lavoro domenicale

Lavoro domenicale: più benefici perché più penoso Il lavoro domenicale è più penoso, il lavoratore ha diritto a benefici particolari, non solo di natura economica, ma anche contrattuale

Lavoro domenicale: diritti economici e non solo

Il lavoro domenicale è una realtà per molti settori, ma comporta sacrifici significativi che devono essere riconosciuti. La sentenza n. 31712/2024 della Cassazione sottolinea l’importanza di una tutela adeguata per i lavoratori, sia in termini economici che di benefici contrattuali.

Quid pluris anche non economico

La Corte d’Appello ha confermato la decisione con cui il giudice id primo grado ha riconosciuto ai lavoratori turnisti impiegati presso un aeroporto il diritto a una maggiorazione del 30% della retribuzione giornaliera per il lavoro svolto di domenica. I lavoratori, inquadrati nel CCNL Multiservizi, avevano sostenuto che il semplice riposo compensativo non era sufficiente a compensare i sacrifici legati alla prestazione domenicale.

La Corte ha stabilito che il lavoro domenicale richiede un trattamento aggiuntivo, anche in assenza di specifiche previsioni nel contratto collettivo. Secondo la sentenza, il riposo compensativo non copre pienamente i disagi derivanti dal lavoro in un giorno dedicato, per la maggioranza delle persone, agli interessi personali e familiari. La Corte ha sottolineato che tale sacrificio deve essere compensato con un quid pluris, che può consistere in una maggiorazione economica o in altri benefici contrattuali.

Compenso economico o vantaggi contrattuali

La Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento della Corte d’Appello e ha ribadito che il lavoro domenicale comporta una maggiore penosità, che deve essere riconosciuta attraverso un compenso adeguato. Tale compenso può essere economico oppure consistere in vantaggi contrattuali che migliorino il trattamento complessivo del lavoratore.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) è cruciale nella regolamentazione dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, in alcuni casi, la normativa generale può supplire alle eventuali lacune del CCNL. La Corte ha infatti evidenziato che l’assenza di una maggiorazione specifica per il lavoro domenicale non implica la rinuncia ai diritti previsti dall’ordinamento.

Lavoro domenicale: il differimento del riposo non basta

La Cassazione ha anche chiarito che il differimento del riposo settimanale a un giorno diverso dalla domenica non compensa il sacrificio specifico legato al lavoro festivo. La semplice traslazione del giorno di riposo, infatti, non aggiunge alcun valore economico o simbolico al lavoratore. Pertanto, il giudice può intervenire per riconoscere un compenso aggiuntivo, valutando equitativamente il danno subito dal lavoratore.

La normativa italiana, con riferimento agli articoli 1226 e 2056 del Codice Civile, consente al giudice di determinare in via equitativa un risarcimento quando il danno non può essere quantificato con precisione. Nel caso del lavoro domenicale, tale principio è stato applicato per riconoscere una maggiorazione salariale per i sacrifici personali e familiari del lavoratore.

 

 

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Allegati

responsabilità precontrattuale

Responsabilità precontrattuale Responsabilità precontrattuale: violazione dei principi base nelle trattative contrattuali sanciti dagli artt. 1337 e 1338 c.c. 

Responsabilità precontrattuale, cos’è

La responsabilità precontrattuale civile rappresenta un aspetto fondamentale del diritto civile italiano, in materia di contratti. Essa è disciplinata fondamentalmente dagli articoli 1337 e 1338 del codice civile. La stessa si configura quando una delle parti viola il principio di buona fede durante la fase le trattative contrattuali o nella formazione dell’accordo. La responsabilità precontrattuale civile si fonda quindi sull’obbligo di correttezza e buona fede, costituendo una garanzia fondamentale per il corretto svolgimento della fase che precede la stipula vera e propria dell’accordo.

Buona fede e lealtà nelle trattative: art. 1337 c.c.

L’articolo 1337 c.c. impone alle parti di agire con buona fede, comportandosi lealmente e nel rispetto degli interessi reciproci. Questo obbligo risulta violato in presenza di alcuni comportamenti, tra i quali rivestono particolare rilievo i seguenti:

  • interruzione immotivata delle trattative: soprattutto se l’altra parte confidava ragionevolmente nella conclusione del contratto;
  • omissione di informazioni rilevanti: come le cause di invalidità del contratto conosciute dalla parte che le nasconde (art. 1338 c.c.);
  • condotte ingannevoli o pregiudizievoli: che si realizzano quando, ad esempio, si induce una controparte a stipulare un contratto svantaggioso o lesivo.

Queste violazioni possono causare un danno risarcibile, comprendente sia il danno emergente (spese sostenute) che il lucro cessante (perdita di opportunità economiche).

Responsabilità precontrattuale civile: natura

Sulla qualificazione della natura della responsabilità precontrattuale civile il dibattito giuridico è ancora aperto. Alcuni ritengono che la stessa abbia extracontrattuale, basandosi sull’articolo 2043 c.c., altri invece la considerano di natura contrattuale, facendo riferimento all’articolo 1218 c.c. Indipendentemente dalla sua natura però tutti sono concordi nel ritenere che questa responsabilità tuteli l’interesse negativo, ovvero il diritto a non essere coinvolti in trattative infruttuose.

Contratti per adesione: regole e limiti particolari

I contratti per adesione, spesso caratterizzati da clausole prestabilite, devono rispettare particolari formalità per evitare abusi nella fase delle trattative. Gli articoli 1341 e 1342 c.c. regolano queste situazioni, stabilendo che:

  • le condizioni generali dell’accordo sono valide solo se il cliente le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle al momento della stipula;
  • mentre per quanto riguarda le clausole onerose, le stesse diventano efficaci solo con una specifica approvazione scritta.

La giurisprudenza, nel tempo, ha combattuto gli abusi legati a questi contratti, dichiarando nulle clausole particolarmente gravose o poco trasparenti. Le norme sui contratti per adesione, infatti mirano a bilanciare la necessità della velocità negli scambi economici e la tutela dei contraenti più deboli, prevenendo situazioni di squilibrio e abuso.

Comunicazione delle cause di invalidità: art. 1338 c.c.

Nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede nelle trattative contrattuali l’articolo 1338 c.c. pone a carico delle parti l’obbligo di informare l’altra parte su eventuali cause di invalidità del contratto conosciute o conoscibili con la normale diligenza. Il principio sancito da questa norma mira a evitare che una delle parti venga coinvolta in trattative inutili o in contratti invalidi.

La mancata comunicazione obbliga il responsabile a risarcire i danni subiti dalla controparte.Tuttavia, anche l’altra parte ha il dovere di agire con diligenza per individuare eventuali vizi contrattuali.

Il valore giuridico delle trattative

Le trattative, pur non essendo elementi costitutivi del contratto, rivestono un ruolo giuridico rilevante. Esse preparano il contratto futuro, ma non obbligano le parti a concluderlo. Un comportamento negligente o doloso che violi la fiducia della controparte può generare una responsabilità a tutela l’interesse delle parti a non subire danni derivanti da aspettative ragionevolmente create. Trattasi di una responsabilità però che non tutela solo l’interesse economico, ma anche la fiducia reciproca necessaria per una collaborazione produttiva.

Responsabilità precontrattuale: ultime della Cassazione

Gli articolo 1337 e 1338 c.c contengono principi dal contenuto ampio e come tali in continua evoluzione. La Cassazione riveste un ruolo fondamentale nell’aggiornamento dei concetti di lealtà, buona fede e correttezza nell’ambito delle trattative precontrattuali e nel definire l’ambito applicato o di queste norme. Vediamo quindi quali sono le ultime pronunce degli Ermellini sulla responsabilità precontrattuale civile.

Cassazione n. 28767/2204

“Per ritenere integrata la responsabilità precontrattuale occorre che:

  • tra le parti siano in corso trattative;
  • che queste siano giunte ad uno stadio idoneo a ingenerare nella parte che invoca l’altrui; il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto;
  • esse siano state interrotte, senza giustificato motivo, dalla parte cui si addebita detta responsabilità;
  • pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto.”

Cassazione n. 27102/2024

“In materia di responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta, posta dall’articolo 1337 cod. civ., la tutela del corretto dipanarsi dell’iter formativo del negozio, costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, cui vanno applicate le relative regole in tema di distribuzione dell’onere della prova. Ne consegue che, qualora gli estremi del comportamento illecito siano integrati dal recesso ingiustificato di una parte, grava non su chi recede la prova che il proprio comportamento corrisponde ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe, viceversa, sull’altra parte l’onere di dimostrare che il recesso esula dai limiti della buona fede correttezza postulati dalla norma di qua.”

Cassazione n. 19022/2023

“La responsabilità precontrattuale prevista dall’art. 1337 cod. civ., coprendo nei limiti del cosiddetto interesse negativo, tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e art. 2056 cod. civ., si estende al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto, ancorché avente contenuto diverso, rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste Erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse; e se altresì affermato che il danno risarcibile per responsabilità precontrattuale consiste “nei limiti dello stretto interesse negativo (contrapposto all’interesse all’adempimento), rappresentato sia dalle spese inutilmente sopportate… Sia dalla perdita di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto maggiormente vantaggioso, e dunque non comprende, in particolare, il lucro cessante risarcibile se il contratto non fosse stato poi adempiuto o fosse stato risolto per colpa della controparte“.

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festival di sanremo

Festival di Sanremo: addio alla Rai? Festival di Sanremo: dal 2026 gara pubblica, l’affidamento alla RAI è illegittimo, non rispetta le norme sui contratti pubblici

Festival di Sanremo: affidamento illegittimo alla RAI

Illegittimo l’affidamento diretto del Festival di Sanremo alla RAI da parte del Comune di Sanremo.  Dal 2026, l’organizzazione del Festival dovrà passare attraverso una gara pubblica. La decisione, contenuta nella sentenza del TAR Liguria n. 843/2024, nasce dal ricorso presentato dai discografici italiani, rappresentati dal presidente dell’Associazione Fonografici Italiani.

Festival della canzone italiana: concessione marchio

Nel 2023, il presidente dell’Associazione Fonografici Italiani la sua etichetta discografica  contestano la concessione diretta del Marchio “Festival della Canzone Italiana” alla RAI, senza una procedura di evidenza pubblica.

La convenzione, infatti, garantiva alla RAI l’uso esclusivo del marchio e l’organizzazione delle edizioni 2024 e 2025. Il Comune avrebbe dovuto invece rispettare le norme europee e nazionali sui contratti pubblici, aprendo il bando a operatori del settore.

Festival di Sanremo:  la convenzione tra Comune e RAI

La convenzione per il Festival di Sanremo prevede che la RAI organizzi l’evento a sue spese, presentando un progetto-programma al Comune per l’approvazione. In cambio, ottiene i diritti di sfruttamento economico del marchio e del Festival. Il Comune fornisce supporto logistico e floreale e riceve un corrispettivo, oltre a una percentuale sui ricavi generati dalla RAI.

Il TAR ha evidenziato che questa convenzione è un “contratto attivo”, poiché la RAI trae un’opportunità di guadagno. Pertanto, la concessione dovrebbe seguire i principi di trasparenza, concorrenza e imparzialità, previsti dalla normativa vigente.

Marchio e format: entità distinte

Un punto centrale della sentenza riguarda la distinzione tra il marchio e il format. Il TAR ha stabilito che il marchio “Festival della Canzone Italiana” non è inscindibilmente legato al format ideato dalla RAI. Dal 1951 al 1991, infatti, il Comune ha gestito il Festival autonomamente. La RAI si è infatti limitata trasmettere la manifestazione canora in televisione.

Negli ultimi anni poi, il format del Festival è stato modificato più volte, dimostrando l’assenza di un legame indissolubile tra marchio e organizzazione. Nel 2021, ad esempio, il Festival si è svolto senza pubblico per via della pandemia e in altre edizioni sono stati introdotti cambiamenti significativi nelle modalità di gara e conduzione.

Le difese della RAI e del Comune di Sanremo

La RAI ha sostenuto di essere titolare esclusiva del diritto d’autore sul format e di aver investito interamente nella sua creazione. Il TAR però ha respinto questa tesi, affermando che il contratto con il Comune riguarda lo sfruttamento del marchio, non del format.

Il Comune, dal canto suo, ha difeso la convenzione come immodificabile, sottolineando la necessità di un legame tra organizzazione e trasmissione televisiva. Questa posizione non ha convinto i giudici, che hanno ritenuto possibile separare i due ruoli, come avveniva prima del 1991.

Festival di Sanremo: negata la qualifica di bene culturale

Il Tar ha escluso che il Festival, il marchio o il format possano essere qualificati come beni culturali ai sensi del Codice dei beni culturali. Si tratta di diritti immateriali e di una manifestazione circoscritta nel tempo e nello spazio, non assimilabile a espressioni di identità culturale collettiva.

Conseguenze sul Festival di Sanremo

Le edizioni 2024 e 2025 rimangono salve, poiché l’organizzazione è già in fase avanzata. Tuttavia, dal 2026, il Comune dovrà aprire una gara pubblica per assegnare la gestione del Festival. La RAI, quindi, potrebbe non essere più l’organizzatrice principale dell’evento. La sentenza segna un cambiamento epocale per il Festival di Sanremo. Dal 2026, nuovi operatori potranno concorrere per gestire l’evento, garantendo maggiore trasparenza e concorrenza. La competizione potrebbe portare a innovazioni significative nel panorama musicale e mediatico italiano.

 

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pitbull senza museruola

Pitbull senza museruola sul bus: è reato Interruzione di pubblico servizio quando il passeggero pretende di salire su un autobus con un pitbull senza guinzaglio e museruola

Interruzione di pubblico servizio

Pitbull senza museruola sul bus è reato di interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del Codice penale. La norma punisce chiunque cagioni un’interruzione o un turbamento del regolare svolgimento di un servizio pubblico o di pubblica necessità. La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 45289/2024 ha chiarito che chi pretende di salire su un autobus con un cane senza guinzaglio e museruola anche in presenza del volere contrario e legittimo del conducente dellautobus, commette questo reato.

Autobus fermo per un cane senza museruola

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un utente che ha preteso di salire su un autobus con un pit bull di grossa taglia senza museruola e senza guinzaglio. Il conducente, conformemente al regolamento del trasporto pubblico, ha impedito l’accesso all’animale. Ne è scaturita una lunga discussione, che ha ritardato la partenza dellautobus di circa quarantacinque minuti. Il padrone del cane, peraltro, ha mantenuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dell’autista e degli altri passeggeri. La Corte di Cassazione per queste ragioni ha confermato la condanna per interruzione di pubblico servizio, rigettando ogni pretesa difensiva. Il ricorrente aveva lamentato l’assenza di un regolamento esposto all’interno del mezzo e invocato l’attenuante della provocazione. Questi argomenti però sono stati respinti.

Obbligo di rispettare il regolamento di viaggio

Il conducente di un autobus ha il dovere di far rispettare il regolamento di viaggio. Questo include prescrizioni specifiche sull’accesso con animali domestici, come l’uso obbligatorio del guinzaglio e della museruola per i cani di grossa taglia o considerati potenzialmente pericolosi. Il regolamento ha una base giuridica solida e tutela la sicurezza di tutti i passeggeri. In questa vicenda, il conducente ha agito quindi nel rispetto dei propri obblighi e non ha assunto una condotta provocatoria. La Cassazione ha chiarito infatti che non si può configurare l’attenuante della provocazione quando il soggetto “provocatore” esercita un dovere istituzionale con equilibrio e senza intenti vessatori.

Esclusa l’attenuante della provocazione

La difesa aveva invocato l’attenuante della provocazione, sostenendo che il comportamento del conducente avesse scatenato la reazione dell’imputato. La Suprema Corte però ha respinto questa tesi, ricordando i criteri applicativi dell’attenuante. Secondo l’articolo 62 del Codice penale, essa sussiste infatti solo se il comportamento del provocatore è oggettivamente ingiusto e compiuto con intenti di dispetto o di faziosità. Nel caso concreto, l’autista ha svolto solo il proprio dovere, facendo rispettare una norma regolamentare. Non si tratta, dunque, di un comportamento ingiusto, ma di un’azione lecita e doverosa.

Irrilevanza dell’errore sulle attenuanti

Un ulteriore punto sollevato dalla difesa riguardava la mancata esposizione del regolamento sul mezzo pubblico. L’imputato riteneva di essere stato tratto in errore e che l’assenza della regola visibile giustificasse la sua reazione. La Cassazione ha ribadito l’irrilevanza di questo errore ai fini delle attenuanti. Ai sensi dell’articolo 59, comma 3, del Codice penale, le circostanze attenuanti erroneamente supposte dall’autore non possono essere valutate a suo favore. Di conseguenza, anche l’ignoranza del regolamento non esime dalla responsabilità penale.

Cassazione sul reato di interruzione di pubblico servizio

Dalla decisione emerge in conclusione che il reato di interruzione di pubblico servizio si configura quando un soggetto impedisce o turba il normale svolgimento di un servizio pubblico, causando un ritardo significativo o una sospensione temporanea. Nel caso del pit bull senza museruola, la discussione prolungata e latteggiamento intimidatorio del padrone hanno impedito la ripartenza dell’autobus, causando un disagio ai passeggeri e al servizio stesso. Questa condotta integra quindi pienamente il reato previsto dall’articolo 340 del Codice penale.

divorzio breve

Divorzio breve: la guida Divorzio breve: la legge n. 55/2015 ha ridotto i tempi del divorzio riducendo il tempo   di attesa dalla separazione consensuale o giudiziale

Divorzio breve: la legge n. 55/2015

Il divorzio breve, introdotto in Italia dalla Legge n. 55 del 2015, ha segnato un’importante evoluzione nel diritto di famiglia italiano. Questa legge ha ridotto significativamente il tempo necessario per ottenere la dissoluzione legale del matrimonio, migliorando così l’efficienza del sistema giuridico e rispondendo alle esigenze di una società sempre più dinamica. In questo articolo, esploreremo l’istituto alla luce della Legge n. 55/2015, analizzando i suoi effetti pratici e le implicazioni per i coniugi coinvolti.

Cos’è il divorzio breve?

Il divorzio breve è un’innovazione legislativa che ha ridotto i tempi necessari per ottenere il divorzio in Italia, abbattendo i periodi del divorzio successivi alla separazione previsti dalla Legge n. 898 del 1970. Questa normativa stabiliva infatti che i coniugi dovessero essere separati per almeno tre anni prima di poter chiedere il divorzio. Con l’introduzione della Legge n. 55/2015, queste tempistiche sono state ridotte. Questo cambiamento ha rappresentato una semplificazione per molte coppie, rendendo più rapida la conclusione di un matrimonio che, per vari motivi, è giunto al capolinea. L’obiettivo della riforma è stato quello di alleggerire il carico di lavoro dei tribunali e rispondere alle necessità di una società in rapido cambiamento, in cui i legami coniugali si deteriorano più velocemente.

Legge n. 55/2015: modificati i tempi

La Legge n. 55/2015, approvata il 6 maggio 2015, ha modificato l’art. 3 della Legge n. 898 del 1970 (Legge sul Divorzio), che disciplinava i tempi del divorzio. Prima di tale riforma, come anticipato, i coniugi dovevano essere separati legalmente da almeno tre anni per poter ottenere il divorzio. Con l’introduzione del nuovo istituto, i tempi di separazione sono stati drasticamente ridotti, con l’intento di rendere più rapido e accessibile il processo di dissoluzione del matrimonio

La legge ha stabilito infatti che:

  • in presenza di una separazione consensuale, ossia quando i coniugi sono d’accordo sulla separazione e sugli effetti accessori (come l’affidamento dei figli e il mantenimento), il tempo di separazione necessario per chiedere il divorzio è ridotto a 12 mesi.
  • Nell’ipotesi invece di una separazione giudiziale, che viene avviata quando i coniugi non riescono a trovare un accordo e devono ricorrere al tribunale per risolvere le questioni relative alla separazione, il termine per chiedere il divorzio è ridotto a 6 mesi.  

Questa modifica ha reso il processo di divorzio più veloce ed efficiente, contribuendo a ridurre il tempo di attesa per chi desidera mettere fine a un matrimonio.

Come funziona il divorzio breve?

Lo scioglimento del matrimonio breve non cambia le modalità di separazione, ma agisce esclusivamente sui tempi in cui è possibile chiedere il divorzio. Vediamo come funziona nei due principali scenari

  1. La procedura di divorzio breve consensuale può essere avviata dopo 12 mesi dalla separazione consensuale. Il vantaggio principale è che, in questo caso, non è necessario il passaggio in tribunale, se non sono presenti figli minorenni o non ci sono altre problematiche legali da risolvere.
  2. Il divorzio breve giudiziale invece può essere avviato dopo che la separazione legale è stata dichiarata dal giudice. In questo caso i coniugi possono chiedere il divorzio dopo soli 6 mesi. Questo significa che, in caso di separazione giudiziale, i tempi per il divorzio sono molto più rapidi rispetto a quelli previsti prima della legge n. 55/2015.

Divorzio breve quali vantaggi

La Legge n. 55/2015 ha portato numerosi vantaggi, tanto per i coniugi quanto che per il sistema giuridico.

Maggiore rapidità

Il principale vantaggio è rappresentato dalla riduzione dei tempi. Le coppie che hanno già intrapreso un processo di separazione, ma che non sono ancora riuscite a ottenere il divorzio, possono finalmente porre fine al loro matrimonio con maggiore tempestività. Questo è particolarmente importante in un contesto in cui le persone cercano di risolvere rapidamente le difficoltà familiari per poter ricominciare una nuova vita.

Minore conflittualità

La possibilità di concludere rapidamente la procedura consente alle parti di evitare prolungamenti inutili e tensioni prolungate. I tempi più brevi incoraggiano infatti i soggetti coinvolti a trovare una soluzione pacifica.

Semplificazione delle procedure giudiziarie

La legge ha prodotto anche l’effetto di ridurre il carico di lavoro dei tribunali, perché la procedura è meno complessa. Con l’abbattimento dei tempi di separazione, il numero di casi pendenti in tribunale si è ridotto con conseguente alleggerimento del sistema giudiziario.

Maggiore tutela per i minori

Questo modo di procedere più rapido è senza dubbio positivo anche per i figli minorenni. La procedura accelerata riduce il periodo di conflitto e di incertezza familiare e i minori riescono ad adattarsi più velocemente alla nuova situazione.

Divorzio breve: svantaggi

Nonostante i numerosi vantaggi, l’istituto non è privo di criticità. Alcuni esperti ritengono che i tempi ridotti non permettono una riflessione adeguata sui danni emotivi della separazione per i coniugi e i figli minori. La rapidità della procedura potrebbe ridurre inoltre il tempo disponibile per una negoziazione accurata degli accordi, soprattutto per quanto riguarda la custodia dei figli e la divisione equa  dei beni.

 

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concorso in magistratura

Concorso in magistratura: 350 posti, come partecipare Concorso in magistratura: pubblicato il decreto che bandisce il concorso per 350 magistrati ordinari, domande ammesse fino al 17 gennaio 2025

Concorso in magistratura: 350 Posti

Il Ministero della Giustizia ha bandito un concorso in magistratura per 350 posti da magistrato ordinario. La procedura è regolata dal Decreto Ministeriale del 10 dicembre 2024, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del 17 dicembre 2024.

Presentazione delle domande

I candidati possono inviare la domanda dalle ore 12:00 del 17 dicembre 2024 fino alle ore 12:00 del 17 gennaio 2025. La partecipazione avviene esclusivamente online tramite il portale del Ministero della Giustizia. Per l’accesso è necessario autenticarsi con SPID di secondo livello, Carta d’Identità Elettronica o CNS. La compilazione del modulo prevede il pagamento di un contributo di segreteria pari a 50 euro tramite PagoPA.

Requisiti di partecipazione

I candidati devono soddisfare i seguenti requisiti generali:

  • cittadinanza italiana e pieno esercizio dei diritti civili;
  • condotta morale incensurabile;
  • idoneità fisica all’impiego;
  • regolarità con gli obblighi di leva, se previsti;
  • non essere stati dichiarati inidonei per quattro concorsi precedenti.

Inoltre, è necessario possedere una laurea in giurisprudenza (corso di almeno quattro anni) o rientrare in specifiche categorie professionali, come magistrati onorari con sei anni di servizio, abilitati alla professione forense, o dipendenti pubblici con qualifiche dirigenziali.

Prove concorso in magistratura

Il concorso comprende una prova scritta e una prova orale.

Prova scritta concorso in magistratura

I candidati redigeranno tre elaborati su diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, ciascuno della durata di otto ore.

Prova orale concorso in magistratura

L’esame orale include materie giuridiche come diritto civile, diritto penale, procedura civile, diritto costituzionale e comunitario. Inoltre, si verifica la conoscenza di una lingua straniera scelta tra inglese, francese, spagnolo e tedesco.

Graduatoria e comunicazioni

La graduatoria finale viene redatta in base ai punteggi delle prove. A parità di punteggio, prevalgono titoli di preferenza come la minore età anagrafica o il servizio lodevole nella pubblica amministrazione.

Il diario delle prove scritte sarà pubblicato l’11 marzo 2025 sulla Gazzetta Ufficiale e sul sito del Ministero della Giustizia. Eventuali aggiornamenti seguiranno le stesse modalità.

 

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abitazione signorile o popolare

Abitazione signorile o popolare: classamento ai fini delle imposte Imposte ipotecarie e catastali: per determinarle è necessario il classamento e a tal fine rilevano le opinioni comuni

Abitazione signorile o popolare e imposte

Abitazione signorile o popolare: in materia di imposte ipotecarie e catastali, la recente sentenza n. 31725/2024 della Corte di Cassazione chiarisce un principio importante sul classamento delle abitazioni. La classificazione di un immobile come “signorile”, “civile” o “popolare“, in assenza di specifiche definizioni legislative, dipende dalle opinioni comuni prevalenti in un determinato contesto storico e territoriale.

Imposte ipotecarie e catastali: classamento immobile

La pronuncia pone fine a una vicenda che ha inizio quando un contribuente contesta il classamento di un immobile. L’immobile, inizialmente classificato nella categoria A/1 (abitazione signorile), è infatti ritenuto dal proprietario privo delle caratteristiche di lusso necessarie per inquadrarlo in detta categoria. Per questo presenta un’istanza per il riclassamento dell’immobile in categoria A/2 (abitazione civile), ma l’Agenzia delle Entrate respinge la richiesta. Il contribuente ricorre quindi alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) che però rigetta il ricorso. Secondo la CTP, per ottenere una revisione del classamento è necessaria una modifica sostanziale dell’immobile o una richiesta di revisione formale avanzata dal Comune. La situazione, secondo la Commissione, non rientra nelle ipotesi previste dalla normativa.

In seguito la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Liguria ribalta la decisione. La CTR  evidenzia diverse carenze nell’immobile che lo rendono non conforme alla categoria A/1:

  • superficie reale inferiore a quella indicata dall’Agenzia delle Entrate;
  • mancanza di caratteristiche di pregio, come ottima esposizione e finiture di lusso;
  • vani con altezze ridotte e locali igienici piccoli e privi di finestre;
  • posizione dell’immobile in una zona non di assoluto pregio.

Revisione classamento: serve una prova concreta e attuale

L’Agenzia delle Entrate impugna la decisione della CTR in Cassazione. L’ente sostiene che, secondo l’articolo 38 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), la revisione del classamento dovrebbe essere basata su una prova concreta e attuale di una riduzione della redditività dell’immobile. La CTR però, a detta dell’Agenzia, ha ignorato questo requisito fondamentale.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’Agenzia, dichiarandolo inammissibile. I giudici  chiariscono che la CTR ha fondato la propria decisione su elementi oggettivi legati allo stato effettivo dell’immobile. La questione della redditività ex articolo 38 TUIR non è applicabile al caso in esame, poiché quella norma riguarda l’imposizione fiscale sui redditi, mentre la controversia verte sulla corretta attribuzione della categoria catastale.

L’importanza delle opinioni comuni per il classamento

Un punto centrale della sentenza riguarda la qualificazione delle abitazioni. La Cassazione ribadisce che la classificazione di un immobile come “signorile”, “civile” o “popolare” non deriva da un criterio legislativo rigido. Essa deve riflettere piuttosto le opinioni comuni di un determinato contesto spazio-temporale. Questa posizione conferma un principio fondamentale nel diritto catastale: il procedimento di classamento è di tipo accertativo e deve tenere conto della realtà fattuale dell’immobile. L’assenza di caratteristiche di lusso pertanto, come finiture pregiate o posizione esclusiva, rende non giustificabile l’attribuzione della categoria A/1.

Per la Corte quindi il contribuente ha il diritto di richiedere, in qualsiasi momento, la correzione dei dati catastali. Questo principio, già affermato in precedenti sentenze, si fonda sul fatto che la rendita catastale non ha natura definitiva. Essa può essere modificata quando emergono nuove informazioni o errori nei dati dichiarati. Negare al contribuente la possibilità di correggere gli errori originari equivale a cristallizzare un’imposizione fiscale distorta e questo contrasta con il principio di capacità contributiva sancito dall’articolo 53 della Costituzione italiana.

 

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responsabilità precontrattuale

Responsabilità precontrattuale: risarcito l’interesse negativo Responsabilità precontrattuale: se una delle parti si ritira dall’accordo l’altra parte ha diritto al risarcimento del danno emergente

Responsabilità precontrattuale e danno emergente

La responsabilità precontrattuale ricollegabile al contratto non concluso comporta il risarcimento del danno emergente (interesse negativo) non delle utilità (interesse positivo) che il contraente adempiente avrebbe conseguito se l’altra parte avesse concluso l’accordo. Lo ha precisato il Consiglio di Stato nella sentenza n. 8668/2024, ribadendo anche l’importanza della prova del danno richiesto.

Procedura di gara annullata

Una società specializzata nella gestione di impianti di depurazione propone alla Regione Campania un progetto per il completamento e la gestione dell’impianto di depurazione di Napoli Est. Dopo una serie di valutazioni positive e l’assegnazione di un termine per adeguare la proposta, la Regione  avvia una procedura di gara. In seguito a una rivalutazione delle proprie priorità in materia di depurazione, la Regione decide però di revocare la delibera iniziale, che aveva ammesso la proposta della società e, di conseguenza, annulla la procedura di gara. La società, sentendosi danneggiata da queste decisioni, presenta ricorso al TAR, sostenendo che l’amministrazione aveva agito illegittimamente. La società chiede quindi il risarcimento dei danni. Il TAR respinge il ricorso, ma la società  presenta appello, di cui la Regione chiede il respingimento.

Richiesta risarcitoria legittima

Una sezione del Consiglio di Stato riconosce la responsabilità precontrattuale della Regione Campania per aver interrotto un accordo contrattuale in corso, causando un danno economico alla società. Legittima quindi la richiesta risarcitoria. Viene però ordinata una perizia contabile per accertare i costi sostenuti dalla società per il progetto, definire il valore dell’investimento, e gli altri costi sostenuti.

Il Consiglio di Stato in via definitiva rileva che la controversia verte sul risarcimento del danno subito dalla società a seguito dell’annullamento, da parte della Regione Campania, di una gara d’appalto per la gestione di un impianto di depurazione. Il focus della vicenda richiede nello specifico la verifica della sussistenza del danno da lesione dellinteresse negativo (danno emergente) derivante dalla accertata responsabilità contrattuale. Respinta invece la richiesta risarcitoria derivante da lucro cessante.

Responsabilità precontrattuale: il danno richiesto va provato

Per accertare il danno emergente il perito stima alcuni costi, come quelli per le fideiussioni, ma trova difficoltà nel quantificare con precisione i costi di preparazione del progetto a causa della mancanza di documentazione dettagliata e del tempo trascorso. La società giustifica questa mancanza di documentazione dettagliata sostenendo che gran parte dei costi risalgono a prima del 2003 e che, a causa dei termini di conservazione previsti dalla legge, non è più in possesso di tutta la documentazione. La società propone quindi un metodo di calcolo alternativo.

Il Consiglio di Stato ritiene che sia però necessario stabilire se questo metodo di calcolo sia sufficiente a dimostrare in modo convincente l’entità del danno subito dalla società, in assenza di una documentazione contabile più precisa. La Regione, dal canto suo, contesta la validità del metodo proposto e ritiene che la società non abbia fornito prove sufficienti per quantificare il danno. Il giudice dell’appello ritiene quindi opportuno valutare le argomentazioni di entrambe le parti e decidere se il metodo proposto dalla società sia accettabile per determinare l’ammontare del risarcimento.

Danno emergente: risarcito nei limiti della spesa provata

Fatta questa premessa il Consiglio di Stato precisa che la responsabilità precontrattuale si basa sul principio di buona fede e correttezza nelle trattative. Essa tutela il contraente leso da comportamenti scorretti altrui, limitando il risarcimento all’interesse negativo.

Nel caso in esame, il Collegio esclude tuttavia il risarcimento di spese relative alla predisposizione del progetto, perché non supportate da documentazione probatoria adeguata. Non è sufficiente infatti fornire un principio di prova generico; è necessario dimostrare in modo rigoroso il danno subito, come stabilito dall’art. 2697 c.c. e ribadito da recenti decisioni (Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10092).

Il verificatore non ha riscontrato prove documentali sufficienti per diverse voci di costo, tra cui spese per consulenze (€ 178.000), trasferte (€ 4.000), e redazione del progetto (€ 900.000). Questi importi non risultano verificabili né giustificabili con documenti amministrativi o contabili. Inoltre, non emergono elementi che attestino il loro riconoscimento da parte della Regione Campania.

L’unica eccezione riguarda i costi della polizza fideiussoria, pari a 62.100. Per tale voce di costo, la documentazione depositata ha dimostrato l’effettivo sostenimento della spesa, consentendo al Collegio di riconoscere il risarcimento.

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assegno di divorzio

Assegno di divorzio: vale anche il sacrificio della moglie straniera Assegno di divorzio: nel riconoscerlo e quantificarlo non si può ignorare il sacrificio della moglie che ha lasciato paese e carriera

Assegno di divorzio

L’assegno di divorzio deve tenere conto del sacrificio compiuto dalla moglie che ha lasciato il suo Paese d’origine per seguire il marito. Questo sacrificio assume un ruolo di rilievo nella valutazione dell’assegno divorzile, confermando il principio perequativo-compensativo. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 31709/2024.

Valorizzato il contributo della moglie alla carriera del marito

Il Giudice di primo grado, in una causa di divorzio, riconosce alla ex moglie un assegno divorzile di 750 euro mensili, annualmente rivalutabile. Il Tribunale nella decisione valorizza la situazione economica delle parti e altri elementi cruciali. Tra questi emerge il sacrificio della donna, che ha lasciato il Turkmenistan, rinunciando a un incarico presso il Ministero dell’Economia, per trasferirsi in Italia e dedicarsi alla famiglia.

Il marito, professionista affermato con una carriera di lunga durata, nel tempo ha accumulato notevoli risorse economiche anche grazie al supporto della moglie. Il giudice ha infatti sottolineato che le conoscenze linguistiche della donna hanno senza dubbio favorito le attività professionali del coniuge. Il giudice dell’impugnazione conferma la decisione del Tribunale. Entrambi i coniugi però impugnano la sentenza: il marito contesta l’esistenza dei presupposti per l’assegno, mentre la moglie chiede un importo maggiore, pari a 5.000 euro mensili.

Il ruolo compensativo dell’assegno divorzile

La Cassazione rigetta il ricorso del marito, riconoscendo ancora una volta la funzione perequativa-compensativa dell’assegno divorzile. L’assegno spetta in presenza di uno squilibrio reddituale tra le parti e quando il coniuge richiedente dimostra l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive. Nel caso di specie la moglie ha dimostrato di non avere un’occupazione stabile e di trovarsi in una fase avanzata della vita, con difficoltà di reinserimento lavorativo. La rinuncia al proprio lavoro nel Paese d’origine rappresenta un sacrificio significativo, adottato per condividere un progetto familiare comune.

Il sacrificio della moglie: un elemento determinante

Secondo la Corte di Cassazione, il sacrificio compiuto dalla moglie assume in effetti un peso decisivo nella valutazione dell’assegno divorzile. Abbandonare il proprio Paese d’origine e un’occupazione stabile per seguire il marito rappresenta una scelta che ha influenzato profondamente la vita della donna. Tale scelta, condivisa da entrambi i coniugi, non può essere ignorata al momento della quantificazione dell’assegno. La decisione si colloca nel solco dei principi espressi dalle Sezioni Unite nel 2018 (sentenza n. 18287), secondo cui l’assegno di divorzio ha una duplice funzione: assistenziale e compensativa. Quest’ultima serve a riequilibrare i sacrifici fatti dal coniuge economicamente più debole durante la vita matrimoniale.

Criteri di valutazione ed equilibrio patrimoniale

La Corte d’Appello aveva comunque già valutato con attenzione lo squilibrio reddituale esistente tra le parti. Pur considerando i prelievi della moglie dal conto cointestato per un totale di 160.000 euro, aveva ritenuto che tale somma non fosse sufficiente a compensare lo squilibrio patrimoniale. L’importanza della valutazione globale della situazione economica dei coniugi al fine di determinare l’assegno di divorzio emerge chiaramente dalla sentenza.

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Ddl Sicurezza: dall’UE l’invito a modificare il testo Ddl Sicurezza: il Commissario per i Diritti Umani Europeo invita i senatori a rivedere il testo, troppi limiti alla libertà di pensiero

Ddl Sicurezza: l’invito dell’UE

Il Ddl Sicurezza continua a sollevare polemiche e opposizioni, con rilievi significativi provenienti dal Consiglio d’Europa e dalla politica italiana. Michael O’Flaherty, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, ha espresso preoccupazioni in una lettera indirizzata al Presidente del Senato, Ignazio La Russa.

O’Flaherty sottolinea come diversi articoli del Ddl limitino il diritto alla manifestazione e alla libertà di espressione ed esorta i senatori a modificare profondamente il testo prima di procedere all’approvazione.

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Le disposizioni sotto accusa del Ddl Sicurezza

Gli articoli contestati includono:

  • Articolo 11: introduce un’aggravante per reati commessi vicino a infrastrutture ferroviarie.
  • Articolo 13: estende il Daspo urbano e amplia l’arresto in flagranza differita.
  • Articolo 14: trasforma in reato penale il blocco stradale o ferroviario attuato con il corpo.
  • Articolo 24: aggrava le pene per imbrattamento di beni pubblici, con reclusione fino a tre anni in caso di recidiva.
  • Articolo 26: introduce un’aggravante per istigazione a disobbedire alle leggi e nuovi reati per disordini in carceri e centri di accoglienza.
  • Articolo 27: colpisce le proteste violente di stranieri irregolari nei centri di trattenimento.

Secondo il Consiglio d’Europa, queste norme, formulate in termini vaghi, potrebbero portare a un’applicazione arbitraria, minando il legittimo esercizio dei diritti fondamentali.

La risposta istituzionale e le reazioni

La Russa ha trasmesso la lettera alle commissioni competenti. La sua reazione pubblica ha definito l’intervento di O’Flaherty come un’ingerenza inaccettabile. Intanto, le opposizioni si sono schierate contro il Ddl, con oltre 1.500 emendamenti presentati e manifestazioni che hanno visto migliaia di partecipanti. La Rete nazionale “No Ddl Sicurezza” annuncia ulteriori proteste.

Ddl sicurezza: un percorso accidentato

Il Ddl, composto da 38 articoli, è stato approvato alla Camera nel settembre 2023, ma incontra difficoltà al Senato. Restano da discutere i due terzi del testo, comprese norme controverse come il divieto di vendere SIM ai migranti senza permesso di soggiorno e lo stop al rinvio della pena per madri con figli minori. Segnalazioni critiche sono giunte anche dal Quirinale, rendendo necessario un rinvio della discussione a gennaio 2025.

Il Ddl Sicurezza rappresenta un banco di prova per il Governo, che cerca di bilanciare misure restrittive e rispetto dei diritti fondamentali. Le pressioni del Consiglio d’Europa e le critiche interne rendono indispensabile una revisione del testo per garantire la conformità agli standard democratici e costituzionali.

 

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