ipoteca cos'è

Ipoteca: cos’è e come funziona Breve guida sull’ipoteca: a cosa serve, come si iscrive e a cosa dà diritto. I diritti del terzo acquirente e la liberazione dall’ipoteca

Ipoteca, diritto reale di garanzia

L’ipoteca è un diritto reale di garanzia che conferisce il diritto, al soggetto in cui favore è iscritta, di ottenere l’espropriazione e la vendita del bene ipotecato e di essere soddisfatto sul ricavato con preferenza rispetto agli altri creditori.

Tale garanzia può avere ad oggetto beni immobili, rendite dello Stato o beni mobili registrati, come navi, aeromobili e autoveicoli.

Insieme al pegno (che ha ad oggetto, invece, i beni mobili) e ai privilegi, l’ipoteca è una delle cause di prelazione che fanno venir meno la c.d. par condicio creditorum prevista dall’art. 2741 del codice civile (in base alla quale i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore).

Che cos’è l’ipoteca giudiziale

L’ipoteca può essere di tre tipi: legale, giudiziale e volontaria.

L’ipoteca legale è prevista dall’art. 2817 del codice civile in favore di determinati soggetti (ad esempio in favore dell’alienante nei confronti dell’acquirente, per tutelarlo in caso di mancato pagamento del prezzo).

L’ipoteca giudiziale spetta, invece, a chiunque ottenga un provvedimento favorevole da parte del giudice (ad es.: una sentenza) che obblighi l’altra parte al pagamento di una somma di denaro o all’adempimento di altro tipo di obbligazione. In tal caso, quindi, la sentenza è titolo per l’iscrizione di ipoteca sui beni del debitore, se questi non ottempera a quanto disposto dal giudice.

L’ipoteca volontaria, infine, è concessa spontaneamente, per iscritto con atto pubblico o scrittura privata, con una dichiarazione unilaterale o disposizione contrattuale con cui si individui con precisione l’immobile oggetto di garanzia.

Quanto dura l’ipoteca su un immobile

L’ipoteca si sostanzia in una iscrizione nei registri immobiliari, che ha valore costitutivo: solo con l’iscrizione, cioè, l’ipoteca si perfeziona e il relativo diritto diviene opponibile ai terzi acquirenti del bene.

Per l’iscrizione dell’ipoteca, il richiedente deve presentare il titolo costitutivo (ad esempio, la sentenza) ed una nota di iscrizione, in cui va precisata, tra l’altro, la somma per la quale l’ipoteca viene iscritta.

L’ipoteca ha una durata di venti anni, che decorrono dal momento dell’iscrizione nei pubblici registri; è possibile, peraltro, provvedere al rinnovo dell’ipoteca prima della sua scadenza.

Il grado dell’ipoteca

La preferenza riservata al creditore ipotecario in sede di ripartizione del ricavato della vendita del bene segue un criterio temporale, poiché, come dispone l’art. 2852 c.c. “l’ipoteca prende grado dal momento della sua iscrizione“.

In altre parole, viene soddisfatto per primo chi ha eseguito la prima iscrizione e via via gli altri creditori ipotecari a seguire, in base al proprio grado di iscrizione, sempre che la somma del ricavato sia sufficiente a soddisfarli.

Quando una casa è ipotecata si può vendere?

Il creditore ipotecario ha diritto di ottenere l’espropriazione del bene anche se questo sia stato nel frattempo venduto dal debitore ad un terzo.

Purgazione dell’ipoteca

A norma dell’art. 2858 c.c., il terzo acquirente può scegliere se pagare i creditori, rilasciare l’immobile o liberare i beni dalle ipoteche (c.d. purgazione dell’ipoteca). La liberazione dall’ipoteca si può ottenere notificando ai creditori ipotecari un atto in cui viene indicato il prezzo stabilito per la vendita; se entro quaranta giorni dalla notifica, i creditori non chiedono l’espropriazione del bene (con il fine di ottenere un prezzo più alto), il terzo acquirente ha facoltà di depositare il prezzo indicato, che servirà a soddisfare, eventualmente solo in parte, i creditori. In tal modo, l’acquirente ottiene la cancellazione delle ipoteche iscritte prima della trascrizione del suo titolo di acquisto.

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diritto di ripensamento

Diritto di ripensamento Il diritto di ripensamento consente al consumatore di recedere da un contratto entro quattordici giorni senza costi aggiuntivi

Quando si può esercitare il diritto di ripensamento?

Diritto di ripensamento: quando si può esercitare? Quando si effettua un acquisto online, può capitare che ci si penta quasi subito dell’operazione, vuoi perché ci si rende conto che il prodotto non ci serve davvero, o magari perché si considera il suo prezzo un po’ troppo alto.

Per ovviare a questa spiacevole situazione, la legge ha previsto in favore del consumatore un particolare rimedio: il diritto di ripensamento.

Come annullare un contratto per ripensamento

Il diritto di ripensamento è previsto in favore di chiunque effettui un acquisto fuori dei locali commerciali (ad esempio online, o anche in occasione di una vendita a domicilio) oppure concluda un contratto a distanza (ad esempio per l’attivazione di una fornitura domestica come telefono, luce e gas, oppure per attivare un servizio come una piattaforma a pagamento per la visione di film o eventi sportivi).

Nello specifico, l’art. 52 del Codice del Consumo (d.lgs. 206 del 2005) stabilisce che “il consumatore dispone di un periodo di quattordici giorni per recedere da un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali”.

In sostanza, senza dover fornire alcuna motivazione, chi ha effettuato l’acquisto ha la possibilità di ripensarci entro quattordici giorni dalla conclusione del contratto oppure dalla consegna del bene.

Entro tale termine, l’acquirente deve comunicare alla controparte contrattuale la propria decisione di recedere dal contratto.

Come funziona il diritto di recesso entro 14 giorni

In caso di ripensamento relativo all’acquisto di un prodotto, il consumatore è tenuto alla restituzione a proprie spese del bene.

D’altro canto, il venditore deve provvedere al rimborso integrale di quanto pagato dal consumatore, ivi comprese le spese di spedizione (ma se l’acquirente aveva scelto una modalità di consegna più dispendiosa rispetto a quella solitamente proposta dal venditore, tali maggiori spese rimangono a suo carico).

Disciplina del diritto di ripensamento nel Codice del consumo

La disciplina del diritto di ripensamento a tutela del consumatore prevede anche altre particolari disposizioni, come quella che obbliga il fornitore di servizi ad informare il cliente della possibilità di esercitare il diritto di ripensamento.

In mancanza di tale informativa, al consumatore sono concessi ben dodici mesi in più per esercitare il ripensamento (quindi 12 mesi più quattordici giorni). Nell’arco di tale periodo, il fornitore può, comunque, provvedere a inviare la suddetta informativa: in tal caso, dall’invio “tardivo” decorrono i classici quattordici giorni per l’esercizio del diritto in oggetto.

Per legge, inoltre, è nulla qualsiasi clausola che preveda limitazioni al rimborso in favore del consumatore se questi esercita il diritto di ripensamento (cfr. art. 56 primo comma del Codice del consumo).

È importante ricordare che, in base all’art. 47 comma secondo del Codice, la disciplina sul ripensamento si applica solo per acquisti fuori dei locali commerciali il cui corrispettivo pagato dal consumatore sia pari o superiore a 50 euro.

Ripensamento e acquisti all’interno di negozi “fisici”

Va evidenziato, pertanto, come il diritto di ripensamento non operi per gli acquisti effettuati in negozio, cioè all’interno dei locali commerciali del venditore.

In tal caso, quest’ultimo rimane libero di non venire incontro al ripensamento da parte dell’acquirente e pertanto non è tenuto ad accettare la restituzione del bene né, tanto meno, a rimborsargli quanto speso. Nulla vieta, peraltro, al venditore di prevedere facoltà analoghe al ripensamento anche per gli acquisti effettuati in negozio.

Differenze tra diritto di ripensamento e di recesso

È importante notare che, per quanto affini, gli istituti del diritto di ripensamento e del recesso rimangono due cose diverse. In un certo senso, il ripensamento è una specie particolare di recesso, ed è per questo che nella terminologia del Codice del Consumo (art. 52 e segg.) si fa riferimento al “recesso” anche per individuare il diritto di ripensamento da esercitarsi entro quattordici giorni.

In generale, il diritto di recesso è sempre esercitabile nei contratti continuativi, come ad esempio quelli di fornitura di servizi domestici. Solitamente, però, la disciplina normativa prevede alcuni “paletti” da rispettare, ad esempio in relazione ai costi aggiuntivi da sostenere, o ai termini di preavviso da non oltrepassare, oppure in ordine ai motivi del recesso.

trattamento di fine rapporto

Trattamento di fine rapporto: come funziona il TFR Una breve guida sul trattamento di fine rapporto: come si calcola, a quanto ammonta, quando viene pagato e come si fa a chiedere un anticipo del TFR

Come funziona il TFR

Il trattamento di fine rapporto, anche detto TFR, è un elemento della retribuzione che viene corrisposto al lavoratore dipendente al momento della cessazione del rapporto di lavoro, qualunque ne sia la causa (es. licenziamento, pensione etc.).

Quanto si prende di TFR

A norma dell’art. 2120 del codice civile, l’importo del trattamento di fine rapporto viene calcolato sommando per ciascun anno (o frazione di anno) in cui si è lavorato una quota pari all’importo della retribuzione annuale divisa per 13,5.

Il valore delle quote annuali di TFR accantonate viene incrementato attraverso la rivalutazione delle somme, con l’applicazione, alla fine di ogni anno, di un tasso costituito dall’1,5% in misura fissa e dal 75% dell’aumento, rispetto all’anno precedente, dell’indice dei prezzi al consumo ISTAT.

Come si fa a sapere a quanto ammonta il TFR

La quota annuale di TFR che viene accantonata si calcola su  tutte le voci della retribuzione corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro (compresi, quindi, gli incentivi, i premi di rendimento e gli emolumenti periodici come la tredicesima mensilità). Rimangono esclusi i rimborsi spese (cfr. art. 2120 c.c., II comma) e le indennità di trasferta.

A quanto appena detto possono derogare le disposizioni contenute nei contratti collettivi (ad esempio, nel comparto metalmeccanico la tredicesima mensilità non contribuisce ad alimentare la quota annuale del TFR).

Quando si può chiedere un anticipo del TFR

Un importante aspetto della disciplina del TFR è rappresentato dalla possibilità di richiedere l’anticipazione del pagamento di una sua parte nel corso del rapporto lavorativo, anziché alla cessazione dello stesso.

Possono avanzare tale richiesta i dipendenti che abbiano maturato già otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro (cfr. art. 2120 c.c., sesto comma e segg.).

La richiesta può essere fatta solo una volta nel corso dell’intero rapporto di lavoro e deve essere motivata dalla necessità di sostenere spese sanitarie per terapie o interventi straordinari o dall’acquisto della prima casa di abitazione (per sé o in favore dei propri figli).

Tali esigenze vanno opportunamente documentate, con certificazione delle strutture sanitarie o, nel caso di acquisto della prima casa, con atto notarile.

Anticipo TFR: quanto si può chiedere

Oggetto della richiesta di anticipo TFR è una somma pari al massimo al 70% del TFR maturato al momento dell’istanza. Ovviamente, la somma anticipata viene detratta da quanto successivamente riconosciuto alla cessazione del rapporto di lavoro.

I contratti collettivi, o anche le pattuizioni individuali, possono prevedere condizioni più favorevoli per l’anticipazione del trattamento di fine rapporto. I contratti collettivi possono anche prevedere criteri di priorità per il soddisfacimento delle varie richieste.

In ogni caso, il datore di lavoro è tenuto a soddisfare le richieste di anticipazione TFR entro il limite del 4% del numero totale dei dipendenti. Peraltro, l’azienda può negare l’anticipazione TFR per i lavoratori dipendenti se sia stata dichiarata azienda in crisi.

Quando ti viene pagato il TFR?

Il diritto al TFR matura mensilmente, ma sorge soltanto al termine del rapporto di lavoro; quindi, in costanza dello stesso, si tratta di un diritto futuro, come ribadito più volte dalla Cassazione (cfr. Cass. sez. lav., ord. n. 4360/2023).

Ciò implica, tra l’altro, che in costanza del rapporto di lavoro il dipendente non possa rinunciare al TFR, per il semplice motivo che il relativo diritto non è ancora venuto ad esistenza (la circostanza appena descritta depone a favore del lavoratore, in quanto lo pone al riparo da eventuali pattuizioni di rinuncia concordate con il datore prima della cessazione del rapporto).

Alla cessazione del rapporto di lavoro, il TFR viene erogato automaticamente dal datore di lavoro, senza necessità che il lavoratore presenti alcuna specifica richiesta in tal senso. I tempi di pagamento si aggirano, generalmente, intorno ai 60 giorni dalla cessazione del rapporto, anche se nel settore pubblico il relativo provvedimento deve rispettare il termine di 30 giorni per la durata del procedimento amministrativo.

Sempre per i dipendenti pubblici vigono alcune regole particolari: ad esempio, il TFR viene erogato in un’unica soluzione se ammonta al lordo a meno di 50.000 euro, oppure in due rate se inferiore a 100.000 euro o in tre rate annuali, se supera i 100.000 euro.

Prescrizione TFR

Il diritto al pagamento del TFR, ove non venga versato spontaneamente dal datore di lavoro, si prescrive nel termine di cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ciò significa che la relativa richiesta di pagamento deve pervenire entro tale termine, affinché si consideri interrotta la prescrizione.

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reato di diffamazione

Il reato di diffamazione Il reato di diffamazione: gli elementi costitutivi e la differenza tra diffamazione, ingiuria e calunnia. In particolare: la diffamazione a mezzo stampa

Quando si può considerare diffamazione?

La diffamazione è l’offesa alla reputazione altrui che si realizza comunicando con altre persone, in assenza della persona offesa.

Il reato di diffamazione è disciplinato dall’art. 595 del codice penale, il quale prevede precisi requisiti e circostanze che devono sussistere affinché la comunicazione offensiva possa comportare la colpevolezza del soggetto agente.

Quali sono i 3 elementi che costituiscono la diffamazione?

Innanzitutto, deve sussistere l’offesa alla persona altrui, attraverso l’utilizzo di parole che abbiano la potenzialità di lederne la reputazione, ossia la considerazione di cui questa gode presso le altre persone.

Inoltre, tali parole devono essere comunicate (non necessariamente a voce, come vedremo) ad almeno due (o più) persone.

Infine, perché si configuri il reato di cui all’art. 595 c.p., l’espressione diffamatoria deve essere comunicata in assenza della persona offesa.

Va evidenziato, inoltre, che, a norma dell’art. 597 c.p., il reato di diffamazione è punibile a querela della persona offesa.

Qual è la differenza tra calunnia e diffamazione?

La circostanza per cui la diffamazione si configura solo se la comunicazione offensiva avviene in assenza della persona offesa occorre a distinguere tale reato dall’ingiuria, che è invece l’offesa ad una persona presente e in grado di percepire direttamente l’espressione pronunciata (l’ingiuria, peraltro, una volta prevista come reato dall’art. 594 c.p., è oggi depenalizzata).

Oltre che dall’ingiuria, la diffamazione va tenuta distinta anche dal reato di calunnia di cui all’art. 368 c.p., nel quale invece si incolpa un altro soggetto di un reato, sapendo che questi è in realtà innocente.

La diffamazione a mezzo stampa

Un particolare mezzo di comunicazione attraverso cui può essere realizzata la diffamazione è la stampa, o altro mezzo di pubblicità.

In tal caso, la pena è aumentata. In linea generale, infatti, il reato di diffamazione è punito con la reclusione fino ad un anno ed una multa fino a 1.032 euro, mentre la diffamazione a mezzo stampa può comportare la condanna alla reclusione fino a tre anni.

Va anche ricordato che, a norma dell’art. 57 c.p., nel caso di diffamazione a mezzo stampa (così come accade per gli altri reati commessi a mezzo della pubblicazione, come ad es. l’illecita diffusione di particolari notizie relative a un procedimento penale ex art. 685 c.p.), oltre all’autore della pubblicazione, sono puniti anche il direttore o il vicedirettore responsabile che non abbiano esercitato il controllo sul contenuto della pubblicazione stessa, finalizzato ad impedire la commissione del reato.

Un inasprimento della pena prevista dal primo comma dell’art. 595 c.p. è previsto anche quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato (art. 595 c.p., secondo comma) o quando essa sia recata ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Diffamazione: la dimostrazione della verità del fatto

La disciplina codicistica del reato di diffamazione prevede che l’imputato non possa dimostrare, a sua discolpa, la verità del fatto attribuito alla persona offesa (art. 596 c.p.).

Se, però, si tratta di un fatto determinato, l’imputato e la persona offesa possono accordarsi per deferire la decisione ad un giurì d’onore, cioè ad un collegio di esperti iscritti in particolari elenchi tenuti dal Tribunale.

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danni allo studente

Danni allo studente, scuola esonerata se la causa è imprevedibile L’ordinanza della Cassazione chiarisce che non vi è responsabilità se il danno dell’alunno a sé stesso risulta imprevedibile

La responsabilità della scuola per danni allo studente

Danni allo studente, la responsabilità della scuola è al centro di una importante decisione della Corte di Cassazione, con la quale sono stati chiariti anche il ruolo del Ministero e della compagnia di assicurazione in casi di questo genere.

Risarcimento del danno che lo studente procura a sé stesso

La vicenda trae origine da un infortunio scolastico occorso ad uno studente, il quale era inciampato da solo su una sedia, procurandosi dei danni fisici.

I genitori dell’alunno minorenne ricorrevano presso il giudice di pace per ottenere il risarcimento del danno, vedendo accolta la propria domanda.

La causa era stata instaurata nei confronti dell’istituto scolastico, che chiamava in garanzia la compagnia di assicurazione. Entrambi i soggetti venivano estromessi dal giudizio, poiché ritenuti privi di legittimazione passiva dal giudice. Quest’ultimo, dunque, dichiarava tenuto al risarcimento del danno il Ministero dell’Istruzione, rimasto contumace (cioè non costituitosi in giudizio).

La decisione del giudice di pace veniva confermata in appello dal Tribunale competente.

L’ordinanza della Cassazione sulla responsabilità della scuola

Contro tali provvedimenti, il Ministero dell’Istruzione proponeva ricorso per Cassazione.

Quest’ultima, con l’ordinanza Cass. n. 14720 del 27 maggio 2024, accoglieva il ricorso, offrendo importanti chiarimenti sia sul rapporto di garanzia assicurativa per danni allo studente, sia sulla natura della responsabilità per i danni allo studente e sia, soprattutto, sulla ripartizione dell’onere della prova tra i vari soggetti coinvolti in fattispecie di questo tipo.

Il rapporto di assicurazione con la scuola e il Ministero

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto errata la decisione dei giudici di merito di estromettere dal giudizio, per mancanza di legittimazione passiva, sia l’istituto scolastico, sia la compagnia assicurativa.

Al riguardo, gli Ermellini hanno evidenziato che, pur se la polizza viene sottoscritta dall’istituto scolastico, la stessa deve ritenersi a copertura anche dei danni allo studente di cui risponderebbe il Ministero in luogo dell’istituto stesso, poiché in caso contrario il contratto assicurativo dovrebbe essere considerato privo di causa.

A maggior ragione, inoltre, la copertura di tali danni deve essere garantita in considerazione del fatto che, anche nell’atto di stipula del contratto assicurativo, l’istituto scolastico agisce come mero organo del Ministero dell’Istruzione.

Natura della responsabilità della scuola per danni allo studente

Ciò detto, per la Cassazione si è posta la questione di verificare se, nel caso concreto, ci fosse effettivamente un danno da risarcire.

A tal fine, l’analisi si è spostata sulla natura della responsabilità dell’istituto scolastico e del Ministero nei casi in cui lo studente si procuri da sé il danno, nel corso del normale orario delle lezioni.

Ebbene, la Corte ha chiarito che in tal caso sussista una responsabilità contrattuale, per la cui sussistenza, però, occorre la dimostrazione, da parte del danneggiato, del nesso di causalità tra l’inadempimento dell’istituto scolastico e il danno.

Responsabilità della scuola: prova dell’imprevedibilità del danno

Infatti, la ripartizione dell’onere della prova in tema di danni allo studente prevede la sussistenza di una presunzione di responsabilità in capo all’istituto, sempre che l’alunno riesca a dimostrare il nesso di casualità di cui si è appena detto.

D’altro canto, alla scuola, e per essa al Ministero, è concesso dimostrare, per essere considerata esente da responsabilità, l’imprevedibilità e inevitabilità del danno.

Il Ministero, cioè, anche tramite elementi presuntivi, deve dimostrare che l’evento e il danno fossero imprevedibili e inevitabili, ed è proprio quanto accaduto nel caso concreto deciso dall’ordinanza di Cassazione n. 14720/2024.

Infatti, la presenza dell’insegnante al momento dell’accaduto, il rispetto delle normative di sicurezza da parte dell’ente scolastico e l’imprevedibilità del sinistro sono stati ritenuti dalla Corte elementi sufficienti a ritenere esclusa la responsabilità del Ministero.

In conseguenza, veniva cassata la decisione dei giudici di merito, che avevano accolto la domanda di risarcimento avanzata dai genitori dell’alunno.

 

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class action

Class action Le class action sono azioni collettive a tutela degli interessi omogenei di una serie di soggetti. la disciplina codicistica e le azioni a tutela dei consumatori

In che cosa consiste una class action

La class action è un’azione collettiva con cui un insieme di soggetti (ad es.: consumatori) può chiedere contro un unico soggetto il risarcimento di un danno o altra misura analoga oppure la cessazione di un comportamento lesivo dei propri diritti o interessi.

Quando si può fare una class action

Negli ultimi anni, la class action è stata oggetto di alcune rilevanti innovazioni normative, sia nel nostro ordinamento che a livello europeo, tese a rendere questo strumento ancora più vantaggioso, rispetto all’azione esercitabile singolarmente, per il soggetto che si ritiene danneggiato.

Tali novità legislative mirano, dunque, a favorire l’utilizzo delle azioni collettive, finora ancora poco sperimentate nelle aule dei nostri tribunali.

I procedimenti collettivi di cui al codice di procedura civile

Gli interventi normativi di cui sopra si  è detto disciplinano due diversi istituti, tra loro affini ma che riguardano situazioni differenti.

La legge n. 31/2019, introducendo gli artt. 840-bis e seguenti del codice di procedura civile, individua la disciplina dei procedimenti collettivi, azionabili anche da un singolo utente, oltre che da associazioni iscritte in un apposito elenco tenuto dal Ministero della Giustizia, che tutelino gli interessi di quanti si ritengano lesi da un comportamento tenuto dall’impresa o dal gestore di pubblici servizi.

Quante persone servono per fare una class action

Va notato, quindi, che nel caso dei procedimenti collettivi di cui alla disciplina codicistica, il comportamento lesivo può essere tutelato sia con l’azione individuale di un singolo soggetto (art. 840-bis c.p.c., quarto comma), sia come azione di classe; quest’ultima può essere azionata, a sua volta, da ciascun componente della classe (persona fisica o giuridica) oppure da un’organizzazione o associazione senza scopo di lucro, che abbia tra i suoi fini statutari la tutela dei diritti di cui si lamenta la lesione.

Se un’azione di classe, il cui avvio viene reso conoscibile attraverso appositi portali web, viene avviata da più componenti della medesima classe, si dispone la riunione dei vari ricorsi in un unico procedimento.

Il procedimento collettivo mira all’accertamento della condotta lesiva e può portare alla condanna di risarcimento del danno, alle restituzioni o all’inibizione o divieto di prosecuzione di una determinata condotta.

Una caratteristica da sottolineare propria dei procedimenti collettivi disciplinati dal codice di procedura civile è rappresentata dal fatto che non vi sono particolari limitazioni di materia riguardo all’oggetto degli stessi, a differenza, come vedremo tra breve, delle class action disciplinate dal Codice del Consumo.

Class action: le azioni rappresentative del Codice del consumo

Il d.lgs. 28/2023, recependo la Direttiva UE 1828 del 2020, ha introdotto gli artt. 140-ter e ss. del Codice del consumo (d.lgs. 206/2005).

Le azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori possono essere avviate dalle associazioni dei consumatori iscritte in un elenco tenuto dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, oppure da organismi pubblici indipendenti (ad esempio, il Garante della Privacy) o da enti designato da altri Stati membri dell’Unione Europea.

A differenza dei procedimenti collettivi disciplinati dal codice di procedura civile, quindi, nelle azioni rappresentative disciplinate dal Codice del Consumo non  è prevista la possibilità che la class action origini dall’azione individualmente avviata da una singola persona (fisica o giuridica) componente della classe.

La class action dei consumatori può essere azionata solo in determinate materie che comportino la lesione di interessi collettivi dei consumatori, come ad esempio in presenza di pratiche commerciali scorrette o di pubblicità ingannevole.

Come nei procedimenti collettivi sopra esaminati, anche le azioni rappresentative a tutela dei consumatori possono portare a provvedimenti inibitori o compensativi a carico del professionista/impresa che ha posto in atto il comportamento lesivo.

Ciò significa che il giudice può vietare a quest’ultimo di tenere un determinato comportamento o condannarlo a restituzioni in favore dei danneggiati o al risarcimento del danno a questi arrecato.

Come aderire alla class action

Tra i vantaggi propri delle class action vi è la possibilità, per gli enti legittimati a proporla, di agire senza necessità di raccogliere preventivamente il mandato di ogni interessato. Gli interessati, inoltre, possono manifestare la propria adesione all’azione anche dopo l’emanazione del provvedimento che chiude il giudizio, per beneficiare delle disposizioni risarcitorie in esso contenute.

Inoltre, la disciplina prevede, a favore dei ricorrenti, agevolazioni istruttorie, anche attraverso misure sanzionatorie a carico dell’impresa che non metta a disposizione materiale probatorio in suo possesso; circostanze, quelle appena descritte, che contribuiscono a rendere più favorevole l’azione collettiva rispetto a quella che potrebbe avviare il singolo danneggiato.

servitù di parcheggio

Servitù di parcheggio L’istituto della servitù di parcheggio e il suo tortuoso riconoscimento da parte della giurisprudenza. La decisiva sentenza delle Sezioni Unite n. 3952 del 2024

Cos’è la servitù di parcheggio?

La servitù di parcheggio è un istituto il cui riconoscimento, nel nostro ordinamento, è stato piuttosto controverso, essendosi susseguiti, nel corso degli anni, differenti orientamenti sul tema sia in giurisprudenza che in dottrina.

Da ultimo, la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n. 3925 del 13 febbraio 2024, rappresenta un’autorevole pronuncia a favore della configurabilità della servitù di parcheggio, laddove le posizioni contrarie tendevano a ricondurre l’utilizzo di un parcheggio nell’alveo dei diritti contrattuali anziché in quello dei diritti reali.

Cosa sono le servitù prediali

Ma perché l’utilizzo di un parcheggio servente ad un’abitazione non ha trovato da subito pacifica collocazione tra le servitù prediali?

Per comprenderlo, è opportuno ricordare che, secondo l’art. 1027 del codice civile, la servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.

In linea più generale, le servitù prediali rientrano tra i diritti reali di godimento. Si tratta, cioè di diritti che conferiscono al titolare un potere immediato e assoluto sulla cosa. L’immediatezza comporta la possibilità di utilizzare il bene senza l’intervento di terzi. L’assolutezza si sostanzia nella possibilità di far valere nei confronti di chiunque (erga omnes) l’esistenza del vincolo sulla cosa.

La servitù di parcheggio nell’autonomia contrattuale

Chiarito ciò, va rilevato, ai fini della nostra analisi, che, a differenza di altre attività (come il transito sul fondo), il parcheggio di un veicolo non è stato inizialmente riconosciuto come strettamente inerente al fondo, ma piuttosto come un’esigenza della singola persona.

In altre parole, l’accordo con cui il proprietario di un fondo (servente) concede ad un altro soggetto la possibilità di parcheggiare un veicolo, veniva sempre ricondotto dalla dottrina ad una fattispecie obbligatoria (come ad es. un contratto di locazione o di comodato gratuito), anche quando l’area di parcheggio era destinata ad essere utilizzata in funzione della vicinanza ad un altro immobile (abitazione o ufficio di chi utilizza il veicolo: fondo dominante).

Il parcheggio come diritto reale

Cosa implicano le diverse ricostruzioni che possono essere date a questa fattispecie?

Innanzitutto, se l’utilizzatore del parcheggio viene considerato titolare di un diritto personale di godimento (come avviene nel caso della locazione), non potrà avvalersi delle azioni reali a difesa del proprio diritto nei confronti di chiunque, ma potrà solo rivolgersi contro il concedente in base al rapporto obbligatorio in essere.

Inoltre, in caso di alienazione del fondo servente, il nuovo proprietario non sarà tenuto a riconoscere la sussistenza del diritto di parcheggio concesso dal precedente proprietario. Diversamente, laddove il diritto dell’utilizzatore dell’area sia riconosciuto come servitù di parcheggio (quindi inerente al fondo) egli potrà continuare ad esercitare il suo diritto anche nei confronti del nuovo proprietario del fondo servente.

Giurisprudenza sulla servitù di parcheggio

Chiariti i termini della questione e le sue implicazioni pratiche, andiamo ora ad esaminare cosa è avvenuto in dottrina e giurisprudenza riguardo a questo tema.

Un primo orientamento, come si è detto, riteneva di non ammettere la configurabilità di un diritto reale di servitù di parcheggio, poiché si riteneva sussistere un interesse della persona all’attività di parcheggio, piuttosto che un’utilità inerente al fondo dominante.

Successivamente, la Corte di Cassazione, con la sent. 7561/2019, ha aperto all’ammissibilità dell’istituto della servitù di parcheggio, invitando i giudici, in sostanza, ad indagare ed interpretare il contenuto del contratto, per comprendere se le parti abbiano voluto costituire una servitù, individuando un diritto che avesse – come ogni diritto reale – i caratteri dell’assolutezza e dell’immediatezza, oltre che dell’inerenza ai fondi servente e dominante.

Allo stesso tempo, la dottrina ha posto l’attenzione su un altro aspetto decisivo per individuare se, nel caso concreto, si sia in presenza di una servitù di parcheggio o di un diritto personale di godimento: la residua sussistenza, in capo al titolare del fondo servente, di una possibilità di utilizzo del fondo.

Se ciò accade, allora si è in presenza di una servitù, poiché questa comprime, ma non “svuota”, la possibilità di godimento del proprio fondo. Diversamente, una locazione dell’area di parcheggio conferisce l’esclusività di utilizzo dell’area.

La sentenza n. 3925/2024 delle Sezioni Unite

In questo solco si inserisce la sentenza delle Sezioni Unite di cui si diceva in apertura di trattazione.

La sentenza delle SS.UU. n. 3925 del 13 febbraio 2024, infatti, evidenzia l’onere, per i giudici merito, di esaminare il contenuto del contratto, per verificare la sussistenza dei requisiti del diritto reale su cosa altrui (servitù).

Contestualmente, viene evidenziata la necessità che dalla pattuizione emergano con precisione anche altri particolari, come la puntuale localizzazione dell’area destinata al parcheggio: proprio in tal modo, infatti, può dedursi la permanenza di una residua utilità del fondo anche in capo al proprietario del fondo servente.

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accertamento tecnico preventivo

Accertamento tecnico preventivo (ATP) L’accertamento tecnico preventivo è un mezzo istruttorio che può essere richiesto prima dell’instaurazione del giudizio: presupposti e disciplina dell’ATP

Cos’è un accertamento tecnico preventivo?

L’accertamento tecnico preventivo, detto anche ATP, è un mezzo istruttorio che viene assunto in condizioni di urgenza, in vista dell’instaurazione di un giudizio (e quindi prima del giudizio stesso), per accertare lo stato dei luoghi o la condizione di cose in un preciso momento.

Lo scopo dell’ATP è quello di accertare tali condizioni prima che possano cambiare e rendere conseguentemente impossibile un successivo rilievo.

Come si richiede l’ATP ex art. 696 c.p.c.

Il procedimento finalizzato all’accertamento tecnico preventivo rientra tra quelli di istruzione preventiva disciplinati dal codice di procedura civile ed è regolato dall’art. 696 c.p.c. 

L’ATP si richiede con ricorso al giudice che sarebbe competente per il giudizio di merito (o, in casi di eccezionale urgenza, al giudice del luogo in cui la prova deve essere assunta), in cui devono essere indicati i motivi che giustificano l’urgenza del provvedimento richiesto.

Se ritiene di accogliere il ricorso, in considerazione della ragionevole fondatezza dell’istanza (fumus boni iuris) e del possibile pregiudizio paventato dal richiedente derivante dall’eventuale inerzia (periculum in mora), il giudice nomina un consulente tecnico d’ufficio (CTU) e fissa l’udienza a cui partecipano le parti in contraddittorio e il consulente stesso.

Il ricorso per ATP, ove accolto, deve essere notificato alla controparte insieme al decreto di fissazione dell’udienza.

Se il CTU accetta l’incarico, il giudice fissa la data dell’inizio delle operazioni peritali e assegna al consulente un termine per il deposito della relazione conseguente all’accertamento.

Chi paga il CTU in un accertamento tecnico preventivo?

Il carattere di urgenza dell’accertamento tecnico preventivo può essere dovuto a svariate motivazioni, come la deperibilità di un oggetto, il pericolo di alterazione dello stato dei luoghi o la necessità improcrastinabile di provvedere al ripristino degli stessi, senza poter attendere i tempi di un giudizio.

Si tratta, in sostanza, di un procedimento cautelare volto a “immortalare” le condizioni di un luogo o di una cosa, prima che le stesse possano cambiare.

Al sopralluogo finalizzato all’accertamento tecnico preventivo possono presenziare anche i consulenti tecnici di parte (CTP), delle cui osservazioni il CTU deve dar conto.

Una volta depositata la relazione, il procedimento di istruzione preventiva si chiude, con addebito delle relative spese in capo al richiedente. Salva la possibilità che le stesse vengano poi rifondate in caso di instaurazione del giudizio di merito e accoglimento della domanda con contestuale condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio.

Le valutazioni del CTU nell’accertamento tecnico preventivo

Nel corso del tempo, la disciplina dell’accertamento tecnico preventivo è stata affinata dal legislatore, anche sulla scorta di alcune pronunce della Corte Costituzionale.

In particolare, è stata ammessa la possibilità di svolgere l’ATP anche sulla persona del richiedente o, ove vi sia consenso, sula persona nei cui confronti è diretta l’istanza.

Inoltre, dopo la novella legislativa in vigore dal 2006, l’accertamento tecnico preventivo può anche comprendere valutazioni del CTU sulle cause e sui danni provocati dall’evento sul bene oggetto di accertamento.

L’accertamento preventivo sui crediti ex art. 696 bis

Un’altra novità introdotta dalla novella del 2005 è la possibilità di esperire la consulenza tecnica preventiva anche in assenza di pericolo di dispersione della prova, per l’accertamento e la determinazione di crediti derivanti da fatto illecito o dalla mancata o inesatta esecuzione di obblighi contrattuali (art. 696-bis c.p.c.).

In tal caso, al consulente è demandato anche l’esperimento del tentativo di conciliazione tra le parti.

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diritto di proprietà

Diritto di proprietà Il diritto di proprietà nell’ordinamento italiano: il contenuto, i modi di acquisto e i limiti imposti dalla legge. In particolare: la funzione sociale prevista dalla Costituzione

Cosa si intende per diritto di proprietà

Il diritto di proprietà è il più importante ed esteso dei diritti reali, cioè di quei diritti che individuano il potere del soggetto su una cosa. Come dispone l’art. 832 del codice civile, il titolare del diritto di proprietà su un bene ha diritto di goderne in modo esclusivo e di disporne a proprio piacimento (ad esempio, di venderlo o di donarlo), entro i limiti previsti dall’ordinamento.

Per comprendere quali siano tali limiti, occorre fare riferimento al dettato costituzionale in tema di proprietà.

Il diritto di proprietà nella Costituzione. La funzione sociale

Secondo l’art. 42 della Costituzione, la proprietà deve avere una funzione sociale. Ciò significa che lo scopo di tale istituto non è meramente quello di soddisfare l’interesse del suo titolare: esempi di limitazioni del diritto di proprietà per perseguire una funzione sociale sono la previsione di un prezzo calmierato per gli affitti (si pensi al c.d. equo canone, nell’esperienza dell’ordinamento italiano), l’acquisto per usucapione (di cui si dirà oltre) e l’espropriazione del bene.

Quest’ultima ipotesi è espressamente prevista dal terzo comma della norma appena citata, il quale dispone che la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale, salvo il riconoscimento di un indennizzo in favore del titolare. L’entità di tale indennizzo deve essere giusta, a norma dell’art. 834 c.c., pur non dovendo corrispondere al valore di mercato del bene; a tal riguardo, la Corte Costituzionale ha parlato di “serio ristoro” del sacrificio del privato (in questo senso, vedasi la risalente sentenza Corte Cost. n. 5/1980).

Come si può acquistare il diritto di proprietà?

Su un piano più generale, l’art. 42 Cost. dispone che la proprietà può essere pubblica o privata (a seconda della natura del soggetto titolare del bene) e che la stessa è “riconosciuta e garantita” dalla legge, che ne determina i modi di acquisto ed i limiti.

Quanto ai modi di acquisto, essi possono essere a titolo originario (cioè, quando l’acquisto avviene indipendentemente dalla volontà di un altro soggetto) o a titolo derivativo, come avviene nelle comuni compravendite o donazioni (atti inter vivos) o nelle successioni (atti mortis causa, richiamati anche dall’art. 42 Cost. ultimo comma); particolari modi acquisto della proprietà sono, inoltre, l’espropriazione per pubblica utilità, di cui si è detto sopra, o la confisca.

I modi di acquisto della proprietà a titolo originario sono puntualmente elencati dall’art. 922 del codice civile e sono l’occupazione, l’invenzione, l’accessione, la specificazione, l’unione o commistione e l’usucapione.

Quest’ultima, come più sopra accennato, si sostanzia in un istituto che tutela la funzione sociale della proprietà e valorizza l’operato del soggetto che, pur non effettivo titolare della proprietà sul bene, ne ha esercitato il possesso per un determinato periodo di tempo come se ne fosse stato il proprietario (ad esempio, un soggetto che abbia coltivato, e quindi reso fruttuoso anche per la collettività, un terreno non suo).

Per maggiori dettagli, vi rimandiamo a Usucapione e buona fede

La disciplina civilistica della proprietà

Con particolare riguardo alla proprietà fondiaria (terreni e costruzioni), la normativa civilistica pone una dettagliata disciplina in tema di rispetto delle distanze tra gli immobili, dell’apertura di luci e vedute (es. finestre), di comunione forzosa dei muri, di scarico delle acque etc. (artt. 873 e ss. cod. civ.).

Analogamente, viene disciplinata l’estensione della proprietà, la quale si estende lungo la sua superficie in orizzontale (con diritto del proprietario di recintarne i confini) e in modo verticale, “nella sua proiezione verso il sottosuolo e verso lo spazio aereo soprastante” (artt. 840 e ss. c.c.).

Le azioni a difesa della proprietà

In questo breve excursus sulle linee generali che definiscono il diritto di proprietà nel nostro ordinamento, vanno necessariamente ricordate le azioni a difesa della proprietà, previste dal codice civile, e in particolare le c.d. azioni petitorie previste dagli artt. 948 ss. del codice civile.

Nello specifico, l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.) mira a consentire al proprietario che abbia perso il possesso del bene di rivendicare lo stesso e recuperarlo. Con l’azione negatoria (art. 949 c.c.), invece, il proprietario mira a far accertare il proprio diritto e a far dichiarare l’inesistenza dei diritti affermati da altri sulla cosa.

In tema di diritto di proprietà, ricordiamo anche alcuni casi specifici, come la comunione (in cui la proprietà su un bene spetta a più soggetti) e il condominio; la c.d. proprietà intellettuale su opere e invenzioni (si veda l’articolata disciplina su marchi e brevetti); e la c.d. proprietà fiduciaria.

responsabilità medica

Responsabilità medica: la legge Gelli-Bianco Responsabilità del medico e della struttura sanitaria nella legge Gelli-Bianco: differenze, termini di prescrizione e onere della prova per il paziente

La legge sulla responsabilità per danno da colpa medica

Responsabilità medica: la legge n. 24 del 2017, più nota come legge Gelli-Bianco, rappresenta il provvedimento normativo di riferimento in materia.

Con tale legge sono state introdotte importanti novità che hanno contribuito a delimitare in modo più chiaro i confini della responsabilità sanitaria del medico e della struttura presso cui opera, in caso di danni provocati al paziente.

Imperizia e responsabilità penale del medico nella l. 24/2017

Una prima importante novità apportata dalla legge Gelli-Bianco è stata quella di prevedere una causa di esclusione della punibilità del medico in ambito penalistico.

Il provvedimento, infatti, ha introdotto, nel secondo comma dell’art. 590-sexies del codice penale (relativo alla responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), la previsione secondo cui è esonerato da responsabilità medica il sanitario che abbia causato l’evento dannoso per il paziente a causa di imperizia, se risulta che lo stesso si sia attenuto alle linee guida sanitarie e alle buone pratiche, ove queste risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

Di contro, rimane penalmente responsabile il medico che abbia agito con negligenza o imprudenza.

A conferma di quanto sopra si è successivamente espressa anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza Cass. SS.UU. n. 8770 del 2018.

Responsabilità sanitaria nella legge Gelli-Bianco

Anche sul piano civilistico, la Legge Gelli-Bianco si è rivelata importante per definire i contorni della responsabilità sanitaria, introducendo una disciplina che favorisce, in sostanza, la richiesta di risarcimento del danno da parte del paziente nei confronti della struttura anziché del medico.

Al riguardo, è opportuno distinguere le varie ipotesi.

Responsabilità contrattuale

Innanzitutto, quando il sanitario opera nell’ambito di una struttura pubblica o privata, la responsabilità medica è considerata di natura contrattuale, in virtù del c.d. contratto di spedalità tra il paziente e la struttura stessa.

In caso di danno da responsabilità medica, quindi, il paziente potrà agire per il risarcimento direttamente nei confronti della struttura.

È vero che rimane possibile, in linea teorica, agire anche contro il medico, ma l’inquadramento normativo della responsabilità di quest’ultimo rende, in concreto, difficilmente percorribile questa strada.

Responsabilità extracontrattuale

Infatti, la responsabilità del medico dipendente di una struttura (o che operi per essa in ambito intramurario, collaborando con partita Iva) è considerata di natura extracontrattuale.

Prescrizione e onere della prova

Per il paziente, quindi, si presenta più agevole richiedere il risarcimento direttamente alla clinica, dal momento che la natura contrattuale del rapporto che egli ha instaurato con essa (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) comporta che il termine di prescrizione dell’azione sia decennale e che l’onere della prova per il danneggiato sia limitato all’esistenza di tale rapporto, sussistendo una presunzione di colpa in capo alla struttura ex art. 1218 c.c.

Un’eventuale richiesta di risarcimento verso il medico ex art. 2043 c.c. (sulla base, quindi, di una responsabilità extracontrattuale o aquiliana, come previsto dall’art. 7 della legge 24/2017), invece, deve rispettare un termine di prescrizione di soli cinque anni e risulta molto più gravosa per il paziente in ordine alla prova, poiché quest’ultimo avrebbe l’onere di dimostrare non solo il danno, ma anche il fatto illecito, il nesso di causalità tra evento e danno e l’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) che ha accompagnato la condotta del sanitario.

Azione diretta del paziente contro l’assicurazione

A corollario di quanto sopra, va anche ricordato che il paziente, a norma della Legge Gelli-Bianco, ha azione diretta anche nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria, come meglio specificato dal recente Decreto interministeriale n. 232 del 15 dicembre 2023, in vigore dal 16  marzo 2024.

Inoltre, è opportuno evidenziare che la struttura sanitaria ha diritto all’azione di rivalsa nei confronti del medico che abbia agito con dolo o colpa grave e che quest’ultimo può essere destinatario dell’azione per responsabilità amministrativa da parte della Corte dei Conti.

Leggi anche Vittima di errore medico: può agire direttamente per il risarcimento

L’obbligo di assicurazione professionale per il medico

Infine, rimane da considerare il caos in cui il medico operi al di fuori di una struttura sanitaria, e quindi in qualità di libero professionista. In tal caso sussiste un rapporto contrattuale tra lui ed il paziente e proprio per tale motivo egli è tenuto, per legge, a sottoscrivere una polizza assicurativa per eventuali danni arrecati nell’ambito della propria attività professionale.