pedopornografia

Pedopornografia: diminuente per i casi meno gravi Per la Corte Costituzionale, con riferimento al reato di pedopornografia, è illegittima la mancata previsione della diminuente per i casi di minore gravità

Pedopornografia e diminuente

Nella produzione di materiale pedopornografico è illegittima la mancata previsione della diminuente per i casi di minore gravità. Lo ha deciso la Corte costituzionale, con la sentenza n. 91-2024, dichiarando l’illegittimità dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., per violazione degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui non prevede, per il reato di produzione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori di anni diciotto, che nei casi di minore gravità la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

Nel rammentare la discrezionalità del legislatore nella individuazione delle condotte costitutive di reato e nella determinazione delle relative pene, quale massima espressione di politica criminale, il Collegio ha, al contempo, ribadito l’invalicabile limite della arbitrarietà e manifesta irragionevolezza.

Canone della proporzionalità

I Giudici hanno sottolineato che solo una pena rispettosa del canone della proporzionalità, calibrata sul disvalore del caso concreto, garantisce una effettiva individualizzazione della pena e la sua funzione rieducativa.

Alla luce di tali principi la Corte ha osservato che, “per il reato di produzione di materiale pedopornografico, la mancata previsione di una “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di modulare la pena, onde adeguarla alla concreta gravità della singola condotta, può determinare l’irrogazione di una sanzione non proporzionata, in quanto la formulazione normativa dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., nella sua ampiezza, è idonea a includere, nel proprio ambito applicativo, condotte marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, alcune delle quali anche estranee alla ratio sottesa alla severa normativa in materia di pedopornografia; tanto più in presenza di una cornice edittale del reato caratterizzata – proprio nella giusta considerazione dell’elevato disvalore di tale tipologia di reati e per i pericoli agli stessi correlati – da un minimo di significativa asprezza, pari a sei anni di reclusione”.

Casi di minore gravità

La mancata previsione di una diminuente – analoga a quella prevista per i delitti di violenza sessuale e atti sessuali con minorenne – ha concluso la Corte, “preclude, infatti, al giudice di calibrare la sanzione al caso concreto che può essere riconducibile, pur nel suo innegabile disvalore, a un’ipotesi di minore gravità, individuabile grazie alla prudente valutazione globale del fatto in cui assumono rilievo le modalità esecutive e l’oggetto delle immagini pedopornografiche, il grado di coartazione esercitato sulla vittima (anche in riferimento alla mancanza di particolari tecniche di pressione e manipolazione psicologica o seduzione affettiva), nonché le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, pure in relazione all’età (e alla contenuta differenza con l’età del reo) e al danno, anche psichico, arrecatole”.

Allegati

giurista risponde

Legittimità costituzionale art. 167 c.p.m.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 167 c.p.m.p. nonostante non preveda attenuazioni della pena per i fatti di sabotaggio di lieve entità?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

L’art. 167, comma 1, cod. pen. mil. pace deve, dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità. – Corte cost. 2 dicembre 2022, n. 244

La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., q.l.c. dell’art. 167 c.p.m.p., censurandolo nella parte in cui non prevede, nell’ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità, attenuazioni della pena per fatti di lieve entità. Si ritiene violato il principio di uguaglianza nella misura in cui il menzionato art. 167 punisce le medesime condotte previste dall’art. 253 c.p. con l’unica differenza relativa al soggetto attivo (nel primo caso, il militare; nel secondo, chiunque); tuttavia, al delitto previsto dall’art. 253 c.p. sarebbe applicabile l’attenuante di cui all’art. 311 c.p., mentre analoga circostanza non è contemplata dal codice penale militare di pace, lacuna non superabile in via interpretativa. In secondo luogo, si paventa la violazione del principio di proporzionalità in quanto il citato art. 167 prevede una sanzione fissa e inderogabile, improntata nel minimo edittale ad asprezza eccezionale, senza possibilità di mitigare, in funzione del concreto disvalore del fatto, il severo trattamento sanzionatorio contemplato. Di conseguenza, l’impossibilità di individualizzare quest’ultimo risulta in contrasto con l’art. 27, comma  3, Cost., secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 5 dicembre 2018, n. 222).

La Corte costituzionale muove dalla ricognizione delle numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., di previsioni dalle quali discendeva per il militare un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello riservato al comune cittadino (es. la mancata previsione del rilievo scusante, anche nell’ordinamento militare, dell’ignoranza inevitabile della legge penale: Corte cost. 24 febbraio 1995, n. 61).

Da tale giurisprudenza può evincersi che, in linea di principio, una differenza di trattamento sanzionatorio tra reati militari e corrispondenti reati comuni è irragionevole a fronte della sostanziale identità della condotta punita, dell’elemento soggettivo e del bene giuridico tutelato.

Differenze di trattamento sanzionatorio tra reati comuni e i corrispondenti reati militari non si pongono, invece, in contrasto con il principio di uguaglianza laddove siano giustificabili in ragione della oggettiva diversità degli interessi tutelati dalle disposizioni che vengono a raffronto, o del particolare rapporto che lega il soggetto agente al bene tutelato, come nell’ipotesi delle norme incriminatrici che puniscono fatti commessi da militari nei confronti di altri militari, allo scopo di salvaguardare la coesione interna alle Forze armate e le delicate funzioni attribuite.

La Corte costituzionale, dunque, disattende le osservazioni del giudice rimettente in merito alla pedissequa sovrapponibilità degli artt. 253 c.p. e 167 c.p.m.p., in quanto ogni appartenente alle Forze armate, a differenza del comune cittadino, è responsabile dell’installazione militare e della sua custodia ai sensi dell’art. 723, D.P.R. 90/2010 ed è, dunque, gravato da precisi doveri di diritto pubblico.

Tuttavia, la mancata previsione di una causa di attenuazione del trattamento sanzionatorio per i fatti di lieve entità ricompresi nel perimetro applicativo dell’art. 167 c.p.m.p. viola il principio di proporzionalità della pena. Sono ipotizzabili, infatti, sabotaggi di lieve entità consistenti, a titolo esemplificativo, nel rendere meramente inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, le cose elencate nell’art. 167 c.p.m.p., come nel caso del rifornimento con carburante non idoneo.

L’assenza, in tale ultimo codice, di una circostanza attenuante equiparabile all’art. 311 c.p. comporta che il tribunale militare sia vincolato ad applicare la pena della reclusione non inferiore a otto anni anche rispetto a condotte del militare che non provochino alcun disservizio significativo.

La soluzione non può consistere nell’estensione, al delitto di cui all’art. 167 c.p.m.p., della circostanza attenuante prevista dall’art. 311 c.p., poiché quest’ultimo non costituisce idoneo tertium comparationis. Appare, invece, più corretto richiamare l’art. 171, n. 2), c.p.m.p. laddove prevede che la pena sia diminuita (nella misura sino a un terzo ex art. 51, n. 4, c.p.m.p.) “se, per la particolare tenuità del danno, il fatto risulta di lieve entità”; la disposizione dev’essere estesa al solo frammento dell’art. 167 c.p.m.p. concernente le condotte di sabotaggio temporaneo, consistenti nel rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, le cose elencate dallo stesso art. 167.

Ne discende la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 167 c.p.m.p. “nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 8 luglio 2021, n. 143; Corte cost. 17 luglio 2017, n. 205;
Corte cost. 18 aprile 2014, nn. 105 e 106; Corte cost. 15 novembre 2012, n. 251;
Corte cost. 23 marzo 2012, n. 68
ingresso illegale immigrati

Immigrazione: l’ingresso illegale resta reato La Consulta ha ritenuto legittima l'omessa depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato previsto dal Testo Unico Immigrazione

Ingresso illegale

L’articolo 1, comma 4, del decreto legislativo n. 8/2016, che esclude dalla depenalizzazione il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato previsto dal testo unico immigrazione, non si pone in contrasto con il principio direttivo della legge delega attinente alla cosiddetta depenalizzazione “cieca”, rivolto a depenalizzare i reati puniti con la sola pena pecuniaria. Lo ha deciso la Consulta con la sentenza n. 88-2024.

La questione di legittimità costituzionale

In particolare, la Corte ha rigettato la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, secondo cui la disposizione censurata violerebbe l’articolo 76 Cost. perché la legge n. 67 del 2014, “delegando in tal senso il Governo a depenalizzare i suddetti reati, avrebbe incluso tra essi anche quello di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, in quanto anch’esso punito con la sola pena pecuniaria dell’ammenda”.

La Corte ha precisato che la legge delega, al fine di selezionare i reati che avrebbero dovuto essere depenalizzati, ha utilizzato due criteri: – quello della depenalizzazione “cieca”, che prevede la trasformazione in illeciti amministrativi dei reati puniti con la pena pecuniaria, a eccezione di quelli riconducibili ad alcune materie, e quello della depenalizzazione nominativa, che prevede la medesima trasformazione per taluni reati specificamente individuati.

Il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato è compreso tra questi ultimi, con la conseguenza – ha concluso la Consulta – che, “il censurato articolo 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016, laddove stabilisce che la «disposizione del comma 1 non si applica ai reati di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286», non si pone in contrasto con il principio direttivo attinente alla depenalizzazione “cieca”, evocato dal rimettente come norma interposta”.

Allegati

lieve entità rapina

Reato di rapina: sì alla lieve entità La Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 628 c.p. nella parte in cui non prevede l'attenuante per la particolare tenuità del danno o del pericolo

Illegittimità costituzionale art. 628 c.p.

Ok alla lieve entità del fatto anche per il reato di rapina. Così la Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 86-2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata per la rapina c.d. impropria è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

Conseguentemente, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 628, relativo alla rapina c.d. propria, nella parte in cui non prevede la medesima attenuante.

La questione di legittimità costituzionale

Oggetto del giudizio a quo è l’imputazione di rapina impropria ascritta a due soggetti che avrebbero prelevato dagli scaffali di un supermercato alcuni generi alimentari di modesto valore e sarebbero riusciti a sottrarsi all’intervento del personale dell’esercizio commerciale mediante qualche generica frase di minaccia e una spinta, per essere infine rintracciati nei pressi dell’esercizio stesso mentre consumavano del pane.

La “valvola di sicurezza”

La Corte ha osservato che in simili fattispecie il minimo edittale di pena detentiva per la rapina, dal legislatore innalzato alla misura di cinque anni di reclusione, può costringere il giudice a irrogare una sanzione in concreto sproporzionata, sicché gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione esigono l’introduzione di una diminuente ad effetto comune, fino ad un terzo, quale “valvola di sicurezza” per i fatti di lieve entità.

Si tratta dell’estensione alla rapina di quanto deciso dalla sentenza n. 120/2023 per l’estorsione, reato caratterizzato anch’esso dall’elevato minimo edittale di cinque anni di reclusione e, nel contempo, dalla possibilità di consumazione tramite condotte di minimo impatto, personale e patrimoniale.

Tale estensione, sottolinea infine il giudice delle leggi, “consegue sia al principio di uguaglianza, nel trattamento sanzionatorio della rapina e dell’estorsione, sia ai principi di individualizzazione e finalità rieducativa della pena, i quali ostano all’irrogazione di sanzioni sproporzionate rispetto alla gravità concreta del fatto di reato”.

Allegati

giurista risponde

Legittimità costituzionale art. 649 c.p.p. È costituzionalmente legittimo l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171ter della L. 663/1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174bis della medesima legge?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

È costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171ter della L. 663/1941 che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174bis della medesima legge. – Corte Cost. 16 giugno 2022, n. 149.

La L. 633/1941, in materia di diritto d’autore, disciplina un doppio binario sanzionatorio per le medesime condotte illecite: da un lato, l’art. 171ter contempla un illecito penale; dall’altro, l’art. 174bis prevede un illecito amministrativo. Questo duplice apparato sanzionatorio ha portato a sollevare una questione di legittimità costituzionale per violazione del divieto di bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. e all’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU. Il giudice remittente non pone in discussione la coesistenza delle due norme sanzionatorie, né la loro concreta applicabilità, ma si limita ad invocare un rimedio idoneo ad evitare lo svolgimento o la prosecuzione di un giudizio penale, allorché l’imputato sia già stato sanzionato in via definitiva per il medesimo fatto con la sanzione amministrativa prevista dall’art. 174bis della L. 633/1941. Tale rimedio viene individuato dal giudice remittente nella pronuncia di proscioglimento o non luogo a procedere, già prevista in via generale dall’art. 649 c.p.p., per il caso in cui l’imputato sia già stato giudicato penalmente, in via definitiva, per il medesimo fatto.

La Corte ha ritenuto la questione fondata. Il diritto al ne bis in idem mira a tutelare l’imputato non solo contro la prospettiva dell’inflizione di una seconda pena, ma ancor prima contro l’eventualità di subire un secondo processo per il medesimo fatto, a prescindere dall’esito di quest’ultimo che potrebbe anche essersi concluso con un’assoluzione. I presupposti per l’operatività del ne bis in idem sono: la sussistenza di un idem factum, identificato nei medesimi fatti materiali sui quali si fondano le due accuse penali, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica; la sussistenza di una previa decisione che riguardi il merito della responsabilità penale dell’imputato e sia divenuta irrevocabile; la sussistenza di un bis, ossia di un secondo procedimento o processo di carattere penale per i medesimi fatti. Inoltre, la costante giurisprudenza europea (Corte EDU, Zolotoukhine c. Russia, 10 febbraio 2009; Corte EDU, A e B c. Norvegia, 15 novembre 2016) afferma non sia decisiva la qualificazione della procedura e della sanzione come “penale” da parte dell’ordinamento nazionale, ma la sua natura sostanzialmente “punitiva” da apprezzarsi sulla base dei criteri Engel. La Corte EDU ha affermato, nella citata pronuncia A e B c. Norvegia, che non necessariamente dà luogo ad una violazione del ne bis in idem l’inizio o la prosecuzione di un secondo procedimento di carattere sostanzialmente punitivo, in relazione a un fatto per il quale una persona sia già stata giudicata, in via definitiva, nell’ambito di un diverso procedimento, anch’esso di carattere sostanzialmente punitivo. Una tale violazione è infatti esclusa qualora tra i due procedimenti vi sia una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”. Al fine di ravvisare la suddetta connessione è necessario verificare: se i diversi procedimenti perseguano scopi complementari; se la duplicità dei procedimenti in conseguenza della stessa condotta sia prevedibile; se i due procedimenti siano condotti in modo tale da evitare la duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove; se siano previsti dei meccanismi che consentano nel secondo procedimento di tenere in considerazione la sanzione inflitta nel primo.

Nel caso in esame è indubbia la natura punitiva delle sanzioni amministrative, previste dall’art. 174bis della L. 633/1941, alla luce dei criteri Engel e della stessa giurisprudenza costituzionale. La Corte sostiene che non vi sia alcun dubbio sul fatto che il sistema normativo, previsto dalla L. 633/1941, consenta al destinatario dei suoi precetti di prevedere la possibilità di essere assoggettato a due procedimenti distinti e a due conseguenti classi di sanzioni. Tuttavia, deve escludersi che i due procedimenti perseguano scopi complementari o riguardino diversi aspetti del comportamento illecito. La sanzione amministrativa persegue l’intenzione di potenziare l’efficacia general-preventiva dei divieti già contenuti nella legge. Quanto alle condotte sanzionate, gli artt. 171ter e 174bis della L. 633/1941 puniscono i medesimi fatti, con l’eccezione delle condotte colpose aventi rilevanza solo amministrativa. Il sistema normativo non prevede alcun meccanismo volto ad evitare duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove e ad assicurare una coordinazione temporale fra i procedimenti. Non è previsto, inoltre, alcun meccanismo che consenta al giudice penale di tenere conto della sanzione amministrativa già irrogata per i medesimi fatti. Da tutto ciò discende che il sistema del doppio binario in esame non è congegnato in maniera tale da assicurare una risposta sanzionatoria unitaria agli illeciti in materia di violazioni del diritto d’autore. I due procedimenti seguono percorsi autonomi che non si intersecano né si coordinano, creando così le condizioni per il verificarsi di violazioni sistemiche del diritto al ne bis in idem.

Per questi motivi i giudici costituzionali – rilevata la violazione del ne bis in idem – hanno reputato di potervi porre parzialmente rimedio mediante la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 649 c.p.p. Ciononostante, la Corte si è dichiarata consapevole della circostanza che il rimedio adottato non sia in grado di scongiurare le violazioni del ne bis in idem nell’ipotesi in cui sia dapprima divenuta definitiva la sanzione penale ed il cittadino venga sottoposto successivamente a procedimento amministrativo. Di conseguenza, la Consulta ha auspicato una rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio ad opera del legislatore, in modo tale da adeguarli ai principi enunciati dalla giurisprudenza sovranazionale e nazionale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 43/2018; Corte cost. 222/2019; Corte cost. 145/2020

Maltrattamenti in famiglia: rileva anche il disprezzo La Cassazione ha precisato che nel reato di maltrattamenti in famiglia rientrano anche gli atti di disprezzo e di offesa alla dignità della vittima, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali

Atti di vessazione del marito nei confronti della moglie

Nella vicenda in esame, la Corte d’appello di Milano aveva ritenuto il marito responsabile dei reati di cui agli artt. 572 e 609-bis c.p. nei confronti della moglie convivente, condannando l’imputato alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione.

Avverso la suddetta decisione il marito aveva proposto ricorso dinanzi al giudice di legittimità.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18031-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Reato di maltrattamenti in famiglia

Per quanto specificatamente attiene al reato di maltrattamenti in famiglia, addebitato al ricorrente dai Giudici di merito, la Suprema Corte ha evidenziato che la fattispecie in questione “consiste nella condotta di sottoposizione della vittima ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita”.

A tal proposito, la Corte ha altresì precisato che “nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia (..) non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano un vere e proprie sofferenze morali”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha dunque ritenuto che i Giudici di merito avessero correttamente valutato che la convivenza coniugale tra l’imputato e la vittima era stata caratterizzata dalla ripetitività di condotte vessatorie perpetrate dal marito a carico della moglie e che le stesse fossero di natura abusante, umiliante e violenta, con la conseguenza che la condotta posta in essere dall’imputato aveva integrato il reato di maltrattamenti in famiglia.

Allegati

saluto romano

Saluto romano: quali fattispecie di reato La condotta consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ eseguendo il “saluto romano” per le Sezioni Unite della Cassazione può integrare diverse fattispecie delittuose

“La chiamata del presente” durante una manifestazione pubblica

Il caso che ci occupa prende avvio dai fatti avvenuti durante una manifestazione pubblica del 29.04.2016 a Milano, alla quale avevano partecipato oltre mille persone, in occasione della quale gli imputati avevano risposto alla chiamata del “presente”, eseguendo il “saluto fascista”, anche noto come “saluto romano”.

Rispetto ai fatti appena narrati, la Corte d’appello di Milano aveva condannato gli imputati, rilevando come la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di primo grado, non riguardava l’ipotesi di reato oggetto di contestazione processuale, ma la diversa fattispecie di cui all’art. 5 legge n. 645/1952.

Avverso la suddetta sentenza di condanna gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

L’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione

Il Giudice di legittimità, investito della questione sopra descritta, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite visto il rilevante contrasto interpretativo riscontrato sul punto in seno alla Corte stessa.

A tal proposito, la Corte ha affermato che, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, che ritiene il “saluto fascista” sussumibile nella fattispecie dell’art. 2 d.l. n. 122 del 1993, tale manifestazione esteriore costituisce una rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi che perseguono obiettivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa, essendo costituiti per favorire la diffusione di ideologie discriminatorie. Mentre, secondo un diverso orientamento giurisprudenziale il “saluto fascista” sarebbe riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 5 della legge n. 645 del 1952 e postula che tali condotte siano idonee a determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni che si ispirano, direttamente o indirettamente, all’ideologia del disciolto partito fascista.

Nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la Prima sezione penale della Corte di Cassazione ha posto il seguente quesito “Se la condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel ‘saluto romano’, rituali evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, sia sussumibile nella fattispecie di reato di cui all’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122 (…), ovvero in quella prevista dall’art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645; “Se, inoltre, le due disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se i due reati possano concorrere oppure le relative norme incriminatrici siano tra loro in rapporto di concorso apparente”.

Il concreto pericolo di riorganizzazione del partito fascista

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 16153/2024, ha risposto al suddetto quesito interpretativo e, posto il generale principio di diritto sul punto, ha qualificato il fatto ai sensi dell’art. 5 della legge n. 654 del 1952.

La Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa nonché il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ha anzitutto evidenziato che “Non può esservi dubbio (…) che entrambe le norme coincidano quanto alla condotta materiale che, in entrambi i casi, consiste nel compimento di manifestazioni tenute partecipando a pubbliche riunioni, solo distinguendosi in virtù del diverso contenuto delle stesse”, nonché, ha aggiunto la Corte, anche in relazione al diverso bene giuridico tutelato dalle due norme.

In tal senso, ha rilevato il Giudice di legittimità, l’art. 5 della legge n. 645 del 1952 tutela non tanto il “mero “ordine pubblico materiale” (…), ma, in una visione di ben più ampio respiro, la stessa tavola dei valori costituzionali e democratici fondativi della Repubblica, efficacemente riassumibili nel bene dell’”ordine pubblico democratico o costituzionale”, posto in pericolo, a fronte dell’elemento modale- spaziale indicato dalla norma, da possibili consenso o reazioni a tali manifestazioni atti a turbare, anche ma non solo, la civile convivenza”.

Per quanto invece attiene al bene giuridico tutelato dall’art. 2 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, la Corte ha rilevato come esso consista nel contrasto alla “diffusione delle idee discriminatorie o di atti di violenza per ragioni (…) razziali, etniche, nazionali o religiose”.

Posta così la distinzione tra le due norme, la Corte ha esaminato il tema del rapporto di specialità tra fattispecie delittuose, affermando che nel caso di specie “è lo stesso raffronto tra le due disposizioni (…), a rilevare l’impossibilità di affermare che una delle due norme sia unilateralmente speciale rispetto all’altra. Al nucleo comune di “manifestazioni tenute in pubbliche riunioni”, si aggiunge, in ognuna di esse, l’elemento differenziale del loro contenuto”.

Esclusa dunque la sussistenza di un rapporto di specialità tra le norme sopra richiamate, la Corte ha rilevato che “il rituale del saluto romano possa integrare non solo il reato di cui all’art. 5 legge cit., bensì anche quello dell’art. 2 legge cit., ove di entrambe le fattispecie, naturalmente, ricorrano i rispettivi e differenti requisiti di pericolo”.

Il principio di diritto

Premesso quanto sopra, la Corte a Sezioni Unite ha dunque risposto al quesito affermando il seguente principio di diritto: “La condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel c.d. ‘saluto romano’ integra il delitto previsto dall’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, sia idonea ad integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. e fin. della Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)”.

intercettazioni eppo

Intercettazioni EPPO: il parere del Garante Privacy Il Garante Privacy ha dato parere positivo alla costituzione del database nazionale per le intercettazioni della procura UE

Intercettazioni EPPO

Il Garante Privacy ha dato il via libera  al decreto che istituisce l’archivio nazionale dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni disposte dalla Procura europea (EPPO. European Public Prosecutor’s Office) mediante postazioni individuate in alcune Procure nazionali.

L’Autorità ha chiesto, tuttavia, che vengano adottate ulteriori misure tecnologiche a protezione dei dati.

Cos’è EPPO

L’EPPO è un’istituzione indipendente dell’Unione europea, operativa dal 1° giugno 2021, con sede in Lussemburgo competente ad indagare e perseguire reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE.

Il database nazionale intercettazioni

Lo schema di decreto del Ministro della giustizia, esaminato dal Garante, disciplina le modalità di conservazione e di consultazione dei dati contenuti nell’archivio e i soggetti legittimati all’accesso mediante le postazioni istituite presso le sedi di servizio dei Procuratori europei delegati.

Potranno dunque accedere all’archivio nazionale il giudice che procede e i suoi ausiliari; il pubblico ministero e i suoi ausiliari, ivi compresi gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati all’ascolto; i difensori delle parti assistiti, se necessario, da un interprete.

L’archivio nazionale, tenuto sotto la direzione e la sorveglianza esclusive del Procuratore europeo o, nei casi previsti, del Procuratore europeo delegato, conserverà la versione integrale di tutti i verbali e di tutte le registrazioni delle intercettazioni eseguite nei procedimenti in cui la Procura europea ha esercitato la sua competenza, nonché ogni altro atto ad esse relativo.

Il parere del Garante

Nel rilasciare parere favorevole, il Garante ha ritenuto che il decreto non presenta particolari criticità sotto il profilo della protezione dei dati, ma ha comunque richiesto – in analogia con i sistemi nazionali – “che venga previsto, riguardo ai flussi informativi e la memorizzazione dei dati, il ricorso a tecniche crittografiche, utilizzando protocolli di rete sicuri e algoritmi di cifratura robusti, anche tenendo conto di eventuali raccomandazioni fornite dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale”.

Inoltre, l’autorità ha chiesto di “adottare procedure di autenticazione informatica a più fattori, con credenziali e dispositivi di autenticazione assegnati all’utente e auspicabilmente gestiti direttamente dal Ministero della giustizia”.

Lo schema di decreto, infine, dovrà contenere misure volte a garantire la continuità operativa e il disaster recovery (ripristino dei sistemi), nonché rilevare, tramite specifici alert, comportamenti anomali o a rischio, prevedendo il tracciamento delle operazioni compiute e audit con cadenza almeno annuale.

emergenza suicidi carcere

Emergenza suicidi in carcere: stanziati 5 milioni di euro Il decrfeto firmato dal guardasigilli Nordio assegna per il 2024 5 milioni di euro per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti

Emergenza suicidi carceri

“Al fine di prevenire e contrastare il drammatico fenomeno dei suicidi nell’ambito della popolazione detenuta, ho firmato un decreto che prevede per il corrente anno l’assegnazione di 5 milioni di euro all’Amministrazione penitenziaria per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione”. Questa la dichiarazione del ministro della giustizia Carlo Nordio dando atto dello stanziamento annuale “più che raddoppiato” destinato “alle finalità di prevenzione del fenomeno suicidario e di riduzione del disagio dei ristretti, a conferma dell’impegno da parte del governo nella pronta adozione di misure necessarie per migliorare le condizioni detentive negli istituti penitenziari, anche in vista di un intervento più strutturato e duraturo nel tempo da proporre come priorità nella prossima legge di bilancio”.

Servizi psicologici potenziati

Fino al gennaio scorso i professionisti ex art. 80, incaricati di monitorare i detenuti e accompagnarli nel percorso di rieducazione, ricevevano una retribuzione lorda di 17 euro l’ora. Da febbraio il compenso lordo è salito a più di 30 euro. A spesa invariata, ciò avrebbe comportato una riduzione delle prestazioni erogate. “Per questo il Ministero della Giustizia è intervenuto, come annunciato dal Guardasigilli Carlo Nordio, con uno stanziamento di ulteriori 5 milioni di euro, al fine di garantire un ulteriore potenziamento dei servizi psicologici negli istituti” ha confermato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari.

Un incremento che, per il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Russo, “costituisce un altro importante pezzo del puzzle che si sta via via componendo per migliorare la condizione degli oltre 61 mila detenuti presenti nelle nostre carceri”.

La decisione del Ministro, “che sposa pienamente una precisa indicazione del Dap – prosegue Russo – permetterà di fronteggiare meglio il disagio che da tempo si registra negli istituti. E, non da ultimo, consentirà al personale di Polizia Penitenziaria e a tutti gli operatori di poter svolgere con maggiore serenità il gravoso impegno lavorativo che, nonostante le difficoltà, mettono quotidianamente a disposizione dei cittadini e della Nazione”.

archivio digitale intercettazioni

Intercettazioni: via libera all’archivio digitale Il Garante Privacy ha reso parere favorevole all'archivio digitale interdistrettuale delle intercettazioni (ADI)

Archivio digitale intercettazioni

Il Garante Privacy ha reso parere favorevole sullo schema di decreto del Ministero della Giustizia che regola l’attivazione dell’archivio digitale delle intercettazioni (ADI) presso le infrastrutture interdistrettuali e definisce tempi, modalità e requisiti di sicurezza della migrazione e del conferimento dei dati.

L’archivio – tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica – custodisce i verbali, gli atti e le registrazioni delle intercettazioni disposte dalle singole Procure.

I rilievi del Garante Privacy

Il Garante, tuttavia, ha chiesto al Ministero di esplicitare nel testo il ruolo di titolare del trattamento dei dati svolto dalle Procure della Repubblica, per fugare possibili dubbi interpretativi e agevolare l’esercizio dei diritti da parte degli interessati.

Con l’attuale atto ministeriale si completa il percorso che ha già visto l’istituzione delle infrastrutture digitali centralizzate per le intercettazioni e la definizione dei requisiti tecnici per la gestione dei dati presso tali sistemi, sui cui schemi il Garante si è espresso con parere favorevole rispettivamente nei mesi di settembre e di dicembre 2023.

Protezione dati ok

Il testo dello schema di decreto all’esame del Garante non presenta criticità sotto il profilo della protezione dei dati.

Recepisce infatti le indicazioni fornite in fase istruttoria dall’Autorità e prevede le ulteriori misure tecniche organizzative di funzionamento del sistema richieste dal Garante con il parere di dicembre.

Sono state delineate con chiarezza le funzioni svolte dal Procuratore della Repubblica: direzione, organizzazione e sorveglianza sulle attività di intercettazioni e sui relativi dati. Inoltre, sono state declinate con maggiore dettaglio le misure tecnico-organizzative necessarie a garantire livelli di sicurezza adeguati al rischio connesso al trattamento dei dati effettuato nell’archivio digitale.