danno da demansionamento

Danno da demansionamento: l’aggiornamento tecnologico incide Danno da demansionamento: è compito del lavoratore dimostrare il danno subito, su cui incide il mancato aggiornamento tecnologico

Danno da demansionamento

La Corte Suprema di Cassazione, con l’ordinanza n. 3400/2025, afferma che la mancanza di aggiornamenti tecnologici influisce sul danno da demansionamento. Tale incidenza è maggiore nei settori caratterizzati da rapidi progressi tecnologici. Il giudice, nel calcolare il risarcimento per il danno subito, deve considerare questo aspetto insieme ad altri parametri. Il lavoratore però ha l’onere di provare il danno da demansionamento, anche con elementi indiziari che siano gravi, precisi e coerenti.

Reintegrazione nel livello e risarcimento del danno

Il Tribunale, in qualità di giudice di primo grado, accoglie le richieste di un lavoratore contro la società datrice che lo ha declassato. L’autorità giudiziaria ordina alla società di reintegrare il dipendente nelle mansioni precedenti e risarcirlo per il danno subito alla sua professionalità.

La Corte d’appello conferma la decisione iniziale. In primo grado è stato accertato l’inquadramento al V livello del dipendente, così come le sue elevate competenze, l’autonomia decisionale e la gestione delle risorse assegnate, assenti nelle caratteristiche tipiche dell’operatore specialista in customer care. Il giudice di primo grado quindi ha giustamente valutato e corretto l’inquadramento del dipendente al III livello. Il lavoratore da parte sua ha invece adempiuto all’onere della prova a suo carico. Il demansionamento è durato tre anni, per cui risulta appropriata anche la valutazione equitativa del danno di 1000 euro mensili. La società datrice decide tuttavia di contestare la decisione ricorrendo alla Corte di Cassazione.

Impatto del mancato aggiornamento tecnologico

La Cassazione però respinge il ricorso, ritenendo inammissibili e infondate le obiezioni sollevate. La Corte territoriale ha valutato correttamente le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore senza riscontrare in esse le caratteristiche tipiche del V livello rispetto al III livello. In materia di dequalificazione professionale, la Cassazione respinge anche il secondo motivo d’appello ricordando che “è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti dei lavoratori tutelati costituzionalmente”, valutando anche la persistenza della condotta lesiva, la sua durata e ripetizione delle condizioni di disagio professionale e personale e l’inerzia del datore di lavoro verso le richieste del dipendente, anche senza intenzione deliberata di declassare o svalutare i compiti del dipendente. La prova del danno deve essere fornita dal dipendente anche attraverso indizi gravi, precisi e coerenti capaci di dimostrare aspetti come qualità e quantità del lavoro svolto, tipo di professionalità richiesta, durata del demansionamento o nuova collocazione assunta successivamente.

L’importanza degli aggiornamenti tecnologici

Nel caso specifico, la Cassazione ritiene che la Corte d’appello abbia qualificato correttamente i comportamenti della società datrice e il conseguente danno da demansionamento subito dal lavoratore a causa della condotta reiterata dell’azienda e della privazione degli aggiornamenti tecnologici necessari. Corretta anche la quantificazione equitativa del danno poiché ben motivata, in linea con i criteri applicati e non sproporzionata per eccesso e per difetto. L’importo mensile risarcitorio è stato determinato valutando l’oggettiva differenza tra le mansioni eseguite dal dipendente prima e dopo aprile 2018. Da quel momento infatti il lavoratore è stato effettivamente assegnato a mansioni inferiori dopo aver ottemperato a un ordine giudiziale per riassegnazione delle mansioni.

 

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ascensore in condominio

Ascensore in condominio: necessario un bilanciamento dei diritti Ascensore in condominio: necessario bilanciare i diritti dei disabili con quelli dei condomini al godimento delle parti comuni

Ascensore in condominio

L’installazione di un ascensore in condominio comporta numerosi vantaggi, soprattutto per le persone con difficoltà motorie. Quest’opera migliora infatti senza dubbio l’accessibilità all’edificio condominiale. Occorre tuttavia considerare anche la presenza di criticità.  L’installazione di un ascensore può incidere infatti sul decoro architettonico dell’edificio, ridurre lo spazio disponibile nelle scale o nei pianerottoli e generare costi di manutenzione elevati. Occorre quindi bilanciare il diritto all’accessibilità con il rispetto delle parti comuni e dei diritti degli altri condomini. La normativa tutela le persone con disabilità, ma impone limiti per garantire che nessun condomino subisca danni o pregiudizi eccessivi. La solidarietà condominiale è fondamentale, ma non deve trasformarsi in un’imposizione unilaterale. Nel caso deciso dal Tribunale di Nocera Inferiore con la sentenza n. 396/2025 la realizzazione dell’ascensore è possibile perché la riduzione del vano scale di 30 centimetri non è tale da rendere inservibili le scale interessate dall’opera.

Ascensore in condominio: un equilibrio tra diritti

L’installazione di un ascensore in un condominio è un’opera essenziale per garantire l’accessibilità alle persone con disabilità e agli anziani. Per la Cassazione l’ascensore è equiparabile agli impianti di luce, acqua e riscaldamento, poiché migliora la vivibilità degli appartamenti. La realizzazione di tale opera però deve rispettare il principio di solidarietà condominiale a tutela dei singoli condomini, ma anche dei disabili che hanno diritto alla eliminazione delle barriere architettoniche.

La legge n. 13 del 1989 stabilisce regole specifiche per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati. Secondo l’articolo 2 di questa legge, le innovazioni volte a eliminare tali barriere possono essere approvate con una maggioranza non qualificata dell’assemblea condominiale. Questo semplifica l’iter decisionale, facilitando l’adozione di soluzioni a beneficio delle persone con disabilità e degli anziani. Tuttavia, la normativa impone anche alcuni limiti. L’articolo 1120 del Codice Civile vieta innovazioni che rendano inutilizzabili alcune aree comuni dell’edificio. Ad esempio, se l’installazione dell’ascensore riduce drasticamente la larghezza delle scale o compromette l’accesso ad altri spazi comuni, l’opera può essere contestata e considerata illegittima.

Limiti all’installazione dell’ascensore

L’ascensore deve garantire un equilibrio tra l’interesse all’accessibilità e il diritto di tutti i condomini a utilizzare gli spazi comuni. La Cassazione ha chiarito che l’installazione non può privare neanche un solo condomino del diritto al godimento delle parti comuni dell’edificio. Questo significa che, se un condomino dimostra che l’ascensore limita in modo significativo il suo accesso o il suo utilizzo delle scale, la richiesta può essere bloccata o deve essere trovata una soluzione alternativa.

La giurisprudenza ha confermato questa posizione in diverse sentenze. Nel caso di specie il Tribunale ha rilevato che una riduzione delle scale da 1,10 metri a 0,80 metri come conseguenza della installazione dell’ascensore, non rende le scale del tutto inservibili, purché rimanga garantito un accesso sicuro. Tuttavia, ogni caso va valutato singolarmente, considerando le specificità dell’edificio e delle esigenze dei condomini.

Esonero dalle spese per i dissenzienti

Un aspetto cruciale della sentenza riguarda anche la ripartizione delle spese. L’articolo 1121 del Codice Civile prevede infatti che se l’innovazione comporta una spesa molto elevata o ha carattere voluttuario (non essenziale), i condomini che non intendono trarne vantaggio dall’opera, ovvero l’ascensore, possono rifiutarsi di partecipare alle spese.

I condomini dissenzienti devono quindi essere esonerati dai costi se dichiarano espressamente il loro dissenso prima dell’inizio dei lavori. Ovviamente chi decide di non partecipare alla spesa non potrà usufruire dell’ascensore, salvo successiva richiesta di adesione con il pagamento della propria quota.

 

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mantenimento al figlio maggiorenne

Mantenimento al figlio maggiorenne che si disinteressa del padre Mantenimento al figlio maggiorenne: dovuto se non è economicamente autosufficiente, non rileva che si disinteressi del padre

Mantenimento al figlio maggiorenne

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 3552/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di mantenimento al figlio maggiorenne non autosufficiente. L’obbligo del genitore non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma richiede un’accurata verifica della situazione economica e lavorativa del figlio, anche se questo non dimostra interesse per il genitore obbligato.

Revoca del mantenimento del figlio maggiorenne

Un padre chiede la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne perché economicamente indipendente. L’uomo lamenta inoltre il disinteresse del figlio per il suo stato di salute, a causa del quale, da anni subisce interventi chirurgici. Il Tribunale respinge la richiesta, perché di fatto il giovane non ha ancora raggiunto un’indipendenza economica stabile. La Corte d’Appello conferma in gran parte la decisione, sottolineando che l’obbligo di mantenimento si protrae in assenza di autosufficienza economica.

Non rileva il rapporto affettivo

La Cassazione ritiene inammissibile il ricorso del padre, evidenziando alcuni aspetti del diritto al mantenimento dei figli.

Il genitore deve continuare a garantire il supporto economico fino a quando il figlio non ottiene un’adeguata autosufficienza finanziaria. Il giudice deve verificare l’effettivo inserimento nel mondo del lavoro, valutando il tipo di occupazione, la stabilità del reddito e le prospettive future del giovane. Il diritto del figlio a ricevere l’assegno non dipende dalla qualità del rapporto con il genitore obbligato. L’eventuale distanza affettiva non costituisce infatti motivo valido per interrompere il sostegno economico. Per ottenere la revoca dell’assegno, il genitore deve provare piuttosto un significativo peggioramento delle proprie condizioni finanziarie. Nel caso in esame, però tale prova non è stata fornita.

Autosufficienza economica

La decisione della Cassazione conferma un orientamento consolidato. Il mantenimento del figlio maggiorenne resta cioè un obbligo fino a quando non si accerta una reale autosufficienza economica. Il disinteresse affettivo vero il genitore obbligato non incide sulla persistenza dell’assegno, poiché il diritto al mantenimento è di natura patrimoniale e non morale. I genitori che desiderano ottenere la revoca dell’assegno devono dimostrare con prove concrete il raggiungimento dell’autonomia economica del figlio. Inoltre, eventuali difficoltà finanziarie del genitore devono essere adeguatamente documentate per incidere sulla decisione del giudice.

La Cassazione ribadisce in sostanza il principio di responsabilità genitoriale, sottolineando l’importanza di garantire ai figli le condizioni necessarie per una reale indipendenza economica, a prescindere dalla relazione affettiva con gli stessi.

 

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violenza sessuale

Violenza sessuale anche senza contatto fisico Violenza sessuale: per integrare il reato è sufficiente la costrizione, non occorre il contatto fisico tra reo e persona offesa

Violenza sessuale: non occorre il contatto fisico

La violenza sessuale si configura anche senza contatto fisico. L’agente lede l’autodeterminazione della vittima con violenza, minaccia o induzione. La costrizione o l’induzione a subire atti sessuali, può avvenire anche senza contatto fisico diretto. Lo ha specificato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5688/2025.

Reato “costringere” la collega ad atti di autoerotismo

Il Tribunale di primo grado ritiene un soggetto responsabile di diversi illeciti penali ai danni della persona offesa. Tra questi figurano il reato di atti persecutori, estorsione e violenza sessuale. Quest’ultimo reato si sarebbe configurato perché l’imputato avrebbe costretto la sua collega, un’animatrice turistica, a compiere atti di autoerotismo ripresi in un video che l’uomo avrebbe poi diffuso.

Non c’è reato se manca il contatto fisico

L’imputato nel contestare il reato di violenza sessuale, rileva la totale assenza di un contatto fisico con la persona offesa. A sua difesa l’uomo invoca l’interpretazione più restrittiva della nozione di violenza sessuale per la quale “la nozione di atti sessuali racchiude in sé i concetti di congiunzione carnale e quella di atti di libidine.”

Violenza sessuale: costrizione della libertà sessuale

La Cassazione nel rigettare il ricorso dell’imputato fornisce alcune importanti precisazioni sul reato di cui all’art. 609 bis c.p. La violenza sessuale non implica necessariamente un contatto fisico tra l’aggressore e la vittima. Essa si verifica quando l’aggressore compromette la capacità della vittima di autodeterminarsi, costringendola o persuadendola a eseguire o subire azioni sessuali.

La giurisprudenza sottolinea che il contatto fisico non è un requisito essenziale per la configurazione del reato. Ciò che conta è il coinvolgimento fisico della vittima, obbligata o indotta a partecipare o subire atti sessuali contro la sua volontà.La protezione della libertà sessuale individuale è l’interesse giuridico in questione. La violenza si manifesta attraverso qualsiasi atto che comprometta questa libertà, sia esso caratterizzato da un contatto diretto fisico oppure no.

L’aspetto psicologico del reato risiede nella consapevolezza e volontà di compiere un atto che invade e danneggia la libertà sessuale della vittima. Non è necessario che l’aggressore agisca con lo scopo di soddisfare i propri desideri sessuali; possono esserci diversi obiettivi, come la violenza fisica, l’umiliazione morale o il disprezzo pubblico.

La minaccia di divulgare immagini intime, ad esempio, può configurare il reato di violenza sessuale se si costringe la vittima a eseguire atti di autoerotismo. In questo caso, la libertà sessuale della vittima risulta violata, indipendentemente dalla presenza fisica o virtuale dell’aggressore.

La definizione di “atto sessuale” è oggettiva e non dipende dalle intenzioni dell’aggressore. È sufficiente che l’atto sia oggettivamente in grado di compromettere la libertà sessuale della vittima.

 

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certificazione della parità di genere

Certificazione della parità di genere Certificazione della parità di genere: cos’è, a cosa serve e cosa prevede l’avviso finalizzato a ricevere i contributi per ottenerla

Cos’è la certificazione della parità di genere

Il “Sistema di certificazione della parità di genere” è un progetto del PNRR, promosso dal Dipartimento per le pari opportunità. Il sistema si pone  l’obiettivo di colmare il divario di genere nelle imprese italiane, incoraggiandole ad attuare politiche che promuovano l’uguaglianza di genere in tutte le aree cruciali per lo sviluppo professionale delle donne.

Ciò comprende la promozione della trasparenza nei processi aziendali, la riduzione delle disparità retributive, l’incremento delle possibilità di carriera e la protezione della maternità.

Il programma si fonda su una certificazione volontaria che le imprese possono ottenere dimostrando l’adozione di politiche efficaci per l’uguaglianza di genere.

Questo sistema è sostenuto da fondi europei del PNRR, finalizzati sia all’assistenza tecnica che alla copertura dei costi della certificazione per le piccole e medie imprese. Per monitorare e ottimizzare il programma, è stato creato un Comitato permanente, composto da rappresentanti dei vari ministeri, esperti e organizzazioni sindacali.

Certificazione di parità: pubblicato l’avviso del bando

In data 11 febbraio 2025 sul sito del Dipartimento per le pari opportunità è stato pubblicato l’avviso relativo al secondo bando, dopo quello del 6 novembre 2023, per i contributi necessari ad ottenere la certificazione.

Soggetti beneficiari e requisiti

I contributi sono destinati alle micro, piccole e medie imprese che hanno almeno un dipendente, possiedono la partita iva, hanno la sede legale od operativa in Italia, sono in regola con il DURC e non sono soggette a procedimenti finalizzati alla revoca di contributi pubblici o in condizioni di decadenza in base alla normativa antimafia. Requisiti ulteriori sono richiesti alle imprese con più di 50 dipendenti.

Tipologie di contributi

I contributi concessi consistono:

  • in voucher per supportare le imprese nella fase di analisi dei processi aziendali con il fine di ottenere la certificazione;
  • in contributi necessari a coprire i costi legati al rilascio della certificazione da parte degli Organismi di certificazione.

Come fare domanda

La domanda deve essere presentata in modalità telematica tramite il sito restart.infocamere.it a cui si accede tramite SPID, CIE e CNS. Al termine della procedura di compilazione il sistema rilascia una ricevuta. Alla domanda devono essere allegati determinati documenti a pena di inammissibilità.

Cosa succede in caso di accoglimento

Le domande vengono valutate in base all’ordine di presentazione nel termine di 90 giorni dall’inoltro. Se la domanda viene accolta il Soggetto Attuatore verifica il rispetto di alcuni requisiti da parte dell’impresa richiedente, in seguito registra l’aiuto su RNA o sui Registri SIAN e SIPA e infine adotta il provvedimento di concessione. Il contributo deve essere accettato e utilizzato entro precisi termini temporali. Il mancato rispetto di questi e di altri obblighi imposti alle imprese comporta la revoca del contributo e l’obbligo di rimborsare l’importo ricevuto.

 

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responsabilità medica

Responsabilità medica: niente risarcimento per il nato “non sano” Responsabilità medica: il nato con malformazioni non ha diritto al risarcimento, non esiste il diritto a “non nascere” se non sano

Nessun risarcimento per il nato disabile

In materia di responsabilità medica la Cassazione, nell’ordinanza n. 3502/2025 ribadisce un principio già sancito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 25767/2015. Non è possibile riconoscere un pregiudizio di tipo biologico o alla vita di relazione al figlio nato con delle malformazioni. L’ordinamento non contempla “il diritto a non nascere se non sano” né la vita del nato può essere considerata un danno conseguenza della condotta illecita del medico.

Risarcimento del danno da nascita indesiderata

Due genitori agiscono in giudizio per conto del figlio minorenne contro una Azienda Sanitaria Locale, il medico e le sue eredi e una Compagnia di assicurazione per la manleva. I ricorrenti chiedono il risarcimento dei danni causati dal condotta negligente e inadeguata del medico. Il sanitario infatti, non rilevando le gravi malformazioni congenite del nascituro presentava, non ha consentito alla madre, se adeguatamente informata, di valutare l’interruzione di gravidanza. Il medico con la sua condotta ha cagionato al neonato il danno da nascita indesiderata e  la lesione del diritto a nascere sano.

Diritto del nascituro a una vita senza limitazioni

Il giudice di prime cure ritiene il sanitario responsabile nei confronti dei genitori del nato, ma ritiene insussistente un danno da nascita indesiderata in capo al figlio. La Corte di appello conferma la decisione. Da qui il ricorso in Cassazione, per contestare il riconoscimento ai soli genitori del diritto al risarcimento per il danno causato dal mancato rilievo delle gravi malformazioni. Il nascituro infatti ha il diritto di godere di una vita senza limitazioni. Da questa considerazione la richiesta risarcitoria del figlio in considerazione delle precarie condizioni di vita che è costretto a vivere e tanto, non solo in riferimento alla situazione lavorativa, ma anche in riferimento al normale andamento dei rapporti familiari e sociali”. 

Responsabilità medica: diritto a non nascere se non sano

Per la Cassazione però il ricorso è inammissibile in quanto “è stata esclusa in via generale la possibilità di riconoscere un pregiudizio biologico e relazionale in capo al figlio, essendo per lui l’alternativa quella di non nascere, inconfigurabile come diritto in sé, neppure sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo.”

La giurisprudenza di legittimità ha già sancito che “il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno consistente nella sua stessa condizione, giacché lordinamento non conosce il diritto a non nascere se non sano”, né la vita del nato può integrare un danno-conseguenza dellillecito del medico.” Di recente la Cassazione ha osservato che: la ragione di danno da valutare sotto il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo» rivela sostanzialmente quale mero «mimetismo verbale del c.d. diritto a non nascere se non sani», andando pertanto «incontro alla . . . obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con lunica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza» non essendo d’altro canto possibile stabilire un «nesso causale» tra la condotta colposa del medico e le «sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita.”

 

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Nessun mantenimento alla ex se non cerca lavoro Mantenimento alla ex: non è dovuto l’assegno alla moglie che, per età e capacità, può mantenersi da sola ma non si attiva per cercare lavoro

Assegno di mantenimento alla ex

La Cassazione, con l’ordinanza n. 3354/2025, ha deciso che l’assegno di mantenimento alla ex è dovuto se dimostra di aver cercato attivamente lavoro senza successo. La capacità lavorativa è un criterio essenziale per determinare il diritto all’assegno. È responsabilità del richiedente fornire prove di un’infruttuosa ricerca occupazionale. L’assegno, previsto dall’articolo 156 del codice civile, difende la solidarietà coniugale ma non copre ciò che il coniuge potrebbe ottenere autonomamente. Nel caso specifico, la richiesta della ex moglie è stata respinta poiché non ha dimostrato di aver cercato lavoro e ha rifiutato ingiustificatamente un’offerta.

Mantenimento post-separazione: art. 156 c.c.

Il Tribunale si esprime in prima istanza sulla separazione personale di due coniugi. Il marito contesta la decisione, chiedendo che la colpa della separazione venga attribuita alla moglie e che la richiesta di mantenimento venga respinta. La moglie non ha infatti soddisfatto le condizioni dell’articolo 156 c.c., che richiedono l’assenza di redditi adeguati. In giudizio, la moglie chiede il rigetto delle richieste del marito e che un terzo creditore del coniuge le paghi le somme dovute come mantenimento.

Mantenimento negato senza ricerca attiva

La Corte rigetta invece le richieste della moglie, accogliendo parzialmente quelle del marito. L’indagine istruttoria non permette alla Corte di stabilire se la fine del matrimonio sia attribuibile a uno o entrambi i coniugi. Tuttavia, riguardo al mantenimento richiesto dalla moglie, esso viene negato poiché ha rifiutato un’offerta lavorativa senza giustificazioni e non ha cercato attivamente lavoro. La donna si è limitata a inviare un curriculum a una banca, lamentando difficoltà nel trovare occupazione per mancanza di un mezzo proprio. Secondo la Corte l’assegno non è dovuto data la giovane età della richiedente, la breve durata del matrimonio e l’assenza di figli. L’assegno mensile di 250 euro decretato dal Tribunale non è giustificabile poiché non è stato neanche dimostrato il tenore di vita durante il matrimonio durato solo quattro anni.

Differenze economiche e difficoltà lavorative

La parte soccombente ricorre in Cassazione sottolineando che il marito possiede un notevole patrimonio immobiliare e un reddito adeguato mentre lei  durante il matrimonio si occupava della casa e della famiglia. Tra i due esisteva una significativa disparità economica e patrimoniale; inoltre va considerata la sua difficoltà nel trovare lavoro in Calabria, regione nota per problemi occupazionali.

Mantenimento alla ex escluso se capace di lavorare

La Cassazione però rigetta il ricorso sottolineando il mancato sforzo nella ricerca lavorativa da parte della moglie. Gli Ermellini ribadiscono che in tema di separazione dei coniugi, spetta al richiedente dimostrare lattivazione sul mercato del lavoro compatibile con le proprie capacità professionali in assenza di adeguati redditi propri. L’assegno previsto dall’articolo 156 c.c., pur esprimendo un dovere solidaristico, non può comprendere ciò che ordinariamente ci si può procurare autonomamente.

Per la Cassazione quindi le differenze reddituali non sono rilevanti se manca la prova della ricerca attiva di impiego; nel caso specifico è stato provato semmai il rifiuto ingiustificato dell’offerta lavorativa proposta.

 

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Scioglimento del condominio possibile se l’edificio è autonomo Scioglimento del condominio: possibile solo se l’edificio o gli edifici presentano le caratteristiche tipiche degli edifici autonomi 

Scioglimento del condominio

L’autorità giudiziaria può disporre lo scioglimento del condominio se l’edificio risulta divisibile in parti del tutto autonome. Lo ha sancito il Tribunale di Pavia con la sentenza n. 134/2025 in cui richiama gli articoli 61 e 62 delle disposizioni di attuazione del codice civile a supporto della propria decisione.

Scioglimento condominio: impianti in comune

Alcuni condomini agiscono in giudizio per chiedere lo scioglimento di un edificio condominiale. Gli attori chiedono la divisone, in particolare, di due corpi evidenziati nelle tabelle allegate agli atti di causa. L’obiettivo del scioglimento consiste nella creazione di due condomini autonomi, fatta eccezione per l’impianto fognario e di quello per l’illuminazione del cortile. Gli attori precisano infatti che questi impianti resteranno in comunione tra i due condomini che nasceranno dopo lo scioglimento.

Altri condomini però si oppongono alla richiesta di scioglimento perché all’esito dell’istruzione della causa gli attori avrebbero richiesto “di mantenere in comune una maggiore estensione di beni” rinunciando così parzialmente alla domanda iniziale. Essi precisano inoltre che alcuni punti del regolamento condominiale, richiamato nei vari contratti di compravendita delle unità immobiliari, impedirebbero lo scioglimento.

Edifici autonomi: scioglimento possibile

Il Tribunale competente nell’accogliere la domanda attorea di scioglimento richiama il contenuto dell’articolo 61 delle disposizioni di attuazione del Codice civile. La norma nello specifico prevede che: “Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato. Lo scioglimento è deliberato dall’assemblea con la maggioranza prescritta dal secondo comma dell’articolo 1136 del codice, o è disposto dall’autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell’edificio della quale si chiede la separazione”.

Il successivo articolo 62 disp. att. c.c., precisa invece che lo scioglimento di un condominio composto da più edifici può essere disposto anche se restano in comune alcune delle cose comuni indicate nell’articolo 1117 del codice civile. Se poi la divisione necessita della modifica dello stato delle cose e per sistemare i locali o le dipendenze tra i condomini servono delle opere di intervento, allora la maggioranza necessaria per deliberare lo scioglimento è quella indicata dal comma 5 dell’articolo 1136 c.c. ovveroun numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore delledificio.” 

Come rileva il Tribunale, nel caso di specie il condominio risulta composto da due edifici. Il primo è composto da 8 villette a schiera, il secondo da 8 villette a schiera e 4 appartamenti. Sei comproprietari su dodici chiede lo scioglimento di modo che sussiste il requisito numerico posto dall’art. 61 citato pari al 30%.”

Il Tribunale rileva inoltre che la CTU ha accertato lautonomia strutturale degli edifici da sciogliere, i quali, anche se simili, non presentano elementi strutturali per sostenere i carichi di entrambi.  Questa caratteristica è fondamentale ai fini dello scioglimento. La Cassazione infatti in diverse sentenza ha affermato che L’autorità giudiziaria può disporre lo scioglimento del condominio, ai sensi degli artt. 61 e 62 disp. att. cod. civ., solo quando l’immobile sia divisibile in parti strutturalmente autonome.” 

Disposizioni contrattuali e regolamentari invariate

Il Tribunale nel respingere le eccezioni sollevate dai condomini contrarie allo scioglimento del condominio rileva quindi che la richiesta degli attori debba essere accolta.

Il Tribunale quindi dispone lo scioglimento del condomino, accerta e dichiara come parti comuni gli impianti della fognatura e quello di illuminazione del cortile. Le precedenti disposizioni contrattuali e regolamentari riguardanti le servitù e la gestione delle aree comuni restano invariate dopo lo scioglimento del condominio, senza alterare gli obblighi e i diritti stabiliti dal regolamento condominiale.

 

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interruzione trattative stragiudiziali

Interruzione trattative stragiudiziali: l’avvocato deve comunicarla Interruzione trattative stragiudiziali: viola l’articolo 46 comma 7 l’avvocato che non la comunica al collega di controparte

Avvocato non comunica l’interruzione delle trattative

E’ responsabile sotto il profilo disciplinare l’avvocato che non comunica al collega della controparte l’interruzione delle trattative stragiudiziali. Dalla sentenza del CNF n. 291/2024 risulta infatti che l’avvocato non ha informato il collega avverso del deposito di un ricorso per la regolamentazione del diritto di visita e la determinazione dell’assegno di mantenimento per un minore.

Interruzione trattative stragiudiziali non comunicata

Il procedimento disciplinare trae origine dall’esposto di un Avvocato. L’esponente ha lamentato di non essere stato informato dal collega difensore della parte avversa del deposito di un ricorso giudiziale, in pendenza di trattative stragiudiziali. Nel novembre 2017 si è tenuto un incontro tra le parti e i loro legali presso lo studio del collega incolpato, nel corso del quale quest’ultimo ha omesso di comunicare il deposito del ricorso. A distanza di due settimane circa l’avvocato ha inviato una comunicazione alla controparte senza menzionare ancora una volta il deposito del ricorso. Solamente a inizio dicembre 2017 ha informato il collega della volontà del proprio assistito di procedere con la notifica del ricorso.

L’Avvocato denunciato ha ammesso di aver depositato il ricorso il 3 novembre 2017. Lo stesso sostiene però di averlo comunicato alla controparte durante il primo incontro di novembre. Nelle sue difese ha evidenziato anche che con una comunicazione di fine ottobre 2017 aveva avvisato che, in assenza di un incontro entro la settimana successiva, avrebbe proceduto con il deposito del ricorso.

Avvocato responsabile della violazione dell’art. 46 CDF

Il CDD competente per territorio ha ritenuto l’Avvocato denunciato responsabile della violazione dell’art. 46, comma 7, del Codice Deontologico Forense. Lo stesso però ha considerato la condotta di ridotta gravità e ha applicato la sanzione dell’avvertimento. Il CDD ha motivato la propria decisione evidenziando che lo scambio di email tra i legali dimostrava l’esistenza di trattative stragiudiziali. Pertanto, il deposito del ricorso senza preventiva comunicazione rappresentava una violazione disciplinare.

L’Avvocato incolpato ha quindi impugnato la decisione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (CNF), sostenendo che il CDD avrebbe erroneamente interpretato gli elementi probatori, non considerando la documentazione prodotta. La decisione sarebbe stata presa in modo acritico, senza valutare adeguatamente le circostanze del caso. La condotta contestata infine sarebbe stata meritevole solo di un richiamo verbale in presenza di una violazione.

Obbligo di comunicazione al collega

Per il CNF però i motivi di impugnazione sono infondati per cui ha confermato la decisione del CDD. Il Consiglio Nazionale Forense ha sottolineato che l’obbligo deontologico di comunicare l’interruzione delle trattative è finalizzato a garantire trasparenza e correttezza nei rapporti tra colleghi. L’Avvocato, partecipando all’incontro dei primi di novembre, ha implicitamente riconosciuto l’esistenza di trattative in corso, pertanto avrebbe dovuto informare la collega del deposito del ricorso. Il CNF ha evidenziato inoltre che la normativa deontologica in materia di diritto di famiglia impone un’attenzione particolare agli interessi del minore. L’Avvocato ha infatti il dovere di ridurre il conflitto tra le parti e favorire una soluzione condivisa. Importantissima la trasparenza nei rapporti tra colleghi nelle cause di diritto di famiglia.

 

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autovelox mobile

Autovelox mobile segnalato da cartello “fisso”: multa valida Autovelox mobile: legittima la multa anche se l'apparecchio di rilevazione della velocità è segnalato la un cartello fisso

Autovelox mobile segnalato da cartello fisso

È legittima la multa elevata tramite una postazione autovelox mobile segnalata unicamente con un cartello “fisso”. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2857/2025.

La legge non richiede l’uso di cartelli mobili per segnalare le postazioni mobili di controllo della velocità. È sufficiente che la postazione sia segnalata in modo chiaro e visibile. Non importa che il cartello sia fisso o mobile.

Superamento limiti velocità: multa contestata

Un conducente riceve un verbale di contestazione per il superamento dei limiti di velocità. Per questa violazione gli viene   irrogata una multa di 1.658,00 euro, decurtati 10 punti dalla patente con sospensione della stessa per sei mesi.

Tra le ragioni del ricorso per la contestazione del verbale figura la segnalazione non adeguata dell’apparecchio con cartelli mobili, nel rispetto del Dm 13 giugno 2017. Dal verbale inoltre non risultano la tipologia del dispositivo utilizzato (fisso o mobile), i dati dell’omologazione ministeriale, i riferimenti alla taratura e alle prescritte verifiche periodiche per accertare la funzionalità dell’apparecchio. La Prefettura nel resistere al ricorso afferma il corretto allestimento della postazione di controllo e la regolarità dei risultati degli apparecchi di rilevazione della velocità.

Legittima la segnalazione permanente

Il Giudice di pace rigetta il ricorso del conducente precisando che “la presegnalazione del dispositivo di rilevazione della velocità poteva legittimamente essere effettuata alternativamente con segnaletica temporanea o permanente.”

Il conducente impugna la decisione davanti al Tribunale competente. Questa autorità giudiziaria, nella sua qualità di giudice dell’appello conferma la sentenza impugnata e la conseguente legittimità della rilevazione e della multa irrogata. Il conducente però non si arrende e ricorre in Cassazione.

Autovelox mobile: con cartello fisso la multa è legittima

La Suprema Corte però boccia tutti i motivi del ricorse. Per quanto riguarda poi nello specifico la  contestazione sulla validità della postazione mobile di controllo della velocità con cartello fisso gli Ermellini precisano che la legge italiana non impone che la postazione mobile per il rilevamento della velocità debba essere obbligatoriamente segnalata tramite cartelli mobili. L’importante è che gli automobilisti siano avvisati della possibilità di controlli della velocità in un determinato tratto di strada.

Questa funzione di avviso può essere svolta da qualsiasi tipo di cartello, sia fisso che mobile, senza alcuna distinzione. Questo significa che per legge, non è obbligatorio l’utilizzo di un cartello mobile per segnalare la presenza di una postazione di controllo della velocità.La funzione di avviso può essere assolta da qualsiasi cartello, sia fisso che mobile. L’importante è che il cartello sia ben visibile e che avvisi gli automobilisti della possibilità di controlli della velocità indipendentemente dal tipo di postazione (fissa o mobile), è fondamentale che sia adeguatamente segnalata e ben visibile.

 

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