle quali non si riscontra nei provvedimenti impugnati alcuna presa di posizione sul piano motivazionale.

Ciò premesso, per i Giudici va affermato che: “Il difetto di motivazione esplicita degli atti con cui è stato dato seguito alle richieste di assistenza giudiziaria internazionale è sindacabile, sotto il profilo del difetto di motivazione, poiché come nel caso di specie, si è in presenza di un provvedimento discrezionale, che va adeguatamente motivato”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 1° giugno 2022, n. 4487;
Cons. Stato, sez. VII, 16 marzo 2022, n. 1889;
Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2021, n. 5727;
Cons. Stato, sez. IV, 21 febbraio 2020, n. 1341;
Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2020, n. 1180
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Limite di età borse di studio Cassazionisti È legittima la scelta dell’Amministrazione di apporre un limite di età (fino al 45° anno di età) nel bando del CNF per l’erogazione delle borse di studio per l’acquisizione del titolo di cassazionista?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, lo precisa il Cons. Stato, sez. I, 21 dicembre 2022, n. 2057.

Il Consiglio di Stato ricorda che “tale limite d’età risponde alla ratio di “sostenere” e non “favorire” i giovani professionisti, vale a dire coloro che iniziano la professione” e che, pertanto, in considerazione della loro età anagrafica possono riscontrare maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro.

Ne discende la rispondenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza di tale scelta che non sarebbe altrettanto ragionevole e proporzionata se dovesse utilizzare, per definire il giovane professionista, non l’età anagrafica ma l’età professionale, intesa – quest’ultima – quale lasso temporale dall’inizio della professione.

In proposito, l’art. 6 della direttiva 2000/78 prevede che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione là dove siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro e di formazione professionale con i relativi mezzi per il conseguimento necessario di tale finalità.

Ciò posto, occorre evidenziare che la fissazione del requisito risponde ad una logica che permea il Regolamento per l’erogazione dell’assistenza della Cassa di Previdenza e Assistenza, che mira a sostenere per i giovani professionisti l’avvio dell’attività.

In conclusione, la scelta operata dall’Amministrazione rientra nel margine di valutazione discrezionale di cui dispongono gli Stati membri nella scelta degli obiettivi di politica sociale da perseguire.

giurista risponde

Impugnazione delibera ANAC È impugnabile la delibera non vincolante dell’ANAC?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Le delibere ANAC possono essere impugnate qualora il provvedimento possa risultare lesivo, incidendo in concreto sulla sfera giuridica dei destinatari e arrecando, quindi, un vulnus diretto ed immediato. – Cons. Stato, sez. V, 22 dicembre 2022, n. 11200.

In senso generale, ai fini dell’impugnabilità di un provvedimento amministrativo, occorre valutare in concreto l’effetto che arreca nella sfera giuridica del destinatario e in che modo tale effetto possa arrecare pregiudizio alle posizioni giuridiche soggettive da quest’ultimo vantate.

I Giudici ricordano che, ai sensi dell’art. 213 del D.Lgs. 50/2016, l’ANAC: […] Garantisce la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto […] nell’ambito dei poteri ad essa attribuiti, l’Autorità: a) vigila sui contratti pubblici, anche di interesse regionale, di lavori, servizi e forniture nei settori ordinari e nei settori speciali e sui contratti secretati o che esigono particolari misure di sicurezza ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. f-bis), della L. 6 novembre 2012, n.190, nonché sui contratti esclusi dall’ambito di applicazione del codice; b) vigila affinché sia garantita l’economicità dell’esecuzione dei contratti pubblici e accerta che dalla stessa non derivi pregiudizio per il pubblico erario […]”.

L’attività di vigilanza si sostanzia in una funzione di controllo sulla condotta delle amministrazioni e degli operatori, dunque, sulla regolarità della procedura di gara, sulla fase di esecuzione della commessa e sulla stipula dei protocolli d’intesa con le stazioni appaltanti.

La vicenda all’attenzione del Consiglio di Stato attiene ad un provvedimento che rilevava disfunzioni e irregolarità nell’esecuzione dell’appalto e che conseguentemente invitava l’amministrazione e l’operatore a comunicare le misure da adottare.

Nel caso specifico, la Delibera resa ai sensi dell’art. 213 del D.Lgs. 50/2016, contiene un evidente obbligo conformativo. L’ANAC ha reso una valutazione globale che ha investito l’intera procedura di gara, non limitandosi alla valutazione delle varianti, invitando stazione appaltante e operatore economico a conformarsi nella successiva attività alle modalità operative indicate, e contestualmente chiedendo di essere informato sulle azioni intraprese per l’allineamento con i rilievi espressi, nella sostanza, rappresentando un vincolo alle scelte che la pubblica amministrazione avrebbe inteso operare.

Orbene, la delibera risulta certamente suscettibile di ricorso.

Secondo il Consiglio di Stato: “L’impugnabilità di una delibera non vincolante dell’ANAC non è da escludersi in senso assoluto, atteso che tale provvedimento potrebbe assumere connotazione lesiva tutte le volte in cui, riferendosi alla fattispecie concreta, di fatto incide sulla sfera giuridica dei destinatari, essendo idonea ad arrecare un vulnus diretto ed immediato. Ne consegue che, la sua lesività non va valutata in astratto o sulla base dell’inquadramento dogmatico del provvedimento, dovendosi rilevare gli effetti conformativi che lo stesso produce, nell’immediato, nei confronti dei soggetti a cui è indirizzata”.

Sulla scorta di tanto, se le indicazioni dell’Autorità, nell’ambito del potere di vigilanza e controllo, assumono il ruolo di canoni oggettivi a cui conformarsi, determinano un effetto immediatamente lesivo nella sfera giuridica del destinatario e, pertanto, sono impugnabili: in sostanza, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario ai sensi dell’art. 24 della Costituzione.

Inoltre, il ricorso è stato accolto anche con riferimento al superamento del termine di conclusione della delibera, secondo i criteri temporali individuati dal Regolamento dell’ANAC, che ne ha di fatto determinato l’illegittimità.

Non può applicarsi ai procedimenti che conducono all’adozione di provvedimenti lesivi o sanzionatori la regola della natura ordinatoria dei termini procedimentali non espressamente qualificati come perentori. A prescindere da un’espressa qualificazione normativa dei relativi provvedimenti, nei procedimenti che conducono a conseguenze pregiudizievoli, i termini sono sempre perentori, essendo la perentorietà imposta dal principio di effettività del diritto di difesa e dal principio di certezza dei rapporti giuridici.

Ad ogni modo, secondo i Giudici, l’esercizio di una potestà amministrativa che ha conseguenze pregiudizievoli, di qualsiasi natura, e a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che la preveda, non può restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta.

Si conclude, pertanto che, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 19 agosto, 2020, n. 5097;
Cons. Stato, sez. VI, 11 marzo 2019, n. 1622;
Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 2019, n. 2572
giurista risponde

Periodi di riposo al padre lavoratore dipendente Sono riconosciuti i periodi di riposo, ai sensi degli artt. 39 e 40 del D.Lgs. 151/2001, al padre lavoratore dipendente (del minore di anni uno) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 28 dicembre 2022, n. 17.  

I Giudici ricordano che: “I periodi di riposo di cui all’art. 39 del D.Lgs. 151/2001 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionale tutelato dalla funzione genitoriale, cui si riconnettono: 

  •  sia le responsabilità di entrambi i genitori nei confronti del figlio (naturale o adottivo), e dunque il diritto dei medesimi ad ottenere dall’ordinamento il riconoscimento delle migliori condizioni possibili onde assolvere ad una funzione non solo individuale, ma anche socialmente fondamentale;
  • sia, specularmente, il diritto del figlio ad ottenere, per il tramite dell’assistenza dei genitori, ottimali condizioni di crescita e di sviluppo della sua età evolutiva”.

Ed invero, l’esercizio della funzione genitoriale tende sia alla piena realizzazione dei diritti del bambino ad ottenere la migliore assistenza da parte dei genitori sia a costituire espressione del diritto “proprio” di ciascuno dei genitori, quale espressione della loro personalità, ad accompagnare la crescita del figlio.

Occorre, dunque, prendere le mosse dell’art. 40 del D.Lgs. 151/2001, che prevede la fruizione dei riposi orari del padre lavoratore nei casi: a) in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in cui la madre lavoratrice non se ne avvalga; c) in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) di morte o di grave infermità della madre.

La giurisprudenza si è interrogata se il diritto ai riposi orari spettasse anche nel caso in cui la madre fosse una casalinga; dunque, se potesse rientrare nel novero di “madre non lavoratrice dipendente”.

Sul punto vi sono stati diversi indirizzi interpretativi.

Secondo un primo indirizzo positivo, con “madre lavoratrice dipendente” si ricomprendono tutte le ipotesi in cui non esiste un rapporto di lavoro dipendente, dunque sia il caso della lavoratrice autonoma sia il caso della donna che non svolga alcun lavoro nonché il caso della donna che svolga un’attività non retribuita (come appunto la casalinga).

Orbene, la ratio della disposizione si individuava nel principio della paritetica partecipazione di entrambi i genitori alla cura e all’educazione della prole, così come enunciato nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.

Per quanto attiene all’orientamento negativo, il principio di alternatività nella cura del minore andrebbe escluso in termini assoluti e non sarebbe possibile ricondurre la casalinga alla condizione di non lavoratrice dipendente. Interpretazione che si fonda sulla ricerca del necessario equilibrio tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli e le specifiche esigenze del datore di lavoro.

Si è poi affermato un indirizzo intermedio, secondo il quale il padre ha diritto ai permessi solo nel caso in cui dimostri che la moglie casalinga è impossibilitata ad assicurare le necessarie cure al bambino.

Tale contrasto interpretativo induceva la Seconda Sezione del Consiglio di Stato a deferire la questione all’Adunanza Plenaria, che osservava come: “i periodi di riposo di cui all’art. 39 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionalmente tutelato della funzione genitoriale”.

Escludere il diritto del padre alla fruizione dei riposi in caso di presenza nel nucleo familiare della madre casalinga, comporterebbe un’irragionevole privazione del diritto del padre lavoratore dipendente, non giustificata dal testo della norma che nella sua chiarezza non consente interpretazioni riduttive.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio di diritto secondo cui: «L’art. 40, comma 1, lett. c), D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente art. 39 sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti; e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità».

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. lav., 28 novembre 2019, n. 31137;
Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2014, n. 4618;
Cass., civ., sez. III, 20 luglio 2010, n. 16896; Id., 24 agosto 2007, n. 17977;
Id., 20 ottobre 2005, n. 20324
Difformi:      Cons. Stato, sez. II, 4 marzo 2021, n. 1851;
Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2017, n. 499;
Cons. Stato, sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732
ricorso per ottemperanza

Ricorso per ottemperanza Il ricorso per ottemperanza consente di dare esecuzione alle sentenze emanate dai giudici  amministrativi, qualora la P.A. non adempia in modo spontaneo

Ricorso per ottemperanza: definizione

Il ricorso per ottemperanza è l’atto con cui si chiede che venga data attuazione a diversi provvedimenti del giudice amministrativo. Dal punto di vista disciplinare il giudizio di ottemperanza è regolato dagli articoli 112, 113 e 114 del decreto legislativo n. 104/2010, che ha dato attuazione all’articolo 44 della legge n. 69/2009, contenente la delega al Governo per riordinare il processo amministrativo.

Quando si deve proporre l’azione di ottemperanza

Il citato art. 112 del dlgs. n. 104/2010 contiene le disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza. Il primo comma dispone che i provvedimenti emessi dal giudice amministrativo debbano essere poi eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle parti.

Per ottenere questo risultato è necessario proporre l’azione di ottemperanza. Essa consente nello specifico di conseguire l’attuazione di questi provvedimenti:

  1. le sentenze del giudice amministrativo che sono già passate in giudicato;
  2. le sentenze e i provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;
  3. le sentenze e i provvedimenti equiparati, passati in giudicato, del giudice ordinario per fare in modo che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico deciso;
  4. le sentenze passate in giudicato e i provvedimenti equiparati per le quali non è previsto il giudizio di ottemperanza, affinché la pubblica amministrazione si conformi alla decisione;
  5. i lodi arbitrali esecutivi che non sono impugnabili, per ottenere che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico.

Il terzo comma dell’art. 112, modificato dal decreto legislativo n. 195/2011, prevede poi che davanti al giudice dell’ottemperanza si possa anche proporre, in un unico grado:

  • l’azione per la condanna al pagamento di somme dovute a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza;
  • l’azione per il risarcimento dei danni collegati all’impossibilità o alla mancata esecuzione in forma specifica, sia essa totale o parziale, del giudicato, alla sua elusione o alla sua violazione.

L’ultimo comma della norma stabilisce infine che il ricorso si possa proporre anche per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza.

Competenza del giudice nel giudizio di ottemperanza

L’articolo 113 contiene le regole sulla competenza del giudizio di ottemperanza.

Il primo comma prevede infatti che il ricorso per il giudizio di ottemperanza nei casi sopra indicati dalle lettere a e b, debba essere proposto allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento da ottemperare.

Il TAR è competente anche quando i suoi provvedimenti vengono confermati in appello nel caso in cui la motivazione abbia lo stesso contenuto conformativo e dispositivo dei provvedimenti emanati in primo grado.

Nei casi descritti dalle lettere c), d), ed e) dell’articolo 112 il ricorso per ottemperanza si deve proporre al TAR nella cui circoscrizione si trova il giudice che ha emanato la sentenza che deve essere ottemperata.

Il procedimento del giudizio di ottemperanza

L’articolo 114 della legge n. 104/2010 disciplina infine  le varie fasi del giudizio di ottemperanza.

Occorre però precisare che l’azione è soggetta al termine di prescrizione di 10 anni, che decorrono dal passaggio in giudicato della sentenza.

Ricorso: deposito e notifica

Per avviare il giudizio di ottemperanza il ricorso deve essere notificato sia alla pubblica amministrazione che a tutte le parti del giudizio che è stato definito con la sentenza o con il lodo che si vuole vengano ottemperati. Insieme al ricorso deve essere depositato, in copia autentica, il provvedimento che si desidera venga ottemperato e la prova eventuale del suo passaggio in giudicato.

Il giudice, al termine del procedimento, decide con sentenza in forma semplificata.

Accoglimento del ricorso

Qualora il ricorso venga accolto, il giudice ordina che la sentenza o il provvedimento venga ottemperato, dando le opportune indicazioni sulle modalità dell’ottemperanza. Il giudice può anche determinare il contenuto del provvedimento amministrativo che dovrebbe emanare la pubblica amministrazione o emanarlo al suo posto. Può inoltre dichiarare nulli eventuali atti che hanno violato il giudicato.

Qualora l’ottemperanza riguardi sentenze non ancora passate in giudicato o altri provvedimenti allora il giudice determina le modalità in cui devono avere esecuzione, considerando inefficaci gli atti che sono stati emessi violando o eludendo le disposizioni e provvede senza trascurare gli effetti che ne conseguono.

Il giudice, su richiesta di parte, può anche stabilire a carico del resistente una somma di denaro determinata per ogni violazione, inosservanza o ritardo nel dare esecuzione al giudicato. Questa decisione però può essere assunta dal giudice solo se non risulti manifestamente iniqua o non rilevi ostacoli.

In caso di necessità nomina poi un commissario ad acta e in questo caso il giudice conosce tutte le questioni che riguardano l’ottemperanza comprese le questioni relative agli atti del commissario.

Se poi il ricorso è stato proposto per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza, allora il giudice fornisce questi chiarimenti, anche se richiesti dal commissario ad acta.

Le regole sul procedimento di ottemperanza si applicano anche quando i provvedimenti giuridici che vengono adottati dal giudice dell’ottemperanza vengono impugnati.

vincolo archeologico

Vincolo archeologico: definizione, normativa e ratio Il vincolo archeologico, che può essere diretto o indiretto, viene apposto su beni di interesse archeologico per finalità di tutela culturale

Vincolo archeologico: definizione

La definizione di vincolo archeologico è contenuta in modo chiaro all’interno della sentenza del Consiglio di Stato n. 399 del 2016.  Essa definisce il vincolo archeologico come quello che è “finalizzato a realizzare la tutela dei beni riconosciuti di interesse archeologico”.  

Esso non deve pertanto essere confuso con il vincolo paesaggistico delle zone di interesse archeologico (art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio). Quest’ultimo infatti non mira a tutelare i beni, quanto piuttosto il territorio che li conserva. Il vincolo paesaggistico tutela quindi il paesaggio archeologico, da non confondere con il sito archeologico. Il paesaggio archeologico non si identifica pertanto con il solo sito archeologico, bensì con tutta la forma del paesaggio, ossia anche le aree circostanti al reperto e senza reperti, al cui interno è compreso il sito archeologico.

Il vincolo archeologico diretto e indiretto

Definito il vincolo archeologico in generale e compresi gli elementi distintivi rispetto al vincolo paesaggistico delle zone di interesse archeologico, occorre chiarire che lo stesso può essere diretto e indiretto. Anche in questo caso la definizione di questi due termini è contenuta in una sentenza del Consiglio di Stato e precisamente la n. 1658 del 2023.

Nello specifico, detta pronuncia definisce:

il vincolo archeologico diretto come quello che “viene imposto sui beni o sulle aree nei quali sono stati rinvenuti reperti archeologici, o in relazione ai quali vi è la certezza dell’esistenza, della localizzazione e dell’importanza del bene archeologico”;

il vincolo archeologico indiretto invece è quello che “viene imposto sui beni e sulle aree circostanti a quelli sottoposti a vincolo diretto, così da garantirne una migliore visibilità e fruizione collettiva, o migliori condizioni ambientali e di decoro”. 

Riferimenti normativi

Premessa l’esistenza di due tipologie di vincolo archeologico vediamo quali sono le norme che li contemplano.

Il vincolo archeologico diretto è previsto dagli articoli 1 e 3 della legge n. 1089/1939. L’articolo 1 dispone che sono assoggettate alle regole della legge anche le cose mobili e immobili di interesse archeologico. L’articolo 3 invece dispone che il Ministero notifichi in forma amministrativa ai possessori, proprietari o detentori dei beni di interesse archeologico indicati nell’articolo 1, che gli stessi presentano un interesse particolarmente importante. L’elenco delle cose mobili è conservato presso il Ministero.

Il vincolo archeologico indiretto è invece contenuto nell’articolo 21 della legge n. 1089/1939 e consiste nella prescrizione, da parte del Ministero competente, di misure, distanze e altre norme per evitare che venga messa in pericolo l’integrità delle cose immobili, che ne vanga danneggiata la prospettiva, la luce o che ne vengano alterate le condizioni ambientali e di decoro.

Le ragioni del vincolo archeologico

La ragione primaria dell’imposizione del vincolo archeologico è pertanto la tutela dei beni che presentano un evidente interesse culturale.

Ad affermarlo è anche l’articolo 2 del decreto legislativo n. 42/2004, che contiene il codice dei beni e del paesaggio culturale (ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 137 del 6 luglio 2002).

Fanno parte infatti del patrimonio culturale le cose mobili e immobili che presentano un interesse archeologico ai sensi degli articoli 10 e 11.

Nello specifico l’articolo 10 definisce i beni culturali anche le cose mobili e immobili che appartengono allo Stato e altri enti pubblici territoriali o agli enti e istituti, persone giuridiche pubbliche o private senza fini di lucro, compresi gli enti ecclesiastici riconosciuti che presentano un interesse archeologico. Sono beni culturali inoltre, sempre in base a questa norma, anche quelle cose mobili e immobili di interesse archeologico che appartengono a soggetti diversi da quelli appena elencati e a chiunque appartenenti, ma che rivestono un particolare interesse archeologico per la completezza del patrimonio culturale della nazione.

Vincolo archeologico ed edificabilità

Dal punto di vista pratico il vincolo archeologico pone problemi soprattutto quando nell’area su cui lo stesso grava si deve realizzare un’opera.

Giurisprudenza oramai consolidata afferma che il vincolo apposto su un’area di interesse archeologico non esclude in assoluto l’attività di edificazione. La stessa può essere consentita infatti qualora non comprometta la conservazione dei beni e non alteri l’integrità dei reperti.

L’unico modo per scongiurare la violazione della legge in materia è tuttavia quello di chiedere informazioni presso gli uffici competenti della Soprintendenza distribuiti sul territorio nazionale per verificare la presenza di vincoli e tutele che possano impedire i lavori programmati.

 

tempus regit actum

Il principio “tempus regit actum” nel procedimento amministrativo In ambito amministrativo, si discute se debba rispettarsi sempre la regola tempus regit actum o se occorra considerare il procedimento nel suo complesso

Che significa la regola tempus regit actum

Con la locuzione latina tempus regit actum si suole indicare la circostanza per cui, in diritto, un atto è regolato dalla legge vigente nel momento in cui è compiuto.

Questo principio trova applicazione in vari ambiti, e principalmente in campo processuale. Ma è nel diritto amministrativo che la regola tempus regit actum si trova al centro di un vivace dibattito, poiché una parte della dottrina e molte recenti pronunce giurisprudenziali ritengono che, in tale settore, debba valere il diverso principio del tempus regit actionem, specialmente con riferimento alle regole che disciplinano il procedimento amministrativo.

Tempus regit actum e procedimento amministrativo

Per comprendere appieno le differenze tra le due regole sopra citate, è opportuno ricordare brevemente in cosa consiste il procedimento amministrativo.

Esso rappresenta il normale strumento attraverso cui la pubblica amministrazione addiviene ad una decisione in cui si sostanzia la sua azione. In concreto, il procedimento amministrativo si sostanzia in una serie concatenata di atti amministrativi che sfociano in un atto conclusivo, chiamato provvedimento amministrativo.

Ebbene, i fautori della tesi secondo cui anche in ambito amministrativo procedimentale vige la regola tempus regit actum, sostengono che ogni singolo atto del procedimento amministrativo rimane regolato dalla disciplina normativa vigente al momento in cui esso è stato adottato.

Ciò significa che, se sopravviene una nuova normativa astrattamente applicabile alla fattispecie oggetto del procedimento amministrativo, quest’ultima dovrà essere osservata solo in relazione agli atti di quel procedimento ancora da compiere, mentre la regolarità degli atti endoprocedimentali già compiuti in quel medesimo procedimento continuerebbe a dover essere valutata in base alle norme della previgente disciplina.

In realtà, tale principio è stato per lungo tempo pacificamente osservato anche in tale ambito, ma di recente numerose pronunce degli organi giurisdizionali amministrativi hanno abbracciato la tesi di quella parte della dottrina che ritiene applicabile al procedimento amministrativo il principio tempus regit actionem.

Bandi di gara e principio tempus regit actionem

In buona sostanza, tale tesi sposta l’attenzione dall’atto singolarmente considerato all’azione amministrativa complessivamente identificata dal singolo procedimento.

Per fare un esempio, quando un ente pubblico bandisce una gara di appalto, fissa una serie di requisiti per la partecipazione e una serie di regole che garantiscono la parità tra i concorrenti e la trasparenza delle condizioni.

Se la normativa di riferimento mutasse in pendenza della scadenza dei termini per la partecipazione a quella gara, si rischierebbe di pregiudicare il rispetto di tali canoni di parità e trasparenza, finendo per inquinare la correttezza e la regolarità della gara.

Per questo motivo, in ambito di aggiudicazioni e, più in generale di procedure selettive in ambito amministrativo, si ritiene che debba rispettarsi la regola “tempus regit actionem”, e che, pertanto, l’intera gara debba rimanere disciplinata dalla normativa vigente al momento della pubblicazione del bando.

Al riguardo, cfr. tra tante, la sentenza del Consiglio di Stato n. 2521/2021, secondo cui “occorre ribadire il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui nelle gare pubbliche la procedura di affidamento di un contratto pubblico è soggetta alla normativa vigente alla data di pubblicazione del bando (…); pertanto, anche per ragioni di tutela dell’affidamento (…), deve escludersi che lo ius superveniens possa avere alcun effetto diretto sul procedimento di gara, altrimenti venendo sacrificati i principi di certezza e buon andamento, con sconcerto delle stesse ed assoluta imprevedibilità di esiti, ove si imponesse alle amministrazioni di modificare in corso di procedimento le regole di gara per seguire le modificazioni normative o fattuali intervenute successivamente all’adozione del bando (tra le tante, Cons. Stato, V, 7 giugno 2016, n. 2433; V, 12 maggio 2017, n. 2222). Si può forse sostenere che nei procedimenti di gara il criterio informatore sia quello del tempus regit actionem”.

Allo stesso modo, anche in altri ambiti del diritto amministrativo si fa largo l’idea che debba osservarsi la legge vigente al momento in cui l’amministrazione procedente avvia la fase istruttoria del procedimento amministrativo. In tal modo, da un lato viene valorizzata l’idea che il procedimento amministrativo sia un unicum in cui si sostanzia l’azione amministrativa e in cui confluiscono i vari atti che hanno rilevanza esclusivamente endoprocedimentale. Dall’altro, si valorizza l’esigenza di rispetto degli interessi legittimi esistenti in capo ai soggetti interessati dal procedimento, che possono ritenersi davvero tutelati solo se valutati in relazione alla legge vigente all’inizio del procedimento che li coinvolge.

In altri ambiti, come ad esempio quello delle concessioni edilizie, rimane invece ancora pacificamente osservata la regola del tempus regit actum: il provvedimento finale, cioè, deve rispondere alla normativa sopravvenuta nel corso del procedimento e non a quella vigente all’inizio dello stesso.

targa contraffatta

Targa contraffatta: niente multa per chi circola con quella polacca Per la Cassazione non è integrata la violazione dell’art. 100, comma 12, Cds, che sanziona la circolazione del veicolo munito di targa non propria o contraffatta

Targa straniera e violazione Codice della Strada

Niente multa per chi circola con veicolo con targa polacca e non italiana. Non si verte infatti nell’ipotesi della violazione di cui all’art. 100, comma 2, Codice della Strada, il quale sanziona la circolazione di un veicolo “munito di targa non propria o contraffatta”. Così la seconda sezione civile della Cassazione, la quale, con sentenza n. 4811-2024 ha accolto il ricorso di una società di trasporti avverso il verbale di accertamento elevato a suo carico dalla Polstrada.

Per approfondimenti vai alla nostra guida Targa contraffatta o falsa

La vicenda

Nella vicenda, la società impugnava innanzi al Gdp di Pordenone il verbale di accertamento e violazione dell’art.100, comma 12, Cds, elevato a suo carico dalla Polizia stradale per avere messo in circolazione un complesso veicolare formato da motrice e rimorchio risultante iscritto al P.R.A. con targa e documenti intestati alla società ricorrente, ma munito, al momento dell’accertamento, di targa polacca facente capo ad altra società.

A fondamento della contestazione l’autorità ritenne che il fatto integrasse l’ipotesi di circolazione di autoveicolo con targa non propria, in quanto diversa da quella che, ai sensi delle risultanze del P.R.A. nazionale, identificava il veicolo.

A sostegno dell’opposizione la società dedusse che il fatto accertato non integrava la violazione contestata, atteso che le targhe erano state regolarmente rilasciate dalla motorizzazione civile polacca, a seguito di contratto di noleggio temporaneo, con la conseguenza che il solo rimprovero che le poteva essere mosso era di non avere provveduto a comunicare al PRA la definitiva esportazione all’estero dei mezzi, al fine della radiazione delle targhe originarie.

Il Giudice di Pace rigettò l’opposizione e la pronuncia venne confermata dal Tribunale di Pordenone.

Il ricorso in Cassazione

Da qui il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale la società denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100, comma 12, codice della strada, censurando la decisione impugnata per avere ritenuto applicabile la disposizione menzionata in assenza dei suoi presupposti fattuali.

Le targhe rinvenute, sosteneva la società, erano infatti state rilasciate dalle competenti autorità polacche, previa consegna delle relative carte di circolazione e delle targhe originarie, proprio per i veicoli oggetto di accertamento. Per cui, trattandosi di targhe appartenenti ai suddetti veicoli, la violazione contestata, a dire della ricorrente, non era nella specie configurabile, risultando essa applicabile, oltre che al caso di targhe contraffatte, solo all’ipotesi in cui il mezzo usi targhe altrui, cioè corrispondenti ad altro veicolo. Al massimo la fattispecie poteva rientrare nella diversa ipotesi sanzionatoria dell’art. 103 codice della strada, che sanziona l’omessa comunicazione al PRA dell’esportazione del veicolo, trovando il fatto contestato la sua causa proprio in tale omissione.

La decisione della Cassazione

Per la S.C., il ricorso è fondato.

L’art. 100, comma 12, codice della strada, ricordano innanzitutto i giudici, sanziona la circolazione di un veicolo “munito di targa non propria o contraffatta”.

La formula normativa, quindi, “va intesa nel senso che la violazione sussiste quando la targa di cui il veicolo è provvisto appartiene ad un altro mezzo o risulta comunque oggetto di contraffazione”.

Nel caso di specie, invece, si trattava di targhe regolarmente rilasciate dalla motorizzazione polacca. Pertanto, spiegano gli Ermellini, è evidente “che si è al di fuori dell’ipotesi in cui il veicolo circoli non targa non propria, coincidendo le targhe presenti al momento dell’accertamento con quelle assegnate”.

Né la sussistenza della condotta sanzionata, concludono accogliendo il ricorso e cassando la sentenza impugnata, “può affermarsi per il solo fatto che nel P.R.A. risultassero ancora registrate le targhe originarie, precedenti alla nuova immatricolazione, atteso che tale circostanza è addebitabile alla mancata attivazione, da parte del proprietario, del procedimento di radiazione delle targhe precedenti, previsto dall’art. 103 codice della strada e la cui omissione ha una sanzione autonoma, ma non trasforma di per sé l’uso delle targhe nuove nella violazione contestata, non porta cioè a ritenere che quelle presenti non fossero quelle ‘proprie’ dell’automezzo”.

Allegati

lottizzazione abusiva

Lottizzazione abusiva sanatoria Per la lottizzazione abusiva la sanatoria non è prevista, come ha chiarito il Consiglio di Stato, anche quando venga richiesta per le singole opere edilizie

Cos’è la lottizzazione abusiva

La lottizzazione abusiva è il reato che compie chi, a scopo edificatorio, inizia opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia di terreni, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o senza la prescritta autorizzazione (v. art. 30 del T.U. Edilizia, D.P.R. 380/2001).

Parimenti, si ha lottizzazione abusiva quando tale trasformazione urbanistica o edilizia viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.

Come vedremo, a differenza di quanto può accadere per le singole opere edilizie, la lottizzazione abusiva non è suscettibile di sanatoria.

Il reato di lottizzazione abusiva e le sanzioni

Il reato di lottizzazione abusiva è punito dall’art. 44 dello stesso Testo Unico, che prevede come pena l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15.493 a 51.645 euro.

Inoltre, con la sentenza definitiva del giudice penale che accerta il reato, viene disposta anche la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite.

La principale ragione per cui la lottizzazione abusiva è considerata un illecito penale è stata individuata dalla giurisprudenza amministrativa nel fatto che tale attività “sottrae all’amministrazione il proprio potere di pianificazione attuativa e la mette di fronte al fatto compiuto di insediamenti in potenza privi dei servizi e delle infrastrutture necessarie al vivere civile, causa di degrado urbano e dei gravi problemi sociali che ne derivano” (cfr. Consiglio di Stato, sent. n. 5403/2021).

Lottizzazione abusiva e sanatoria, la giurisprudenza

Come abbiamo anticipato, diversamente da quanto può accadere per singoli interventi realizzati in assenza di costruire, suscettibili di sanatoria, “la lottizzazione abusiva rappresenta un illecito urbanistico che non è suscettibile della sanatoria prevista per gli abusi edilizi, anche qualora sia stata rilasciata una concessione edilizia in sanatoria per le singole opere facenti parte della lottizzazione” (Consiglio di Stato, sez. II, n. 1271/2021, pronuncia richiamata anche da Cons. St., sez. VI, sent. n. 2567/2023).

Per inciso, la sanatoria per i singoli interventi (opere) realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, si può richiedere se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda, pagando una somma pari al contributo di costruzione in misura doppia, sempre che la richiesta venga accolta (cfr. l’art. 36 del citato T.U. Edilizia, che disciplina il c.d. “Accertamento di conformità”).

Ipotesi ancora diversa è il condono delle singole opere abusive, che avviene solo in occasione di apposito provvedimento legislativo (adottato in passato in Italia negli anni ’80, ’90 e all’inizio degli anni Duemila).

Consiglio di Stato, le sentenze sulla sanatoria edilizia

Proprio perché si tratta di due ipotesi ben distinte, la giurisprudenza ha anche chiarito che non è possibile sanare la lottizzazione abusiva tramite la sanatoria delle singole unità immobiliari, terreni o costruzioni che siano, i quali non possono essere considerati in modo isolato (cfr. Cons. St., sent. n. 883/2022).

Inoltre, il Consiglio di Stato, sez. VI, con la recente sentenza n. 2567/2023, ha anche chiarito che nell’ambito della lottizzazione abusiva la sanatoria richiesta per una singola opera ha solo un effetto sospensivo dell’efficacia dei provvedimenti adottati in precedenza.

Infatti, la richiesta di un accertamento di conformità ex art. 36 T.U. Edilizia, in relazione ad un’opera realizzata in un terreno per cui è stata già accertata la lottizzazione abusiva, non toglie efficacia alla precedente ordinanza di demolizione, ma ne comporta la mera sospensione dell’efficacia fino alla definizione del procedimento conseguente alla richiesta stessa (sul punto, viene richiamata anche la precedente sentenza Cons. St., sez. II, n.3545/2021).

art. 39 TULPS

Art. 39 Tulps: divieto di detenzione armi In base all’art. 39 Tulps, il prefetto può vietare la detenzione di armi, munizioni ed esplosivi a soggetti che siano ritenuti capaci di abusarne

Divieto di detenere armi: i poteri del prefetto

L’art. 39 Tulps (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza) prevede la facoltà, per il prefetto, di vietare la detenzione di armi, munizioni ed esplosivi alle persone che in precedenza avevano ottenuto il relativo permesso, ma che, secondo una valutazione attuale, siano ritenute capaci di abusarne.

Per comprendere appieno la portata della norma, è opportuno comprendere quali siano le condizioni alle quali un cittadino possa essere autorizzato alla detenzione di armi. A questo scopo, nella presente guida analizzeremo brevemente la normativa di settore e i chiarimenti forniti dalla giurisprudenza.

Detenzione armi e munizioni, cosa dice la legge

Si è detto che il prefetto può negare la detenzione di armi a soggetti che erano in precedenza stati autorizzati a tanto. Il riferimento principale è a quanto previsto dall’art. 38 Tulps, che espressamente dispone che chiunque detiene armi, munizioni od esplosivi, deve farne denuncia alle autorità di pubblica sicurezza entro 72 ore dall’acquisizione della loro materiale disponibilità.

Tale denuncia, inoltre, deve essere ripetuta ogni qual volta il possessore dell’arma ne cambi il luogo di custodia. Tutto questo trova giustificazione nel fatto che le autorità di pubblica sicurezza devono essere sempre messe in condizione di conoscere l’esistenza di un’arma e il luogo esatto in cui la stessa si trovi, con la dovuta tempestività.

Ebbene, in questo quadro si staglia il potere del prefetto di cui all’art. 39 Tulps. In base a tale valutazione, il prefetto esprime un giudizio prognostico, cioè una mera previsione, in base al quale egli ritiene che il soggetto che detiene l’arma possa essere capace di abusarne e pertanto gli vieta di detenere l’arma (o le munizioni, o il materiale esplodente).

Divieto generale di detenere un’arma

Una recente sentenza del Consiglio di Stato ci consente di delineare meglio i presupposti e i contorni del divieto in parola (Cons. St., sent. n. 7404/2022).

Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, infatti, “il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare. (…) La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire”.

In altre parole, la sentenza in oggetto ci fa capire che l’art. 38 Tulps, in realtà, rappresenta le condizioni che permettono di fare un’eccezione alla regola (concedendo la detenzione dell’arma al cittadino), laddove l’art. 39 Tulps e il potere prefettizio da esso previsto non fanno altro che ripristinare l’operatività della regola generale del divieto di detenzione delle armi, in presenza di condizioni che facciano suppore il pericolo di abuso delle armi da parte del detentore.

Il porto d’armi, come anche chiarito dalla risalente pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 440/1993) “non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse”.

In tutto questo, il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza per tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi ed è da considerarsi “di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi” (v. sent. cit.).

Art. 39 Tulps: confisca dell’arma

La disciplina del divieto prefettizio di detenzione dell’arma si completa con la previsione in base alla quale, con il provvedimento di divieto, il prefetto assegna all’interessato un termine di 150 giorni per l’eventuale cessione a terzi dei materiali di cui al medesimo comma. In altre parole, l’ordinamento concede al detentore destinatario del provvedimento di divieto da parte del prefetto di decidere in ordine alla destinazione dell’arma. In mancanza di cessione entro il termine indicato, si procede alla confisca dell’arma.

Va segnalato, infine, che, nei casi di urgenza, l’art. 39 Tulps dispone che gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza devono provvedere all’immediato ritiro cautelare dell’arma, dandone immediata comunicazione al prefetto.