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Truffa online e aggravante minorata difesa È configurabile l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. in relazione alle ipotesi delittuose di truffa online?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Nelle fattispecie di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on-line, sussiste l’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. con riferimento alle circostanze di luogo note all’autore del reato e delle quali egli abbia approfittato poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. – Cass., sez. II, 13 marzo 2023, n. 10570.

Con la sentenza in esame, la seconda sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla configurabilità dell’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61, n. 5, c.p. nelle ipotesi di truffa commesse on-line.

La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare un ricorso proposto dall’indagato avverso l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame confermava la misura cautelare degli arresti domiciliari, già applicata dal giudice per le indagini preliminari in relazione a svariate ipotesi di truffa commesse on-line e avvinte dal vincolo della continuazione.

Nel caso di specie, il ricorrente deduceva l’inosservanza e la falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 640, comma 2, n. 2bis), c.p.p. e dell’art. 61, n. 5), c.p., facendo valere l’insussistenza dell’aggravante della minorata difesa nelle ipotesi criminose contestate di truffa on-line. Più precisamente, lo stesso rilevava l’erronea configurazione della fattispecie concreta, dal momento che non si sarebbe trattato di un’ipotesi di vendita, bensì di noleggio di veicoli on-line o, al più, di acquisto di un’area di parcheggio. Inoltre, rilevava l’oggettiva inesistenza dei presupposti fondanti la minorata difesa sì come evincibili dalle modalità della condotta e dagli strumenti impiegati per la commissione dell’illecito. Nella fattispecie in esame, infatti, a parere del ricorrente avrebbe ostato alla configurazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c.p. la diretta menzione dell’indagato nella contrattualistica come intestatario del “camper” proposto per il noleggio, come titolare dei conti correnti beneficiati, oltre che come diretto interlocutore, telefonico e via e-mail, con i potenziali interessati. Secondo le argomentazioni difensive, nel caso concreto non rappresentava e non avrebbe potuto rappresentare aggravante costitutiva della condotta criminosa l’omessa esibizione del bene, tipica della compravendita on-line, prassi ignota al noleggio di veicoli e impossibile per l’acquisto di un’area di parcheggio, non essendo in contestazione la sua presunta inesistenza o la non rispondenza qualitativa, bensì l’originario intendimento di disattendere l’obbligazione assunta, né, parimenti, una mera e generica difficoltà di rintraccio, evidentemente inconferente rispetto alla diversa ipotesi di anonimato, nel caso in esame, assolutamente non ravvisabile, per la diretta ed esplicita riconducibilità del presunto illecito e dei suoi strumenti funzionali all’indagato.

La Corte ha considerato il motivo di ricorso non fondato, osservando come, secondo la giurisprudenza di legittimità, nelle ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti on line sussiste l’aggravante della minorata difesa, con riferimento alle circostanze di luogo, note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’art. 61, n. 5), c.p., abbia approfittato, poiché, in tal caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta. A tale proposito, la Corte rileva come il presupposto della minorata difesa sia identificato da tale condivisibile giurisprudenza nella costante distanza tra i contraenti, i quali conducono le trattative interamente su piattaforme web, e valorizza il fatto che tale modalità di contrattazione richiede un particolare affidamento dell’acquirente nella buona fede del venditore, atteso che il primo si trova in una condizione di debolezza per una pluralità di ragioni che possono sussistere, in tutto o in parte, nelle diverse fattispecie concrete – in particolare, le possibilità per il venditore di: vendere sotto falso nome, schermando la propria vera identità (così da rendere più difficile la sua identificazione); non sottoporre il prodotto a controllo preventivo; rendere più difficile il controllo della sua affidabilità (controllo che è più agevole nel caso di contrattazione de visu); sottrarsi più agevolmente alle conseguenze della propria azione.

Sulla base delle predette argomentazioni, la Corte, ha ritenuto che l’ordinanza impugnata abbia dato adeguatamente conto, con una motivazione logica e non contraddittoria, di come l’indagato avesse consapevolmente approfittato delle particolari opportunità decettive offerte dalla distanza che caratterizza il commercio on-line, avendo evidenziato come, proprio per il fatto che i contratti avevano a oggetto il noleggio (e non la vendita) di un mezzo, le controparti contrattuali, ricevuta la documentazione relativa, avessero senz’altro confidato nella buona fede del medesimo, astenendosi dall’effettuare trasferte per visionare lo stesso mezzo, così da potere intrattenere anche un’interlocuzione de visu con lo stesso indagato, il quale, inoltre, avrebbe poi più facilmente potuto rendersi irreperibile e sottrarsi alle recriminazioni delle persone offese.

Per tali ragioni, i giudici di legittimità rigettano il ricorso, condannando di conseguenza il ricorrente al pagamento delle spese procedimentali ai sensi dell’art. 616, comma 1, c.p.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 22 marzo 2017, n. 17937; Cass., sez. II, 29 settembre 2016, n. 43706
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Maltrattamenti in famiglia e condotte non abituali È configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia nell’ipotesi in cui le condotte contestate non siano abituali?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. postula, da un lato, l’abitualità di condotte omogenee reiterate per un periodo di tempo apprezzabile e, dall’altro, una vessazione fisica o soltanto mentale che può essere realizzata anche in forma omissiva a condizione, però, che il soggetto agente rivesta una posizione di garanzia nei confronti della persona offesa. –
Cass., sez. VI, 14 marzo 2023, n. 10940.

La Corte di Cassazione, con la sentenza annotata, è chiamata a pronunciarsi in merito alla corretta configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia.Nel caso in esame il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame relativa alla misura degli arresti domiciliari disposta dal Giudice per le indagini preliminari nei confronti dell’odierna ricorrente, indagata per i delitti di maltrattamenti in famiglia – ex art. 572 c.p. – e di abbandono di persone minori o incapaci – ex art. 591 c.p. – per aver, in qualità di dipendente di una casa famiglia, realizzato atti vessatori nei confronti degli ospiti della struttura e per aver abbandonato gli stessi, incapaci di provvedere a se stessi per malattia di mente o corpo o vecchiaia.

Il ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale prospetta mere censure in fatto relative alla gravità indiziaria e alle lacune motivazionali del provvedimento impugnato.

Il Collegio, nell’accogliere i motivi di doglianza proposti dalla difesa, richiama gli episodi descritti nell’ordinanza ritenendoli non idonei ad integrare l’ipotesi di maltrattamenti in famiglia.

Prima di proceder alla disamina della pronuncia di legittimità, è opportuno ricordare alcuni aspetti essenziali della fattispecie in questione.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia consiste in una serie di atti lesivi dell’integrità fisica, della libertà e del decoro del soggetto passivo nei confronti del quale viene posta in essere una condotta di sopraffazione e assoggettamento. Tali condotte, trattandosi di reato abituale, non possono essere rare od occasionali ma devono essere connotate da abitualità, ovvero devono essere reiterate per un periodo di tempo apprezzabile. L’abitualità, peraltro, non è esclusa nel caso in cui gli atti lesivi siano alternati con periodi di normalità che abbiano una durata tale da non interrompere la fattispecie criminosa.

Quanto all’elemento soggettivo è, invece, sufficiente il dolo generico, ossia la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività vessatoria. Invero, le singole azioni assurgo a delitto di maltrattamenti in quanto l’agente consapevolmente reitera, con frequenza e continuità, le condotte offensive.

Ciò premesso, la Suprema Corte ritiene che le condotte contestate all’indagata non siano suscettibili di concretare l’ipotesi di maltrattamenti poiché dagli episodi descritti nell’ordinanza non emerge il necessario requisito dell’abitualità.

Per altro verso, la Corte riconosce la possibilità che la vessazione fisica o mentale possa essere realizzata in forma omissiva ma a condizione che il soggetto agente rivesta una posizione di garanzia nei confronti delle persone offese, altrimenti la responsabilità penale finirebbe con il trascendere in una mera responsabilità morale o per il tipo di autore.

Nel caso di specie l’indagata, pur ricoprendo un ruolo primario, non era formalmente riconosciuta nella gestione del centro ma era una mera dipendente e, pertanto, non possono esserle attribuiti i poteri tipici di chi riveste una posizione di garanzia.

Alla luce delle esposte ragioni la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza con rinvio al Tribunale affinché chiarisca quali condotte siano suscettibili di integrare la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 7 febbraio 2019, n. 6126; Cass., sez. III, 12 febbraio 2018, n. 6724
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Rottamazione e procedure art. 13 D.Lgs. n. 74/2000 Gli accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie (c.d. “rottamazioni”) rientrano nel novero delle speciali procedure di cui all’art. 13, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

Le speciali procedure conciliative di cui al D.L. 13 ottobre 2018, n.119, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2018, n.136 (e quelle analoghe previste dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 e dal D.L. 16 ottobre 2017, n. 148) sono comprese tra quelle indicate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000 in quanto, trattandosi di accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie, assicurano all’Erario il recupero delle somme dovute. A ciò deve aggiungersi che, fermo restando la concessione di un termine di tre mesi «per il pagamento del debito residuo», la causa di non punibilità di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 opera se entro la dichiarazione di apertura del dibattimento interviene non l’accordo tra contribuente e Fisco, ma l’integrale pagamento del debito. – Cass., sez. III, 14 marzo 2023, n. 10730.

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione è chiamata a valutare l’ambito applicativo della causa di non punibilità prevista dall’art.13, D.Lgs. 74/2000.

Nel caso di specie la Corte di appello, in conferma della decisione del giudice di prime cure, ha condannato l’imputato – quale amministratore unico di una società – per il reato di omesso versamento di IVA, di cui all’art. 10ter, D.Lgs. 74/2000.

Avverso tale sentenza la difesa ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, quale unico motivo, l’erronea applicazione degli artt. 51, c.p. e 13, D.Lgs. 74/2000 in relazione all’art. 10ter del medesimo decreto. In particolare, si contesta l’evidente contrasto tra l’attuale formulazione dell’art. 13, D.Lgs. 74/2000 e i nuovi strumenti posti a disposizione del contribuente per l’adempimento dei debiti tributari in quanto all’imputato, impossibilitato ad estinguere il debito prima dell’apertura del dibattimento, era stata concessa la possibilità di accedere alla definizione agevolata con riferimento alla totalità delle imposte da versare (tra cui l’IVA oggetto di imputazione). Secondo la tesi difensiva, quindi, l’accordo tra il contribuente e l’Amministrazione avrebbe costituito uno strumento idoneo all’estinzione del debito tributario, ossia una delle speciali procedure menzionate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000. Rimarcata la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata del citato art. 13, la difesa lamenta anche la mancata possibilità di estinzione del debito secondo le formalità previste dal D.Lgs. 74/2000 poiché, con l’apertura della procedura di fallimento, l’imprenditore è vincolato alle modalità delle procedure concorsuali e non può procedere liberamente al pagamento integrale dei debitori.

La Suprema Corte, nel disattendere le censure sollevate, condivide l’impostazione dei giudici di merito, ritenendola immune da censure data la mancanza del presupposto dell’invocata causa di non punibilità.

Invero, l’art. 13, comma 1, D.Lgs. 74/2000 stabilisce che «i reati di cui agli artt. 10bis, 10ter e 10quater, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso».
Il mancato pagamento integrale del debito tributario, dunque, è ostativo all’operatività della disposizione in questione e il piano concordato con l’Amministrazione finanziaria rappresenta un mero elemento da valutare positivamente in relazione alla condotta dell’imputato.
La Corte di legittimità, in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, precisa che le speciali procedure conciliative di cui al D.L. 13 ottobre 2018, n.119, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2018, n.136 (e quelle analoghe previste dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 e dal D.L. 16 ottobre 2017, n.148) sono comprese tra quelle indicate dall’art. 13, D.Lgs. 74/2000 in coerenza con la finalità deflattiva della norma (in tal senso anche Cass. 9 dicembre 2020, n. 34940).

Il legislatore, infatti, nel disciplinare i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ha richiamato, al fine di incentivare la riscossione delle entrate tributarie, le «speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento» previste dalle norme tributarie. Più precisamente, gli accordi di definizione agevolata delle pendenze tributarie (c.d. “rottamazioni”) sono pacificamente inclusi nel novero delle procedure di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 poiché assicurano all’Erario il recupero delle somme dovute. A ciò deve aggiungersi che lo stesso art. 13, nel tentativo di garantire la ragionevole durata del processo e assicurare al contribuente il tempo necessario per definire l’adempimento del debito, prevede espressamente che sia concesso un termine di tre mesi (prorogabile una sola volta per non oltre tre mesi) per il pagamento del debito residuo nel caso in cui, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il debito sia in fase di estinzione mediante rateizzazione. La rateizzazione, però, comporta la semplice rimodulazione della scadenza, ma non esclude la configurabilità del reato in caso di mancata soddisfazione totale del debito allo scadere del termine prestabilito.

Giova ricordare, infatti, che la causa di non punibilità di cui all’art. 13, D.Lgs. 74/2000 opera se entro la dichiarazione di apertura del dibattimento interviene non l’accordo tra contribuente e Fisco, ma l’integrale pagamento del debito.

La causa di non punibilità del reato, tra l’altro, non incide sulla struttura del reato né sulla illiceità della condotta, con la conseguenza che l’accordo tra contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito rimane circoscritto all’ambito tributario e non produce conseguenze sul piano penale.

Accertato il meccanismo di operatività dell’art. 13, D.Lgs. 74/2000 e la conformità ai principi costituzionali (ossia un equo contemperamento tra il diritto di difesa dell’imputato, ragionevole durata del processo e necessità di tutela dell’Erario), la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso in quanto la mancata applicazione della causa di non punibilità invocata dalla difesa non è affetta da alcuna criticità formale e sostanziale. Quanto alla doglianza relativa alle procedure concorsuali, invece, il Collegio osserva che non sussiste alcuna incompatibilità tra la dichiarazione di fallimento e la prosecuzione del pagamento dei debiti accumulati precedentemente con il Fisco.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 9 dicembre 2020, n. 34940; Cass., sez. III, 24 ottobre 2018, n. 48375
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Integrazione reato di scambio elettorale politico-mafioso Il delitto di scambio elettorale politico-mafioso può ritenersi integrato anche nel caso in cui il sostegno elettorale non produca un risultato positivo?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Valentina Russo

 

L’art. 416ter, c.p., secondo la vigente formulazione cui bisogna far riferimento ratione temporis, incrimina l’accordo in forza del quale due o più soggetti si scambiano la promessa del procacciamento di voti presso l’elettorato – con modalità tipicamente mafiose – e l’erogazione di un corrispettivo in denaro o in altre utilità. Trattandosi di un reato di pericolo non è rilevante se il sostegno elettorale porti, o meno, ad un risultato positivo e, peraltro, l’esistenza dell’intesa per il procacciamento di consensi elettorali può desumersi anche mediante la valorizzazione di indici fattuali, sintomatici della natura dell’accordo. – Cass., sez. I, 14 marzo 2023, n. 10704.

La questione posta al vaglio della Suprema Corte riguarda la configurabilità del reato di scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416ter c.p., con particolare riferimento alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito.

Nel caso di specie il Tribunale in funzione di giudice del riesame aveva rigettato la richiesta presentata nell’interesse dell’indagato in relazione al provvedimento con il quale il Giudice per le indagini preliminari aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari.

La vicenda trae origine da un accordo, concluso tra l’odierno ricorrente e un esponente di un’associazione criminale di tipo mafioso, avente ad oggetto la promessa del procacciamento di voti in occasione delle elezioni amministrative in cambio della promessa di una sistemazione lavorativa e di altre utilità a beneficio del figlio dell’esponente del clan in questione.

L’imputato, a mezzo del suo difensore, ha presentato ricorso per cassazione denunciando un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito. La difesa ha censurato la decisione del Tribunale anche per aspetti strettamente processuali, quali la manifesta illogicità della motivazione in punto di gravità indiziaria, l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali per insussistenza della connessione qualificata ex art. 12, c.p.p., nonché la carenza della motivazione in tema di esigenze cautelari.

La Corte di Cassazione, pur ritenendo alcune deduzioni difensive non ammissibili in sede di legittimità in quanto integralmente versate in fatto, ha analizzato l’ambito applicativo dell’art. 416ter, c.p. richiamando, inevitabilmente, le varie formulazioni che si sono susseguite nel tempo.
Come anticipato, l’art. 416ter, c.p. punisce l’accordo in forza del quale più soggetti si scambiano la promessa del procacciamento di voti presso l’elettorato e l’erogazione di un corrispettivo in denaro o altra utilità, avvalendosi del vincolo di assoggettamento ed intimidazione derivante dall’appartenenza ad un sodalizio di tipo mafioso.

L’art. 416ter, c.p. è stato introdotto nel codice penale dal D.L. 8 giugno 1992, n.306, sotto la spinta emergenziale delle stragi di mafia, al fine di colpire già nella fase genetica l’insaturazione di rapporto tra il mondo della politica e quello dei sodalizi criminali. Tale disposizione è stata oggetto di significative modifiche, dapprima con la L. 17 aprile 2014, n. 62 e, da ultimo, con la L. 21 maggio 2019, n. 43.

La L. 62/2014 è intervenuta sia sul piano della condotta incriminata (notevolmente ampliata rispetto alla formulazione previgente), sia su quello della pena edittale comminata. In particolare, è stato espressamente specificato che l’oggetto della pattuizione illecita debba includere le modalità di acquisizione del consenso elettorale, tramite metodo mafioso come descritto nell’art. 416bis, comma 3, c.p., non essendo sufficiente il mero accordo sulla promessa di voti in cambio di denaro (in tal senso Cass. 31 agosto 2016, n. 36079). Il legislatore, quindi, ha introdotto un requisito modale dell’accordo che deve essere specificatamente accertato, ossia il vincolo di assoggettamento ed intimidazione derivante dall’appartenenza al sodalizio mafioso.

La novella legislativa, incriminando anche la condotta del soggetto che promette di procacciare i suffragi, ha trasformato il reato da plurisoggettivo improprio a plurisoggettivo proprio e, infine, ha ampliato l’oggetto della prestazione che non è più circoscritto al solo denaro, ma è esteso «ad altre utilità».
Applicando tali principi al caso di specie, il Collegio ha così motivato l’infondatezza dei primi motivi di ricorso, con i quali la difesa ha contestato un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un sinallagma contrattuale illecito e la manifesta illogicità della motivazione in punto di gravità indiziaria.
Più precisamente, la Prima Sezione, tenendo conto dell’epoca in cui si colloca il fatto ascritto all’indagato, ha precisato che ai fini della configurabilità dell’art. 416ter c.p. rileva la mera promessa. Inoltre, nel richiamare un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ribadito che l’esistenza dell’intesa per il procacciamento di consensi elettorali con ricorso a modalità mafiose può desumersi anche in via indiziaria, mediante la valorizzazione di indici fattuali, quali la fama criminale del procacciatore, l’assoggettamento alla forza intimidatrice e l’utilità di tale apporto per il reclutamento elettorale nella zona d’influenza (così anche Cass. 14 giugno 2019, n. 26426).
La Corte, quindi, ha ritenuto il provvedimento impugnato non affetto da manifesta illogicità soprattutto alla luce della prova della consapevolezza del metodo mafioso. Invero, trattandosi di un reato di pericolo, è sufficiente che il procacciatore eserciti un condizionamento diffuso, fondato sulla prepotenza e sopraffazione – risultando irrilevante il raggiungimento di un risultato positivo – e che il politico sia consapevole dell’appartenenza dell’interlocutore a un sodalizio di tipo mafioso.
Da ultimo, la difesa ha contestato anche l’inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali per insussistenza della connessione qualificata – ex art. 12, c.p.p. – tra il reato di cui all’art. 416bis c.p. e quello di cui all’art. 416ter c.p.

I giudici di legittimità hanno invocato il principio affermatosi con le Sezioni Unite Cavallo (Cass. Sez. Un. 2 gennaio 2020, n. 51) secondo cui il divieto imposto dall’art. 270, c.p.p. non opera quando tra i reati vi sia connessione qualificata, con la conseguenza che il provvedimento autorizzativo delle intercettazioni può essere validamente ricondotto ad un reato diverso da quello per cui è stato espressamente rilasciato (fermo restando che si tratti di fattispecie inclusa nel novero di cui all’art. 266 c.p.p.).

Ciò premesso, nel disattendere questo motivo di doglianza, è stato ribadito che quando si parla di reato si fa riferimento non al “titolo di reato”, ma al “fatto-reato” (inteso come determinato accadimento storico inquadrabile in una fattispecie criminosa) e che il rapporto di connessione qualificata riguarda i “fatti-reato” nella loro espressione oggettiva.

In particolare, essendo applicabile la previgente formulazione dell’art. 270 c.p.p., i risultati delle intercettazioni autorizzate per un determinato fatto-reato sono utilizzabili anche per gli ulteriori fatti-reati, legati al primo dal vincolo della continuazione ex art. 12, lett. b), c.p.p., senza la necessità che il disegno criminoso sia comune a tutti i correi (in tal senso Cass. 29 settembre 2021, n. 37697).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 14 giugno 2019, n. 26426
giurista risponde

Mobbing verticale e maltrattamenti A quali condizioni il cosiddetto “mobbing verticale” rientra nella fattispecie tipica di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.? Quale rilevanza assume ai fini della configurazione del reato la condotta posta in essere dalla vittima?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private; mentre, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con la abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell’accertamento della consumazione del delitto. – Cass. VI, 19 settembre 2023, n. 38306.

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la questione inerente alla configurabilità del delitto di maltrattamenti ad opera del datore di lavoro nei confronti della propria dipendente nell’ambito di un rapporto lavorativo sfociato nel licenziamento per giusta causa di quest’ultima. Come si evince dall’analisi della vicenda fattuale, infatti, l’imputato condannato in primo grado ma assolto dalla Corte d’Appello, aveva posto in essere una serie di vessazioni in danno di una sua dipendente all’epoca in cui questa versava in una condizione di particolare vulnerabilità stanti sia il suo stato di gravidanza e sia le difficili condizioni economiche.

Nell’accogliere il ricorso di quest’ultima, costituitasi parte civile nel processo, la Corte di Cassazione, censura la sentenza di secondo grado per un duplice ordine di ragioni.

In primis, viene cassato, sotto il profilo processuale, l’iter motivazionale che aveva condotto la Corte d’Appello a ribaltare il verdetto di primo grado. In particolare, viene ritenuta non sufficientemente motivata la sentenza di secondo grado in merito al vaglio delle risultanze istruttorie poste alla base del verdetto assolutorio. A tal riguardo, la Suprema Corte richiama, invero, il granitico orientamento ermeneutico della giurisprudenza di legittimità a mente del quale, pur non occorrendo la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in caso di ribaltamento in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado, nondimeno è necessario che il giudicante del secondo grado fornisca adeguata giustificazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella svolta dal giudice di prime cure; dando altresì atto del percorso logico argomentativo che ha condotto a tale soluzione (anche Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748, “Mannino”).

Sempre sotto il profilo procedurale, poi, la Suprema Corte censura la sentenza di secondo grado in merito al vaglio di attendibilità della persona offesa, nonché, in modo particolare, alla qualificazione della denuncia querela presentata da quest’ultima che la Corte d’Appello aveva svalutato, ritendendola strumentale. Sotto tale profilo, viene di fatti ribadito, sulla scorta di un risalente indirizzo interpretativo, che la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati (così Cass., sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553). Di talché, nessun rilievo ai fini della configurazione del delitto in esame poteva assumere la circostanza, negativamente valorizzata dal giudice di secondo grado, per cui la denuncia querela era stata proposta dalla dipendente solo a seguito del licenziamento spiccato nei suoi confronti dal datore di lavoro.

In secundis, sotto il profilo sostanziale, i giudici di Piazza Cavour affermano che mentre il licenziamento per giusta causa, collocandosi in un rapporto relazionale tra le parti private (datore-dipendente), presuppone condotte di grave inadempimento del lavoratore tali da minare il rapporto di fiducia, integra l’illecito penale di mera condotta dei maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, la condotta tenuta dal datore nei confronti del dipendente concretantesi in atti abituali di prevaricazione ed umiliazione.

La perseguibilità d’ufficio di tale reato, del resto, supera tranchant ogni rilievo che era stato svolto dalla Corte di Appello in punto di tardività e, dunque, di strumentalità della querela; rilievo che la Suprema Corte ritiene, difatti, di censurare.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 18 gennaio 2023, n. 8729
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Turbata libertà degli incanti e concorsi P.A. Nella nozione di “gara”, oggetto della fattispecie di turbata libertà degli incanti punita ai sensi dell’art. 353 c.p., rientrano anche i concorsi per il reclutamento del personale di cui si avvale la Pubblica Amministrazione?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

La lettera della legge, pur interpretata nel senso estensivo indicato dalla giurisprudenza, nondimeno restringe l’area di tutela e delimita il perimetro operativo della fattispecie di cui all’art. 353 c.p. alle sole procedure indette per la cessione di un bene ovvero per l’affidamento all’esterno della esecuzione di un’opera o della gestione di un servizio. Dunque, non vi è nessun riferimento ai concorsi per il reclutamento del personale. – Cass. VI, 24 maggio 2023, n. 38127.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la condotta di un Segretario comunale, nonché Presidente della commissione e Responsabile unico del procedimento, il quale avrebbe agevolato con collusioni e/o mezzi fraudolenti, in relazione al concorso per titoli ed esami per la copertura di un posto a tempo indeterminato e part time di istruttore direttivo, il superamento di detto concorso di una dipendente del comune, con la quale aveva, peraltro, una frequentazione anche di carattere sessuale.

In particolare, il Tribunale di prime cure, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal Pubblico Ministero avverso l’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari aveva rigettato la domanda di applicazione della custodia in carcere, applicava nei confronti dell’imputato la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio per la durata di sei mesi, in relazione al reato di cui all’art. 353 c.p. Invero, secondo il Tribunale, la nozione di “gara” richiesta dalla fattispecie incriminatrice della turbata libertà degli incanti, comprenderebbe qualsiasi procedura pubblica finalizzata alla scelta del contraente e, dunque, anche la procedura concorsuale per titoli ed esami per la copertura di un posto di istruttore direttivo in seno all’amministrazione comunale.

Avverso detta sentenza proponeva, quindi, ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato il quale, tra i motivi di ricorso, contestava la erronea qualificazione del fatto che, secondo il ricorrente, sarebbe al più sussumibile nel delitto di abuso d’ufficio previsto ai sensi dell’art. 323 c.p piuttosto che nella fattispecie contestata di turbata libertà degli incanti.

La Corte di Legittimità, chiamata a decidere al riguardo, evidenzia preliminarmente che l’intervenuto ampliamento della portata della fattispecie della turbata libertà degli incanti non discende affatto dalla genericità della descrizione del fatto da parte del legislatore, ma dalla interpretazione data nel corso del tempo dalla giurisprudenza. Infatti, la Corte di Cassazione ha ricordato che la precedente giurisprudenza di legittimità, privilegiando una operazione di tipo estensiva, ha in molteplici occasioni ritenuto che nella nozione di “gara” rientra qualsivoglia procedura di gara, anche informale o atipica, a condizione che l’avviso informale o il bando e comunque l’atto equipollente indichino previamente i criteri di selezione e di presentazione delle offerte, ponendo i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto e i criteri in base ai quali formulare le proprie (in questo senso, Cass. 6 dicembre 2018, n. 2795). Tuttavia, con la sentenza in commento, la Corte di legittimità, discostandosi dai precedenti giurisprudenziali, ricorda che l’attività ermeneutica trova un limite nel significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore a cui il giudice non può assegnare un significato diverso da quello proprio, da quello semantico, al fine di ricercare profili ulteriori in grado di colorare in senso estensivo il perimetro dell’illecito. Ciò sulla scorta dei principi che regolano l’ordinamento giuridico tra cui quello della certezza del diritto, della tipicità della fattispecie incriminatrice nonché il principio del divieto di analogia in malam partem, da ultimo ricordato dalla Corte costituzionale con la recente sent. 98/2021.

In virtù di tali principi, la Corte di Cassazione, ritenendo fondato il ricorso, conclude che i concorsi per il reclutamento del personale non possono essere ricondotti alla fattispecie di turbata libertà degli incanti, ma al più al reato di abuso di ufficio, ove ne siano sussistenti i presupposti e ciò anche alla luce delle modifiche apportate all’art. 323 c.p. dalla L. 16 luglio 2020, n. 176.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Non constano precedenti rilevanti
Difformi:      Cass. pen., 13 aprile 2017, n. 9385
giurista risponde

Profitto nel delitto di rapina In cosa si sostanzia il profitto richiesto dall’art. 628 c.p.? Che rapporto intercorre tra le fattispecie criminose della rapina e della violenza privata, prevista e punita dall’art. 610 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, e in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. Non va poi trascurato che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e, in base al principio di specialità, resta escluso, qualora sussista il fine di procurarsi un ingiusto profitto (dolo specifico) che rende configurabile un’ipotesi delittuosa più grave, quale quella della rapina. – Cass. II, 15 settembre 2023, n. 37861.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la condotta di alcuni detenuti che, al fine di dar luogo ad una rivolta in carcere, sottraevano agli agenti di custodia, con violenza e minaccia, le chiavi delle celle, poi successivamente restituite. In particolare, l’impossessamento delle chiavi veniva determinato dal fine specifico di aprire un cancello che avrebbe consentito ai soggetti agenti di accedere alla sezione antistante e porre in essere atti di rappresaglia per vendicare l’aggressione subita qualche giorno prima da un detenuto loro concittadino.

In secondo grado, la Corte di Appello di Salerno, riformando parzialmente la sentenza resa dal Giudicante di prime cure, confermava l’affermazione di responsabilità e, dunque, il trattamento sanzionatorio nei confronti dei detenuti in ordine al reato di concorso nel delitto di rapina. Invero, il Giudice di secondo grado, aveva escluso l’ipotesi criminosa della violenza privata in luogo della configurazione del delitto di rapina, sulla scorta sia del valore patrimoniale delle chiavi sottratte agli agenti, della oggettiva utilità raggiunta, ovverosia aprire le celle, nonché dell’ingiustizia del profitto realizzato con tale spossessamento.

Avverso detta sentenza proponevano, quindi, ricorso per Cassazione i difensori degli imputati i quali, tra i motivi di ricorso, contestavano la violazione degli artt. 628 e 610 c.p. nonché il vizio di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica della condotta ascritta agli imputati in termini di concorso nel delitto di rapina, piuttosto che in quello della violenza privata. Secondo i ricorrenti, il giudice di merito aveva ingiustificatamente trascurato di considerare che la volontà degli imputati non era affatto finalizzata ad impossessarsi della chiave come bene in sé, dunque come bene avente valore patrimoniale, ma a costringere le persone offese, ossia gli agenti della Polizia Penitenziaria, ad aprire il cancello.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando l’infondatezza della censura relativa alla qualificazione giuridica del fatto, aderisce alla impostazione giurisprudenziale maggioritaria per la quale il requisito dell’ingiusto profitto, richiesto dalla norma di cui all’art. 628 c.p., non deve avere necessariamente contenuto patrimoniale ma può concretizzarsi in qualsiasi utilità, anche non di natura economia. A tal riguardo, gli Ermellini precisano che già la giurisprudenza più risalente includeva nella definizione di profitto anche quelle cose che, se pur prive di reale valore di scambio, hanno comunque una importanza per il soggetto che le possiede, anche se non strettamente economica (così, tra le tante, Cass. 24 settembre 1976, n. 2004). Tale orientamento veniva poi ribadito anche dall’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di legittimità in virtù del quale nel delitto di rapina il profitto può concretizzarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, e in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (così, tra le tante, Cass. 14 febbraio 1990, n. 7778). Nel medesimo senso anche la recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che, in merito alla fattispecie incriminatrice del furto, con l’informazione provvisoria 7/2023, hanno stabilito che il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, può consistere anche in un fine di natura non patrimoniale. Ne consegue, dunque, che anche la rapina, che rispetto al delitto di furto presenta il quid pluris della violenza e della minaccia, può essere integrata da una condotta appropriativa tesa a perseguire un vantaggio non economico.

Oltre a quanto sin qui detto, nella decisione in commento, i Giudici di Piazza Cavour, richiamando una giurisprudenza risalente, rappresentano che il delitto di violenza privata ha carattere generico e sussidiario e, dunque, in base al principio di specialità espresso ai sensi dell’art. 15 c.p. esso soccombe rispetto al delitto di rapina, fattispecie delittuosa più grave, quando sussiste il dolo specifico di procurarsi un ingiusto profitto (così Cass. 24 ottobre 1985, n. 275).

Nel caso che occupa, infine, la Corte di cassazione specifica che a nulla rileva la circostanza, sollevata dai ricorrenti, per cui le chiavi sarebbero poi state riconsegnate agli agenti della Polizia Penitenziaria, in quanto il delitto di rapina si configura quando la persona offesa viene costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene, anche per l’uso meramente momentaneo, e ne perda il controllo durante l’utilizzo da parte dell’agente il quale, in tal modo, consegue l’autonoma disponibilità della cosa (così Cass. 26 febbraio 2019, n. 16819).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., 14 febbraio 1990, n. 7778
giurista risponde

Rapina impropria e omicidio aggravato dal nesso teleologico Nelle ipotesi di tentata rapina impropria e tentato omicidio aggravato dal nesso teleologico è configurabile l’assorbimento della circostanza aggravante nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

Nelle ipotesi di rapina impropria, ove la violenza esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni determini la morte della persona offesa, la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. è assorbita nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. data la coincidenza tra le fattispecie criminose della modalità commissiva dell’uso della violenza e dell’elemento finalistico (cioè l’aver agito allo scopo di assicurarsi il profitto del reato o l’impunità). – Cass., sez. I, 11 settembre 2023, n. 37070.

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’assorbimento del nesso teleologico nelle ipotesi di tentata rapina impropria e tentato omicidio.

Nei precedenti gradi di giudizio l’odierno ricorrente è stato condannato per tentata rapina impropria commessa mediante attacco di esplosivo al sistema bancomat, tentato omicidio aggravato dal nesso teleologico, detenzione e porto di arma comune da sparo e danneggiamento aggravato. La Corte di appello, in conferma della decisione di primo grado, ha ritenuto sussistente la circostanza aggravante del nesso teleologico in riferimento al rapporto tra tentato omicidio e tentata rapina impropria. Con un articolato atto di ricorso la difesa ha contestato la violazione del canone metodologico di cui all’art. 192 c.p.p., l’erronea applicazione della legge penale in punto di qualificazione giuridica del fatto come tentato omicidio, il vizio di motivazione in riferimento alla configurabilità del nesso teleologico e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della recidiva. I giudici di legittimità hanno accolto la censura relativa all’esclusione della circostanza aggravante in oggetto, aderendo, così, a quell’indirizzo interpretativo che non si sofferma sulla cd esorbitanza della violenza. Invero, in tema di assorbimento del nesso teleologico, gli orientamenti giurisprudenziali che si sono susseguiti nel tempo hanno prospettato soluzioni diverse.

Come è noto, l’art. 628 c.p. incrimina, al comma 1, la condotta di chi, per procurare un ingiusto profitto, mediante violenza o minaccia si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene (rapina propria); al secondo comma, invece, punisce chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per assicurarsi il possesso o per procurarsi l’impunità (rapina impropria). La diversa sequenza temporale in cui si sostanziano gli elementi costitutivi si spiega in ragione del fatto che nella rapina propria la violenza o minaccia si pone in un rapporto di strumentalità rispetto alla condotta di sottrazione (“mediante violenza o minaccia”), mentre nella rapina impropria la violenza o minaccia – oltre a giustificarsi sulla base della condotta di sottrazione – è funzionale ad un ulteriore obiettivo, ossia quello del possesso o dell’impunità. Proprio su questi presupposti la giurisprudenza ha incentrato le questioni relative alla configurabilità del tentativo in caso di rapina impropria e all’assorbimento della circostanza del nesso teleologico. La prima questione è stata risolta dalle Sezioni Unite che, valorizzando la funzione estensiva della tipicità svolta dall’art. 56, c.p., hanno ammesso la configurabilità del reato nella forma tentata (Cass., Sez. Un., 12 settembre 2012, n. 3492). Diversamente, il quesito relativo al possibile assorbimento del nesso teleologico si presta, ancora oggi, a soluzioni contrastanti. Come anticipato, con la pronuncia in oggetto la Cassazione ha aderito a quell’indirizzo che riconosce l’assorbimento della circostanza aggravante. L’orientamento contrapposto, invece, nega tale possibilità in virtù del fatto che non è riscontrabile incompatibilità giuridica tra il reato di rapina impropria e l’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. laddove la violenza esercitata dall’agente risulti esorbitante rispetto a quella idonea a configurare la rapina (in tal senso Cass. 17 maggio 2019, n. 21730; Cass. 16 maggio 2019, n. 21458). Questi principi si fondano non tanto sulle caratteristiche specifiche della rapina nella forma impropria, quanto nell’elemento dell’esorbitanza della violenza rispetto al soddisfacimento dell’interesse di lucro perseguito: l’aggravante del nesso teleologico sussiste nel caso in cui la violenza esercitata sia smisurata rispetto a quella strettamente funzionale all’esecuzione della rapina (così Cass. 12 dicembre 2022, n. 46869). In tali ipotesi, quindi, i reati di omicidio e rapina impropria concorrono con l’aggravante in questione (Cass. 13 maggio 2020, n. 14940; Cass. 28 marzo 2018, n. 14301). A sostegno di questa tesi è stato precisato che la violenza o la minaccia integrano elementi costitutivi della rapina impropria, insieme all’elemento oggettivo dell’impossessamento del bene e all’elemento soggettivo del dolo specifico. Il dolo specifico esaurisce la sua funzione nell’ambito della rapina, per cui l’aggravante del nesso teleologico permette di legare due autonome fattispecie di reato non sovrapponibili tra di loro. Più precisamente «commesso il delitto di rapina impropria, trasmodando l’azione violenta del soggetto attivo del reato nell’omicidio, si rende autonomamente rilevante accanto alla fattispecie di rapina quella dell’omicidio, con la conseguenza che l’aggravante teleologica di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. collega queste due figure di reato secondo il rapporto strumentale esistente tra mezzo e fine» (Cass. 21 marzo 2017, n. 18116).

L’indirizzo interpretativo espresso di recente dai giudici di legittimità – e condiviso dalla Prima Sezione nella sentenza in epigrafe – si articola in senso contrario a quanto fin qui detto. Nelle ipotesi in cui l’omicidio sia commesso immediatamente dopo l’impossessamento vi è coincidenza tra le due fattispecie, oltre che delle modalità commissive (la violenza), anche del finalismo dell’azione (violenza per assicurarsi l’impunità) che, avvalorando la tesi opposta, finirebbe per essere incriminato due volte: la prima in quanto elemento costitutivo della rapina impropria, la seconda come elemento che caratterizza l’aggravante del delitto di omicidio (così anche Cass. 8 settembre 2022, n. 33117). Nel caso di specie, dunque, la Cassazione ha valorizzato la natura soggettiva dell’aggravante teleologica che, ove applicata, andrebbe a duplicare un effetto sanzionatorio in modo non consentito. La volontà del soggetto, infatti, è assunta come elemento costitutivo del reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. e non può essere valutata nella previsione sanzionatoria per il delitto di violenza contestualmente commesso (in tal senso anche Cass. 21 giugno 2017, n. 51457; Cass. 16 novembre 2006, n. 42371). Quest’aspetto spiega l’assorbimento del disvalore della circostanza di cui all’art. 61, comma 1, n. 2, c.p. nella fattispecie di rapina impropria.

Diversamente, l’aggravante del nesso finalistico tra omicidio e rapina può sussistere in caso di rapina propria commessa immediatamente dopo l’omicidio che, configurandosi come reato-mezzo, viene commesso per eseguire la rapina ad esso posteriore.

In conclusione, in tema di rapina impropria, ove la violenza esercitata immediatamente dopo la sottrazione dei beni determini la morte della persona offesa, la circostanza aggravante del nesso teleologico è assorbita – per il principio di specialità – nel reato di cui all’art. 628, comma 2, c.p. data la coincidenza tra le fattispecie criminose della modalità commissiva dell’uso della violenza e dell’elemento finalistico (cioè l’aver agito allo scopo di assicurarsi il profitto del reato o l’impunità).

Alla luce delle esposte ragioni il Collegio ha annullato senza rinvio la sentenza limitatamente alla censura in esame.

Gli altri motivi prospettati dalla difesa, ad eccezione di quello relativo all’erronea applicazione di legge in riferimento alla ritenuta sussistenza della recidiva, sono stati dichiarati manifestamente infondati data l’assenza di vizi logici o processuali. In particolare, quanto alla qualificazione giuridica del tentato omicidio, la Corte di legittimità ha ribadito che ai fini della configurabilità del reato è sufficiente il dolo diretto anche nella forma di dolo alternativo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 8 settembre 2022, n. 33117; Cass., sez. I, 21 giugno 2017, n. 51457; Cass., sez. I, 16 novembre 2006, n. 42371
Difformi:      Cass., sez. I, 12 dicembre 2022, n. 46869; Cass., sez. II, 13 maggio 2020, n. 14940; Cass., sez. I, 17 maggio 2019, n. 21730; Cass., sez. II, 16 maggio 2019, n. 21458; Cass., sez. II, 28 marzo 2018, n. 14301; Cass., sez. I, 21 marzo 2017, n. 18116
giurista risponde

Requisito abitualità particolare tenuità del fatto Ai fini dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. quando può ritenersi integrato il requisito dell’abitualità?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

L’abitualità è un requisito ostativo all’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis, c.p. e, come si evince dal tenore letterale, sussiste nel caso in cui i reati commessi siano della stessa indole e nel caso in cui i reati abbiano ad oggetto condotte abituali, reiterative o plurime. – Cass., sez. III, 11 settembre 2023, n. 37046.

La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte trae origine da una condanna per omessa denuncia di materiale infiammabile – ex art. 679 c.p. – e per il mantenimento di un impianto di distribuzione carburanti privo del certificato antincendi (artt. 16 e 20, D.Lgs. 139/2006).

Il ricorrente, oltre a presentare censure in punto di fatto volte ad una alternativa ricostruzione probatoria (che, in quanto tale, non è consentita in sede di legittimità) e censure meramente procedurali, ha contestato la manifesta illogicità della motivazione per la mancata applicazione dell’art. 131bis, c.p.

Prima di procedere alla disamina della questione è opportuno ricordare (per quanto di interesse in questa sede) l’ambito applicativo e la ratio della causa di non punibilità in oggetto. L’istituto della particolare tenuità del fatto è stato introdotto dal D.Lgs. 28/2015 con lo scopo di «espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo» (Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13682). Come chiarito dalle Sezioni Unite Coccimiglio il nuovo istituto integra una causa di non punibilità e persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio, con effetti anche in tema di deflazione del processo penale. In quest’ottica proporzione e deflazione si intrecciano coerentemente.
Il perimetro di applicabilità è stato determinato in relazione alla pena edittale che, in modifica a quanto originariamente previsto, non rileva più in riferimento al limite massimo (“pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni”), ma in relazione al minimo edittale (“pena detentiva non superiore nel minimo a due anni”). L’ambito applicativo, tuttavia, non è delineato solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche da un profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento. In tal senso le Sezioni Unite Tushaj hanno chiarito che «la norma intende escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti “seriali”» (Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13681). La nozione di abitualità è definita dallo stesso art. 131bis, c.p. e sussiste nel caso in cui i reati commessi siano della stessa indole o abbiano ad oggetto condotte abituali, reiterative o plurime. Il concetto di “reati della stessa indole” si desume, invece, dall’art. 101, c.p. che, oltre a considerare tali i reati che violano la medesima disposizione di legge, fa riferimento anche a quelli che presentano profili di omogeneità sia sul piano oggettivo, cioè in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive, sia sul piano soggettivo, cioè in relazione ai motivi a delinquere che hanno avuto efficacia causale nella decisione criminosa. L’identità dell’indole, inoltre, deve essere valutata in concreto dal giudice, quindi verificando la presenza di caratteri fondamentali comuni (in tal senso Cass. 16 luglio 2018, n. 32577).

Le Sezioni Unite Tushaj hanno altresì evidenziato l’importanza del dato numerico. Più precisamente, l’abitualità del comportamento si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole, quindi almeno due, diversi da quello per il quale si procede – ciò significa che in presenza del terzo illecito della stessa indole si può parlare di serialità della condotta che, in quanto tale, osta all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131bis, c.p. – (in senso conforme anche Cass. 30 dicembre 2022, n. 49678).

Nel caso in esame la questione controversa riguarda la presenza, o meno, di più reati della stessa indole in quanto i giudici di merito hanno negato il riconoscimento della particolare tenuità del fatto in ragione dell’abitualità della condotta, ossia alla luce dei precedenti penali annoverati dall’imputato (nello specifico i reati di cui agli artt. 612 e 614 c.p.). La difesa, per converso, ha contestato la mancata sussistenza del requisito dell’abitualità data la diversa identità dell’indole dei reati.

La doglianza suesposta è stata ritenuta fondata. Invero, i precedenti considerati ostativi al riconoscimento della causa di non punibilità non sono della stessa indole del reato oggetto del giudizio. Il Collegio, in conformità ai principi sanciti dalle Sezioni Unite, ha ribadito che il presupposto ostativo rappresentato dall’abitualità della condotta si concretizza quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti della stessa indole oltre quello preso in esame (così anche Cass. 14 novembre 2022, n. 43065). L’omogeneità dei reati, inoltre, deve essere valutata in concreto, analizzando il profilo formale e quello sostanziale.
Dopo aver disposto l’annullamento con rinvio limitatamente a questo motivo di ricorso, la Cassazione si è soffermata sul rapporto tra prescrizione ed esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. La prescrizione estingue il reato, mentre l’istituto di cui all’art. 131bis, c.p. lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica, ragion per cui la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Tale precisazione si è resa necessaria in quanto, nel giudizio di rinvio, il reato non può essere dichiarato prescritto quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale (come nel caso di specie).

Il Collegio, in conclusione, ha disposto l’annullamento con rinvio in relazione all’applicazione dell’art. 131bis, c.p. e ha dichiarato l’inammissibilità dei restanti motivi di ricorso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13681; Cass., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13682; Cass., sez. II, 16 luglio 2018, n. 32577; Cass., sez. V, 14 novembre 2022;
Cass., sez. II, 30 dicembre 2022
giurista risponde

Elemento soggettivo tentato omicidio Nelle ipotesi di tentato omicidio qual è l’elemento soggettivo richiesto ai fini della configurabilità del reato?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Alessandra Muscatiello

 

In tema di tentato omicidio – ai fini della configurabilità del reato – è sufficiente il dolo diretto anche nella forma di dolo alternativo, quindi caratterizzato dalla previsione in capo all’agente di una duplicità di esiti della sua condotta, entrambi voluti ed equivalenti nella sua prospettazione psicologica. – Cass., sez. I, 6 settembre 2023, n. 36853

Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte ha ribadito i principi dettati in materia di dolo omicidiario.
Nel caso di specie il ricorrente – condannato all’esito di un giudizio abbreviato per tentato omicidio, resistenza a pubblico ufficiale, maltrattamenti e lesioni – ha contestato la decisione di merito in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo che, ad avviso della difesa, avrebbe potuto essere configurato in termini di dolo eventuale, quindi incompatibile con il tentativo. Il dato letterale dell’art. 56, c.p., infatti, esclude la compatibilità del dolo eventuale con il tentativo poiché postula una intenzionalità diversa da quella diretta. In tal senso le Sezioni Unite, con la storica sentenza ThyssenKrupp (Cass., Sez. Un., 8 settembre 2014, n. 38343), hanno ampiamente delineato (per quel che rileva in questa sede) i confini del dolo eventuale e del dolo diretto, asserendo che «il dolo eventuale designa l’area dell’imputazione soggettiva dagli incerti confini in cui l’evento non costituisce l’esito finalistico della condotta, né è previsto come conseguenza certa o altamente probabile: l’agente si rappresenta un possibile risultato della sua condotta e ciononostante s’induce ad agire accettando la prospettiva che l’accadimento abbia luogo. Si ha, invece, dolo diretto quando la volontà non si dirige verso l’evento tipico e, tuttavia, l’agente si rappresenta come conseguenza certa o altamente probabile della propria condotta un risultato che però non persegue intenzionalmente». Esclusa la compatibilità tra dolo eventuale e delitto tentato, è pacifico affermare la punibilità del tentativo a titolo di dolo diretto anche nella forma di dolo alternativo, in quanto il soggetto agente prevede e vuole indifferentemente due eventi alternativi tra loro come conseguenza della sua condotta cosciente e volontaria (in tal senso anche Cass. 31 luglio 2023, n. 33435; Cass. 29 aprile 2019, n. 17755; Cass. 1 ottobre 2018, n. 43250; Cass. 3 ottobre 2013, n. 9663).

Nel caso in esame la Corte territoriale ha prospettato un’analitica ricostruzione del fatto e delle condotte tenute dal ricorrente che, come confermato dai giudici di legittimità, sono state ritenute indicative dell’esistenza dell’animus necandi. Invero, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’animus necandi assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata ex post ma con riferimento alla situazione che si presentava ex ante all’imputato, cioè al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso e alle peculiarità intrinseche dell’azione criminosa (in tal senso anche Cass. 20 gennaio 2023, n. 2513; Cass. 9 settembre 2021, n. 33327; Cass. 18 marzo 2019, n. 11928).
I giudici di appello tenendo conto della condotta dell’imputato, della tipologia di arma utilizzata, nonché delle dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio dell’udienza di convalida, hanno confermato la decisione di primo grado, ritenendo pienamente sussistente il dolo omicidiario.
Alla luce di tali valutazioni la Corte di Cassazione ha rigettato le censure proposte, ribadendo che nelle ipotesi di delitto tentato l’elemento soggettivo è ravvisabile anche nella forma del dolo alternativo che, quanto alla componente volontaristica, non si rapporta all’ intensità della volontà del fatto tipico ma all’oggetto della volontà e, pertanto, sussiste qualora l’agente si rappresenti come certo il verificarsi di due eventi – alternativi tra loro – e diriga la propria volontà indifferentemente ad entrambi gli eventi.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 20 gennaio 2023, n. 2513; Cass., sez. I, 31 luglio 2023, n. 33435;
Cass. sez. I, 9 settembre 2021, n. 33327; Cass., sez. I, 18 marzo 2019, n. 11928; Cass., sez. I, 29 aprile 2019, n. 17755; Cass., sez. I, 1 ottobre 2018, n. 43250;
Cass., sez. I, 3 ottobre 2013, n. 9663