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Reato di corruzione: come provarlo L’accertamento dell’avvenuta dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale è sufficiente a provare il reato di corruzione o ne costituisce un mero indizio?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Ai fini dell’accertamento del reato di corruzione, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione.

La prova della dazione indebita di un’utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento anti-doveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. – Cass., sez. VI, 22 gennaio 2024, n. 2749.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in materia di corruzione in atti giudiziari ai sensi degli artt. 318, 319ter, 321 c.p. L’indagato, titolare di un’impresa e accusato di un reato fiscale in separato procedimento, aveva ricevuto, da un tenente colonnello della guardia di finanza di sua conoscenza, consigli, consulenze tecniche, nonché una sollecitazione telefonica alla Procura della Repubblica in suo favore. Il contatto tra l’imprenditore e il pubblico ufficiale verteva sulla possibilità, per il primo, di ottenere il dissequestro di alcune somme di denaro: tale provvedimento veniva poi legittimamente emesso dal Pubblico Ministero, alla luce della sussistenza del diritto alla restituzione del suddetto importo.

Successivamente veniva disposta la misura degli arresti domiciliari nei confronti dell’indagato, al quale si addebitava un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari, sotto forma di corruzione impropria. Si riteneva, infatti, che l’aiuto fornito dal colonnello avesse avuto come corrispettivo la disponibilità di un immobile di proprietà dell’imprenditore. Tale utilità era stata ottenuta sia prima, sia dopo la descritta condotta del pubblico ufficiale.

L’ordinanza veniva confermata dal Tribunale e, avverso la stessa, veniva proposto ricorso per Cassazione. In primo luogo, si riteneva insussistente l’asservimento della funzione, dal momento che il contegno del pubblico ufficiale sarebbe stato rispettoso del dovere della pubblica amministrazione di segnalare al contribuente anche gli elementi a suo favore – nel caso di specie, la possibilità di presentare istanza di restituzione dei soldi. In secondo luogo, si riteneva che l’ordinanza fosse viziata quanto alla motivazione circa il nesso di sinallagmaticità tra il comportamento del pubblico ufficiale e la disponibilità dell’immobile dallo stesso ottenuta. Dell’appartamento, infatti, egli aveva goduto in momenti del tutto lontani rispetto ai fatti oggetto del procedimento e, inoltre, si sarebbe trattato di un vantaggio sproporzionato per difetto rispetto alla ritenuta controprestazione.

La Corte di Cassazione ha giudicato il ricorso fondato, alla luce delle motivazioni che seguono. In via preliminare è stato ribadito che il reato di corruzione in atti giudiziari è in rapporto di specialità rispetto alle fattispecie di corruzione propria e impropria, dal momento che essa si caratterizza per il compimento del fatto corruttivo con la finalità di favorire o danneggiare una parte in un processo (Cass. pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 15208).

I Supremi Giudici hanno poi ricostruito le modifiche introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, in particolare quelle dell’art. 318 c.p. Il riferimento al compimento di uno o più atti amministrativi aveva, infatti, creato difficoltà in passato per tutti i casi diversi dal mercimonio di specifici atti e caratterizzati, piuttosto, dall’asservimento sistemico della parte pubblica a favore del soggetto privato. Di conseguenza, con l’intervento legislativo è stato eleminato il requisito dell’adozione di un atto amministrativo legittimo — che, in concreto, può anche del tutto mancare — a favore della specificazione per cui, nel caso di corruzione cosiddetta impropria, il patto criminoso ha ad oggetto la funzione pubblica nel suo complesso. Ad essere punito, cioè, è l’accordo con cui il pubblico ufficiale vende il ruolo da lui rivestito, attraverso la presa in carico degli interessi della parte privata che, a sua volta, crea un inquinamento diffusivo, con conseguenze non preventivabili.

Per quanto concerne i confini rispetto alla corruzione propria, invece, la Cassazione sottolinea come, prima della citata riforma, fosse possibile constatare una riduzione del campo di applicazione dell’art. 318 c.p., a favore dell’art. 319 c.p., per i casi di attività discrezionale. La giurisprudenza maggioritaria, infatti, riteneva che il fatto oggettivo di aver ricevuto denaro o altra utilità valesse a contaminare il processo decisionale del pubblico ufficiale: ne derivavano un’implicita violazione del principio di imparzialità, l’illegittimità dell’atto adottato e, conseguentemente, l’integrazione dell’art. 319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. La sentenza in esame non si sofferma espressamente sugli effetti prodotti dalla riforma del 2012 su questo punto, ma è possibile constatare la presenza di due diverse interpretazioni: ad un orientamento in linea con la lettura prevalente in passato se ne contrappone un altro, secondo il quale occorre verificare se la presa in carico dell’interesse del privato da parte del pubblico ufficiale abbia davvero contaminato la cura dell’interesse pubblico. In caso di risposta negativa, il fatto deve essere ricondotto all’art. 318 c.p., con ciò evitando ragionamenti presuntivi (così Cass., sez. VI, 30 aprile 2021, n. 35927).

I Supremi Giudici hanno poi proseguito sottolineando che la corruzione, reato a concorso necessario, si caratterizza per la presenza di due condotte in reciproca saldatura e condizionamento. Da ciò viene fatta derivare la necessità che la realizzazione del contegno del pubblico ufficiale sia la giustificazione causale della dazione di denaro o di altra utilità, sebbene non ci sia, tra l’una e l’altra, un ordine cronologico inderogabile. La prova della dazione indebita, quindi, può costituire soltanto un indizio della realizzazione di un fatto di corruzione ed esso va valutato, come impone l’art. 192 c.p.p., unitamente ad altre circostanze di fatto che vadano nella stessa direzione ricostruttiva.

Nel caso di specie, i Giudici hanno ritenuto che il Tribunale non avesse sufficientemente motivato in ordine alla sussistenza di tale nesso causale: non era emerso in modo chiaro, infatti, il collegamento tra la condotta del pubblico ufficiale e il fatto che lo stesso avesse avuto, in alcune occasioni, la disponibilità dell’appartamento dell’indagato. A rendere poco evidente tale legame erano, in particolar modo, la non chiara corrispondenza temporale tra i due dati e, altresì, l’assenza di proporzionalità tra gli stessi.

Per questi motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio per un nuovo giudizio al Tribunale.

*Contributo in tema di “ Reato di corruzione ”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

permesso necessità

Permesso di necessità: quando può essere concesso La Cassazione detta chiarimenti sulle condizioni necessarie per concedere il permesso di necessità ex art. 30 dell'ordinamento penitenziario

Permesso di necessità: il caso

No al permesso di necessità, se le condizioni di salute della madre dell’imputato non siano gravissime. Lo ha affermato la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 22619-2024, cogliendo l’occasione per spiegare i presupposti necessari per ottenere il beneficio ex art. 30 dell’ordinamento penitenziario.

Nella specie, l’imputato aveva proposto ricorso innanzi al Palazzaccio avverso l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Torino che aveva respinto l’istanza di permesso di necessità per fare visita alla madre in quanto gravemente ammalata.

Per il tribunale, la madre dell’uomo non si trovava in pericolo di vita considerata la cronicità delle patologie che la affliggevano per cui non sussistevano le condizioni previste dal secondo comma dell’art. 30 ord. pen.
L’imputato, invece, deduceva che detto permesso poteva essere concesso, oltre che nell’ipotesi di pericolo di vita di un familiare o convivente, anche per eventi di particolare gravità ed osservava che la genitrice versava in gravi condizioni che le impedivano di muoversi dal letto.

Quando può essere concesso il permesso di necessità

Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso è infondato e va respinto. Infatti, ricordano preliminarmente, “ai fini della concessione del permesso di necessità, la patologia cronica a sviluppo progressivo da cui è affetto il familiare
non costituisce ‘evento di particolare gravità’ che legittima la concessione del beneficio in quanto tale condizione, connotata da protrazione indefinita nel tempo, è inconciliabile con il carattere straordinario dell’istituto”.

I requisiti richiesti dalla norma per la concessione del permesso di necessità si individuano, tradizionalmente, rammentano quindi dalla S.C., in tre elementi: “il carattere eccezionale della concessione, la particolare gravità dell’evento giustificativo, la correlazione di questo con la vita familiare”.
In particolare, per accedere a tale tipo di permesso occorre che “sussistano particolarissime ragioni di eccezionale rilevanza, quale un evento drammatico o di rara frequenza, legato comunque alla sfera familiare e connesso ad un fatto storico precisato e ben determinato: la normativa prevede un evento e cioè un fatto singolo e non anche una situazione cronica che si prolunga nel tempo, poiché la disciplina normativa del permesso di necessità non può piegarsi ad ogni situazione di tipo familiare, altrimenti si finirebbe per connettere lo stesso a situazioni protratte a tempo indefinito, con la conseguenza di una serie irragionevole di permessi di necessità”.
Nella specie, correttamente, dunque, il tribunale di Sorveglianza ha escluso la sussistenza delle condizioni per
concedere il permesso.

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Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

*Contributo in tema di “Applicazione automatica delle pene accessorie”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

sottrazione minori

Sottrazione di minori: disciplina e sanzioni Una breve guida sulla sottrazione di minori, un reato che il nostro Codice Penale disciplina in tre varianti negli articoli 573, 574 e 574 bis c.p.

Il reato di sottrazione di minore

La sottrazione di minore è un reato disciplinato dal Codice Penale italiano, che mira a proteggere i minori da azioni illecite che possono compromettere il loro benessere e la loro crescita. Questo reato è regolato principalmente dagli articoli 573, 574 e 574 bis del Codice Penale. Vediamo in dettaglio cosa prevedono questi articoli e quali sono le implicazioni legali.

Sottrazione consensuale di minorenni

L’articolo 573 del Codice Penale punisce chiunque sottrae un minore ultra quattordicenne, con il consenso di quest’ultimo, al genitore che ne esercita la responsabilità genitoriale o al tutore o lo ritiene contro la volontà di questi soggetti. La pena prevista è la reclusione fino a due anni. Il minore, anche se esprime il consenso alla sottrazione non può essere considerato come compartecipe al reato, bensì oggetto materiale dell’illecito penale. Il suo consenso quindi non conduce all’applicazione dell’attenuante di cui all’articolo 62  n. 5 del Codice penale. Trattasi di un reato punibile a querela della persona responsabile del minore.

Sottrazione di persone incapaci

L’articolo 574 del Codice Penale si occupa della sottrazione di persone incapaci, includendo sia i minori di anni 14 che gli adulti incapaci di intendere e di volere. La pena prevista è la reclusione da uno a tre anni. Il reato si configura in presenza della sottrazione o della ritenzione di questi soggetti deboli al tutore, al curatore e a coloro che ne hanno la vigilanza, la custodia, la responsabilità genitoriale. Anche in questo caso il reato è perseguibile a querela della persona che esercita la responsabilità genitoriale, del tutore o del curatore. La stessa pena è prevista nei confronti di chi sottrae o ritiene un minore ultra quattordicenne, senza il suo consenso, per finalità diverse da quelle della libidine o del matrimonio.

Sottrazione e trattenimento di minore all’estero

L’articolo 574 bis punisce chi sottrae un minore portandolo all’estero o trattenendolo all’estero contro la volontà del genitore o del tutore legale. La pena prevista è la reclusione da uno a quattro anni. Se il fatto è commesso nei confronti di un minore ultra quattordicenne e con il suo consenso, la pena va da sei mesi a tre anni.  Se il fatto viene commesso da un genitore, la condanna conduce anche alla sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.

Implicazioni legali e consigli pratici

La sottrazione di minore è un reato grave che può comportare pesanti conseguenze legali. È fondamentale che i genitori e i tutori legali comprendano i propri diritti e le implicazioni di queste norme. In caso di sottrazione, è consigliabile rivolgersi immediatamente alle autorità competenti e cercare assistenza legale, ma non solo.

Per prevenire questo tipo di reato è necessario educare i minori sui rischi associati alla sottrazione e vigilare, ossia svolgere un’attività di monitoraggio delle relazioni e delle attività dei minori.

Nel caso in cui il reato si sia già perfezionato è necessario compiere due step fondamentali: il primo richiede la segnalazione immediata del caso alle autorità, il secondo  invece consiste nella richiesta di un supporto legale. 

 

 

L’alcoltest non vale come prova La Cassazione ha ricordato che, poiché l’esame strumentale tecnico non costituisce una prova legale, l’accertamento della concentrazione alcolica può avvenire in base ad elementi sintomatici per tutte le ipotesi di cui all’art. 186 cod. strada

Guida in stato di ebbrezza

Nel caso di specie, l’automobilista ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione avverso la sentenza di merito con cui era stato ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 186 cod. strada, recante “Guida sotto l’influenza dell’alcool”.

In particolare, il ricorrente ha rilevato come, nel corso del giudizio di merito, non fosse stata comprovata la sussistenza dello stato di ebrezza, poiché il suo tasso alcolemico, all’epoca dei fatti, era stato rilevato in ragione delle sole dichiarazioni rese dagli agenti intervenuti. Invero il ricorrente ha contestato la carenza di dati tecnici obiettivi, la cui assenza non avrebbe consentito di stabilire in termini certi il livello di alcol effettivamente presente nel suo sangue al momento dei fatti.

Lo stato di ebrezza, secondo le doglianze formulate dall’imputato, non avrebbe potuto essere infatti dimostrato dagli elementi sintomatici riscontrati all’epoca dei fatti, quali, il suo stato confusionale, gli urti della sua autovettura al marciapiedi e la mancata risposta alle sollecitazioni degli agenti.

Etilometro non costituisce prova legale

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20763-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, il Giudice di legittimità ha anzitutto contestato la fondatezza del ricorso proposto per motivi processuali, ritenendolo pertanto inammissibile.

Ciò posto, la Corte ha ad ogni modo affrontato brevemente la doglianza eccepita, ricordando la precedente giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo la quale “poiché l’esame strumentale non costituisce una prova legale, l’accertamento della concentrazione alcolica può avvenire in base ad elementi sintomatici per tutte le ipotesi di reato previste dall’art. 186 cod. strada e, qualora vengano oltrepassate le soglie superiori, la decisione deve essere sorretta da congrue motivazioni”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Suprema Corte ha pertanto concluso il proprio esame rilevando che “in assenza di espletamento di un valido esame alcolimetrico, il giudice di merito può trarre il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dello stato di ebrezza dalla presenza di adeguati elementi obiettivi e sintomatici, che, nel caso in esame, i giudici di merito hanno congruamente individuato in aspetti quali lo stato comatoso e di alterazione manifestato dal (ricorrente) alla vista degli operatori, certamente riconducibile ad uso assai elevato di bevande alcoliche (..) per come evincibile dalla riscontrata presenza di un forte odore acre di alcol, nonché dall’assoluta sua incapacità di controllare l’autoveicolo in marcia e di rispondere alle domande rivoltegli dagli agenti”.

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bullismo e cyberbullismo

Bullismo e cyberbullismo: cosa prevede la nuova legge In vigore dal 14 giugno 2024 la legge su bullismo e cyberbullismo che istituisce anche la giornata del rispetto e prevede misure concrete per la tutela delle vittime

Bullismo e cyberbullismo: la nuova legge

Nella seduta di mercoledì 15 maggio 2024 la proposta di legge bipartisan per contrastare i fenomeni del bullismo e del cyberbullismo ha ricevuto il voto unanime della Camera. Il testo unificato è stato approvato dopo le modifiche apportate al Senato ed è legge dello Stato.

La legge 70 2024 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 30 maggio per entrare in vigore il 14 giugno 2024.

Tra gli elementi di novità da segnalare c’è una definizione più completa e specifica di bullismo, l’adozione di un codice di prevenzione e di un servizio di  sostegno psicologico nelle scuole e l’istituzione della “Giornata del rispetto”  che sarà celebrata il 20 gennaio, giorno di nascita di Willy Monteiro, il ragazzo ucciso mentre tentava di difendere un amico da un pestaggio.

Al Governo il compito di adottare disposizioni più specifiche entro un anno dall’entrata in vigore del testo di legge.

Definizione di bullismo

Il testo amplia e dettaglia la definizione di bullismo ossia “l’aggressione o la molestia reiterate, da parte di una singola persona o di un gruppo di persone, in danno di un minore o di un gruppo di minori, idonee a provocare sentimenti di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione, attraverso atti o comportamenti vessatori, pressioni o violenze fisiche o psicologiche, istigazione al suicidio o all’autolesionismo, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese o derisioni.”

Codice interno per le scuole

Ogni istituto scolastico dovrà adottare un codice interno per prevenire e contrastare i fenomeni di bullismo e cyberbullismo e dovrà istituire un tavolo permanente di monitoraggio, di cui faranno parte i rappresentanti degli studenti, degli insegnanti, delle famiglie e degli esperti di settore.

Sostegno psicologico per studenti

Le scuole potranno anche creare servizi di sostegno psicologico per gli studenti al fine di prevenire  fattori di rischio o disagio. All’interno delle scuole di ogni ordine e grado potranno essere istituiti anche servizi di coordinamento pedagogico per promuovere il pieno sviluppo delle potenzialità dei bambini e dei ragazzi agendo principalmente sulle relazioni interpersonali e sulle dinamiche di gruppo.

Emergenza infanzia 114

Al governo il compito di potenziare il servizio di assistenza per le vittime di atti di bullismo e cyberbullismo tramite il numero pubblico “Emergenza infanzia 114” a cui potranno cedere gratuitamente 24 ore su 24 le vittime, ma anche i congiunti e in generale tutti coloro che con la vittima hanno una relazione affettiva. Grazie a questo numero sarà possibile usufruire di un servizio di prima assistenza di natura psicologica e giuridica e nei casi più gravi si potrà informare l’organo di polizia competente.

Giornata del rispetto

Istituita la giornata del rispetto per il  20 gennaio, in memoria di Willy. L’evento nelle scuole potrà essere preceduto nella settimana precedente da iniziative finalizzate alla sensibilizzazione sul fenomeno.

Progetto di intervento educativo

Al minore che tiene condotte aggressive (anche in modalità telematica) nei confronti di persone e animali e che viene processato dal Tribunale dei minorenni, potrà essere dedicato un percorso di mediazione o un progetto di intervento educativo con l’obiettivo di rieducare il minore e riparare il danno arrecato, il tutto sotto il controllo dei servizi sociali. Concluso il percorso il Tribunale potrà confermare l’esito, disporre che lo stesso prosegua o collocare il minore presso una comunità.

Pitbull morde il vicino: sempre colpevole il padrone Per la Cassazione, il proprietario di un pitbull risponde di lesioni personali per il morso dato dall’animale, non essendo scriminato il dovere di vigilanza del proprietario sul cane se quest’ultimo si trova in custodia presso altri soggetti

Reato di lesioni personali colpose per il morso di un pitbull

Nel caso in esame, il Tribunale di Ferrara, in funzione di giudice di secondo grado, aveva ritenuto che il proprietario di un cane di razza pitbull fosse responsabile di lesioni personali colpose a causa delle lesioni provocate dal morso dato dall’animale ad un vicino di casa.

Avverso tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando il fatto che egli, al momento dell’evento lesivo, non si trovasse in casa e che il cane fosse invece nel possesso temporaneo della madre.

Cassazione: non scriminato il dovere di vigilanza dell’imputato

La Corte di Cassazione, con sentenza n. Cass-21027-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Nella specie e per quanto qui rileva, la Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha condiviso le conclusioni cui era giunto il Giudice di merito, ovvero che “il dovere di vigilanza del proprio animale non sarebbe scriminato neanche nell’ipotesi in cui il (proprietario) non fosse stato in casa e avesse lasciato il cane in custodia alla di lui madre (…) poiché anche in caso di sua assenza, al medesimo competeva comunque l’obbligo di fornire alla temporanea custode ogni tipo di informazione preventiva necessaria, idonea ad evitare che il cane potesse scappare di casa o recare pregiudizio a terzi”.

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stalking condominiale

Stalking per il condomino che altera le abitudini di vita degli altri Si configura il reato di cui all’art. 612-bis c.p. qualora le molestie siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita

Riqualificazione del reato

Nel caso di specie e per quanto qui rileva, la Corte d’appello di Milano aveva provveduto a riqualificare il delitto di cui agli artt. 81 e 612-bis c.p., parzialmente aggravato dall’odio razziale, nella contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

Avverso tale decisione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La condotta molestatrice

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21006-2024, ha riqualificato l’appello come indicato nel ricorso proposto e ha annullato la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 660 c.p., con rinvio al Tribunale di primo grado per il giudizio.

La Corte ha ritenuto tale doglianza ammissibile posto che nell’ambito del delitto di cui all’art. 612-bis c.p. l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, posto che è proprio dalla loro reiterazione “che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che (…) degenera in uno stato di prostrazione psicologica”.

Pertanto, ha precisato la Corte, qualora la vittima entri in uno stato di perdurante ansia e modifica le proprie abitudini di vita a fronte delle condotte reiterate dell’imputato è integrato il reato di atti persecutori; qualora, invece, la condotta molestatrice sia tale da (solo) infastidire la vittima, allora viene in rilievo il reato di molestia o disturbo alle persone.

Ne consegue che la linea di demarcazione tra i due reati è rappresentata dalle conseguenze psicologiche che la condotta molestatrice è in grado di ingenerare nella persona offesa.

Stalking condominiale

Nel caso di specie, l’insieme degli elementi fattuali, emersi nel corso del giudizio di merito, non potevano che far propendere per la qualificazione della condotta molestatrice in termini di atti persecutori a norma dell’articolo 612 bis del Codice penale, posto che erano state riscontrati comportamenti dell’imputato idonei a determinare uno stato di ansia a carico della persona offesa che pervadevano la sua vita, al punto di modificarne le abitudini normali.

Quanto sopra, evidenzia la Corte, è desumibile da alcuni aspetti rilevati nel corso del giudizio di merito, quali, ad esempio le dichiarazioni della vittima con cui aveva riferito di “vivere con il timore” di trovarsi davanti l’imputato quando accedeva a casa, nonché di aver paura di uscire di casa, affermando di “vivere male” tali stati d’animo; le dichiarazioni delle persone offese, confermate dal teste, con cui veniva riferita la scelta di trasferirsi altrove, anche e soprattutto a causa del disturbi arrecato dall’imputato; le dichiarazioni dei coniugi vittime della condotta molestatrice con cui veniva evidenziato che gli stessi avevano vissuto “in ansia e paura” e ciò a causa dei comportamenti dell’imputato tra cui la “forzatura” della porta d’ingresso della loro abitazione. Infine, ha evidenziato la Corte, la perizia fornita dal consulente tecnico del pubblico ministero aveva riscontrato nell’imputato una significativa patologia, collegata alla “costante esposizione al rapporto con il vicinato”, tale da renderlo socialmente pericoloso.

 

 

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Estorsione e richiesta di rinunciare a parte della retribuzione La condotta del datore di lavoro che, al momento dell’assunzione, prospetti agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione e la perdita dell’opportunità di lavoro è estorsione?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Non integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che al momento dell’assunzione prospetta agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione, oppure la perdita dell’opportunità di lavoro. In particolare, pur realizzandosi un ingiusto profitto per il datore di lavoro grazie alle prestazioni d’opera sottopagate, per il lavoratore rispetto ad una precedente situazione di disoccupazione non è possibile dimostrare che l’occupazione conseguita possa recare un danno. – Cass., sez. II, 2 febbraio 2024, n. 9823.

Il reato di estorsione infatti, come riconosce la Cassazione, può essere integrato solo nel contesto delle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, e non nella fase genetica della sua creazione. Pertanto non grava sul datore di lavoro “alcun obbligo giuridico di assumere le persone offese che, infatti, risultano essersi spontaneamente rivolte alla medesima società chiedendo l’assunzione: se, pertanto, la pretesa della società di subordinare questa ad una rinuncia a parte dello stipendio comportava per la parte datoriale l’ingiusto profitto del conseguimento di prestazione d’opera sottopagata, non risulta la prova del danno ingiusto arrecato al lavoratore al momento dell’assunzione, giacché non vi è prova che il conseguimento di un lavoro, per quanto sottopagato, abbia arrecato […] un danno rispetto alla situazione preesistente di mancanza di lavoro”.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da Tizio avverso la sentenza della Corte di Appello che confermando la sentenza del GIP presso il tribunale della stessa città, condannava il ricorrente alla pena di giustizia per il delitto di cui all’art. 629 c.p. In particolare il motivo di doglianza atteneva alla violazione di legge e vizio di motivazione in merito all’erronea qualificazione della condotta ascritta in termini estorsivi. La difesa rilevava nello specifico come sul tema difettasse qualsiasi motivazione, tenuto conto delle modalità consensuali con le quali si addiveniva all’accordo tra imputato (datore di lavoro offerente la posizione lavorativa) e lavoratori, al momento genetico costitutivo il rapporto di lavoro. La Corte ha ritenuto fondato tale motivo, ritenendo assorbiti i successivi, attesa in primo luogo, una libera adesione ab origine dei lavoratori alla proposta lavorativa caratterizzata da retribuzione inferiore rispetto a quella prevista dalla contrattazione collettiva, non intaccando in alcun modo una pretesa giuridicamente tutelata. Infatti, come sottolinea la Suprema Corte, ai fini dell’integrazione della fattispecie estorsiva, deve apparire in primo luogo provato l’elemento centrale delle condotte, quale nel caso di specie la minaccia volta all’ottenimento dell’ingiusto profitto. Come già censurato con specifico motivo di appello, le condizioni di lavoro oggetto di accertamento non sono mai state imposte nel corso del rapporto di lavoro mediante minaccia, ma oggetto di specifico e previo accordo antecedente all’inizio effettivo del rapporto lavorativo, prima dunque dell’assunzione. Di conseguenza, non appare emergere alcuna minaccia in relazione alla determinazione della retribuzione, già oggetto di esplicito accordo tra le parti al momento della conclusione del contratto di assunzione. In secondo luogo i giudici di legittimità hanno riconosciuto la natura apparente e contraddittoria della motivazione della sentenza di appello, dove si afferma che l’imputato abbia approfittato della necessità di lavoro dei dipendenti per imporre condizioni retributive sfavorevoli ed inferiori alle previsioni della contrattazione collettiva, riferendosi però in questo modo alla fase iniziale e dunque genetica del rapporto di lavoro, senza specificare invece in che momento del rapporto lavorativo già in essere la minaccia anche implicita avesse avuto luogo. Pertanto la Suprema Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello competente che dovrà verificare, colmando la carenza motivazionale evidenziata, se tra le parti sia intercorso un mero accordo antecedente alla concreta fase di espletamento dell’attività lavorativa in cui è stato determinato (ed accettato) il quantum della retribuzione, o se siano state poste in essere ulteriori condotte da provare puntualmente in sede di merito, attraverso cui si sia integrata la minaccia di licenziamento a carico dei lavoratori durante il corso delle attività lavorative nell’ambito dell’azienda del ricorrente, al fine di contrastare le loro legittime pretese contrattuali, eventualmente integrando la contestata estorsione.

*Contributo in tema di “ reato di estorsione ”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

detenzione domiciliare sostitutiva

Detenzione domiciliare sostitutiva: è legittima Per la Corte Costituzionale la disciplina della detenzione domiciliare sostitutiva contenuta nella riforma Cartabia non viola la legge delega

Detenzione domiciliare e legge delega

Il decreto legislativo n. 150 del 2022 non ha violato la legge delega nel disciplinare le modalità esecutive della nuova pena sostitutiva della detenzione domiciliare. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 84-2024, con la quale ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate una serie di questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bologna.

La qlc

Rispetto all’unica questione valutata nel merito, la Consulta ha sottolineato che la riforma del 2022 mira a rivitalizzare le pene sostitutive delle detenzioni di breve durata, i cui effetti desocializzanti sono da tempo noti, specie nel contesto di significativo sovraffollamento in cui, nuovamente, versano le carceri italiane. La Corte ha evidenziato che le pene sostitutive sono ispirate al principio secondo cui il sacrificio della libertà personale va contenuto entro il minimo necessario, oltre che alla necessaria finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27 della Costituzione. Inoltre, la loro previsione incentiva l’imputato a definire il processo con un rito semplificato, e in particolare con il patteggiamento: il che contribuisce ad alleggerire i carichi del sistema penale, in funzione dell’obiettivo di assicurare a tutti tempi più contenuti di definizione dei processi. Infine, le pene sostitutive garantiscono risposte certe, rapide ed effettive al reato, ancorché alternative al carcere, dal momento che sono immediatamente esecutive non appena la sentenza di condanna passa in giudicato. E ciò a differenza di quanto accade rispetto alle pene detentive di durata non superiore a quattro anni, che restano di regola sospese anche per vari anni, sino a che il tribunale di sorveglianza non decida sulla richiesta del condannato di essere ammesso a una misura alternativa alla detenzione. Con la conseguenza che circa novantamila persone in Italia sono oggi “liberi sospesi”: e cioè condannati in via definitiva, che però non sono sottoposti allo stato ad alcuna misura restrittiva, in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza.

La decisione della Corte Costituzionale

Secondo la Corte, la disciplina della pena sostitutiva della detenzione domiciliare risponde a questi obiettivi generali della legge delega, che prescriveva al Governo di mutuare la disciplina prevista, in fase esecutiva, per l’omonima misura alternativa della detenzione domiciliare, ma soltanto “in quanto compatibile” con tali obiettivi. In particolare, la previsione, da parte del legislatore della riforma, di un più favorevole regime del limite minimo di permanenza nel domicilio (almeno dodici al giorno), così come di un’ampia possibilità di uscire dal domicilio stesso in relazione a “comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale di lavoro o di salute”, è coerente – ha osservato la Corte – con la spiccata funzionalità rieducativa di questa pena sostitutiva, che prevede uno specifico programma di trattamento elaborato dall’Ufficio di esecuzione penale esterna, che prende in carico il condannato. Ciò appare conforme all’idea – che è alla base della riforma – di una “pena-programma” caratterizzata da elasticità nei contenuti, perché funzionale alla individualizzazione del trattamento sanzionatorio, in modo da garantire la risocializzazione del condannato e, assieme, una più efficace tutela della collettività.

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