abuso d'ufficio

Abuso d’ufficio: l’abrogazione non è incostituzionale La Consulta all'esito dell'udienza pubblica ha ritenuto che l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio non è incostituzionale

Abrogazione reato di abuso d’ufficio

Non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. All’esito dell’udienza pubblica svoltasi il 7 maggio 2025, la Consulta ha esaminato in camera di consiglio le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici autorità giurisdizionali, tra cui la Corte di cassazione, sull’abrogazione del reato di cui all’art. 323 del codice penale ad opera della legge numero 114 del 2024.

Convenzione di Merida

La Corte, si legge nel comunicato stampa ufficiale, ha ritenuto ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Merida).

Nel merito, la Corte ha dichiarato infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso di ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale.

La motivazione della sentenza sarà pubblicata nelle prossime settimane.

 

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favoreggiamento

Non è favoreggiamento accompagnare la collega a prostituirsi Per la Cassazione non è integrato il reato di favoreggiamento della prostituzione se la condotta è occasionale

Reato di favoreggiamento della prostituzione

La sentenza n. 16535/2025 della terza sezione penale della Cassazione ha affrontato il tema del favoreggiamento della prostituzione, stabilendo che l’accompagnamento occasionale di una prostituta da parte di una collega sul luogo di esercizio non costituisce reato. 

Il caso esaminato

Nel caso in esame, una donna è stata accusata di favoreggiamento della prostituzione per aver accompagnato in auto una collega sul luogo dove quest’ultima esercitava l’attività. La donna adiva il Palazzaccio sostenendo di aver agito per “spirito di colleganza”. La Corte ha ritenuto che tale condotta, se isolata e priva di elementi che indichino un’organizzazione o un supporto sistematico all’attività di prostituzione, non integra il reato previsto dall’art. 3, n. 8, della legge n. 75/1958. 

La motivazione della Corte

La Corte ha sottolineato che per configurare il reato di favoreggiamento della prostituzione è necessario che l’azione dell’agente sia idonea a facilitare in modo concreto e consapevole l’esercizio dell’attività di prostituzione altrui. Nel caso specifico, l’accompagnamento occasionale non è stato ritenuto sufficiente a integrare tale fattispecie criminosa. 

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reato di evasione

Reato di evasione: sì all’attenuante per chi si costituisce La Cassazione considera indifferenti modalità di tempo e luogo di costituzione, richiedendo la norma la volontà di recedere dalla condotta che ha dato origine all’evasione

Reato di evasione

Con la sentenza n. 15265/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha chiarito un aspetto delicato in tema di reato di evasione (art. 385 c.p.) e applicazione della circostanza attenuante dell’avvenuta costituzione.

Il caso: reato di evasione e costituzione

L’imputato, per il tramite del proprio difensore, impugnava la sentenza della Corte d’appello di Napoli che, confermando la decisione di primo grado, lo aveva condannato, ritenuta la contestata recidiva, a un anno e 8 mesi di reclusione in ordine al delitto di evasione ex art. 385 cod. pen. Riteneva la corte territoriale che non vi fossero i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. né per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e di quella di cui al quarto comma di cui all’art. 335 cod. pen., atteso che la presentazione presso la Caserma dei Carabinieri fosse condotta strumentale del ricorrente.

Da qui il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale l’imputato denuncia vizi di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche attraverso argomentazioni prive di un apparato logico; esclusione dei presupposti per riconoscere la citata circostanza attenuante, nonostante il ricorrente si fosse presentato presso la Caserma dei Carabinieri per costituirsi; violazione dell’art. 131-bis cod. pen. laddove la Corte non aveva apprezzato la sua buona condotta e la non abitualità a delinquere.

Attenuante art. 385, 4° comma, c.p.

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato limitatamente all’attenuante di cui all’art. 385. quarto comma, cod. pen. mentre sono infondati gli altri di fronte alla “significativa biografia criminale – del soggetto – all’assenza di resipiscenza e alla non episodicità del delitto di evasione”.

Quanto alla mancata applicazione dell’attenuante di cui al quarto comma dell’art. 385 c.p., invece, affermano dal Palazzaccio, “costituisce ormai solido principio di diritto quello secondo cui, per poter ritenere sussistenti i presupposti per il riconoscimento della circostanza in parola, è sufficiente che la costituzione in carcere ovvero presso gli organi preposti alla vigilanza del rispetto delle prescrizioni inerenti agli arresti domiciliari, o che abbiano l’obbligo di tradurre l’evaso in carcere, sia volontaria e non conseguente alla coazione fisica delle forze dell’ordine, senza che assumano rilevanza la spontaneità del comportamento o l’assenza di influenze esterne, atteso che scopo della previsione è il tempestivo ripristino dello stato costrittivo, senza dispendio di energie da parte delle forze dell’ordine (Sez. 6, n. 29935 del 13/03/2022, Muggeri, Rv. 283721)”.

Costituzione presso ufficio polizia giudiziaria

“Una volta che sia stata esclusa l’incidenza sulla citata attenuante e della spontaneità della costituzione in carcere o presso chi ha l’obbligo di tradurlo o dei motivi – anche di natura egoistica – che spingono l’evaso ad interrompere la situazione antigiuridica autonomamente creata, come invece previsto dal codice penale, deve ritenersi che sono indifferenti le modalità di tempo e luogo di costituzione – aggiungono dalla S.C. – richiedendo la norma esclusivamente una condotta, anche dettata da esigenze contingenti ed utilitaristiche, che renda palese la volontà di recedere dalla condotta che ha dato origine all’evasione; viene in tal senso esaltata la natura oggettiva dell’attenuante per la cui integrazione è sufficiente sia posta in essere una condotta coincidente con il dettato della norma”.

Ciò anche alla luce dei plurimi principi di diritto espressi dalla S.C., spiegano i giudici, “specie laddove hanno ritenuto di equiparare la costituzione in carcere alla costituzione presso un ufficio appartenente alla polizia giudiziaria che ha l’obbligo di condurre l’evaso in carcere, deve rilevarsi come la motivazione della sentenza che ha escluso la sussistenza dei presupposti per la concessione della citata attenuante confligga con il significato assegnato alla citata disposizione”.

La decisione

Nel caso di specie, la Corte di appello, pur dando atto della natura oggettiva della circostanza attenuante ex art. 385, quarto comma, c.p., erroneamente finisce per assegnare rilevanza a profili di natura soggettiva, allontanandosi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato che reputa irrilevante la motivazione che spinge l’evaso a costituirsi.

Per cui, la sentenza impugnata va annullata, limitatamente alla sussistenza dell’attenuante de qua, con rinvio alla Corte di appello “che dovrà attenersi, nel fornire risposta circa la sussistenza o meno dei presupposti per il riconoscimento dell’invocata attenuante, al principio di diritto sopra richiamato”.

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giurista risponde

Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia Nel calcolo della pena per un delitto di omicidio tentato posto in essere in un contesto di maltrattamenti in famiglia deve applicarsi il cumulo temperato previsto dall’art. 81 c.p., oppure la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale deve ritenersi assorbita – ai sensi dell’art. 84 c.p. – dall’aggravante specifica prevista per il delitto di omicidio tentato?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

Nel calcolo della pena per il reato di tentato omicidio aggravato ex art. 576, comma 1, n. 5, c.p., la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale è assorbita nella circostanza aggravante del tentato omicidio, rendendo non configurabile il concorso materiale tra tali reati (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2210 – Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia).

Il punctum dolens sottoposto al vaglio del Supremo Collegio è la riconducibilità o meno del caso in esame all’istituto del reato complesso, ex art. 84 c.p., se sia applicabile l’art. 15 c.p., ovvero se sia applicabile, invece, il criterio di temperamento di cui all’art. 81 c.p.

La disciplina del reato complesso è ispirata ai principi di specialità in concreto, della sussidiarietà, della consunzione e si contrappone al principio della specialità in astratto posta a fondamento dell’art. 15 c.p.. Pertanto, per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le norme incriminatrici è opportuno svolgere una disamina sulla struttura normativa del reato complesso.

Tuttavia, preliminarmente, si ritiene di dover, comunque, escludere l’applicabilità dell’art. 15 c.p. al caso di specie posto che le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2019, n. 2664) hanno ritenuto applicabile detto articolo soltanto qualora fra le norme evocate sussista un rapporto di specialità in astratto, indiscutibilmente non sussistente fra le incriminazioni di omicidio volontario ed i maltrattamenti in famiglia attesa la oggettiva diversità tra il fatto idoneo ad integrare le due fattispecie, rectius il delitto di cui all’art. 575 c.p. e quello riconducibile al paradigma normativo dell’art. 572 c.p., dei quali, peraltro, l’uno ha natura istantanea e l’altro abituale.

Ciò premesso è, dunque, opportuno analizzare l’art. 84 c.p.; dal tenore letterale dello stesso risulta ictu oculi che la figura in esame presenti più forme di manifestazione. Focalizzandosi, però, su quanto attiene alla soluzione del quesito si può affermare che il profilo problematico è l’inclusione o meno del caso di specie nel genus del reato complesso in senso lato. Nel testo della norma citata si individuano chiaramente due distinte ipotesi, una definibile come: “reato composto”, costituito da elementi che di per sè integrererebbero altre figure criminose; mentre l’altra definibile come: “reato complesso circostanziato”, nel quale, ad una fattispecie-base, distintamente prevista come reato, si aggiunge quale circostanza aggravante un fatto autonomamente incriminato da altra disposizione di legge. Per cui da un punto di vista meramente formale risulta ictu oculi la sussumibilità del caso di specie risulta in questa seconda categoria, posto che il delitto di maltrattamenti in famiglia – autonomamente punito dall’art. 572 c.p. – è espressamente previsto come aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 576, comma 5 c.p.. A queste considerazioni di natura testuale debbono essere aggiunge delle considerazioni di natura sostanziale che confermano l’applicabilità dell’art. 84 c.p. Invero, qualora il delitto di omicidio (o tentato omicidio come nel caso di specie) avvenga in un contesto di maltrattamenti risulta evidente l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti delittuosi. Non vi è dubbio, infatti, che, se l’intento Legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta ex art. 572 c.p., è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale i maltrattamenti e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono, altresì, in una prospettiva finalistica unitaria.

La tesi della ravvisabilità di un reato complesso nella fattispecie aggravata in esame, convalidata dalle argomentazioni che precedono, non è inficiata dalle obiezioni che alla stessa sono state opposte. Tanto in considerazione, soprattutto, delle caratteristiche del reato complesso come delineate in generale e, per quanto detto, presenti nel caso di specie, con particolare riguardo alla necessaria ricorrenza di un’unitarietà non solo contestuale, ma anche finalistica dei fatti complessivamente considerati. Tale interpretazione, peraltro trova l’avvallo della giurisprudenza di legittimità nella sua massima composizione (Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 38402) la quale mutatis mutandis ha affrontato la tematica oggetto della presente sentenza in relazione al delitto di atti persecutori ex art. 612bis c.p. e l’aggravante di cui all’art. 576, comma 5.1 c.p. concludendo anche in questo caso in senso favorevole all’applicazione dell’art. 84 c.p.

La riconducibilità del caso in esame alla disciplina del reato complesso implica l’inoperatività dei meccanismi di cumulo sanzionatorio, previsti negli articoli precedenti, escludendo qualsiasi incidenza sanzionatoria dei reati in esso unificati. Fra le disposizioni oggetto di richiamo dell’incipit dell’art. 84 c.p. rientra il concorso formale di reati ex art. 81, comma 1 c.p., per la quale è previsto il cumulo giuridico. La normativa dell’art. 84 si connota particolarmente come derogatoria in quanto “assorbe” le pene stabilite per i singoli reati in quella stabilita per il reato complesso.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che sia applicabile il principio di consunzione tra la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. e il delitto di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 5 c.p. Pertanto, il Supremo Collegio annullava senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di maltrattamenti in famiglia rideterminava e la pena inflitta per il delitto di tentato omicidio aggravato.

 

(*Contributo in tema di “Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Rinuncia alla prescrizione

Rinuncia alla prescrizione: quando è efficace? La Cassazione chiarisce che la rinuncia alla prescrizione del reato acquista efficacia al momento in cui la causa estintiva si verifica

Rinuncia alla prescrizione

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 16496/2025 della quinta sezione penale, ha chiarito che la rinuncia alla prescrizione del reato, effettuata prima della maturazione della stessa, non è invalida ma semplicemente inefficace, producendo i suoi effetti solo al momento in cui la prescrizione si verifica.  

Il caso

Nel caso esaminato, l’imputato veniva condannato in primo grado per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico aggravato ai sensi dell’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p.. In appello, la Corte dichiarava il reato estinto per prescrizione. La questione approdava dunque innanzi al Palazzaccio. L’imputato lamentava che il termine di prescrizione non si era ancora compiuto ed evidenziava l’interesse a rinunciare alla prescrizione al fine di conseguire una sentenza assolutoria nel merito, atteso che la declaratoria di estinzione del reato non era ostativa all’avvio del procedimento disciplinare nei suoi confronti.

La decisione della Cassazione

Per la S.C. il ricorso è infondato e va rigettato. Nondimeno, evidenziano da piazza Cavour, “l’imputato ha avuto ampia possibilità di rinunziare alla prescrizione prima della pronunzia della Corte territoriale, dovendosi ribadire in tal senso che tale rinunzia, qualora effettuata prima che la prescrizione sia maturata, non è invalida, ma soltanto inefficace, in quanto produce i suoi effetti al verificarsi della causa estintiva del reato (ex multis Sez. 3, n. 3758 del 20/10/2021)”.

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abuso dei mezzi di correzione

Abuso dei mezzi di correzione Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina: cos'è, quando si configura, normativa, elementi, procedibilità, pena e giurisprudenza

Cos’è il reato di abuso dei mezzi di correzione

Il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, disciplinato dall’articolo 571 del Codice penale, sanziona l’uso eccessivo o improprio di strumenti correttivi o disciplinari da parte di soggetti legittimati, quali genitori, insegnanti, tutori, educatori, o chiunque eserciti un potere analogo.

Tale reato si verifica quando il mezzo, pur legittimo in sé, viene applicato in modo contrario alla finalità educativa e con modalità tali da provocare un nocumento fisico o psichico alla vittima, solitamente un minore o una persona sottoposta a tutela o educazione.

Normativa: art. 571 del Codice penale

Il testo dell’art. 571 c.p. recita: “1. Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. 2. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni [572].”

Quando è integrato il reato

Il reato si perfeziona in presenza di tre presupposti:

  1. legittimazione del soggetto attivo: l’agente deve essere titolare di un potere correttivo o disciplinare (es. genitore, docente, educatore);
  2. utilizzo improprio del mezzo correttivo: il mezzo deve essere in sé lecito, ma impiegato in modo eccessivo o distorto;
  3. pericolo per la salute psico-fisica della vittima: è sufficiente il solo pericolo, senza che sia necessaria la lesione concreta.

Elemento oggettivo del reato

L’elemento oggettivo consiste nell’uso distorto del mezzo di correzione, che deve risultare sproporzionato rispetto alla finalità educativa. Non si tratta, dunque, di qualunque forma di rimprovero o ammonizione, ma di condotte che travalicano il limite dell’educazione e degenerano in maltrattamento.

Sono esempi frequenti di abuso:

  • punizioni fisiche ripetute o violente;
  • isolamento sociale forzato e prolungato;
  • umiliazioni pubbliche;
  • privazioni eccessive.

Elemento soggettivo del reato

Il dolo richiesto è generico, cioè la coscienza e volontà di utilizzare un mezzo correttivo in modo improprio. Non è necessario che l’agente voglia ledere la salute della vittima, ma è sufficiente la consapevolezza di un uso improprio dello strumento disciplinare.

Tuttavia, in caso di dolo specifico o di volontà lesiva, il fatto può integrare reati più gravi, come i maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) o le lesioni personali (art. 582 c.p.).

Procedibilità e pena dell’abuso dei mezzi di correzione 

Il reato è procedibile d’ufficio e prevede:

  • la reclusione fino a 6 mesi se dal fatto deriva un pericolo per la salute della vittima,
  • l’applicazione delle pene previste per le lesioni personali, se da esso deriva una lesione concreta,
  • la reclusione da tre a otto anni se dal fatto deriva la morte del soggetto.

Cassazione sul reato di abuso dei mezzi di correzione 

La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito i confini tra l’abuso dei mezzi di correzione.

  • Cassazione n. 46974/2024: L’articolo 571 del codice penale italiano proibisce qualsiasi azione, anche se fatta con l’intenzione di educare, che possa mettere a rischio la salute fisica o psicologica di un bambino. In questo caso specifico, lo schiaffo è stato giudicato non adatto al ruolo educativo di un genitore perché danneggia l’integrità fisica del minore. La Corte, basandosi sulla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia che protegge i bambini da ogni tipo di violenza (anche in famiglia), ha sottolineato che l’interesse superiore del bambino deve essere la priorità in qualsiasi metodo educativo, escludendo le punizioni corporali.
  • Cassazione n. 13145/2022: L’uso di violenza da parte di un insegnante non rientra nell’abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.) perché tale reato presuppone l’uso di metodi di per sé leciti, che diventano illeciti per l’eccesso. La violenza, invece, è sempre considerata illecita. Nel caso specifico, spingere la testa di un minore nel lavandino o nello scarico configura direttamente un atto di violenza, escludendo l’applicazione dell’articolo sull’abuso dei mezzi di correzione.
  • Cassazione n. 18706/2020: La differenza tra abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti non sta nella gravità della violenza, perché usare violenza per educare o correggere è sempre illegale.

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reato di appropriazione indebita

Reato di appropriazione indebita Appropriazione indebita: cos’è, quando si configura, normativa, elementi costitutivi, procedibilità e giurisprudenza

Cos’è l’appropriazione indebita

L’appropriazione indebita è un reato previsto e punito dall’art. 646 del Codice penale. Si configura quando un soggetto, avendo la disponibilità di una cosa mobile altrui, se ne appropria per trarne profitto, violando l’obbligo giuridico di restituzione o di diverso utilizzo. A differenza del furto, nel caso dell’appropriazione indebita, il bene non è sottratto clandestinamente, ma consegnato volontariamente al reo da parte dell’avente diritto.

Normativa di riferimento: art. 646 c.p.

L’articolo 646 del codice penale recita: “1. Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profittosi appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000. 2. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario la pena è aumentata.”

Quando è integrato il reato

Il reato di appropriazione indebita si perfeziona quando:

  • il soggetto agente ha legittimamente il possesso del bene (es. consegna volontaria da parte del proprietario);
  • si appropria indebitamente del bene stesso;
  • con l’intenzione di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto;
  • e con danno patrimoniale per la parte offesa.

Il reato può riguardare beni materiali o denaro, purché si tratti di cose mobili altrui.

Elemento oggettivo

L’elemento oggettivo del reato è costituito dalla condotta di appropriazione, ovvero l’atto di trattare come proprio un bene mobile altrui che il soggetto già possedeva lecitamente. Si tratta di un comportamento che implica l’inversione del possesso, ossia il mutamento dell’atteggiamento soggettivo verso la cosa, da detenzione in nome altrui a possesso uti dominus.

Elemento soggettivo

L’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico, cioè la volontà di appropriarsi della cosa altrui per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Deve dunque sussistere l’intenzione di trattenere il bene altrui contro la volontà del proprietario, con consapevolezza della mancanza di un diritto a farlo.

Procedibilità

Il reato è procedibile a querela di parte, come sancito dal comma 1 dell’art. 646 c.p.

Pene previste

La pena prevista per il reato di appropriazione indebita è la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000. La pena aumenta se il fatto viene commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario.

Differenza tra furto e appropriazione indebita

Sebbene entrambi i reati ledano il diritto di proprietà, vi sono differenze rilevanti:

Elemento

Furto (art. 624 c.p.)

Appropriazione indebita (art. 646 c.p.)

Possesso iniziale

Illecitamente sottratto

Lecitamente detenuto

Condotta

Sottrazione

Appropriazione

Consenso

Assente

Presente al momento della consegna

Procedibilità

D’ufficio (salvo casi lievi)

A querela

Giurisprudenza sull’appropriazione indebita

La giurisprudenza ha chiarito alcuni aspetti fondamentali del reato:

Cassazione n. 289/2025: Affinché si configuri l’appropriazione indebita di beni fungibili come il denaro, non basta la semplice disponibilità del bene. È fondamentale che fin dal momento in cui il bene viene consegnato, esista uno specifico vincolo di destinazione stabilito dal proprietario. Un obbligo di natura civilistica derivante da un contratto successivo non può essere considerato un vincolo di destinazione originario ai fini di questo reato. Di conseguenza, l’appropriazione indebita di un bene fungibile si verifica solo quando chi lo riceve fin dall’inizio è tenuto a utilizzarlo per uno scopo preciso e viola tale vincolo.

Cassazione Penale, n. 11950/2023: il reato di appropriazione indebita si configura quando una persona, avendo già la disponibilità di un bene mobile o di denaro appartenente ad altri, decide intenzionalmente di comportarsi come se fosse il proprietario. Questa decisione deve essere presa con la consapevolezza di non avere il diritto di farlo e con lo scopo di ricavarne un beneficio illegittimo per sé o per altri. Un esempio concreto è chi riceve un bonifico bancario per errore e, invece di restituire la somma, la trattiene per sé. In questo caso, la consapevolezza dell’errore e la decisione di non restituire il denaro, con l’intenzione di utilizzarlo, integrano il reato di appropriazione indebita.

Cassazione n. 16831/2021: Il reato di appropriazione indebita (articolo 646 del codice penale) si differenzia dal furto perché chi commette appropriazione indebita ha già il possesso del bene altrui. Questo “possesso” include ogni situazione in cui una persona ha il potere di usare il bene autonomamente, senza che il proprietario lo sorvegli direttamente. Rientra in questa definizione anche la semplice detenzione del bene. Al contrario, se una persona non ha alcun potere autonomo sul bene, ma se ne impossessa sottraendolo al proprietario, commette furto.

 

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furto in abitazione

Furto in abitazione: sì all’attenuante sulla recidiva Ravvedimento post delictum e furto in abitazione: la Corte costituzionale dichiara illegittimo il divieto di prevalenza dell'attenuante sulla recidiva reiterata

Furto in abitazione e attenuante

La Corte costituzionale, con sentenza n. 56/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui vieta di riconoscere prevalente l’attenuante della collaborazione del reo (art. 625-bis cod. pen.) rispetto alla circostanza aggravante della recidiva reiterata.

La qlc

La questione era stata sollevata dal Tribunale di Perugia nell’ambito di un procedimento per furto in abitazione, in cui l’imputato aveva contribuito in maniera determinante all’individuazione del correo. Il giudice rimettente contestava che il divieto previsto dalla norma censurata violasse i principi di ragionevolezza e di finalità rieducativa della pena, sanciti dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione.

La Consulta, richiamando precedenti pronunce in materia, ha accolto la questione, osservando che il divieto di prevalenza neutralizza la funzione incentivante dell’attenuante di cui all’art. 625-bis cod. pen., attribuendo alla recidiva reiterata un rilievo assoluto, senza considerare il comportamento collaborativo successivo del reo e i rischi personali e familiari da esso derivanti.

Ravvedimento post delictum

Secondo la Corte, tale preclusione impedisce che il ravvedimento post delictum produca pienamente i suoi effetti, privando di efficacia lo strumento voluto dal legislatore per favorire la dissociazione dal contesto criminale. Inoltre, irrigidendo il giudizio sulla capacità a delinquere, la norma contestata si pone in contrasto con il principio di rieducazione della pena, facendo percepire la sanzione come ingiusta e, pertanto, inefficace ai fini previsti dalla Carta costituzionale.

La decisione

La decisione conferma l’orientamento volto a valorizzare la condotta successiva al reato, anche in presenza di precedenti penali, nel rispetto della funzione rieducativa che deve connotare l’esecuzione della pena.

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maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia: no a sospensione automatica responsabilità genitoriale Maltrattamenti in famiglia, la Corte costituzionale limita l’automatismo: il giudice deve valutare l’interesse del minore nella sospensione della responsabilità genitoriale

Maltrattamenti in famiglia, no all’automatismo

Con la sentenza n. 55/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 34, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui impone automaticamente la sospensione della responsabilità genitoriale a seguito della condanna per maltrattamenti in famiglia (articolo 572, secondo comma, c.p.) commessi in presenza o a danno di minori.

L’intervento della Consulta

La questione di legittimità era stata sollevata dal Tribunale di Siena, che, pur avendo riconosciuto la responsabilità penale di due genitori per maltrattamenti nei confronti dei figli conviventi, aveva evidenziato l’incompatibilità tra l’applicazione automatica della pena accessoria e la necessità di tutelare, in concreto, l’interesse del minore.

Secondo l’articolo 34, secondo comma, c.p., la condanna per reati commessi abusando della responsabilità genitoriale comporta automaticamente la sospensione dall’esercizio della stessa, per una durata pari al doppio della pena principale. Tuttavia, questo meccanismo, secondo la Corte, si pone in contrasto con i principi espressi dagli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione, che pongono al centro la tutela effettiva dell’interesse del minore.

L’automatismo censurato

La Consulta ha rilevato che l’applicazione rigida della sospensione non consente una valutazione concreta della situazione familiare e del rapporto tra genitore e figlio, impedendo al giudice di considerare se, in casi specifici, mantenere la responsabilità genitoriale possa meglio garantire il benessere del minore.

La pronuncia richiama l’orientamento consolidato secondo cui l’interesse del minore è il parametro fondamentale nella regolazione dei rapporti familiari, e sottolinea che l’automatismo previsto dalla norma censurata crea una presunzione assoluta di incompatibilità tra la condanna e la prosecuzione del rapporto genitoriale, presunzione che risulta irragionevole e lesiva della dignità e dei diritti del minore stesso.

Il ruolo del giudice nella tutela concreta del minore

La Corte costituzionale ha quindi affermato che spetta al giudice, caso per caso, valutare se la sospensione della responsabilità genitoriale sia effettivamente conforme al preminente interesse del minore. Tale valutazione deve tener conto non solo della gravità del reato, ma anche dell’evoluzione del rapporto genitoriale successivamente ai fatti oggetto di condanna.

In particolare, la responsabilità genitoriale comporta obblighi e diritti che non devono essere compressi senza una attenta ponderazione degli effetti concreti sull’equilibrio e sulla crescita del minore.

intercettazioni telefoniche

Intercettazioni telefoniche: per legge fino a 45 giorni Intercettazioni telefoniche: in vigore dal 24 aprile la legge che ha fissato a 45 giorni il termine di durata massimo, salvo eccezioni

Intercettazioni telefoniche: durata

In vigore dal 24 aprile 2025, la legge n. 47/2025 che impone il limite massimo di 45 giorni per le intercettazioni telefoniche. Il testo era stato approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati nella giornata di mercoledì 19 marzo 2025 con 147 voti favorevoli, 67 contrari e un astenuto.

Durata limitata con eccezioni

La nuova norma stabilisce che le intercettazioni non possano superare il tetto di 45 giorni. Tuttavia, se emergono elementi concreti e specifici che ne rendano indispensabile la prosecuzione, il limite può essere esteso con un’esplicita motivazione. Questa regola si applica a tutte le operazioni di ascolto, salvo specifiche eccezioni previste dalla legge.

Il provvedimento prevede deroghe infatti per i reati di criminalità organizzata  e minacce telefoniche.

Modifiche al codice di procedura penale

Il provvedimento modifica l’articolo 267 del codice di procedura penale, introducendo il limite temporale alle intercettazioni. Inoltre, l’articolo 13 del decreto-legge n. 152 del 1991 viene aggiornato per escludere dall’applicazione del nuovo limite a reati gravi.

Cosa cambia nelle intercettazioni telefoniche

La nuova legge rappresenta un cambiamento significativo nella disciplina delle intercettazioni. Se da un lato introduce un controllo più stringente sulle operazioni investigative, dall’altro solleva dubbi sulla sua efficacia nel contrastare i reati più gravi. Il dibattito resta aperto tra chi la considera una misura di garanzia e chi, invece, teme un indebolimento delle indagini giudiziarie.

 

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