Patto di quota lite: il CNF spiega la ratio
Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 25/2025, pubblicata il 20 luglio sul sito del Codice deontologico, ha riaffermato il divieto di patto di quota lite ai sensi di art. 25 co. 2 del CDF e art. 13 commi 3 e 4 L. n. 247/2012. Tale divieto tutela l’interesse del cliente e la dignità della professione forense, impedendo la commistione tra interessi del legale e risultati della lite.
La ratio del divieto di patto di quota lite
Secondo la sentenza, la ratio del divieto risiede nella necessità di preservare l’indipendenza dell’avvocato e evitare che il compenso, se collegato all’esito della lite, trasformi il rapporto professionale in un rapporto associativo. In tal caso, l’avvocato parteciperebbe direttamente agli interessi pratici esterni della prestazione, compromettendo la trasparenza e l’imparzialità.
Impatto sul rapporto cliente‑avvocato
La decisione sottolinea che un equo compenso basato sul valore previsto dell’affare è lecito, ma è vietato un accordo che leghi la remunerazione all’esito pratico della lite. In questo modo si evita la trasformazione del rapporto in una forma di partecipazione economica ai frutti del contenzioso.
Conferme da giurisprudenza e dottrina
La sentenza n. 25/2025 si inserisce in una consolidata giurisprudenza: Cassazione n. 2169/2016, CNF n. 260/2015, n. 26/2014 e n. 225/2013 avevano già chiarito tale principio. Conferma anche l’orientamento espresso nella recente Cass. n. 23738/2024.
In sintesi, il CNF riafferma che il divieto di patto di quota lite è necessario per proteggere il rapporto di fiducia tra cliente e avvocato e tutelare la dignità della professione, evitando che il legale diventi partecipe dell’esito economico della lite.