amnistia

Amnistia: guida completa Amnistia: atto di clemenza concesso da una legge specifica che estingue il reato o fa cessare l’esecuzione della pena e delle pene accessorie

Cos’è l’amnistia?

L’amnistia è un atto di clemenza previsto dall’ordinamento giuridico italiano, che può comportare l’estinzione di reati e delle pene ad essi connessi. La sua regolamentazione è contenuta nell’articolo 151 del Codice Penale.

Articolo 151 c.p: cosa prevede

L’articolo 151 c.p stabilisce che l’istituto comporta l’estinzione del reato e della pena per i fatti commessi, ma solo se è prevista da una legge ad hoc. In altre parole, l’amnistia non è applicabile automaticamente, ma deve essere concessa attraverso una legge speciale, approvata dal Parlamento.

Essa può avere effetti retroattivi, ciò significa che può estinguere reati commessi anche prima della sua promulgazione, purché questi siano compatibili con i criteri stabiliti dalla legge stessa.

Caratteristiche dell’amnistia

L’istituto presenta alcune caratteristiche principali.

  • Una volta concessa, il reato non viene più considerato tale, e la pena viene completamente eliminata.
  • Non tutti i crimini possono beneficiare dell’ In genere, reati particolarmente gravi, come omicidi o crimini di terrorismo, sono esclusi dal beneficio.
  • La sua concessione può essere sottoposta a condizioni o obblighi.
  • Questo atto di clemenza non è applicabile ai recidivi (art. 99 c.p) ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, salvo eccezioni.

Condizioni e limiti dell’amnistia

La legge che la dispone può stabilire alcuni limiti specifici all’amnistia.

  1. Tipologia di reati: non tutti i reati possono beneficiare dell’amnistia, in particolare quelli di terrorismo, omicidio e crimini contro l’umanità.
  2. Periodo di applicazione: l’amnistia può avere effetti retroattivi, ma solo entro i limiti stabiliti dalla legge che la dispone.
  3. Efficacia legale: una volta concessa, l’amnistia estingue ogni effetto penale, ma non necessariamente quelli civili o amministrativi legati al reato.

Giurisprudenza della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha fornito diverse interpretazioni sull’applicazione di questo istituto, in particolare in relazione all’estinzione del reato e delle pene.

In una sentenza del 2016, la Cassazione ha chiarito che l’amnistia non solo estingue la pena, ma elimina anche il reato sotto il profilo giuridico. Ciò significa che un soggetto che ne beneficia non avrà più alcuna condanna penale a suo carico, e non potrà essere sottoposto a misure penali future relative a quel reato.

La Cassazione ha inoltre ribadito che l’amnistia può essere applicata anche a procedimenti in corso, a condizione che i reati siano compatibili con la legge che l’ha introdotta. Tuttavia, l’eventuale amnistia non cancella gli effetti civili del reato, come il risarcimento danni alle vittime.

Differenze con l’indulto

Sebbene amnistia e indulto siano spesso confusi, le differenze tra i due provvedimenti sono significative. La prima è un provvedimento che ha l’effetto di estinguere i reati e le pene connesse a determinati comportamenti criminali. Il secondo invece riduce la pena, ma non elimina il reato. L’amnistia può essere concessa dallo Stato per motivi politici, sociali o di particolare necessità, ma non è applicabile a tutti i reati.

Ecco le differenze principali tra i due istituti.

Estinzione del reato vs. riduzione della pena:

  • Amnistia: elimina completamente il reato e la pena, annullando ogni effetto penale. La persona non viene più considerata condannata.
  • Indulto: riduce o estingue la pena, ma il reato rimane formalmente tale. La persona non è più sottoposta alla pena detentiva, ma il reato rimane nel suo casellario giudiziario e può avere altre implicazioni legali.

Effetto retroattivo:

  • Amnistia: ha effetti retroattivi, il che significa che può estinguere reati commessi anche prima dell’entrata in vigore della legge.
  • Indulto: generalmente si applica solo alle pene future, anche se può ridurre le pene già in corso.

Reati esclusi:

  • Amnistia: tende a escludere i reati più gravi, come quelli legati a terrorismo, mafia, omicidi, ecc.
  • Indulto: non esclude necessariamente i reati più gravi, ma la sua applicazione dipende dalla legge speciale che lo autorizza. In genere, l’indulto non si applica a crimini gravi come quelli di terrorismo, ma può essere esteso ad altri reati meno gravi.

Procedura di concessione:

  • Amnistia: viene concessa tramite una legge speciale approvata dal Parlamento. Ha una portata generale e collettiva, riguardando categorie di detenuti.
  • Indulto: viene anch’esso concesso dal Parlamento tramite una legge speciale, ma ha una portata più limitata. Esso di solito si applica a specifici gruppi di reati o detenuti.

 

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particolare tenuità del fatto

Particolare tenuità del fatto: la guida Particolare tenuità del fatto: istituto che esclude la punibilità per esiguità del danno, del pericolo o per la condotta del soggetto agente

Particolare tenuità del fatto: cos’è

La “particolare tenuità del fatto” contemplata dall’articolo 131-bis del Codice Penale rappresenta una novità significativa nell’ordinamento giuridico italiano. La norma ha infatti introdotto questo concetto come causa di esclusione della punibilità in determinati casi.

Ratio dell’istituto

Questo istituto, introdotto con  dal Dlgs n. 28/2015 e modificato dal Dlgs n. 150/2022, si pone l’obiettivo di evitare che il sistema penale si sovraccarichi di procedimenti per reati di lieve entità, riservando le risorse giuridiche ai reati più gravi. Questo principio consente di applicare una giustizia più equa, adattando la risposta penale alla reale pericolosità sociale del fatto.

Inoltre, la tenuità del fatto può rappresentare una forma di risoluzione più rapida ed efficace per i casi in cui il danno causato è irrilevante, contribuendo a ridurre il carico sulle corti e a focalizzare l’attenzione su reati di maggiore allarme sociale.

Analisi dell’art. 131-bis c.p

L’articolo 131-bis del Codice Penale stabilisce che quando il fatto non è di particolare gravità, il giudice può escludere la punibilità dell’imputato. La valutazione della tenuità del fatto si basa su criteri oggettivi, come la scarsa entità del danno o del pericolo causato, e criteri soggettivi, come la personalità dell’imputato e il comportamento successivo al reato.

Valutazione della tenuità del fatto

L’articolo 131-bis indica quindi due fattori fondamentali nella valutazione della tenuità:

  • la modesta entità del danno o del pericolo derivante dal reato;
  • la personalità dellimputato, con riferimento alla sua condotta e alle circostanze in cui è avvenuto il fatto.

Questi criteri consentono al giudice di valutare se il fatto possa essere considerato di scarsa gravità, escludendo la necessità di una punizione penale, ma lasciando la strada aperta alla possibilità di applicare misure alternative come la sanzione pecuniaria o altre forme di risarcimento.

Valutazione della non tenuità del fatto

L’offesa non può essere considerata invece di particolare tenuità quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, con crudeltà, anche verso animali, oppure usando sevizie o approfittando della condizione di minorata difesa della vittima, ad esempio a causa dell’età e quando dalla condotta sono derivate, anche non volute, la morte o lesioni gravissime a una persona.

L’offesa non è di particolare tenuità anche in presenza di reati

  • puniti con una pena massima superiore a due anni e sei mesi di reclusione, se commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;
  • commessi contro pubblici ufficiali o agenti di pubblica sicurezza e polizia giudiziaria nell’esercizio delle loro funzioni, come previsti dagli articoli 336, 337, 341-bis e 343;
  • di particolare gravità, consumati o tentati, previsti dagli articoli indicati (es. corruzione, omicidio, violenze sessuali, lesioni aggravate, stalking, rapina aggravata, riciclaggio);
  • previsti in ambiti specifici, come interruzione illegale di gravidanza (art. 19, comma 5, della legge n. 194/1978), traffico di stupefacenti (art. 73 del DPR n. 309/1990, escluse alcune ipotesi minori), reati in materia finanziaria (articoli 184 e 185 del D.Lgs. n. 58/1998);
  • legati alla violazione del diritto d’autore, salvo quelli meno gravi di cui all’ 171 della legge n. 633/1941.

Particolare tenuità del fatto: giurisprudenza Cassazione

La Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sull’applicazione dell’articolo 131-bis, fornendo importanti chiarimenti interpretativi.

Gli Ermellini, in diverse sentenze, hanno ribadito che la tenuità del fatto deve essere valutata in modo rigoroso, tenendo conto non solo della gravità oggettiva del reato, ma anche del contesto complessivo in cui si è svolto il fatto.

In una sentenza del 2018 (Cass. Pen. n. 21060), la Corte ha sottolineato che l’applicazione dell’articolo 131-bis richiede una valutazione complessiva, che prenda in considerazione non solo l’entità del danno, ma anche la condotta successiva dellimputato, la sua sincerità e il suo atteggiamento di responsabilizzazione.

In un altro caso (Cass. Pen. n. 30247/2017), la Corte ha evidenziato che non è sufficiente un mero danno economico modesto per escludere la punibilità, ma bisogna anche considerare l’effettivo pericolo creato dall’illecito penale.

 

Leggi anche: Particolare tenuità del fatto per la prima volta in Cassazione

processo penale telematico

Processo penale telematico: atti esclusi dall’accettazione automatica Processo penale telematico: la circolare DGSIA del 12 novembre 2024 chiarisce quali atti e sono esclusi dall’accettazione automatica

Processo penale telematico: chiarimenti dalla DGSIA

La Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) ha emanato, il 12 novembre 2024, una circolare rivolta agli uffici giudiziari per ottimizzare la gestione dei depositi telematici effettuati dai difensori attraverso il portale del Processo Penale Telematico. Il documento specifica le categorie di atti processuali escluse dall’accettazione automatica e che, pertanto, richiedono la verifica manuale da parte degli operatori addetti.

Atti esclusi dall’accettazione automatica

La circolare elenca in modo puntuale gli atti che non possono essere processati automaticamente dal sistema informatico. Tra questi:

  1. nomina difensiva, quando necessita di un atto abilitante, ad esempio prima della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis Cpp);
  2. richieste di accesso agli atti;
  3. richieste di avocazione al Procuratore Generale;
  4. rescissioni del giudicato;
  5. revisioni di sentenze;
  6. domande di riparazione per ingiusta detenzione;
  7. denunce e querele;
  8. istanze di procedimento;
  9. integrazioni di denuncia, querela o istanza di procedimento;
  10. Richieste di certificati e solleciti;
  11. atti depositabili presso il Tribunale del riesame.

Accettazione denunce, istanze e querele: il ruolo del PM

Un elemento cruciale chiarito nella circolare riguarda l’accettazione delle denunce, querele e istanze di procedimento. In passato, il sistema informatico accoglieva automaticamente tali atti,

Una nota del Ministero della Giustizia, pubblicata il 13 novembre 2024 però ha chiarito che il sistema informatico non avvia in automatico un procedimento penale. La piattaforma Pdp si limita a registrare e accettare l’atto trasmesso, mentre la scelta di procedere con l’iscrizione di un nuovo fascicolo dipende esclusivamente dal Pubblico Ministero.

Motivazioni legate al segreto investigativo

La circolare del 12 novembre 2024 introduce ulteriori restrizioni, evidenziando che alcuni atti sono esclusi dall’accettazione automatica per proteggere il segreto della fase investigativa.

Tra questi, si trovano:

  • depositi indirizzati al Giudice per le indagini preliminari (Gip), quando il fascicolo si trova in una fase interlocutoria;
  • eccezioni: richieste di incidente probatorio, convalida di fermo o arresto, proroga dei termini di indagine e ammissione all’oblazione;
  • atti relativi a richieste di decreto penale di condanna e a procedimenti ex art. 129 Cpp

In questi casi, il numero di registro generale del fascicolo presso l’ufficio Gip non viene esposto al difensore sul Pdp, garantendo una maggiore riservatezza.

PPT: implicazioni pratiche per operatori e difensori

Queste disposizioni mirano a tutelare l’accuratezza e la segretezza del processo penale, impedendo che determinate fasi delicate siano gestite automaticamente dal sistema. Per gli operatori giudiziari e i difensori, ciò comporta una maggiore attenzione nella preparazione e nel monitoraggio dei depositi.

La distinzione tra atti accettati automaticamente e atti che richiedono intervento manuale rafforza il controllo umano su procedure fondamentali, come l’iscrizione di una notizia criminis, e protegge l’integrità del sistema giuridico.

In questo modo si realizza un uso più efficace del processo penale telematico, bilanciando innovazione tecnologica e garanzie processuali. L’introduzione di limiti precisi all’accettazione automatica degli atti processuali rafforza il ruolo del Pubblico Ministero e tutela la riservatezza delle indagini, assicurando un controllo rigoroso nei procedimenti penali.

 

Leggi: Processo penale telematico: cos’è e come funziona

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certificato casellario giudiziale

Certificato casellario giudiziale Certificato casellario giudiziale: è il documento che attesta la presenza di provvedimenti penali, civili e amministrativi passati in giudicato o definitivi a carico di una persona

Certificato casellario giudiziale: cos’è

Il Certificato del casellario giudiziale è un documento ufficiale che attesta la presenza di provvedimenti penali, civili e amministrativi passati in giudicato o definitivi emessi a carico di una persona. Questo certificato fornisce una panoramica delle vicende giuridiche in cui una persona è stata coinvolta.

Il Casellario giudiziale è gestito dal Ministero della Giustizia e raccoglie i dati relativi a tutte le decisioni giudiziarie emesse da tribunali italiani, comprese le condanne, le sentenze di non luogo a procedere, le assoluzioni e le misure di sicurezza.

Chi può richiederlo

Il Certificato del casellario giudiziale può essere richiesto da chiunque abbia interesse a ottenere una certificazione sulla propria posizione giuridica.

  1. Dalla persona interessata per se stessa per attestare se si ha o meno un’eventuale condanna penale a proprio carico.
  2. Da un soggetto che ha un interesse legittimo. Ad esempio, un datore di lavoro può richiedere il certificato di un candidato durante una selezione, per verificare che non ci siano condanne penali. In questo caso, è necessaria una specifica autorizzazione della persona interessata.
  3. Dall’ente pubblico o dall’istituzione che necessita di verificare la posizione giuridica di una persona può richiederlo per motivi legati a incarichi o adempimenti particolari (es. assunzioni in ambito pubblico, concessione di licenze, etc.).

A cosa serve il certificato del casellario giudiziale

Il certificato del casellario giudiziale ha numerosi usi e applicazioni pratiche. Alcuni dei principali sono:

  1. Adempimenti lavorativi: Il certificato può essere richiesto da datori di lavoro, sia pubblici che privati, per verificare se un candidato abbia condanne penali o procedimenti pendenti, soprattutto in contesti sensibili (es. assunzioni in ambito sanitario, educativo, giuridico, etc.).
  2. Partecipazione a concorsi pubblici: Le pubbliche amministrazioni richiedono spesso il Certificato del Casellario Giudiziale per i candidati ai concorsi pubblici, al fine di verificare l’idoneità morale e giuridica alla posizione.
  3. Concessione di licenze e autorizzazioni: In alcuni casi, come per l’ottenimento di licenze professionali o per la gestione di attività sensibili (come bar, ristoranti, o agenzie di sicurezza), le autorità locali possono richiedere il certificato per garantire che il richiedente non abbia precedenti penali.
  4. Esigenze personali: Può essere richiesto anche per motivi personali, come ad esempio per la presentazione di una domanda di visto o per procedimenti legali in corso. Alcuni cittadini possono anche richiederlo per semplici motivi di trasparenza o per tutelarsi in specifiche situazioni.
  5. Adempimenti giuridici: In determinati contesti legali, come per la partecipazione a cause civili o per l’affidamento di minori, il certificato può essere richiesto per accertare l’affidabilità del soggetto coinvolto.

Come si richiede il certificato del casellario giudiziale

La richiesta del Certificato del Casellario Giudiziale può essere effettuata attraverso vari canali:

  1. Online: È possibile richiederlo direttamente online tramite il portale del Ministero della Giustizia, con una procedura semplificata che permette di ottenere il certificato in modo rapido. In alcuni casi, è necessaria una firma digitale per completare la richiesta.
  2. Presso gli uffici giudiziari: In alternativa, il certificato può essere richiesto recandosi direttamente presso l’ufficio del Casellario Giudiziale del tribunale competente (tribunale di residenza o di domicilio dell’interessato).
  3. Per posta: È possibile inviare una richiesta scritta al tribunale competente, allegando la documentazione necessaria per l’identificazione.
  4. In agenzia pratiche: Alcune agenzie o studi legali si occupano di inoltrare la richiesta per conto di terzi, in cambio di una tariffa per il servizio.

Costo del certificato

La richiesta di un Certificato del Casellario Giudiziale comporta un costo, che può variare a seconda del tipo di certificato richiesto e delle modalità di rilascio (ad esempio, online, in tribunale, per posta, etc.).  Il sito del Ministero precisa che il costo per il rilascio del certificato è di 19,92 Euro (16,00  Euro per la marca da bollo e 3,92 euro per i diritti). Per la spedizione occorre poi sostenere i relativi costi di affrancatura.

Durata e validità

Il Certificato del Casellario Giudiziale ha una validità limitata, in quanto le informazioni contenute possono cambiare nel tempo. Solitamente, il certificato è valido per un periodo di 6 mesi, ma per determinati scopi, come la partecipazione a concorsi pubblici o richieste di lavoro, potrebbe essere richiesta una data di rilascio più recente.

giurista risponde

Dolo alternativo e delitto tentato La figura del dolo diretto nella forma di dolo alternativo è compatibile con il delitto tentato?

Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini

 

L’analisi relativa alla ricorrenza del dolo nel tentato omicidio non deve necessariamente approdare alla ricostruzione di un dolo specifico di tipo intenzionale, posto che il tentativo punibile è tale anche in presenza di dolo diretto di tipo alternativo, ferma restando la ritenuta incompatibilità tra tentativo punibile e dolo eventuale (Cass., sez. I, 5 giugno 2024, n. 34379)

Il caso portato all’attenzione della Corte di Cassazione permette di ribadire i caratteri principali dell’istituto del tentativo soffermandosi sulla compatibilità con il dolo alternativo.

Il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame confermando l’ordinanza con la quale il Giudice per le Indagini Preliminari aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di uno degli imputati in relazione al reato di cui agli artt. 110, 56 e 575 c.p.

Veniva proposto ricorso per Cassazione contestando sia la ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e, dunque, l’adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere, che la qualificazione giuridica dei fatti posti in essere per insussistenza del c.d. animus necandi.

La Suprema Corte, nella decisione in esame, respingendo il ricorso, ha preliminarmente ricordato il consolidato principio espresso in tema di ordinanza “de libertate” del tribunale del riesame secondo cui «è ravvisabile il vizio di omessa motivazione quando dal provvedimento, considerato nella sua interezza, non risultino le ragioni del convincimento del giudice su punti rilevanti per il giudizio e non anche quando i motivi per il superamento delle tesi difensive su una determinata questione siano per implicito desumibili dalle argomentazioni adottate» (così Cass., sez. III, 16 aprile 2020, n. 15980).

Osserva, la Corte, che nel caso de quo la motivazione del provvedimento risulta coerente e adeguata, fondandosi su una valutazione complessiva di tutti gli elementi allo stato emersi.

Allo stesso modo, infondate sono state ritenute le censure relative alla qualificazione giuridica attribuita ai fatti realizzati dall’agente.

Il Supremo Collegio ha poi ricordato come nel delitto tentato – fattispecie caratterizzata dalla punibilità di atti che, per definizione, non hanno raggiunto lo scopo perseguito dall’agente e tipizzato dal legislatore nella norma incriminatrice di parte speciale – si pone il duplice problema di individuare sia l’idoneità e l’univocità in fatto degli atti (da valutarsi ex ante e in concreto, secondo la prospettiva dell’agente) che la reale intenzione perseguita dall’autore del fatto.

L’istituto del tentativo nei delitti richiede la sussistenza sia dell’elemento oggettivo che soggettivo, costituendo autonoma fattispecie rispetto al reato consumato (ex multis Cass., sez. II, 14 novembre 2014, n. 6337).

L’elemento soggettivo, ad eccezione del dolo eventuale pacificamente ritenuto incompatibile con il tentativo, è identico a quello previsto per il reato che il soggetto agente si propone di compiere. L’elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota intorno a tre concetti: l’idoneità degli atti, l’univocità degli atti e il mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento.

Il delitto tentato si colloca fra la semplice ideazione o l’accordo – non punibile – ed il delitto consumato ed è, pertanto, necessario stabilire quando un’azione, avendo superato la soglia della mera ideazione, pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, deve essere ugualmente punibile.

E ciò in quanto il fondamento giuridico di tale istituto viene ravvisato nella esposizione a pericolo, o nella mancata neutralizzazione di un pericolo, per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.

Alla luce di questo inquadramento devono essere valutati gli elementi essenziali della direzione non equivoca degli atti e della loro idoneità necessari anche ad accertare l’intenzione perseguita dall’autore e, quindi, la sussistenza dell’elemento psicologico (così Cass., sez. V, 24 novembre 2015, n. 4033).

Il concetto di idoneità degli atti prescinde dalla mancata realizzazione dell’evento e attiene alla possibilità che questo aveva di realizzarsi.

In tal caso, dunque, il criterio cui fare riferimento, non è costituito dalla probabilità, più o meno concreta, che l’evento si verifichi ma dalla possibilità che ciò avvenga.

Ciò in quanto le eventuali difficoltà concrete che il soggetto agente dovesse trovare non rilevano per la sussistenza o meno del tentativo ma, anzi, ne costituiscono l’essenza, nel senso che ogni evento ha una maggiore o minore probabilità di verificarsi e che, proprio laddove non si dovesse verificare, saremo in presenza di un delitto tentato piuttosto che consumato.

Invero, solo qualora l’evento non sia accaduto e questo non aveva alcuna possibilità di accadere può ritenersi che il tentativo non sussista, a nulla rilevando se la realizzazione o meno dell’evento stesso fosse, allorché la condotta è stata posta in atto, più o meno probabile, anche solo per incapacità dell’agente o per mere difficoltà oggettive (Cass., sez. I, 17 ottobre 2019, n. 870).

Ulteriore e imprescindibile caratteristica della condotta nel delitto tentato è rappresentata dalla univocità degli atti.

L’idoneità degli atti, infatti, in sé e per sé considerata, non è da sola sufficiente ai fini della rilevanza penale della condotta, in quanto un atto, ontologicamente, può apparire ovvero essere potenzialmente idoneo a conseguire una pluralità di risultati, per cui solo la sua univoca direzione a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente si pone in linea con il principio di offensività del fatto.

Sotto tale profilo, pertanto, la direzione non equivoca non indica un parametro probatorio, bensì un criterio di essenza della condotta che, non escludendo che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, impone che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura e la loro essenza, siano in grado di rivelare, secondo le norme di esperienza e secondo l’id quod plerumque accidit, l’intenzione ovvero il fine perseguito dall’agente ( ex multis Cass., sez. I, 7 gennaio 2010, n. 9411).

Ai fini della rilevanza penale e della punibilità del tentativo la Corte ricorda come gli atti non possono essere in astratto distinti e classificati in atti preparatori e atti esecutivi, discrimine da ritenersi generico e superato, poiché quello che rileva è l’idoneità causale degli atti compiuti per il conseguimento dell’obiettivo delittuoso, nonché la univocità della loro destinazione, da apprezzarsi con valutazione ex ante in rapporto alle circostanze di fatto ed alle modalità della condotta.

Ciò in quanto per la configurabilità del tentativo assumono rilievo non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quelli che, pur classificabili come preparatori, siano in qualche modo tipici, siano cioè corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata e, di conseguenza, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, potendosi così affermare che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, ed indipendenti dalla volontà del reo ( cfr. Cass., sez. V, 24 novembre 2015, n. 4033).

Il requisito dell’univocità, infatti, prescindendo da ogni classificazione degli atti, deve essere accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di identificare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo.

Passando all’elemento soggettivo, la verifica dello stesso appare particolarmente delicata, data la mancata verificazione dell’evento; pertanto, la riconoscibilità di un tentativo punibile impone la logica e coerente individuazione di ‘segni esteriori’ della condotta che, in rapporto alle circostanze del caso concreto, siano idonei, attraverso una catena inferenziale solida, di dedurre la presenza del necessario elemento psicologico.

Invero, come altresì espresso dalla Cass., Sez. Un., 24 aprile 2024, n. 38343, il dolo è un fenomeno interiore – costituito dalla rappresentazione e dalla volontà della condotta e di determinare l’evento preso di mira – che si ricostruisce necessariamente in via indiziaria, attraverso la valorizzazione di indicatori fattuali capaci di sostenere l’opzione ricostruttiva di sussistenza e di qualificazione dello stesso.

Fatta questa premessa, nel caso del tentato omicidio, non è necessario dimostrare un dolo specifico di tipo intenzionale, poiché il tentativo punibile può sussistere anche con un dolo diretto di tipo alternativo, rimanendo incompatibile solamente con il dolo eventuale.

Secondo un principio consolidato dalla giurisprudenza si possono individuare differenti gradi di intensità della volontà dolosa, con accettazione dell’evento che varia in base alla percezione della sua probabilità di accadere.

Il dolo si configura come diretto nel caso di evento ritenuto altamente probabile o certo, quando l’autore non si limita ad accettarlo come conseguenza accessoria ma di fatto lo vuole con un’intensità maggiore, mentre, viene qualificato come dolo eventuale quando l’evento è previsto come altamente probabile ma non necessario.

In questa prospettiva interpretativa, per riconoscere il dolo diretto di omicidio non è richiesta la previsione e la volontà esplicita di provocare la morte come unica e certa conseguenza, ma è sufficiente che essa sia prevista e voluta come altamente probabile nell’ambito di una dinamica lesiva che includa anche, in via cumulativa e alternativa, l’evento di lesioni (da ultimo ex multis, Cass., sez. I, 13 ottobre 2022, n. 4773; Cass., sez. I, 30 marzo 2022, n. 29611).

Il cosiddetto dolo alternativo, che contempla un secondo evento altamente probabile accanto al primo, viene considerato, dunque, come dolo diretto in quanto anche il secondo è previsto come scopo della condotta e non è per tale ragione meramente accettato come conseguenza accessoria o ulteriore (così Cass., sez. I, 30 marzo 2023, n. 33435).

Pertanto, la distinzione tra dolo diretto di tipo alternativo e dolo eventuale richiede un’analisi attenta delle manifestazioni esteriori, considerando indicatori significativi dell’intenzione dell’agente come, a titolo di esempio, nel tentato omicidio, la potenzialità dell’azione lesiva, desumibile dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata, nonché dalle modalità dello stesso atto lesivo (così Cass., sez. I, 5 aprile 2022, n. 24173).

Nel caso di specie, secondo la Corte, il Tribunale del riesame si è correttamente conformato ai criteri indicati.

Invero, il giudice del riesame ha evidenziato come il ricorrente abbia utilizzato un coltello dall’elevata potenzialità e che con questo ha attinto la vittima sul fianco, provocando una lesione tale da porre in pericolo la vita della vittima.

Con specifico riferimento alle modalità dell’azione poi, ha dato atto dell’idoneità del mezzo, dell’univocità dell’azione e della natura dell’elemento psicologico quale dolo alternativo. Quanto a quest’ultimo, il Tribunale ha correttamente fatto riferimento alla zona, l’addome, che il ricorrente ha deliberatamente e consapevolmente attinto, così rappresentandosi come altamente probabile e quindi volendo, anche in via cumulativa o alternativa, l’evento morte.

Contributo in tema di “Dolo alternativo e delitto tentato”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

accesso abusivo ai sistemi

Accesso abusivo ai sistemi informatici Guida al reato di accesso abusivo ai sistemi informatici previsto e punito dall’art. 615-ter del codice penale

Accesso abusivo ai sistemi informatici: il reato

Il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici si verifica quando una persona accede, senza autorizzazione, a sistemi informatici o telematici protetti da misure di sicurezza. Questo comportamento è punito in modo severo, poiché può compromettere la sicurezza dei dati e dei sistemi coinvolti. L’illecito può avere impatti rilevanti che spaziano dal furto di informazioni sensibili fino al sabotaggio di sistemi aziendali o governativi.

L’articolo 615-ter c.p si occupa di tutelare la riservatezza e la sicurezza dei sistemi informatici, penalizzando chiunque si introduca in tali sistemi senza avere il diritto o il consenso a farlo. La legge è stata pensata per rispondere ai rischi legati all’evoluzione tecnologica, garantendo la protezione delle risorse digitali da azioni di intrusione e manipolazione non autorizzata.

Articolo 615-ter c.p.: cosa prevede

L’articolo 615-ter del Codice Penale italiano punisce l’accesso abusivo a un sistema informatico con la seguente formulazione:

“Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, ovvero di arrecare ad altri un danno, abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.”

Elementi costitutivi del reato:

  1. Accesso abusivo: la legge punisce chiunque acceda senza autorizzazione, ma il termine “abuso” implica che l’accesso non avvenga per un motivo lecito. In altre parole, se l’accesso è effettuato con il consenso del titolare del sistema o per una finalità legittima, non si configura il reato.
  2. Sistema informatico o telematico protetto: il reato si verifica esclusivamente quando l’accesso riguarda un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza. Questo significa che il sistema deve essere configurato in modo da impedire l’accesso non autorizzato (ad esempio, tramite password, codici, firewall, etc.).
  3. Finalità del reato: il legislatore prevede che l’accesso abusivo avvenga con l’intenzione di procurarsi un profitto o di arrecare danno ad altri. La finalità di danneggiare o trarre vantaggio illecito è un elemento essenziale del reato, anche se non è necessario che il danno o il profitto si materializzino concretamente.

Pene e sanzioni

Chi commette il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici è punito con una reclusione da sei mesi a tre anni. La pena varia in base alle circostanze del reato, come la gravità del danno causato, l’entità del profitto ottenuto o altre variabili.

Aggravamenti di pena

Il reato di accesso abusivo inoltre può essere aggravato nei casi in cui l’autore del crimine:

  • sia un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato, o con abuso della qualità di operatore del sistema;
  • se il colpevole per commettere il fatto usa minaccia o violenza sulle cose o alle persone, ovvero se è palesemente armato;
  • se dal fatto deriva la distruzione o il danneggiamento ovvero la sottrazione, anche mediante riproduzione o trasmissione, o l’inaccessibilità al titolare del sistema o l’interruzione totale o parziale del suo funzionamento, ovvero la distruzione o il danneggiamento dei dati, delle informazioni o dei programmi in esso contenuti.
  • Il base al comma 3 della norma inoltre se i fatti di cui ai commi primo e secondo riguardino sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico, la pena è, rispettivamente, della reclusione da tre a dieci anni e da quattro a dodici anni.”

Procedibilità del reato

Il comma 4 della norma prevede che nei casi meno gravi contemplati dal comma 1 il reato è perseguibile su querela della persona offesa Nei casi aggravati previsti dai commi 2 e 3  invece si procede d’ufficio.

Ratio del reato di accesso abusivo

Il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici previsto dall’articolo 615-ter c.p è una norma fondamentale per proteggere la sicurezza delle informazioni e la privacy degli utenti. Con l’evoluzione della tecnologia, questo tipo di crimine è diventato sempre più rilevante. Esso. Ha infatti  impatti significativi sia su scala individuale che aziendale. La prevenzione e la protezione sono quindi cruciali per evitare che i dati sensibili vengano compromessi.

Modalità di accesso abusivo

L’accesso abusivo ai sistemi informatici può avvenire in vari modi.

  1. Hacking: attacco informatico in cui il criminale sfrutta vulnerabilità nei sistemi per ottenere accesso senza autorizzazione;
  2. Phishing: tecniche di ingegneria sociale che manipolano l’utente affinché fornisca credenziali di accesso (come username e password), che poi vengono utilizzate in modo illecito.
  3. Malware e virus: introduzione di software dannosi (come virus, trojan horse, ransomware) che compromettono la sicurezza dei sistemi e consentono l’accesso non autorizzato da parte di terzi.
  4. Accesso fisico non autorizzato: alcuni attacchi informatici avvengono quando l’autore del reato ottiene l’accesso fisico ai dispositivi, come computer o server, per sottrarre dati o compromettere il sistema.

Prevenzione e protezione accesso abusivo ai sistemi

Per prevenire il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici, è fondamentale implementare misure di sicurezza adeguate.  Per proteggere.  Sistemi si può ricorrere all’uso di firewall, software antivirus, cifratura dei dati e autenticazione a più fattori (MFA). Inoltre, le aziende e le pubbliche amministrazioni devono investire in formazione del personale. E’ infatti fondamentale sensibilizzare sui rischi legati alla sicurezza informatica e sulle buone pratiche per evitare intrusioni.

 

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giudice predibattimentale

Giudice predibattimentale: non può celebrare il giudizio La Consulta boccia l'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede l'incompatibilità del giudice predibattimentale a celebrare il giudizio dibattimentale

Giudice predibattimentale incompatibilità

Il giudice predibattimentale è incompatibile a celebrare il giudizio dibattimentale. E’ quanto ha affermato la Consulta (sentenza n. 179/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che è incompatibile a celebrare il giudizio dibattimentale di primo grado il giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale, introdotta recentemente nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica dall’art. 32 del d.lgs. n. 150 del 2022, sul modello dell’udienza preliminare.

La qlc

Il Tribunale di Siena ha sollevato la questione di costituzionalità nell’ambito di un procedimento penale nel quale lo stesso giudice, che aveva tenuto l’udienza di comparizione predibattimentale, si trovava ad essere anche investito del giudizio dibattimentale.

Il Tribunale ha rilevato che la censurata norma processuale (art. 554-ter, comma 3, cod. proc. pen.) si limitava a porre la regola secondo cui il giudice del dibattimento sarebbe dovuto essere «diverso» rispetto al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale; ma non prevedeva l’incompatibilità di cui all’art. 34 cod. proc. pen.

Censura fondata

La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la censura sotto il profilo della dedotta violazione degli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma Cost., affermando che la mancata previsione, in tal caso, di una vera e propria incompatibilità viola i principi costituzionali di terzietà e imparzialità del giudice, quali presupposti dell’effettività della tutela giurisdizionale.

La Consulta ha, infatti, sottolineato che nelle ipotesi di incompatibilità previste dall’art. 34 cod. proc. pen., l’imparzialità del giudice è compromessa ex sé, in generale e in astratto, diversamente da quanto si verifica nei casi di possibile astensione del giudice per gravi ragioni di convenienza, di cui all’art. 36 cod. proc. pen.; disposizione questa che, invece, si riferisce a situazioni, in cui la terzietà e l’imparzialità del giudice risultano compromesse in concreto, caso per caso.

“La sola prescrizione della diversità del giudice del dibattimento rispetto a quello predibattimentale non è sufficiente ad assicurare la piena garanzia del giusto processo, trattandosi in una fattispecie in cui il pregiudizio all’imparzialità e terzietà del giudice del dibattimento è di gravità tale da dover essere necessariamente prevista in via generale e predeterminata come ipotesi di incompatibilità” ha ritenuto la Corte.

Il giudice delle leggi ha, poi, ritenuto violato anche l’art. 3 Cost., rilevando che il giudice dell’udienza preliminare e il giudice dell’udienza predibattimentale sono soggetti alla medesima regola di giudizio compendiata nel canone secondo cui «il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere» quando «gli elementi acquisiti non consentono» di formulare «una ragionevole previsione di condanna».

La decisione

Invece l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. detta una disciplina ingiustificatamente differenziata nella misura in cui prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio soltanto per «il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare» e non anche per il giudice dell’udienza predibattimentale. Dall’ampliamento dei casi di incompatibilità per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale è conseguita la necessità di assicurare il principio del giusto processo anche con riferimento al giudizio di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, sicché la Corte, in via consequenziale, ha altresì esteso la dichiarazione di illegittimità costituzionale anche a questa ulteriore ipotesi.

giurista risponde

Omesso versamento ritenute in caso di difficoltà economica In materia di reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali può integrare una causa di esclusione della responsabilità penale l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta in presenza di una situazione economica di difficoltà?

Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini

 

Costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui, nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto (Cass. pen., sez. III, 19 agosto 2024, n. 32682). 

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo sul piano dell’effettiva rimproverabilità al ricorrente degli omessi versamenti previdenziali e assistenziali.

In primo e secondo grado era stata affermata la responsabilità penale dell’imputato in relazione al reato continuato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali per gli anni 2016 e 2017.

Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando, per quanto qui di interesse, l’erronea individuazione dell’elemento soggettivo del reato. In particolare, la difesa ha lamentato l’omessa valutazione da parte dei giudici di merito di ogni apprezzamento in punto di esigibilità soggettiva non avendo considerato quanto dedotto nell’atto di appello in ordine alla crisi d’impresa.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha ribadito un costante indirizzo di legittimità secondo cui nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto.

Alla luce di tale principio di diritto i giudici di legittimità hanno affermato che correttamente la difesa ha lamentato la mancata valutazione delle allegazioni difensive, e della documentazione allegata, concernenti l’importante crisi preceduta dal crollo del fatturato che aveva colpito la società. In particolare, il ricorrente aveva evidenziato: che la società era stata costretta a lavorare in perdita in regime di mono-committenza per un unico cliente; l’impossibilità di accedere al credito bancario; la revoca degli affidamenti; gli elevati tassi applicati da altro istituto di credito.

Tali allegazioni sono ritenute dalla Corte potenzialmente idonee a incidere sulla complessiva valutazione della vicenda in termini di effettiva rimproverabilità al soggetto agente. Pertanto, il Collegio annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello.

 

Contributo in tema di “Omesso versamento ritenute previdenziali e assistenziali in caso di difficoltà economica”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

certificato carichi pendenti

Certificato carichi pendenti: cos’è e chi può richiederlo Il certificato carichi pendenti serve a conoscere se un soggetto ha procedimenti penali in corso a suo carico

Il certificato dei carichi pendenti è un documento ufficiale che attesta se un soggetto ha procedimenti penali in corso a suo carico ed eventuali relativi giudizi di impugnazione. Viene rilasciato dal Ministero della Giustizia e può essere richiesto per una serie di motivi legali, amministrativi o professionali.

Vediamo nel dettaglio cos’è il certificato carichi pendenti, come si richiede e chi può farne richiesta.

Cos’è il certificato carichi pendenti

Il certificato dei carichi pendenti è dunque un documento che certifica la presenza o meno di procedimenti penali in corso a carico di una persona. Questi procedimenti possono riguardare indagini, processi o procedimenti esecutivi che non sono ancora stati definitivi (ad esempio, una sentenza di condanna che non è ancora passata in giudicato). Il certificato, quindi, non riporta condanne definitive (distinguendosi perciò dal certificato del casellario giudiziale), ma solo quelle in corso di svolgimento.

Il certificato ha valore legale ed è spesso richiesto in ambito lavorativo, per la partecipazione a concorsi pubblici, o per altre finalità amministrative e legali.

Come si richiede il certificato carichi pendenti

La richiesta del certificato può essere fatta in vari modi, a seconda delle necessità del richiedente e della modalità che preferisce.

Il certificato viene rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale che ha giurisdizione sul luogo di residenza dell’interessato. Il documento riporta i procedimenti pendenti presso tale ufficio e quelli in corso presso le procure distrettuali antimafia (DDA), di cui si è ricevuta comunicazione.

Non risultano comunque divieti al rilascio del certificato da parte di una Procura diversa da quella di residenza.

Presso molti uffici giudiziari, inoltre, è possibile prenotare il certificato online tramite l’apposito modulo disponibile nelle procure e sul sito del ministero della Giustizia, unitamente a un documento di riconoscimento in corso di validità.

I certificati prenotati si ritirano allo sportello dell’ufficio locale del casellario selezionato, consegnando il modulo di richiesta prodotto dal sistema ovvero in alternativa il numero di prenotazione assegnato nel corso della procedura online.

Chi può richiedere il certificato

Il certificato carichi pendenti può essere richiesto da:

  • dal diretto interessato o da persona da lui delegata;
  • dalle pubbliche amministrazioni o dai gestori di pubblici servizi, quando è necessario per l’espletamento delle loro funzioni;
  • dall’autorità giudiziaria penale, che provvede direttamente alla sua acquisizione;
  • dal difensore dell’imputato, nei confronti della persona offesa o del testimone.

Quando viene richiesto il certificato dei carichi pendenti

Il certificato è spesso richiesto in numerosi contesti, tra cui:

Concorsi pubblici

Molti concorsi pubblici, soprattutto per incarichi che implicano responsabilità giuridiche o finanziarie, richiedono che i candidati presentino il certificato dei carichi pendenti per escludere soggetti con procedimenti penali in corso.

Assunzione in aziende private

Alcune aziende, soprattutto nei settori della sicurezza o in posizioni sensibili, possono chiedere il certificato dei carichi pendenti ai propri dipendenti o ai candidati per garantire che non ci siano procedimenti legali in corso.

Procedimenti legali

In caso di contenziosi legali, l’avvocato potrebbe richiedere il certificato per accertare la situazione penale del cliente o della controparte.

Cessione di immobili o altri contratti

In alcune situazioni, come la cessione di beni immobili o la firma di contratti di rilevante valore, può essere richiesto il certificato per verificare l’affidabilità della parte coinvolta.

mentire sul contributo unificato

Mentire sul contributo unificato: cosa si rischia Mentire sul reddito per pagare un contributo unificato inferiore integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche

Reato dichiarare il falso per pagare di meno

Mentire sul reddito percepito per pagare una cifra inferiore di contributo unificato configura il delitto di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato. In questo caso l’agente commette il reato previsto dall’articolo 316 ter del codice penale e non il reato di falsità ideologica di cui all’articolo 483 c.p. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 40872/2024.

Falsità ideologica mentire sul reddito

La Corte di appello assolve l’imputata per la particolare tenuità del fatto in relazione al reato di falsità ideologica commesso dal privato in un atto pubblico di cui all’art. 483 c.p.

La donna, per pagare un contributo unificato inferiore a quello previsto per legge e dovuto in relazione a varie controversie di lavoro avviate, ha dichiarato infatti un reddito inferiore rispetto a quello che successivamente è stato accertato.

Reato ex art. 316 ter c.p.

La donna nel ricorrere in Cassazione contesta però il reato ascrittole. La sua condotta integrerebbe il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316 ter c.p, che assorbe il delitto di falso, come chiarito dalla sentenza “Carchivi”.

Per l’imputata dichiarare un reddito inferiore per ottenere un provvedimento di esenzione dal pagamento di una somma dovuta allo Stato equivale a conferire una somma di denaro a titolo di contributo. Anche in quest’ultimo caso infatti, il dichiarante ottiene un indebito vantaggio in danno della società.

Nel caso di specie tuttavia la soglia di punibilità prevista per il reato di indebita percezione non è stata superata. Il vantaggio economico che la stessa ha ricavato di soli 43,00 euro, pari al risparmio sul contributo unificato dovuto.

Vantaggio economico in danno della società

La Cassazione accoglie il ricorso, perché fondato.

La sentenza Carchivi richiamata dall’imputata ha chiarito infatti che un fatto astrattamente riconducibile al delitto di quellart. 483 cod. pen è assorbito in quello di cui allarticolo 316 ter del medesimo codice quando la dichiarazione falsa è finalizzata ad ottenere un indebita erogazione pubblica.” 

Questo perché il reato punito dall’articolo 316 ter c.p si consuma in presenza di una falsa dichiarazione rilevante ai sensi dell’articolo 483 c.p o con l’uso di un atto falso.

Solo i reati di cui agli articoli 483 c.p e 489 c.p restano assorbiti dall’articolo 316 ter c.p, che concorre invece con altri diritti di falso commessi eventualmente per ottenere erogazioni indebite.

La successiva sentenza “Pizzuto” è giunta alle stesse conclusioni. La stessa ha infatti chiarito che integra il reato di indebita percezione di erogazione a danno dello Stato la falsa attestazione circa le condizioni reddituali per lesenzione dal pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e ospedaliere (…)”.

In questo modo si realizza in effetti un’erogazione ai danni dello Stato, anche in assenza di un esborso, quando il richiedente ottiene un vantaggio economico a carico della comunità.

Deve quindi affermarsi, nel rispetto della stessa ratio, il principio per il quale il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato si configura anche quandola falsa attestazione sulle condizioni reddituali è volta a ottenere lesenzione dal pagamento del contributo edificato.” Questa esenzione permette infatti al soggetto dichiarante di beneficiare di un vantaggio economico  in danno della collettività.

 

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