saluto romano

Saluto romano: quali fattispecie di reato La condotta consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ eseguendo il “saluto romano” per le Sezioni Unite della Cassazione può integrare diverse fattispecie delittuose

“La chiamata del presente” durante una manifestazione pubblica

Il caso che ci occupa prende avvio dai fatti avvenuti durante una manifestazione pubblica del 29.04.2016 a Milano, alla quale avevano partecipato oltre mille persone, in occasione della quale gli imputati avevano risposto alla chiamata del “presente”, eseguendo il “saluto fascista”, anche noto come “saluto romano”.

Rispetto ai fatti appena narrati, la Corte d’appello di Milano aveva condannato gli imputati, rilevando come la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di primo grado, non riguardava l’ipotesi di reato oggetto di contestazione processuale, ma la diversa fattispecie di cui all’art. 5 legge n. 645/1952.

Avverso la suddetta sentenza di condanna gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

L’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione

Il Giudice di legittimità, investito della questione sopra descritta, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite visto il rilevante contrasto interpretativo riscontrato sul punto in seno alla Corte stessa.

A tal proposito, la Corte ha affermato che, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, che ritiene il “saluto fascista” sussumibile nella fattispecie dell’art. 2 d.l. n. 122 del 1993, tale manifestazione esteriore costituisce una rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi che perseguono obiettivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa, essendo costituiti per favorire la diffusione di ideologie discriminatorie. Mentre, secondo un diverso orientamento giurisprudenziale il “saluto fascista” sarebbe riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 5 della legge n. 645 del 1952 e postula che tali condotte siano idonee a determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni che si ispirano, direttamente o indirettamente, all’ideologia del disciolto partito fascista.

Nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la Prima sezione penale della Corte di Cassazione ha posto il seguente quesito “Se la condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel ‘saluto romano’, rituali evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, sia sussumibile nella fattispecie di reato di cui all’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122 (…), ovvero in quella prevista dall’art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645; “Se, inoltre, le due disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se i due reati possano concorrere oppure le relative norme incriminatrici siano tra loro in rapporto di concorso apparente”.

Il concreto pericolo di riorganizzazione del partito fascista

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 16153/2024, ha risposto al suddetto quesito interpretativo e, posto il generale principio di diritto sul punto, ha qualificato il fatto ai sensi dell’art. 5 della legge n. 654 del 1952.

La Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa nonché il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ha anzitutto evidenziato che “Non può esservi dubbio (…) che entrambe le norme coincidano quanto alla condotta materiale che, in entrambi i casi, consiste nel compimento di manifestazioni tenute partecipando a pubbliche riunioni, solo distinguendosi in virtù del diverso contenuto delle stesse”, nonché, ha aggiunto la Corte, anche in relazione al diverso bene giuridico tutelato dalle due norme.

In tal senso, ha rilevato il Giudice di legittimità, l’art. 5 della legge n. 645 del 1952 tutela non tanto il “mero “ordine pubblico materiale” (…), ma, in una visione di ben più ampio respiro, la stessa tavola dei valori costituzionali e democratici fondativi della Repubblica, efficacemente riassumibili nel bene dell’”ordine pubblico democratico o costituzionale”, posto in pericolo, a fronte dell’elemento modale- spaziale indicato dalla norma, da possibili consenso o reazioni a tali manifestazioni atti a turbare, anche ma non solo, la civile convivenza”.

Per quanto invece attiene al bene giuridico tutelato dall’art. 2 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, la Corte ha rilevato come esso consista nel contrasto alla “diffusione delle idee discriminatorie o di atti di violenza per ragioni (…) razziali, etniche, nazionali o religiose”.

Posta così la distinzione tra le due norme, la Corte ha esaminato il tema del rapporto di specialità tra fattispecie delittuose, affermando che nel caso di specie “è lo stesso raffronto tra le due disposizioni (…), a rilevare l’impossibilità di affermare che una delle due norme sia unilateralmente speciale rispetto all’altra. Al nucleo comune di “manifestazioni tenute in pubbliche riunioni”, si aggiunge, in ognuna di esse, l’elemento differenziale del loro contenuto”.

Esclusa dunque la sussistenza di un rapporto di specialità tra le norme sopra richiamate, la Corte ha rilevato che “il rituale del saluto romano possa integrare non solo il reato di cui all’art. 5 legge cit., bensì anche quello dell’art. 2 legge cit., ove di entrambe le fattispecie, naturalmente, ricorrano i rispettivi e differenti requisiti di pericolo”.

Il principio di diritto

Premesso quanto sopra, la Corte a Sezioni Unite ha dunque risposto al quesito affermando il seguente principio di diritto: “La condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel c.d. ‘saluto romano’ integra il delitto previsto dall’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, sia idonea ad integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. e fin. della Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)”.

monte orario tariffe avvocato

Avvocato: senza accordo sul monte orario si ricorre alle tariffe La mancata dimostrazione del monte orario per lo svolgimento dell’incarico professionale non impedisce al giudice di ricorrere alle tariffe per la determinazione del compenso

Monte orario in mancanza di patto

Il contenzioso sul quale la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi, con ordinanza n. 3492-2024, ha avuto ad oggetto, in mancanza di un accordo sul del monte orario, la determinazione del compenso professionale spettante ad un’associazione di avvocati nei confronti dell’attività dalla stessa svolta in favore del proprio cliente.

Avverso la decisione adottata dalla Corte di Appello di Milano, con cui l’associazione di professionisti era stata condannata alla restituzione di quanto versato dal proprio cliente, la parte soccombente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, contestando il fatto che i giudici del merito avessero ritenuto, rispetto al caso di specie, di non poter dare applicazione alle tariffe professionali ai fini della quantificazione del compenso.

Sul punto, la ricorrente ha in particolare affermato che il giudice è “tenuto a determinare il compenso con criterio equitativo, indipendentemente dalla specifica richiesta del professionista e dalla carenza delle risultanze processuali sul quantum”.

Criterio pattizio: mero criterio di quantificazione del compenso

La Suprema Corte, con la sopracitata sentenza, ha accolto il ricorso proposto dall’associazione, ritenendolo fondato.

La Corte ha motivato la propria decisione facendo riferimento alla recente giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo cui, in tema di compensi professionali, la norma architrave, data dall’art. 2233 cod. civ “a tenore della quale il compenso dovuto per la prestazione d’opera intellettuale, se non è convenuto dalle parti e se non può essere stabilito secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene, pone una gerarchia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso”. Medesimi criteri valgono per il caso in cui il professionista svolga attività stragiudiziale.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, ha evidenziato la Corte “la mancata dimostrazione del monte orario occorso per lo svolgimento dell’incarico impedisce esclusivamente l’applicazione del parametro pattizio, il quale costituisce mero criterio di quantificazione del compenso non incidente sull’an del credito, ma non inibisce al giudice il potere di ricorrere al criterio residuale delle tariffe”.

Ne consegue, a giudizio della Suprema Corte, che i giudici del merito hanno errato nel ritenere che il compenso del professionista potesse essere quantificato esclusivamente facendo ricorso alle tariffe orarie, omettendo di liquidare gli onorari spettanti in ragione della mancata dimostrazione di tale presupposto.

Sulla scorta di tali argomentazioni, il Giudice di legittimità ha pertanto ritenuto fondato il motivo posto a fondamento del ricorso e ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano.

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gps auto ex moglie

Marito installa gps nell’auto dell’ex: non è lesa la sua vita privata L’auto, in quanto spazio destinato al trasporto dell’uomo o di oggetti, non è luogo di privata dimora, per cui non può ritenersi configurato il reato ex art. 615- bis c.p.

Installazione di un gps nell’auto dell’ex moglie

La vicenda in esame vede protagonista un uomo che aveva installato nell’auto dell’ex moglie un gps, dotato di microfono, per procurarsi notizie attinenti alla vita privata della stessa. Tale apparecchio consentiva all’ex marito di ascoltare le conversazioni intervenute all’interno del veicolo.

Rispetto a tali eventi, il Tribunale di Taranto aveva condannato l’ex marito alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 615-bis c.p., oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile. Tale decisione veniva poi riformata nel secondo grado di giudizio, nell’ambito del quale la Corte distrettuale aveva assolto l’imputato perché il fatto non sussiste.

Avverso la decisione del Giudice di seconde cure, l’ex moglie aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione.

Concetto di privata dimora

La ricorrente, con un unico motivo d’impugnazione, ha dedotto il vizio di erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 615-bis c.p. Invero, la moglie ha sostenuto che “la giurisprudenza più recente avrebbe recepito una nozione più ampia del concetto di privata dimora e, con specifico riferimento al reato di cui all’art. 615-bis cod. pen., avrebbe espressamente ritenuto rilevante, al fine della configurazione del reato, l’installazione di una microspia all’interno di un’automobile. Nel caso in esame, l’autovettura della persona offesa andrebbe sicuramente ritenuta quale luogo di privata dimora, atteso che all’interno di essa la vittima intratteneva colloqui non solo personali, ma anche di carattere professionale, legati all’attività, di avvocato svolta dalla medesima”.

La Corte di cassazione, investita della suddetta questione, con sentenza n. 3446-2024, ha rigettato il ricorso, ritenendo il motivo proposto dalla ricorrente non fondato.

Sul punto, la Corte ha ritenuto che “L’abitacolo di un’autovettura, in quanto spazio destinato naturalmente al trasporto dell’uomo o al trasferimento di oggetti da un posto all’altro e non ad abitazione, non può essere considerato luogo di privata dimora, salvo che, a differenza di quanto dedotto nel caso in esame (…) esso, sin dall’origine, sia strutturato (…) come tale, o sia destinato, in difformità dalla sua naturale funzione, ad uso di privata abitazione”.

Il Giudice di legittimità ha proseguito, ricordando che, in un caso analogo a quello oggetto del ricorso in esame, la Corte stessa aveva già affermato che “non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) la condotta di colui che installi nell’auto di un soggetto (nella specie ex fidanzata) un telefono cellulaere (…) in modo da consentire la ripresa sonora di quanto accade nella predetta auto, in quanto, oggetto della tutela di cui all’art. 615-bis cod. pen. è la riservatezza della persona in rapporto ai luoghi indicati nell’art. 614 cod. pen. (…) tra i quali non rientra l’autovettura che si trovi in pubblica via”.

Sulla scorta di quanto sopra rappresentato, la Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto dalla moglie.

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assegno di divorzio

Assegno di divorzio: si conta anche la convivenza Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che la convivenza prematrimoniale deve essere presa in considerazione nella determinazione dell'assegno divorzile

Convivenza prematrimoniale nell’assegno divorzile

La convivenza prematrimoniale che ha «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio, deve necessariamente essere presa in considerazione nella determinazione dell’assegno divorzile. Così, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 35385-2023, ha accolto il gravame proposto dalla ricorrente in relazione al computo della convivenza prematrimoniale ai fini della determinazione dell’assegno divorzile.

I criteri di determinazione dell’assegno divorzile

A tal proposito, il Giudice di legittimità ha anzitutto compiuto un ampio excursus in ordine ai criteri di determinazione dell’assegno divorzile, ricordando, in particolare, quanto stabilito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la storica sentenza n. 18287/2018 con cui era stata superata la distinzione tra “criterio attributivo e criteri determinativo dell’assegno di divorzio, essendosi affermato che il giudice deve accertare l’adeguatezza dei mezzi (…) alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”. La suddetta sentenza, inoltre, aveva introdotto il principio di autoresponsabilità nell’ambito del rapporto coniugale e durante tutta la sua durata, dunque anche nella fase patologica.

La rilevanza della convivenza prematrimoniale

Posto quanto sopra, la Corte è poi passata all’esame del caso di specie, riguardante le contestazioni avanzate da un’ex moglie in ordine alla mancata valutazione, da parte del Giudice di merito, del contributo economico e personale dalla stessa fornito durante la fase prematrimoniale. La ricorrente ha in particolare messo in rilievo come, già durante detto periodo, i futuri coniugi avevano compiuto scelte comuni di organizzazione della vita familiare e di riparto dei rispettivi ruoli.

Rispetto a tale doglianza, le Sezioni Unite hanno ricordato che nel nostro ordinamento sussiste indubbiamente “una differenza (..) tra matrimonio e convivenza, (..) dato che il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli c.d. «istituzionali», mentre la convivenza di fatto, al contrario, è un modello «familiare non a struttura istituzionale». Tuttavia, convivenza e matrimonio sono comunque modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto”.

Ciò posto, la Corte ha messo in luce come, considerata la crescente diffusione sociale del fenomeno della convivenza, la convivenza prematrimoniale, laddove protrattasi nel tempo ed abbia «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio che dovesse seguire, deve necessariamente essere presa in considerazione anche nella fase patologica del rapporto coniugale e dunque anche ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, tenendo conto dei criteri stabiliti dalle Sezioni Unite nel 2018.

Concluso l’esame sulla questione di massima importanza sopra riassunta, il Giudice di legittimità ha enunciato il seguente principio di diritto “Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio”.

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incentivo all'esodo

Incentivo all’esodo: non va nell’assegno di divorzio La Cassazione spiega che l'indennità di incentivo all'esodo, con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, non è assimilata all'indennità di fine rapporto e non è computata nella determinazione dell'assegno divorzile

Spettanze di fine rapporto e assegno divorzile

Nel caso in esame il titolare di assegno divorzile aveva domandato al Giudice di merito la corresponsione di quanto percepito dall’ex coniuge in ragione della cessazione del suo rapporto di lavoro.

All’ex moglie veniva riconosciuta in primo grado una quota del trattamento di fine rapporto percepito dall’ex coniuge. Il Giudice di secondo grado aveva confermato la spettanza di fine rapporto in favore dell’ex moglie ed aveva altresì escluso la richiesta formulata dalla stessa in ordine alla percezione dell’incentivo all’esodo.

A tal ultimo proposito, la Corte di appello di Milano aveva ritenuto doversi escludere che l’incentivo all’esodo rientrasse nell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 12-bis legge n. 898 del 1970, in quanto altrimenti si sarebbe finito con l'”attribuire all’ex coniuge una quota di retribuzioni future, non accumulate durante il matrimonio, non collegate quindi alla durata del matrimonio secondo la previsione letterale della norma”.

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione da parte dell’ex moglie.

Contrasto interpretativo sull’incentivo all’esodo nell’assegno divorzile

Con sentenza n. 6229-2024, le Sezioni Unite della Cassazione hanno rigettato il ricorso principale proposto e compensato le spese di lite.

La Cassazione, chiamata a pronunciarsi, per quanto qui rileva, in ordine alla spettanza o meno dell’incentivo all’esodo all’ex coniuge titolare di assegno divorzile, ha anzitutto dato conto del contrasto interpretativo insorto in ordine alla spettanza dell’ex coniuge all’incentivo all’esodo e delineato nell’ordinanza interlocutoria. A tal riguardo, un primo orientamento sostiene che “le somme corrisposte a (..) titolo (d’incentivo all’esodo) non avrebbero natura liberale né eccezionale, costituendo, piuttosto, reddito di lavoro dipendente (..)”, mentre un contrapposto orientamento ritiene che “l’indennità di cui è menzione nell’art. 12-bis riguarda unicamente quell’indennità, comunque denominata, che, maturando alla cessazione del rapporto di lavoro, è determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore: connotazione ― questa ― non presente nell’incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza”.

Posto il suddetto contrasto interpretativo, in relazione al quale è stato ritenuto necessario l’intervento delle Sezioni Unite, la Corte ha poi ripercorso la natura e la funzione assistenziale e perequativo-compensativa dell’assegno divorzile, così come delineata dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 11 luglio 2018, n. 18287.

Spettanza dell’incentivo all’esodo all’ex coniuge

In ragione della natura e della funzione dell’assegno divorzile, la Cassazione ha evidenziato come la “ratio dell’art. 12-bis della l. n. 898 del 1970 debba individuarsi nel «fine di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’assegno di divorzio, ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune»”.

In relazione all’incentivo all’esodo, la Corte ha rilevato come esso sia estraneo al concetto d’indennità di fine rapporto, invero, ha osservato la Corte, tale indennità “non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la conseguente necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che ha diritto alla percezione dell’assegno di divorzio: l’esigenza di assicurare, in chiave assistenziale e perequativo-compensativa, una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio qui non ricorre, proprio in quanto non si è in presenza di proventi accantonati nel corso della vita coniugale e divenuti esigibili al cessare del rapporto lavorativo; si è piuttosto al cospetto di un’attribuzione patrimoniale discendente da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore per il prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro (…). In definitiva, la spettanza, al coniuge divorziato, della quota del 40% dell’indennità in questione non ha mai modo di configurarsi”.

Sulla scorta delle suddette ragioni, la Corte di Cassazione ha dunque respinto il ricorso principale.

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lavoro part-time

Lavoro part-time: la discriminazione penalizza le donne In tema di discriminazione del lavoro a tempo parziale, la Cassazione non condivide l’interpretazione secondo cui vi sia automatismo tra riduzione orario di lavoro e dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche

Impiego part-time e progressione di carriera

Nella causa promossa da una lavoratrice part- time è stato esaminato l’impatto del lavoro con orario ridotto rispetto a possibili progressioni di carriera. In particolare, l’impiegata aveva lamentato che, essendo ella all’epoca della selezione interna, impiegata con un contratto part-time, nella valutazione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione economica le era stato attribuito un punteggio ridotto in proporzione al minor numero di ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi con pari anzianità ma impiegati a tempo pieno.

La circostanza sopra rappresentata, a detta della ricorrente, l’aveva sfavorita rispetto al collega controinteressato che l’impiegata aveva intimano nel contenzioso in esame.

Avverso la decisione del Giudice di secondo grado, la parte datoriale aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La discriminazione del lavoro a tempo parziale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. Cass-4313-2024, ha rigettato il ricorso proposto dalla datrice di lavoro, condannando la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La Suprema Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha affrontato il tema della discriminazione del lavoro a tempo parziale.

A tal proposito, il Giudice di legittimità ha ritenuto di non condividere “l’affermazione della ricorrente secondo cui la ridotta valutazione di tale tipo di lavoro nel computo dell’anzianità di servizio rilevante ai fini della progressione economica sarebbe imposta dallo stesso art. 4 del d.lgs. n. 61 del 2000”. Invero, ha proseguito la Corte “quella disposizione riguarda soltanto la retribuzione del lavoratore a tempo parziale, che ovviamente non può essere uguale, ma deve essere proporzionata, a quella a tempo pieno” e non anche l’anzianità di servizio ai fini della progressione di carriera.

Poste le suddette premesse, la Corte ha dunque espressamente affermato che nessun automatismo può esservi tra la riduzione dell’orario lavorativo e la riduzione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione di carriera.

Pertanto ciò che occorre verificare è se “in base alle circostanze del caso concreto (…), il rapporto proporzionale tra anzianità riconosciuta e ore di presenza al lavoro abbia un fondamento razionale oppure non rappresenti, piuttosto, una discriminazione in danno del lavoratore a tempo parziale”.

La discriminazione indiretta di genere

La Corte d’appello aveva altresì accolto la contestazione della lavoratrice che aveva messo in rilievo come la suddetta discriminazione connessa al lavoro part-time andava essenzialmente a ledere le donne, così determinando una discriminazione indiretta di genere.

Anche tale aspetto ha formato oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto la censura non fondata. Posta l’infondatezza del motivo di ricorso, la Corte ha comunque dedicato una parte della propria decisione al fenomeno della discriminazione indiretta di genere nella vicenda in esame.

Nel caso sottoposto al vaglio di legittimità, il Giudice di merito, svolta una valutazione statistica in ordine all’elevato numero di donne impiegate presso la parte datoriale e alla maggiore frequenza tra le stesse della scelta del tempo parziale rispetto ai colleghi uomini, aveva concluso che “svalutare il part-time ai fini delle progressioni economiche orizzontali (..) significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini”. Invero, la preponderante scelta da parte delle donne del lavoro a tempo parziale è da ritenersi connessa, secondo il giudice, al “notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impiego in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part-time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”.

 

 

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compensi domiciliatario

L’avvocato ha l’obbligo di pagare i compensi al domiciliatario Il CNF ribadisce che l’avvocato che ha incaricato un collega di esercitare le funzioni di rappresentanza ed assistenza ha l’obbligo di retribuirlo a norma dell’art. 30 del Codice deontologico

Procedimento disciplinare

Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio Nazionale Forense, dallo stesso deciso con sentenza n. 234/2023 (sotto allegata), era stato avviato un procedimento disciplinare a carico di un avvocato su esposto di un collega che, avendo ricevuto dal primo due incarichi professionali per due procedure esecutive presso terzi, aveva lamentato il mancato pagamento delle proprie competenze.

In particolare, l’avvocato ritenuto inadempiente era stato tratto a giudizio dinanzi al CDD di L’Aquila per rispondere del seguente capo d’incolpazione: “violazioni dell’art. 43 del Codice Deontologico approvato il 31 gennaio 2014 perché pur avendo conferito (…) l’incarico di rappresentanza ed assistenza nel procedimento di pignoramento presso terzi incardinato presso il Tribunale di Monza, ometteva di corrispondere alla stessa il compenso dovuto”.

All’esito dell’istruttoria, il CDD di l’Aquila aveva ritenuto integrata la responsabilità disciplinare dell’incolpato ed applicato la sanzione della censura a carico dello stesso.

Avverso tale decisione, l’avvocato aveva proposto ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.

Obbligo di corrispondere il compenso al domiciliatario

Il CNF, con la sopracitata decisione, ha ritenuto integrata la responsabilità dell’incolpato, confermando gli esito del Consiglio distrettuale di disciplina.

Il Consiglio è poi passato all’esame della giurisprudenza domestica formatasi sul punto, la quale è costante nel ritenere che “L’avvocato che abbia scelto o incaricato direttamente altro collega di esercitare le funzioni di rappresentanza o assistenza, ha l’obbligo di provvedere a retribuirlo, ove non adempia il cliente ex art. 43 ncdf, già art. 30 cdf”.

Sulla scorta di tali premesse, il CNF ha rigettato il ricorso proposto dall’avvocato e ha disatteso la richiesta di attenuazione della sanzione applicata a carico dello stesso, posto che il comportamento dell’avvocato non può apparire in alcun modo giustificato, considerando anche i “molteplici solleciti rimasti inevasi e del decorso di ben tre anni dall’apertura del procedimento disciplinare nonostante il solo dichiarato intento di adempiere”.