giurista risponde

Operatore economico parte di RTI misto Vi è l’incremento premiale del quinto della qualificazione all’operatore economico che sia parte di un RTI di tipo misto?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2023, nn. 2 e 3. 

La Plenaria, aderendo alla prospettazione della Sezione remittente, ha statuito che: “La disposizione dell’art. 61, comma 2, del D.P.R. 207/2010, laddove prevede, per il raggruppamento c.d. orizzontale, che l’incremento premiale del quinto si applica con riferimento a ciascuna impresa raggruppata o consorziata, a condizione che essa sia qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara, si applica anche, per il raggruppamento c.d. misto, alle imprese del singolo sub-raggruppamento orizzontale per l’importo dei lavori della categoria prevalente o della categoria scorporata a base di gara”.

L’Adunanza Plenaria prende le mosse dall’assunto che, sebbene l’art. 61, comma 2, del D.P.R. 207/2010 si riferisca all’ipotesi di raggruppamento orizzontale e non a quello verticale (e, di conseguenza, anche misto, quale species del genus verticale), non vi sono ragioni per escluderne l’applicabilità anche al sub-raggruppamento orizzontale di un raggruppamento misto, in relazione al quale, viene a crearsi “una ripartizione di compiti e competenze non dissimile da quelle del raggruppamento orizzontale c.d. totalitari”.

Ed invero, una diversa e più restrittiva interpretazione vanificherebbe ingiustamente ogni possibilità, per le imprese facenti parte di un sub-raggruppamento orizzontale di un RTI misto, di giovarsi dell’incremento del quinto per la propria classifica.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 9 dicembre 2020, n. 7751; Id., 4 maggio 2020, n. 2785;
Id., 5 aprile 2019, n. 2243
Difformi:      Cons. Stato, sez. III, 13 aprile 2021, n. 3040
giurista risponde

Appellabilità ordinanza istanza di accesso documentale È appellabile l’ordinanza resa nel corso del giudizio sull’istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a.?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. Cons. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2023, n. 4. 

Occorre prendere le mosse dall’art. 116, comma 2, c.p.a., secondo cui il ricorso in materia di accesso può essere proposto in pendenza del giudizio al quale la richiesta di accesso è connessa, previa notificazione all’Amministrazione ed agli eventuali controinteressati. Il Giudice si pronuncia su tale istanza con ordinanza separata rispetto al giudizio principale o con sentenza che definisce il giudizio stesso.

Il Collegio ha evidenziato che su tale disposizione si sono formate tre diverse interpretazioni: la tesi della natura decisoria; la tesi della natura istruttoria e la tesi della natura variabile.

L’Adunanza Plenaria ha ritenuto applicabile la tesi della natura decisoria sulla base dell’interpretazione: letterale; storica; sistematica e conforme a Costituzione.

L’Adunanza Plenaria ha, dunque, concluso che l’ordinanza relativa all’istanza di accesso ha valore decisorio in quanto incide su situazioni giuridiche diverse rispetto a quelle proposte nel giudizio principale, potendosi assimilare ad un ricorso proposto in via autonoma.

Pertanto, l’accesso difensivo deve essere qualificato dalla circostanza che la documentazione richiesta deve essere strumentale alla difesa innanzi al Giudice amministrativo e il Giudice può sempre pronunciarsi sull’istanza con la sentenza che decide il giudizio in virtù della connessione tra la domanda e il giudizio in corso.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio di diritto secondo cui: “L’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a., è applicabile innanzi al Consiglio di Stato”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019, n. 3936; Id., 21 maggio 2018, n. 3028
giurista risponde

Limiti vincolo destinazione d’uso bene culturale Quali sono i limiti operativi del vincolo di destinazione d’uso del bene culturale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 febbraio 2023, n. 5.

L’Adunanza plenaria ha enunciato i seguenti principi di diritto:

Ai sensi degli artt. 7bis, 10, comma 3, lett. d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del codice 42/2004, il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione, da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato;

ai sensi degli artt. 7bis, 10, comma 3, lett. d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del codice 42/2004, il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 7 giugno 2021, n. 4318;
Cons. Stato, sez. II, 29 ottobre 2020, n. 6628;
Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 4747; Id., 18 ottobre 1993, n. 741
giurista risponde

Interdittiva antimafia e controllo giudiziario Quale il rapporto tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il c.d. controllo giudiziario?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 febbraio 2023, nn. 6, 7 e 8.

Preliminarmente, i Giudici evidenziano come il sistema tradizionale delle misure interdittive patrimoniali nei confronti delle imprese infiltrate da organizzazioni di stampo mafioso si è ampliato di ulteriori misure, volte a graduare la loro incidenza sullo svolgimento e sulla gestione delle attività economiche, consentendo anche la prosecuzione da parte dell’impresa. Tra queste è compreso il controllo giudiziario che ai sensi dell’art. 34bis, comma 6, del codice delle leggi antimafia e delle misure di sicurezza, può essere chiesto dalle imprese destinatarie di informazioni antimafia interdittiva ai sensi dell’art. 84, comma 4, che abbiano proposto l’impugnazione del provvedimento del prefetto.

Presso la giurisprudenza amministrativa si affermava l’orientamento secondo cui, per consentire di portare a conclusione il controllo giudiziario disposto dal Tribunale della prevenzione penale occorrerebbe la pendenza del giudizio amministrativo; non solo al momento in cui l’impresa formula la domanda di ammissione al Tribunale della prevenzione penale, ma per tutta la durata della procedura, fissata dal medesimo Tribunale.

Altra tesi è, invece, quella che considera l’autonomia dei procedimenti, secondo cui la connessione tra il giudizio impugnatorio e il controllo giudiziario a domanda, opera esclusivamente nel momento genetico-applicativo di quest’ultimo, senza espressamente condizionarne la vigenza alla perdurante pendenza del primo.

Ciò premesso, l’Adunanza Plenaria ritiene che, vada affermata la tesi dell’autonomia dei procedimenti.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha enunciato il seguente principio di diritto: “La pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva, né delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese previste dall’art. 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, per il completamento dell’esecuzione dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione dall’impresa destinataria un’informazione antimafia interdittiva.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, ord. 6 luglio 2022, n. 5615; Id., ord. 6 luglio 2022, n. 5624;
Id., 19 maggio 2022, n. 3973
giurista risponde

Formazione all’estero e validità in Italia I titoli di formazione professionale relativi a cicli di studi post-secondari conseguiti all’estero ai fini dell’esercizio della professione di docente sono validi in Italia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 29 dicembre 2022, n. 22.

La vicenda esaminata attiene al riconoscimento della validità del titolo di formazione professionale (denominato “Programului de studi psichopedagogice, Nivel I e Nivel II”) presso un’Università rumena, ai fini dell’esercizio della professione di docente conseguito in Romania.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha confermato la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, a far data dalla nota sentenza “Morgenbesser” del 13 novembre 2003, in causa C-313/2001, ristabilendo il rispetto dei principi della Direttiva Europea n. 36/2005 in materia di mobilità delle professioni e conseguentemente il diritto alla libertà di circolazione e di stabilimento, previsti dagli artt. 45 e 49 del Trattato fondativo dell’Unione Europea.

Nel caso di specie rileva l’art. 13, comma 1, del D.Lgs. 206/2007, attuativo della Direttiva 2005/36/CE, per il quale: “Se, in uno Stato Membro ospitante, l’accesso ad una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato Membro dà accesso alla professione e ne consente l’esercizio alle stesse condizioni dei suoi cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’art. 11, prescritto da un altro Stato Membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla sul suo territorio”.

Tale disposizione indica, dunque, il procedimento da seguire e dispone il riconoscimento con il solo possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione, per accedere alla stessa professione, previsto da un altro Stato Membro.

Si afferma, quindi, che il Ministero italiano deve valutare la corrispondenza del corso di studi effettuato, e dell’eventuale tirocinio, con quello italiano, e all’esito dell’istruttoria può disporre
o il riconoscimento alle condizioni di cui all’art. 21 del D.Lgs. 206/2007 ovvero misure compensative di cui al successivo art. 22 del D.Lgs. 206/2007 cit.

In proposito, è importante evidenziare che la Commissione europea ha enunciato la non necessaria identità tra i titoli confrontati, essendo sufficiente una mera equivalenza per far scaturire il dovere di riconoscere il titolo conseguito all’estero.

Come affermato dai Giudici, il certificato va considerato secondo il sistema generale di riconoscimento, confrontando le qualifiche professionali attestate da altri Stati membri con quelle richieste dalla normativa italiana e disponendo, se del caso, misure compensative in applicazione dell’art. 14 della Direttiva 2005/36/CE.

Il Ministero dell’Istruzione riscontrata la possibile equivalenza deve, dunque, esaminare le istanze di riconoscimento del titolo formativo tenendo conto dell’intero compendio di competenze, conoscenze e capacità acquisite.

Sulla base di tali premesse, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso la soluzione della questione all’Adunanza Plenaria, che in definitiva enuncia il seguente principio di diritto: “Spetta al Ministero competente verificare se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato da altro Stato o la qualifica attestata da questo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni per accedere all’insegnamento in Italia, salva l’adozione di opportune e proporzionate misure compensative ai sensi dell’art. 14 della Direttiva 2005/36/CE.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VII, 14 luglio 2022, n. 5983; Id., 16 marzo 2022, n. 1850;
Cons. Stato, sez. VI, 3 novembre 2021, n. 7343; Id., 17 febbraio 2020, n. 1198
giurista risponde

Richieste assistenza giudiziaria internazionale È sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale (art. 723 c.p.p.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 6 dicembre 2022, n. 15.

Il Consiglio di Stato enuncia che è sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale.

Si tratta, infatti, di un provvedimento amministrativo discrezionale che sotto il profilo del difetto di motivazione può essere sottoposto al vaglio del giudice amministrativo.

Con riguardo alla vicenda in esame, il collegio si è direttamente pronunciato nel merito degli appelli, accogliendoli, in specie annullando gli atti del Ministero per carenza di motivazione, con particolare riferimento alla possibile violazione del principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, la questione è partita da sei richieste dell’India di notificazione delle citazioni a giudizio ai vertici di una società per rispondere dei reati di corruzione e riciclaggio in pubbliche forniture al Governo straniero. I vertici della società, per i medesimi fatti, erano stati già processati in Italia e assolti in via definitiva. Il Consiglio di Stato ha annullato gli atti del Ministero di accoglimento delle richieste del Governo indiano, affermando che il Ministero non aveva motivato in ordine alle ragioni per cui non aveva esercitato il proprio potere di “blocco”.

L’Adunanza Plenaria evidenziava che, il Ministero esercita un potere discrezionale, in forza del quale è tenuto a valutare tutti i profili presi in considerazione dall’art. 723 c.p.p.”. Pertanto, la motivazione deve essere contenuta nell’atto di accoglimento della richiesta formulata dallo Stato estero o va desunta per relationem da un precedente atto infra-procedimentale.

Nel caso specifico, invece, non si è preso in considerazione il precedente “giudicato assolutorio” con il rischio concreto che “le medesime persone, già assolte, verrebbero nuovamente sottoposte ad un giudizio per i medesimi fatti, davanti all’autorità giudiziaria penale estera”, così ponendo in discussione la sovranità statale.

Nella medesima direzione va anche la possibile violazione della necessità della “doppia incriminazione”, con riguardo all’imputazione di riciclaggio formulata dall’autorità indiana, perché rivolta ai concorrenti nel reato di corruzione presupposta, in violazione dell’incompatibilità sancita invece da diritto penale interno (art. 648bis c.p.).

Tutte questioni sulle quali non si riscontra nei provvedimenti impugnati alcuna presa di posizione sul piano motivazionale.

Ciò premesso, per i Giudici va affermato che: “Il difetto di motivazione esplicita degli atti con cui è stato dato seguito alle richieste di assistenza giudiziaria internazionale è sindacabile, sotto il profilo del difetto di motivazione, poiché come nel caso di specie, si è in presenza di un provvedimento discrezionale, che va adeguatamente motivato”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 1° giugno 2022, n. 4487;
Cons. Stato, sez. VII, 16 marzo 2022, n. 1889;
Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2021, n. 5727;
Cons. Stato, sez. IV, 21 febbraio 2020, n. 1341;
Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2020, n. 1180
giurista risponde

Limite di età borse di studio Cassazionisti È legittima la scelta dell’Amministrazione di apporre un limite di età (fino al 45° anno di età) nel bando del CNF per l’erogazione delle borse di studio per l’acquisizione del titolo di cassazionista?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, lo precisa il Cons. Stato, sez. I, 21 dicembre 2022, n. 2057.

Il Consiglio di Stato ricorda che “tale limite d’età risponde alla ratio di “sostenere” e non “favorire” i giovani professionisti, vale a dire coloro che iniziano la professione” e che, pertanto, in considerazione della loro età anagrafica possono riscontrare maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro.

Ne discende la rispondenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza di tale scelta che non sarebbe altrettanto ragionevole e proporzionata se dovesse utilizzare, per definire il giovane professionista, non l’età anagrafica ma l’età professionale, intesa – quest’ultima – quale lasso temporale dall’inizio della professione.

In proposito, l’art. 6 della direttiva 2000/78 prevede che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione là dove siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro e di formazione professionale con i relativi mezzi per il conseguimento necessario di tale finalità.

Ciò posto, occorre evidenziare che la fissazione del requisito risponde ad una logica che permea il Regolamento per l’erogazione dell’assistenza della Cassa di Previdenza e Assistenza, che mira a sostenere per i giovani professionisti l’avvio dell’attività.

In conclusione, la scelta operata dall’Amministrazione rientra nel margine di valutazione discrezionale di cui dispongono gli Stati membri nella scelta degli obiettivi di politica sociale da perseguire.

giurista risponde

Impugnazione delibera ANAC È impugnabile la delibera non vincolante dell’ANAC?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Le delibere ANAC possono essere impugnate qualora il provvedimento possa risultare lesivo, incidendo in concreto sulla sfera giuridica dei destinatari e arrecando, quindi, un vulnus diretto ed immediato. – Cons. Stato, sez. V, 22 dicembre 2022, n. 11200.

In senso generale, ai fini dell’impugnabilità di un provvedimento amministrativo, occorre valutare in concreto l’effetto che arreca nella sfera giuridica del destinatario e in che modo tale effetto possa arrecare pregiudizio alle posizioni giuridiche soggettive da quest’ultimo vantate.

I Giudici ricordano che, ai sensi dell’art. 213 del D.Lgs. 50/2016, l’ANAC: […] Garantisce la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto […] nell’ambito dei poteri ad essa attribuiti, l’Autorità: a) vigila sui contratti pubblici, anche di interesse regionale, di lavori, servizi e forniture nei settori ordinari e nei settori speciali e sui contratti secretati o che esigono particolari misure di sicurezza ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. f-bis), della L. 6 novembre 2012, n.190, nonché sui contratti esclusi dall’ambito di applicazione del codice; b) vigila affinché sia garantita l’economicità dell’esecuzione dei contratti pubblici e accerta che dalla stessa non derivi pregiudizio per il pubblico erario […]”.

L’attività di vigilanza si sostanzia in una funzione di controllo sulla condotta delle amministrazioni e degli operatori, dunque, sulla regolarità della procedura di gara, sulla fase di esecuzione della commessa e sulla stipula dei protocolli d’intesa con le stazioni appaltanti.

La vicenda all’attenzione del Consiglio di Stato attiene ad un provvedimento che rilevava disfunzioni e irregolarità nell’esecuzione dell’appalto e che conseguentemente invitava l’amministrazione e l’operatore a comunicare le misure da adottare.

Nel caso specifico, la Delibera resa ai sensi dell’art. 213 del D.Lgs. 50/2016, contiene un evidente obbligo conformativo. L’ANAC ha reso una valutazione globale che ha investito l’intera procedura di gara, non limitandosi alla valutazione delle varianti, invitando stazione appaltante e operatore economico a conformarsi nella successiva attività alle modalità operative indicate, e contestualmente chiedendo di essere informato sulle azioni intraprese per l’allineamento con i rilievi espressi, nella sostanza, rappresentando un vincolo alle scelte che la pubblica amministrazione avrebbe inteso operare.

Orbene, la delibera risulta certamente suscettibile di ricorso.

Secondo il Consiglio di Stato: “L’impugnabilità di una delibera non vincolante dell’ANAC non è da escludersi in senso assoluto, atteso che tale provvedimento potrebbe assumere connotazione lesiva tutte le volte in cui, riferendosi alla fattispecie concreta, di fatto incide sulla sfera giuridica dei destinatari, essendo idonea ad arrecare un vulnus diretto ed immediato. Ne consegue che, la sua lesività non va valutata in astratto o sulla base dell’inquadramento dogmatico del provvedimento, dovendosi rilevare gli effetti conformativi che lo stesso produce, nell’immediato, nei confronti dei soggetti a cui è indirizzata”.

Sulla scorta di tanto, se le indicazioni dell’Autorità, nell’ambito del potere di vigilanza e controllo, assumono il ruolo di canoni oggettivi a cui conformarsi, determinano un effetto immediatamente lesivo nella sfera giuridica del destinatario e, pertanto, sono impugnabili: in sostanza, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario ai sensi dell’art. 24 della Costituzione.

Inoltre, il ricorso è stato accolto anche con riferimento al superamento del termine di conclusione della delibera, secondo i criteri temporali individuati dal Regolamento dell’ANAC, che ne ha di fatto determinato l’illegittimità.

Non può applicarsi ai procedimenti che conducono all’adozione di provvedimenti lesivi o sanzionatori la regola della natura ordinatoria dei termini procedimentali non espressamente qualificati come perentori. A prescindere da un’espressa qualificazione normativa dei relativi provvedimenti, nei procedimenti che conducono a conseguenze pregiudizievoli, i termini sono sempre perentori, essendo la perentorietà imposta dal principio di effettività del diritto di difesa e dal principio di certezza dei rapporti giuridici.

Ad ogni modo, secondo i Giudici, l’esercizio di una potestà amministrativa che ha conseguenze pregiudizievoli, di qualsiasi natura, e a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che la preveda, non può restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta.

Si conclude, pertanto che, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 19 agosto, 2020, n. 5097;
Cons. Stato, sez. VI, 11 marzo 2019, n. 1622;
Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 2019, n. 2572
giurista risponde

Periodi di riposo al padre lavoratore dipendente Sono riconosciuti i periodi di riposo, ai sensi degli artt. 39 e 40 del D.Lgs. 151/2001, al padre lavoratore dipendente (del minore di anni uno) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 28 dicembre 2022, n. 17.  

I Giudici ricordano che: “I periodi di riposo di cui all’art. 39 del D.Lgs. 151/2001 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionale tutelato dalla funzione genitoriale, cui si riconnettono: 

  •  sia le responsabilità di entrambi i genitori nei confronti del figlio (naturale o adottivo), e dunque il diritto dei medesimi ad ottenere dall’ordinamento il riconoscimento delle migliori condizioni possibili onde assolvere ad una funzione non solo individuale, ma anche socialmente fondamentale;
  • sia, specularmente, il diritto del figlio ad ottenere, per il tramite dell’assistenza dei genitori, ottimali condizioni di crescita e di sviluppo della sua età evolutiva”.

Ed invero, l’esercizio della funzione genitoriale tende sia alla piena realizzazione dei diritti del bambino ad ottenere la migliore assistenza da parte dei genitori sia a costituire espressione del diritto “proprio” di ciascuno dei genitori, quale espressione della loro personalità, ad accompagnare la crescita del figlio.

Occorre, dunque, prendere le mosse dell’art. 40 del D.Lgs. 151/2001, che prevede la fruizione dei riposi orari del padre lavoratore nei casi: a) in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in cui la madre lavoratrice non se ne avvalga; c) in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) di morte o di grave infermità della madre.

La giurisprudenza si è interrogata se il diritto ai riposi orari spettasse anche nel caso in cui la madre fosse una casalinga; dunque, se potesse rientrare nel novero di “madre non lavoratrice dipendente”.

Sul punto vi sono stati diversi indirizzi interpretativi.

Secondo un primo indirizzo positivo, con “madre lavoratrice dipendente” si ricomprendono tutte le ipotesi in cui non esiste un rapporto di lavoro dipendente, dunque sia il caso della lavoratrice autonoma sia il caso della donna che non svolga alcun lavoro nonché il caso della donna che svolga un’attività non retribuita (come appunto la casalinga).

Orbene, la ratio della disposizione si individuava nel principio della paritetica partecipazione di entrambi i genitori alla cura e all’educazione della prole, così come enunciato nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.

Per quanto attiene all’orientamento negativo, il principio di alternatività nella cura del minore andrebbe escluso in termini assoluti e non sarebbe possibile ricondurre la casalinga alla condizione di non lavoratrice dipendente. Interpretazione che si fonda sulla ricerca del necessario equilibrio tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli e le specifiche esigenze del datore di lavoro.

Si è poi affermato un indirizzo intermedio, secondo il quale il padre ha diritto ai permessi solo nel caso in cui dimostri che la moglie casalinga è impossibilitata ad assicurare le necessarie cure al bambino.

Tale contrasto interpretativo induceva la Seconda Sezione del Consiglio di Stato a deferire la questione all’Adunanza Plenaria, che osservava come: “i periodi di riposo di cui all’art. 39 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionalmente tutelato della funzione genitoriale”.

Escludere il diritto del padre alla fruizione dei riposi in caso di presenza nel nucleo familiare della madre casalinga, comporterebbe un’irragionevole privazione del diritto del padre lavoratore dipendente, non giustificata dal testo della norma che nella sua chiarezza non consente interpretazioni riduttive.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio di diritto secondo cui: «L’art. 40, comma 1, lett. c), D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente art. 39 sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti; e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità».

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. lav., 28 novembre 2019, n. 31137;
Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2014, n. 4618;
Cass., civ., sez. III, 20 luglio 2010, n. 16896; Id., 24 agosto 2007, n. 17977;
Id., 20 ottobre 2005, n. 20324
Difformi:      Cons. Stato, sez. II, 4 marzo 2021, n. 1851;
Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2017, n. 499;
Cons. Stato, sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732
ricorso per ottemperanza

Ricorso per ottemperanza Il ricorso per ottemperanza consente di dare esecuzione alle sentenze emanate dai giudici  amministrativi, qualora la P.A. non adempia in modo spontaneo

Ricorso per ottemperanza: definizione

Il ricorso per ottemperanza è l’atto con cui si chiede che venga data attuazione a diversi provvedimenti del giudice amministrativo. Dal punto di vista disciplinare il giudizio di ottemperanza è regolato dagli articoli 112, 113 e 114 del decreto legislativo n. 104/2010, che ha dato attuazione all’articolo 44 della legge n. 69/2009, contenente la delega al Governo per riordinare il processo amministrativo.

Quando si deve proporre l’azione di ottemperanza

Il citato art. 112 del dlgs. n. 104/2010 contiene le disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza. Il primo comma dispone che i provvedimenti emessi dal giudice amministrativo debbano essere poi eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle parti.

Per ottenere questo risultato è necessario proporre l’azione di ottemperanza. Essa consente nello specifico di conseguire l’attuazione di questi provvedimenti:

  1. le sentenze del giudice amministrativo che sono già passate in giudicato;
  2. le sentenze e i provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;
  3. le sentenze e i provvedimenti equiparati, passati in giudicato, del giudice ordinario per fare in modo che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico deciso;
  4. le sentenze passate in giudicato e i provvedimenti equiparati per le quali non è previsto il giudizio di ottemperanza, affinché la pubblica amministrazione si conformi alla decisione;
  5. i lodi arbitrali esecutivi che non sono impugnabili, per ottenere che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico.

Il terzo comma dell’art. 112, modificato dal decreto legislativo n. 195/2011, prevede poi che davanti al giudice dell’ottemperanza si possa anche proporre, in un unico grado:

  • l’azione per la condanna al pagamento di somme dovute a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza;
  • l’azione per il risarcimento dei danni collegati all’impossibilità o alla mancata esecuzione in forma specifica, sia essa totale o parziale, del giudicato, alla sua elusione o alla sua violazione.

L’ultimo comma della norma stabilisce infine che il ricorso si possa proporre anche per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza.

Competenza del giudice nel giudizio di ottemperanza

L’articolo 113 contiene le regole sulla competenza del giudizio di ottemperanza.

Il primo comma prevede infatti che il ricorso per il giudizio di ottemperanza nei casi sopra indicati dalle lettere a e b, debba essere proposto allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento da ottemperare.

Il TAR è competente anche quando i suoi provvedimenti vengono confermati in appello nel caso in cui la motivazione abbia lo stesso contenuto conformativo e dispositivo dei provvedimenti emanati in primo grado.

Nei casi descritti dalle lettere c), d), ed e) dell’articolo 112 il ricorso per ottemperanza si deve proporre al TAR nella cui circoscrizione si trova il giudice che ha emanato la sentenza che deve essere ottemperata.

Il procedimento del giudizio di ottemperanza

L’articolo 114 della legge n. 104/2010 disciplina infine  le varie fasi del giudizio di ottemperanza.

Occorre però precisare che l’azione è soggetta al termine di prescrizione di 10 anni, che decorrono dal passaggio in giudicato della sentenza.

Ricorso: deposito e notifica

Per avviare il giudizio di ottemperanza il ricorso deve essere notificato sia alla pubblica amministrazione che a tutte le parti del giudizio che è stato definito con la sentenza o con il lodo che si vuole vengano ottemperati. Insieme al ricorso deve essere depositato, in copia autentica, il provvedimento che si desidera venga ottemperato e la prova eventuale del suo passaggio in giudicato.

Il giudice, al termine del procedimento, decide con sentenza in forma semplificata.

Accoglimento del ricorso

Qualora il ricorso venga accolto, il giudice ordina che la sentenza o il provvedimento venga ottemperato, dando le opportune indicazioni sulle modalità dell’ottemperanza. Il giudice può anche determinare il contenuto del provvedimento amministrativo che dovrebbe emanare la pubblica amministrazione o emanarlo al suo posto. Può inoltre dichiarare nulli eventuali atti che hanno violato il giudicato.

Qualora l’ottemperanza riguardi sentenze non ancora passate in giudicato o altri provvedimenti allora il giudice determina le modalità in cui devono avere esecuzione, considerando inefficaci gli atti che sono stati emessi violando o eludendo le disposizioni e provvede senza trascurare gli effetti che ne conseguono.

Il giudice, su richiesta di parte, può anche stabilire a carico del resistente una somma di denaro determinata per ogni violazione, inosservanza o ritardo nel dare esecuzione al giudicato. Questa decisione però può essere assunta dal giudice solo se non risulti manifestamente iniqua o non rilevi ostacoli.

In caso di necessità nomina poi un commissario ad acta e in questo caso il giudice conosce tutte le questioni che riguardano l’ottemperanza comprese le questioni relative agli atti del commissario.

Se poi il ricorso è stato proposto per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza, allora il giudice fornisce questi chiarimenti, anche se richiesti dal commissario ad acta.

Le regole sul procedimento di ottemperanza si applicano anche quando i provvedimenti giuridici che vengono adottati dal giudice dell’ottemperanza vengono impugnati.