colpa medica

Colpa medica per dimissioni premature Le dimissioni premature del paziente con infarto in corso portano alla responsabilità penale omissiva del medico di pronto soccorso

Dimissioni premature e responsabilità penale omissiva

Colpa medica per le dimissioni premature e il mancato approfondimento diagnostico che provocano la morte del paziente a distanza di poche ore nella propria abitazione. Scatta la responsabilità per omissione del medico di pronto soccorso. L’alterazione della troponina, in base a quanto previsto dalle linee guide, richiede un monitoraggio per procedere eventualmente a un esame successivo del valore. L’ospedale sovraffollato e l’impossibilità di un intervento tempestivo non rilevano. Queste le conclusioni a cui è giunta la Cassazione nella sentenza n. 41173/2024.

Responsabilità medico di pronto soccorso

La Corte d’Appello assolve l’imputato dal reato di omicidio colposo perché prescritto.

Il PM lo ha ritenuto responsabile del decesso della vittima a causa della sua negligenza, imperizia e imprudenza. Nella sua qualità di medico del pronto soccorso, l’imputato ha infatti ignorato le linee guida da adottare in caso di sospetto infarto, procedendo alle dimissioni premature del paziente.

La Corte ha ritenuto non contestabili le conclusioni dei periti del PM e del GUP. Gli esami di laboratorio hanno rivelato un aumento della troponina, dal valore di riferimento di 14 a 17,42. Le linee guida della società europea di cardiologia del 2011 impongono che il paziente che presenti questi valori sia mantenuto in uno stato d’osservazione con ripetizione degli esami di laboratorio ogni 3 ore. Previsto poi il ricovero in presenza dell’aumento del valore, con esami da ripetere nelle 6/24 ore successive. Tutte queste condotte sono state  omesse dal medico. Il paziente infatti, una volta dimesso, è deceduto presso la propria abitazione dopo circa 6 ore e 1/2.

Ipertensione pregressa del paziente: segnale significativo

Per la Corte la presenza della pregressa patologia del paziente (ipertensione arteriosa) era tale da aggravare i profili di responsabilità del sanitario, che avrebbe dovuto essere maggiormente allertato in ordine alla necessità di un monitoraggio diretto del medesimo secondo quanto suggerito dalle linee guida (con consulenza cardiologica, esame ecocardiografico, test da sforzo, controlli seriali da ECG e ripetizione ogni quattro ore per almeno tre volte degli esami sugli enzimi miocardici); responsabilità, tra l’altro, ritenuta desumibile anche sulla base della prescrizione indicata in sede di dimissioni e con le quali era stato suggerito il mero monitoraggio dei soli valori pressori.”

Quando il paziente è entrato nel pronto soccorso non presentava una percentuale elevata di rischio di morte. Se la crisi cardiaca fosse sopraggiunta in ospedale e fosse stata trattata adeguatamente, il paziente si sarebbe potuto salvare.

La Corte d’Appello ha concluso quindi per la responsabilità penale del medico per condotta omissiva e nesso di causa tra questa e il decesso del paziente. La stessa però ha rilevato che il reato era estinto a causa della prescrizione sopravvenuta e quindi lo ha assolto sotto il profilo della responsabilità penale, ritenendolo responsabile dal punto di vista civilistico.

Errata l’assoluzione per prescrizione del reato

L’imputato nell’impugnare la decisione contesta la negata assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato.” Per l’imputato è errato avere ritenuto che il lieve aumento della troponina fosse collegato alla crisi cardiaca causata dalla crisi ipertensiva. I dati clinici rivelavano l’assenza di una alterazione ecocardiografica per cui escludevano con una probabilità elevata l’infarto del miocardio. Più verosimile che lo stesso si fosse manifestato quando il paziente era a casa. Da escludere quindi il nesso di causa. Il tutto senza trascurare che le condizioni del pronto Soccorso erano tali da non poter garantire un’adeguata e rapida assistenza. L’evento letale pertanto si sarebbe manifestato comunque.

Colpa medica per omissione

Per la Cassazione però il ricorso è del tutto inammissibile e l’unico motivo sollevato del tutto infondato.

Dopo aver analizzato la giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica la Cassazione ribadisce che: in tema di responsabilità del sanitario per omissione, l’accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire l’effetto salvifico delle cure omesse, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, ed in particolare, della condizione specifica del paziente (…) conseguendone che l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’ipotesi circa il sicuro effetto salvifico dei trattamenti terapeutici non compiuti sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili.” 

Nesso di causa tra dimissioni premature e decesso

I giudici di merito hanno effettuato delle valutazioni inattaccabili e fondate sul sapere scientifico. Dalle prove è emerso che la patologia che ha condotto all’esito letale si stava sviluppando nel momento in cui è intervenuto l’imputato. Se il medico avesse seguito il percorso diagnostico corretto, sottoponendo il paziente a un elettrocardiogramma e alla ripetizione del dosaggio della troponina, la diagnosi si sarebbe rivelata rapida e corretta. Questa condizione avrebbe permesso di intervenire repentinamente ed efficacemente. L’evento sarebbe stato scongiurato con una probabilità prossima alla certezza. Per la Cassazione i Giudici di merito sono giunti pertanto a una valutazione corretta, aderente e rispettosa ai principi sanciti dalla giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica. Sussiste infatti il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e la morte del paziente in base al criterio della probabilità logica calato nel caso concreto.

 

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giurista risponde

Rifiuto ingiustificato del paziente e concorso nel danno Il rifiuto ingiustificato del paziente di un intervento emendativo di un errore medico configura un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Il paziente ha il diritto di rifiutare il trattamento medico, ma se il rifiuto è ingiustificato, perché non correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici, può integrare un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c, ove emerga che il completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente compiutamente consentito (Cass., sez. III, 11 dicembre 2023, n. 34395 (rifiuto ingiustificato del paziente).

La decisione in commento si pone in frontale contrasto con i precedenti della Cassazione, i quali hanno sostenuto che il rifiuto del paziente di sottoporsi ad un trattamento medico non può considerarsi una condotta idonea a ridurre il quantum del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.

Funzionale all’attribuzione della responsabilità civile è il nesso di causalità nella sua doppia veste di causalità materiale e giuridica:

  • la prima necessaria per stabilire se vi sia responsabilità e a quale condotta vada imputata;
  • la seconda necessaria per delineare l’area del danno risarcibile e determinare la misura del risarcimento.

Tale distinzione assume notevole peso in particolar modo nell’indagine su eventi ad eziologia multifattoriale: in conseguenza della infrazionabilità del nesso eziologico, coerente con l’orientamento maggioritario della Cassazione che non aderisce al modello nord-americano della causalità proporzionale (così, tra gli altri precedenti, Cass. 21 luglio 2011, n. 15991), l’accertamento di questo si risolve nella dicotomia tra sussistenza ed insussistenza.

L’infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è indirettamente confermata dall’art. 1227 c.c., che circoscrivendo la riduzione di responsabilità al solo caso di concorso causale fornito dalla vittima, esclude la frazionabilità nel caso in cui la condotta del responsabile concorra con cause naturali o condotte non colpevoli.

La materia della responsabilità medica è tipicamente teatro di eventi dall’eziologia complessa. Qui, in virtù del nuovo regime di responsabilità a doppio binario introdotto dalla L. 22 dicembre 2017, n. 219, l’istituto di cui all’art. 1227 c.c. trova rilevanza sia nel caso di responsabilità contrattuale tipico del rapporto tra paziente e struttura sanitaria sia, in forza dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2056 c.c., in quello di responsabilità extracontrattuale che interviene tra il primo e l’esercente la professione sanitaria.

Il caso concretamente oggetto della pronuncia in commento ha dato l’occasione alla Cassazione per esprimersi nuovamente sulla possibilità di considerare il rifiuto del paziente di sottoporsi a un trattamento medico rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 1227, comma 2, c.c. Questo presuppone che l’evento dannoso sia interamente ascrivibile alla responsabilità del debitore fungendo da criterio selettivo del danno risarcibile: si escludono i danni che il creditore avrebbe potuto evitare attraverso una condotta diligente.

L’analisi, rispetto al primo comma del medesimo articolo, si sposta pertanto sul piano della causalità giuridica, sul presupposto che il danno che taluno arreca a sé stesso non può essere traslato sull’autore della causa concorrente. Altra lettura individua in questa norma una portata causalistica, incentrata sull’esclusione dall’area del danno risarcibile le conseguenze non immediatamente e direttamente riconducibili alla condotta del danneggiante sulla base del fatto che la condotta del danneggiato interromperebbe il nesso di causalità giuridica già innescato, viene preferita una lettura solidaristica.

La tesi prevalente reputa, infatti, che alla regolazione della causalità sia esaustivamente demandato l’art. 1223 c.c. L’art. 1227, comma 2, va infatti letto quale norma comportamentale che addossa un dovere di autoresponsabilità al creditore. Alla luce del principio solidaristico che permea il Codice Civile ove letto attraverso il filtro dei dettami costituzionali si sancisce una regola etico-giuridica di condotta che impone doveri comportamentali ex art. 1176 c.c. anche al creditore. Così non si risarcisce il danno che sarebbe stato evitabile attraverso una condotta doverosa di quest’ultimo.

Di questo aspetto la Corte si è già occupata in un intervento del 2020 (Cass. 15 gennaio 2020, n. 515). In tale sede la Cassazione ha ricordato che il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche, sia per motivi religiosi che per altra natura non può essere considerato un fattore anomalo e imprevedibile ma è espressione di un diritto di rango costituzionale.

Sul punto, tale pronuncia ribadisce l’orientamento in tema: nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario senza consenso e non può essere configurato alcun obbligo a carico della vittima di sottoporsi al trattamento sanitario in quanto si tratterebbe di incidere surrettiziamente sull’intensità e sulla qualità del pieno riconoscimento del diritto di un soggetto di rifiutare un trattamento sanitario.

Il rifiuto ingiustificato del paziente non è quindi inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore previsto dall’art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1227, comma 2, c.c., soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (così anche Cass. 5 luglio 2007, n. 15231; Cass. 10 maggio 2001, n. 6502). In sostanza, i danni derivanti dalla condotta pregiudizievole del medico che il paziente abbia omesso di mitigare mediante un trattamento sanitario non sono da considerarsi “danni evitabili” secondo quanto disposto dall’art. 1227, comma 2, c.c.

La vicenda di cui si occupa la Cassazione nella sentenza in commento trae origine dalla domanda di risarcimento derivante da un intervento chirurgico negligente dal quale era poi scaturito il rifiuto del paziente-creditore di un ulteriore trattamento.

In questa occasione la Corte, in contrasto con i precedenti sopra citati, ammette che dal rifiuto del paziente di sottoporsi a trattamenti sanitari possano derivare conseguenze sul piano risarcitorio. Recuperando il nucleo centrale del principio solidaristico, la Cassazione concepisce l’art. 1227, comma 2 c.c. come un modo per ripartire i costi dell’esercizio del diritto di autodeterminazione del creditore. Non si tratta, infatti, di sanzionare l’esercizio di un diritto quanto di impedire che dei danni conseguenti a questo possa rispondere un soggetto che, effettivamente, non li ha cagionati. Attraverso il riferimento al rifiuto “ingiustificato”, poi, si introduce la necessità di un vaglio in concreto sulle ragioni del rifiuto dell’attività medica, tenendo in considerazione le relazioni tra i rischi derivanti dall’intervento e quelli derivanti dalla non sottoposizione allo stesso. È qui che si inserisce la valutazione (e la prova) sulla probabilità che l’intervento non voluto fosse determinante per l’evoluzione in senso migliorativo delle condizioni di salute del danneggiato e che non rischiasse di introdurre nel quadro clinico ulteriori e inaspettati pericoli.

Così la pronuncia in commento armonizza, nell’ambito dell’art. 1227, comma 2 c.c., la lettura solidaristica attraverso l’aggancio al principio di solidarietà e buona fede nel sindacato sulle ragioni del rifiuto, con quella causalistica mediante il rinvio al giudizio controfattuale ipotetico sul peso che l’intervento medico non accettato avrebbe avuto sul decorso causale che ha portato alle conseguenze dannose di cui il paziente-creditore si duole.

 

Contributo in tema di “Rifiuto ingiustificato del paziente e concorso nel danno”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

parcheggio non pagato

Parcheggio non pagato: non è valido il verbale dell’agente ATM Per la Cassazione, gli ispettori dell'azienda di trasporto pubblico non hanno il potere di accertare le violazioni del Cds nell'intero territorio comunale

Parcheggio non pagato

Parcheggio non pagato: non è valido il verbale dell’agente ATM. Ciò perchè l’ispettore dell’azienda di trasporto pubblico non ha il potere di accertare le violazioni del Cds nell’intero territorio comunale. E’ quanto ha ribadito la Cassazione nell’ordinanza n. 19244/2024.

La vicenda

Un uomo proponeva opposizione avverso tre verbali di accertamento del 2019, con i quali gli veniva contestata la violazione dell’art. 157, comma 8, c.d.s., per sosta del veicolo di sua proprietà in località prossima alla stazione della metropolitana, senza avere azionato il dispositivo di controllo del pagamento della tariffa.
Il Giudice di pace, nel contraddittorio del Comune di Milano ha accolto l’opposizione, in ragione dell’assenza di parchimetri e ha annullato le sanzioni.
Il comune proponeva impugnazione e il tribunale di Milano riformava la pronuncia di primo grado rilevando, da un lato, che, al contrario di quanto affermato dal primo giudice, l’art. 157, comma 6, c.d.s., non implica che il parchimetro debba essere collocato nella stessa via in cui avviene il parcheggio del veicolo; dall’altro lato, che, posto che è possibile pagare la sosta in diversi modi, è persino ultronea la possibilità di provvedere al pagamento a mezzo dei parchimetri situati nelle vie adiacenti.
Il giudice d’appello, inoltre, ha richiamato l’orientamento dello stesso Tribunale per cui sussiste il potere sanzionatorio in capo agli agenti accertatori dell’ATM, come si desume dalle disposizioni di riferimento (art. 17, commi 132 e 133, legge n. 127 del 1997).
L’uomo proponeva ricorso per cassazione, denunciando, innanzitutto, la violazione dell’art. 17, commi 132 e 133, legge n. 127 del 1997, per avere il Tribunale erroneamente affermato che agli ispettori delle aziende di trasporto pubblico siano conferite le funzioni di accertamento delle violazioni in materia di sosta dei veicoli nell’intero territorio comunale e non limitatamente alle aree in concessione alle aziende medesime.

La decisione

Per la Cassazione, iil primo motivo è fondato, il che comporta l’assorbimento degli altri motivi.
Gli Ermellini affermano infatti che va data continuità al precedente sezionale – Cass. n. 30288 del 2022 – relativo a controversia, tra le stesse parti, avente ad oggetto la medesima fattispecie, che interpreta l’art. 17, commi 132 e 133, legge n. 127 del 1997, nel senso che “il legislatore abbia inteso conferire agli ausiliari del traffico, ai fini di semplificazione dell’attività amministrativa, il potere di prevenire ed accertare infrazioni al codice della strada in ipotesi tassative. In presenza ed in funzione di particolari esigenze del traffico cittadino, quali quelle connesse alla gestione delle aree da riservare a parcheggio e l’esercizio del trasporto pubblico di persone, la disciplina ha previsto che determinate funzioni, obiettivamente pubbliche, possano essere eccezionalmente svolte anche da soggetti privati i quali abbiano una particolare investitura da parte della pubblica amministrazione, in relazione al servizio svolto, in considerazione ‘della progressiva rilevanza dei problemi delle soste e parcheggi’ (Cass. 551/2009)”.
La tesi secondo cui gli ispettori delle aziende di trasporto sarebbero però titolari di un potere di controllo limitato alle aree date in concessione alle aziende da cui dipendono, proseguono dal Palazzaccio, “appare confortata dal tenore letterale del comma 133, il quale, nel prevedere la possibilità di conferimento delle funzioni di cui al precedente comma 132 (accertamento delle violazioni in materia di sosta, limitatamente alle aree oggetto di concessione), chiarisce che le funzioni di prevenzione e di accertamento attengono alla materia della circolazione e sosta sulle sole corsie riservate al trasporto pubblico”.
“La natura derogatoria delle norme in oggetto rispetto alla regola generale secondo cui la prevenzione e l’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale compete ai soggetti di cui all’articolo 12, comma 3, c.d.s., non consente di ampliare in via interpretativa il novero delle funzioni attribuite a soggetti privati (Cass. 551/2009; Cass. 2973/2016; Cass. 3494/2019)”.
Quindi, mentre i dipendenti delle imprese gestrici di pubblici posteggi hanno poteri di accertamento e contestazione soltanto per le “violazioni in materia di sosta” e “limitatamente alle aree oggetto di concessione”, per i soggetti di cui al comma 133 le funzioni di prevenzione e accertamento devono intendersi limitate alla “sosta nelle aree oggetto di concessione” alle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone, ed “inoltre” alle ipotesi di circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico”, attribuite al personale ispettivo di dette aziende”.
Per cui, il Tribunale di Milano, discostandosi dalla giurisprudenza di legittimità, “ha erroneamente affermato che gli ispettori delle aziende di trasporto pubblico urbano hanno il potere di accertare le violazioni del c.d.s. ‘nell’intero territorio comunale'”.
Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata.

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fondo di garanzia

Fondo di garanzia per le vittime della strada Il Fondo di Garanzia per le vittime della Strada risarcisce i danni a persone e cose nei casi e nei modi stabiliti dalla legge

Cos’è il Fondo di Garanzia per le vittime della strada

Il Fondo di Garanzia per le vittime della strada (FGVS) è nato per risarcire i danni causati da sinistri stradali che si verificano in circostanze particolari.  Il fondo è operativo dal 12 giugno 1971 ed è amministrato dalla Consap con l’assistenza di un Comitato. Sul Fondo vigila il Ministero delle imprese e del Made in Italy.

Principali riferimenti normativi

Il Fondo di Garanzia è nato grazie alla legge n. 990/1969, abrogata quando è entrato in vigore il Codice delle assicurazioni private contenuto nel decreto legislativo n. 209/2005, continuamente modificato e aggiornato. Le principali norme di riferimento del Fondo di garanzia sono gli articoli 283 e 286 del dlgs n. 209/2005.

Fondo di Garanzia per le vittime della strada: quando opera

Il Fondo di Garanzia opera infatti nei casi specifici previsti dall’art. 283 del Codice delle assicurazioni private.

Esso risarcisce i danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti nei seguenti casi principali:

  • il veicolo o il natante che hanno cagionato i danni non è stato identificato;
  • il mezzo non risulta coperto da assicurazione;
  • il natante è assicurato presso un’impresa che opera all’interno del territorio della Repubblica in regime di stabilimento di libertà di prestazione di servizi e al momento del sinistro o in seguito si trova in stato di liquidazione coatta;
  • il veicolo è posto in circolazione contro la volontà del proprietario o di chi ne ha la titolarità;
  • il veicolo che ha cagionato il sinistro è estero e la targa non corrisponde o non corrisponde più allo stesso veicolo;
  • veicolo non assicurato è stato spedito nel territorio della Repubblica italiana da uno Stato dello Spazio Economico Europeo avvenuto nel periodo compreso tra la data di accettazione di consegna del veicolo e lo scadere del termine di 30 giorni.

Limiti risarcitori

Il Fondo di Garanzia non provvede sempre al risarcimento integrale dei danni. Ci sono dei casi in cui lo stesso risarcisce  certi tipi di danno e certi importi.

Ad esempio, nel caso in cui un veicolo non identificato sia responsabile dei danni, il Fondo risarcisce solo i danni alla persona, mentre per i danni alle cose risarcisce la parte del danno che eccede i 500,00 euro. Se invece il veicolo che cagiona i danni non è coperto da assicurazione, il Fondo copre sia i danni alle persone che alle cose. La norma di riferimento per conoscere in dettaglio i limiti risarcitori del Fondo è l’art. 283 del Codice delle. Assicurazioni Private.

Liquidazione dei danni

L’articolo 286 del Codice delle Assicurazioni private stabilisce che la liquidazione dei danni per i sinistri di cui all’articolo 283, coperti quindi dal Fondo di garanzia, venga effettuata da un’impresa assicurativa designata dall’IVASS secondo quanto stabilito nel regolamento adottato dal Ministero delle Imprese del Made in Italy.

L’impresa di assicurazione, una volta designata, liquida anche i danni relativi ai sinistri che si sono verificati oltre la scadenza del periodo assegnato e fino alla data indicata nel provvedimento che designa una nuova impresa.

Le somme che vengono pagate dalle imprese designate sono rimborsate dalla Consap, che gestisce il Fondo di garanzia per le vittime della strada.

Per sapere quale impresa è designata dall’IVASS alla liquidazione dei danni nei casi sopra esaminati basta visitare la pagina dedicata Elenchi Imprese del sito della Consap.

Come farsi risarcire dal Fondo vittime della Strada

Per chiedere il risarcimento nei casi di sinistro stradale rientrante in una delle ipotesi per le quali è prevista la copertura del Fondo vittime della strada  è necessario accedere al sito della Consap.

Nella pagina dedicata al Fondo vittime della Strada è sufficiente linkare nella pagina dedicata alla procedura  generare il modulo, compilarlo, sottoscriverlo e inviarlo, anche mezzo pec.

 

Leggi anche: Auto ferma: va sempre assicurata

errore medico

Errore medico e danno da perdita della capacità lavorativa Danno da perdita della capacità lavorativa presumibile dall’elevata invalidità permanente anche se riconducibile alla nascita

Capacità lavorativa: il danno è presumibile dai postumi permanenti

Errore medico: il danno da perdita della capacità lavorativa si presume dall’alta percentuale dei postumi permanenti invalidanti riportati al momento della nascita e il giudice può liquidarlo affidandosi a criteri equitativi. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 27353/2024.  

Risarcimento per lesione della capacità lavorativa anche se risalenti al parto

I genitori di una minore chiedono il risarcimento dei danni arrecati alla figlia dalla Asl a causa della condotta tenuta dal personale dipendente della divisione di ostetricia al momento del parto.

Il Tribunale accoglie in parte la domanda. La decisione viene appellata e la Corte conferma la decisione del Giudice di primo grado. L’autorità giudiziaria dell’appello riconosce  il risarcimento dei danni per il danno biologico permanente nella percentuale del 25% a causa dei danni riportati alla parte sinistra del corpo. La Corte però nega il risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla perdita della capacità lavorativa.

Serve una prova rigorosa

Per la Corte d’appello il mancato riconoscimento di questa voce di danno dipende dal fatto che il minore non percepisce redditi, i guadagni sono quindi assenti. Esiste pertanto un’incertezza sulla qualificazione e quantificazione delle varie voci di danno non superabile se non con una prova particolarmente rigorosa, caratterizzandosi il pregiudizio in questione come danno da perdita di chance lavorativa.” La prova dei postumi invalidanti non è sufficiente a dimostrare anche la perdita di futuri, possibili e maggiori guadagni.

Lesione altamente menomante: il danno è presunto

Parte soccombente nel ricorrere in Cassazione contesta la motivazione meramente apparente della decisione della Corte d’Appello in relazione alla mancata prova della perdita della capacità lavorativa. Con il secondo motivo contesta il rigetto della richiesta risarcitoria connessa alla perdita della capacità lavorativa specifica. In giudizio sono emersi indici presuntivi come il danno permanente del 25% e la “natura altamente menomante della lesione”. Trattasi di elementi che per la ricorrente dimostrano in via presuntiva la sussistenza del danno da perdita della capacità lavorativa e delle condizioni per liquidarlo nella misura pari al triplo della pensione sociale.

Elevata invalidità permanente, menomazione capacità lavorativa

La Cassazione accoglie il ricorso dopo l’esame congiunto dei due motivi di ricorso. Gli Ermellini sulla prova necessaria al riconoscimento del danno da perdita della capacità lavorativa ricordano che nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa ed il danno che necessariamente da essa consegue, li giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi. La liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dellinfortunio.”

La Corte d’appello nel rigettare le richieste risarcitorie della ricorrente ha completamente disatteso questo principio. Essa ha preteso la prova rigorosa della alterazione in peius della capacità di guadagno in un soggetto minorenne, con postumi permanenti del 25%,  un danno biologico altamente rilevante a fini presuntivi.

 

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auto ferma

Auto ferma: va sempre assicurata Auto ferma: il decreto n. 184/2023 prevede l'obbligo assicurativo anche per le auto non circolanti all'interno di aree private

Auto ferma e obbligo di assicurazione

L’auto ferma deve essere comunque assicurata. Non rilevano ai fini dell’obbligo assicurativo le caratteristiche del veicolo, il terreno sul quale viene utilizzato o il fatto che sia in movimento o fermo.

A stabilirlo è il nuovo comma 1 bis dell’art. 122 del Codice delle Assicurazioni private, come modificato dal decreto legislativo n. 184 del 22 novembre 2023. Esso completa la formulazione del nuovo comma 1 dell’art. 122, che così dispone: “Sono  soggetti  all’obbligo  di  assicurazione  per  la responsabilità civile verso i terzi prevista dall’articolo 2054  del codice civile i veicoli di cui all’articolo 1, comma 1, lettera rrr), qualora utilizzati conformemente alla funzione del veicolo in  quanto mezzo di trasporto al momento dellincidente.”

Questo obbligo, in base al nuovo comma 1 ter si applica anche ai “veicoli utilizzati esclusivamente in zone  il cui accesso è soggetto a restrizioni. Resta valida, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui al comma 1, la stipula, da parte di soggetti pubblici o  privati, di polizze che coprono il rischio di una pluralità di veicoli secondo la prassi contrattuale in uso, quando utilizzati per le attività proprie di tali  soggetti, sempre che i veicoli siano analiticamente individuati nelle polizze.”

Recepimento direttiva 2021/2018

Il decreto apparso in GU nel novembre 2023 ha recepito la Direttiva UE 2021/2018 del Parlamento e del Consiglio Europeo e che reca modifiche alla Direttiva 2009/103/CE sull’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione degli autoveicoli e sul controllo dell’obbligo di questa responsabilità.

Obbligo assicurativo: casi di esonero

Il nuovo articolo 122 del Codice delle Assicurazioni stabilisce in quali casi e per quali veicoli non è obbligatorio assicurare il veicolo.

Le deroghe si riferiscono in particolare:

  • ai veicoli formalmente ritirati dalla circolazione;
  • ai veicoli che non possono essere utilizzati in virtù di un divieto permanente o temporaneo perché lo ha stabilito una misura adottata dall’autorità competente nel rispetto della normativa in vigore;
  • ai veicoli che non sono idonei all’uso come mezzo di trasporto;
  • ai veicoli il cui utilizzo è stato sospeso su richiesta dei soggetti indicati dal comma 3 dell’ 122 del Codice delle Assicurazioni (proprietario, usufruttuario, acquirente con patto di riservato dominio e locatario in caso di locazione finanziaria).

Auto ferma: sanzioni per chi non la assicura

A coloro che trasgrediscono il suddetto obbligo assicurativo anche in caso di veicolo fermo   si applicano le seguenti sanzioni:

  • 866,00 euro, importo che beneficio di uno sconto se si paga entro il termine di 5 giorni dalla notifica;
  • da un minimo di 866,00 a 3.464,00 euro se il mezzo è una macchina agricola. 

Obbligo assicurativo veicoli fermi: da quando è in vigore

In base all’art. 4 del decreto legislativo n. 184/2023 le disposizioni in esso contenute sono in vigore dal 23 dicembre 2023. Il decreto Milleproroghe n. 215 del 30 dicembre 2023 ha stabilito una proroga per quanto riguarda l’obbligo assicurativo che riguarda le sole macchine agricole. Per loro infatti l’assicurazione è obbligatoria anche se sono ferme e stazionano in un’area privata dal 1° luglio 2024.

Problemi applicativi

Le novità introdotte dal decreto e previste per tutelare le vittime di incidenti stradali, non hanno vita facile a causa di alcuni problemi applicativi.

Prima di tutto le compagnia assicurative non  offrono polizze per assicurare veicoli fermi, m che non circolano o che vengono utilizzati all’interno di certe auto private. Alcune macchine agricole infatti, destinate ad attività specifiche all’interno di aree circoscritte e non circolanti, non hanno neppure l’obbligo della targa per cui non possono essere assicurate. Sarebbe necessaria una maggiore precisione dei termini impiegati nella normativa per un’applicazione più chiara delle regole.

 

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L’assoluzione penale non esclude il risarcimento La Cassazione conferma la linea rigorosa: l’assoluzione nel giudizio penale non esclude il risarcimento del danno in ambito civile

Responsabilità penale, civile e risarcitoria

La Cassazione, con la sentenza del 19 settembre 2024 n. 25200, si è pronunziata sulla vicenda di un ragazzo deceduto per folgorazione a causa di un lampione della rete pubblica che presentava dei fili scoperti su cui si era appoggiato per andare a recuperare un pallone da calcio.

Al di là della triste vicenda, si pone il problema non solo della responsabilità penale, ma anche di quella civile e risarcitoria ex art. 2051 cod. civ.  da ripartire tra diversi responsabili (Comune/direttore dell’ufficio tecnico; direttore dei lavori della ditta esecutrice dell’impianto; ditta incaricata della manutenzione) e del rapporto tra responsabilità civile e penale.

Assoluzione penale

In relazione a tali fatti, sul fronte penale per omicidio colposo, vi sono stati tre procedimenti: uno nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune, un altro nei confronti del direttore dei lavori titolare della ditta esecutrice dell’impianto di illuminazione che serviva il piazzale ed un terzo nei confronti della ditta con cui il Comune aveva stipulato una convenzione avente ad oggetto la manutenzione degli impianti di illuminazione siti sul territorio comunale. I primi due procedimenti si concludevano con pronuncia assolutoria, mentre il terzo per condanna per omicidio colposo.

Responsabilità ex art. 2051 c.c.

Sul fronte civile, invece, la questione principale riguarda l’individuazione della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. del Comune, anche in relazione all’eventuale giudicato penale di assoluzione.

Giova rilevare che è ammissibile intentare un giudizio civile anche in caso di sentenza di assoluzione in materia penale: l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni, a sentenza di condanna. Ciò anche in considerazione del diverso atteggiarsi sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale, in ambito civile.

Invero, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione “perché il fatto non sussiste” implica che nessuno degli elementi integrativi della fattispecie criminosa sia stato provato e, entro questi limiti, esplica efficacia di giudicato nel giudizio civile, sempre che la parte nei cui confronti l’imputato intende farla valere si sia costituita, quale parte civile, nel processo penale.

Nel caso di specie, nel processo penale il Comune, citato come responsabile civile, era chiamato a rispondere del fatto penalmente illecito contestato al funzionario, mentre nel processo civile il Comune è stato chiamato a rispondere per il fatto proprio in relazione alla custodia di un bene di proprietà comunale.

La colpa dei singoli dipendenti del Comune è irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest’ultimo, la quale è pressoché obiettiva e prescinde dalle condotte negligenti dei singoli.

Inoltre, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.

Esclusione della responsabilità

Quanto alla responsabilità civile del Comune, la responsabilità del custode può essere esclusa:

  1. dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo;
  2. dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo, caratterizzate, rispettivamente la prima dalla colpa ex 1227 cod. civ. (bastando la colpa del leso) o la seconda dalle oggettive imprevedibilità e non prevedibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

Nesso causale tra cosa in custodia ed evento

Ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., il Comune è custode dell’immobile e dei suoi impianti fissi e come tale responsabile oggettivamente.

Ai fini della configurabilità di responsabilità, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.

Responsabilità del custode: confermata la linea rigorosa

La sentenza si inserisce nel solco della giurisprudenza consolidata in materia di responsabilità da cose in custodia, confermando l’orientamento rigoroso nei confronti degli enti pubblici.

La decisione sottolinea l’importanza della manutenzione degli impianti pubblici e la necessità per i Comuni di adottare misure preventive adeguate. Il fatto che il lampione fosse privo di corpo illuminante e in condizioni fatiscenti evidenzia una grave carenza nella manutenzione, che ha portato alla tragica conseguenza.

In conclusione, la sentenza non solo sancisce che è ammissibile, nonostante una sentenza di assoluzione in ambito penale,  essere condannati al risarcimento dei danni in ambito civile ma questa decisione della Cassazione rafforza la posizione dei cittadini nei confronti degli enti pubblici, imponendo a questi ultimi un elevato standard di diligenza nella gestione e manutenzione dei beni di loro proprietà.

terzo trasportato

Terzo trasportato: va risarcito se il conducente è ubriaco Il terzo trasportato da un conducente ubriaco va risarcito se vittima di sinistro, il suo concorso di colpa va valutato caso per caso

Terzo trasportato e diritto al risarcimento

Il terzo trasportato da un conducente in stato di ebbrezza se rimane coinvolto in un sinistro stradale non ha sempre colpa a titolo di concorso (art. 1227 c.c). In questi casi non si può escludere il diritto del terzo al risarcimento del danno. Spetta al giudice di merito, per quantificare il danno, accertare caso per caso, l’eventuale concorso di colpa della vittima. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 24920/2024.

Lesioni da sinistro stradale e risarcimento del danno

Un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo, resta vittima di un sinistro stradale e riporta lesioni personali. Per i danni subiti il terzo chiede il risarcimento al vettore e all’assicurazione del veicolo.

Terzo trasportato responsabile al 50%

Il Tribunale la Corte d’appello ritengono che il trasportato sia responsabile al 50%, ai sensi dell’art. 1227 c.c. Lo stesso ha infatti accettato di farsi trasportare da un conducente in evidente stato di ebrezza.

Parte soccombente ricorre in Cassazione lamentando la mancata dimostrazione dello stato di ebrezza del conducente, così come la mancata dimostrazione della percepibilità di detta condizione.

La colpa del terzo trasportato va valutata nel singolo caso

La Cassazione richiama dapprima alcuni importanti principi in materia di RCA sanciti dalla Direttiva 2009/103 e poi una sentenza della Corte di Giustizia UE. Conclusa l’analisi di questi testi gli Ermellini affermano due importanti principi di diritto ai fini del decidere.

  • Il primo afferma che: l‘art. 1227, comma primo, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale ed astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente. Una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, § 3 della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, “qualsiasi disposizione di legge (…) che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol”. Spetterà dunque al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore”.
  • Il secondo invece sancisce che “l’accertamento della esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.”.

 

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responsabilità medica

Responsabilità medica: azione diretta anche per le vecchie polizze Azione diretta contro l’assicurazione: può essere esercitata dal danneggiato anche in relazione alle vecchie polizze 

Azione diretta contro le compagnie dal 16 marzo 2024

Responsabilità medica: l’azione diretta contro la Compagnia di assicurazione del medico o della struttura sanitaria  è possibile dal 16 marzo 2024, ossia dalla data di entrata in vigore del DM n. 232/2023, anche se la polizza assicurativa è stata stipulata in data anteriore.

Lo hanno affermato di recente due giudici di merito: il Tribunale di Cagliari nell’ordinanza n. 15464/ 2024 e il Tribunale di Milano in due ordinanze, una del 26 agosto 2024, in commento, e una del 10 settembre 2024.

Azione diretta operativa: occorre adeguare le polizze?

Nell’ordinanza del 26 agosto 2024 il Tribunale di Milano precisa che l’art. 12 della legge n. 24/2017 dedicato all’azione diretta del danneggiato al comma 6 recita che: “Le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 6 dell’articolo 10 con il quale sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie.”

Esso prevede quindi, in sostanza, che l’azione diretta del danneggiato, in caso di responsabilità sanitaria, sia possibile a partire dalla data di entrata in vigore del decreto, senza disporre altre prescrizioni. Esso in effetti si limita a stabilire i requisiti minimi delle polizze assicurative delle strutture sanitarie, socio sanitarie e degli esercenti le professioni sanitarie, ma non richiede l’adeguamento delle condizioni contrattuali delle polizze assicurative.

Letteralmente quindi la norma nulla dispone in ordine alle eccezioni opponibili in sede di merito in relazione alle polizze sanitarie che non rispettano i requisiti minimi stabiliti dal DM n. 232/2023.

Eccezioni opponibili: vanno valutate caso per caso

Il Tribunale di Milano si occupa del tema dell’opponibilità delle eccezioni solo in via incidentale. Si tratta in effetti di una materia delicata, da valutare caso per caso nell’ambito del giudizio di merito.  Questa situazione sembra dare vita a una separazione temporale dell’azione diretta, che è applicabile sempre e immediatamente rispetto alle eccezioni opponibili, da valutare singolarmente ogni volta.

In relazione ai giudizi successivi al 16 marzo 2024, si potrebbe quindi creare una situazione particolare caratterizzata dal libero avvio dell’azione diretta nei confronti di tutte le compagnie, senza che rilevi la conformità delle polizze allo schema di legge e quindi senza limiti per i contratti stipulati prima del decreto.

 

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parcheggi strisce bianche

Parcheggi strisce bianche: non sono obbligatori nei centri storici Parcheggi strisce bianche gratuiti: non devono essere istituiti obbligatoriamente dai Comuni in certe aree tutelate e di valore

Parcheggi strisce bianche: non c’è l’obbligo in certe aree

I parcheggi a strisce bianche gratuiti non sono obbligatori all’interno delle aree urbane di carattere storico, artistico o ambientale, comprese le aree circostanti? Su questa domanda di non poco rilievo, soprattutto nei periodi di maggiori afflusso turistico, è intervenuta di recente la Corte di Cassazione.

Gli Ermellini sul punto sono piuttosto chiari, anche perché la Cassazione in diverse occasioni ha già avuto modo di precisare che il DM dei LL.PP n. 1444/1968 suddivide il territorio, per finalità urbanistiche, per aree omogenee. In materia di parcheggi, l’articolo 7 del Codice della Strada stabilisce che spetta ai Comuni il potere di stabilire in quali aree è possibile istituire i parcheggi strisce bianche gratuiti e i parcheggi  a pagamento con strisce azzurre. Per cui se l’area in cui il conducente deve parcheggiare presenta un particolare valore storico o ambientale, il Comune è libero di non prevedere spazi per la sosta gratuita delimitati dalle strisce bianche all’interno di quelle aree e anche nelle zone circostanti se parti integrati degli agglomerati urbani. Questo quanto emerge dall’ordinanza n. 20293/2024.

Parcheggi strisce bianche in proporzione a quelli a pagamento

Una conducente si oppone a tre verbali di accertamento. Il Comune le ha contestato tre violazioni   relative alla mancata esposizione del ticket per la sosta del veicolo a pagamento e con limite orario. La donna fa presente che nelle zone limitrofe al centro della città in cui aveva l’esigenza di recarsi, gli spazi di libera sosta gratuita erano molto limitati. Il Comune ha infatti adottato una delibera, che viola l’articolo 7 del Codice della strada, che impone la presenza di stalli liberi e gratuiti nelle arre in cui sono presenti quelli a pagamento o comunque nelle aree limitrofe.

L’opponente chiede quindi al giudice di disapplicare l’atto comunale perché illegittimo e annullare le sanzioni applicate nei suoi confronti. Il Giudice però rigetta l’opposizione e la donna appella la decisione di fronte al Tribunale. Il Tribunale accoglie l’appello e annulla i verbali, disapplicando la delibera comunale. Il Comune a questo punto ricorre in Cassazione.

Il Comune non è obbligato a prevedere parcheggi gratuiti ovunque

L’ente ricorrente solleva due motivi di doglianza, tra i quali merita particolare attenzione il primo. In esso l’Ente fa presente che l’articolo 7 del Codice della Strada al comma 8 esonera i Comuni dall’obbligo di riservare stalli gratuiti nelle stesse zone o in quelle limitrofe in cui sono presenti quelli a pagamento all’interno delle aree “A” di cui all’articolo 2 del DM dei LL.PP n. 1444/1968.

Si tratta in particolare di “parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di  particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree  circostanti, che possono considerarsi parte  integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi” il Comune non ha lobbligo di prevedere stalli liberi in proporzione a quelli a pagamento. Il Tribunale nell’accogliere le istante della conducente non ha considerato che i verbali erano stati elevati perché l’opponente aveva parcheggiato all’interno di aree ricadenti nella suddetta zona A.

Nessun obbligo di parcheggio a strisce bianche nei centri storici

La Cassazione accoglie quindi il ricorso del Comune ritenendo che “l’inclusione dell’area nella zona A del D.M. 2 aprile 1968 o la sua qualificazione in termini di area urbana di particolare valore storico o di particolare pregio ambientale, costituiscono condizioni alternative per esonerare l’Amministrazione dall’obbligo di predisporre aree di parcheggio libero.” Il cittadino quindi non può pretendere che all’interno di certe aree, com un centro storico, vi siano spazi gratuiti per il parcheggio del proprio mezzo. Meglio cercare un parcheggio a pagamento e sostenerne il costo, piuttosto che fare causa e pagare ancora di più.

 

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