guida senza patente

Guida senza patente: due volte in un biennio è reato La Cassazione rammenta che il reato di guida senza patente, nell'ipotesi aggravata dalla recidiva nel biennio, non è stato depenalizzato

Guida senza patente

La guida senza patente per due volte in un biennio costituisce reato a tutti gli effetti in quanto condotta non penalizzata. Lo ha confermato la sesta sezione penale della Cassazione con sentenza n. 23043-2024.

Nella vicenda, la Corte d’appello di Milano disponeva consegna all’autorità giudiziaria di Romania, di uno straniero destinatario di un mandato di arresto europeo per il reato di guida senza patente, già condannato per lo stesso reato alla pena di otto mesi di reclusione.

L’uomo adiva il Palazzaccio lamentando violazione di legge quanto al principio della doppia incriminazione. Il tema attiene ala necessità per l’ordinamento interno, ai fini della rilevanza penale della condotta di guida senza patente, che sussista la recidiva nel biennio precedente alla data di commissione del reato per cui si procede. Assume, inoltre, che la Corte di appello avrebbe dovuto dare esecuzione non solo alla sentenza del 2022 ma anche a quella del 2019 in quanto quest’ultima sarebbe il presupposto necessario affinché si configuri li reato per li quale è stata disposta la consegna.

Doppia punibilità

Per gli Ermellini il ricorso è inammissibile.

In più occasioni la giurisprudenza ha chiarito, premettono infatti, che “per la sussistenza del requisito della doppia punibilità di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2005, è necessario che l’ordinamento italiano contempli come reato, al momento della decisione sulla domanda dello Stato di emissione, il fatto per il quale la consegna è richiesta (cfr. Cass. n. 5749/2016).

Depenalizzazione reato guida senza patente

Inoltre, aggiungono i giudici, “la depenalizzazione dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, prevista dall’art. 1, d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, non si estende alle ipotesi aggravate punite con la pena detentiva, le quali, a seguito della trasformazione in illecito amministrativo delle fattispecie base, si configurano quali autonome figure di reato”.

Ne discende che “solo la fattispecie di guida senza patente, nell’ipotesi aggravata dalla recidiva nel biennio, non è stata depenalizzata dall’art. 1 d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8 e si configura, pertanto, come fattispecie autonoma di reato di cui la recidiva integra un elemento costitutivo”.
Per l’integrazione della recidiva nel biennio, “idonea, ai sensi dell’art. 5 d.lgs. 5 gennaio 2016, .n 8, ad escludere il reato dall’area della depenalizzazione – precisa altresì la S.C. – non è sufficiente che sia intervenuta la mera contestazione dell’illecito depenalizzato, ma è necessario che questo sia stato definitivamente accertato”.

La condanna

Nel caso di specie, la Corte di appello dunque ritengono da piazza Cavour “ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, avendo disposto la consegna, da una parte, limitatamente all’unico fatto che, per l’ordinamento interno, costituisce reato e per il quale, quindi, sussiste il requisito della doppia punibilità di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2005, e, dall’altra, in relazione alla sola pena di un anno di reclusione inflitta dal Tribunale romeno in ordine al fatto in questione.
Dichiarati inammissibili anche gli altri motivi, la S.C. condanna il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali e a 3mila euro in favore della Cassa delle ammende.

Allegati

omesso mantenimento figli reato

Punibile il padre che non mantiene i figli per anni La Cassazione chiarisce che la causa di esclusione di cui all’art. 131-bis c.p., è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, solo se l’omesso versamento abbia carattere di mera occasionalità

Reato art. 570-bis c.p.

Nel caso in esame la Corte di appello di Torino aveva ritenuto che il padre fosse penalmente responsabile, ai sensi dell’art. 570 bis c.p., per non aver versato quanto stabilito in sede giudiziale alla figlia minore a titolo di mantenimento, attenuando poi il trattamento sanzionatorio in ragione delle riconosciute attenuanti generiche.

Avverso tale decisione il genitore condannato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione contestando, in particolare, l’omesso riconoscimento in suo favore, da parte del Giudice di merito, della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Occasionalità dell’omesso versamento ai fini della non punibilità

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22806-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Rispetto alla suddetta contestazione, la Corte ha in particolare affermato che “la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare a condizione che l’omissione corresponsione del contributo al mantenimento abbia carattere di mera occasionalità”.

Ne consegue pertanto che, nell’ipotesi in cui la condotta illecita contestata si protragga nel tempo e si sostanzi in reiterate omissioni nel versamento del mantenimento “essendo l’abitualità nel comportamento ostativa al riconoscimento del beneficio e irrilevante la particolare tenuità di ogni singola azione od omissione, la causa di non punibilità in questione non potrà trovare applicazione”.

No alla tenuità del fatto

Nel caso in esame, l’imputato aveva protratto la condotta illecita per tre anni consecutivi con la conseguenza, ha affermato la Corte, che tale comportamento risulta inconciliabile con l’applicabilità dell’art. 131- bis c.p.

 

Leggi anche Mantenimento: nessun reato per il padre in difficoltà

Allegati

decreto caivano

Decreto Caivano Il decreto Caivano contiene misure di contrasto alla criminalità giovanile, all’abbandono scolastico e al degrado urbano nelle aree più esposte del territorio

Decreto Caivano: la ratio

Il “Decreto Caivano” è stato emanato dal governo italiano come risposta urgente a una serie di episodi di criminalità giovanile e degrado urbano che hanno colpito alcune zone del paese, tra cui il comune di Caivano, in provincia di Napoli. Il decreto n. 123/2023, convertito in legge con modifiche, rappresenta un tentativo di affrontare problematiche sociali e di sicurezza in modo strutturato. Esso mira a contrastare fenomeni di criminalità minorile, degrado urbano e sociale in aree particolarmente colpite da questi problemi. L’obiettivo principale è ripristinare la sicurezza e promuovere la riqualificazione sociale ed economica attraverso interventi mirati.

Principali misure del decreto Caivano

Il decreto contempla una serie di misure multidimensionali, tra le quali assumono un particolare rilievo quelle dedicate ai minori.

Daspo urbano: il provvedimento lo estende a coloro che hanno compiuto gli anni 14. Viene introdotto anche il Daspo Willy per contrastare i fenomeni di movida violenta.

Lotta ai reati in materia di sostanze stupefacenti e di armi. Più elevate le sanzioni per il porto d’armi e lo spaccio di sostanze stupefacenti, per il quale la pena massima sale a cinque anni. Introdotto il reato di pubblica intimidazione attraverso luso delle armi, che viene punito con il carcere da tre a otto anni.

Prevenzione della violenza giovanile anche tramite l’avviso orale, che vale per i minori maggiori di 14 anni.

Divieti per dispositivi di telecomunicazioni e sistemi informatici: per chi ha violato l’avviso orale viene previsto il divieto di utilizzo di dispositivi di comunicazione.

Ammonimento per i minori di età compresa tra i 12e i 14 anni qualora commettano gravi reati.

Il processo penale minorile viene riformato. Previste nuove misure di natura cautelare e percorsi di rieducazione.

Regole nuove per i minori coinvolti in reati di particolare gravità come quelli relativi al traffico di sostanze stupefacenti o mafia. Rafforzata nel contempo la sicurezza all’interno degli istituti penali per i minorenni.

Viene ampliata lofferta educativa all’interno delle scuole meridionali e vengono adottate nuove misure al fine di contrastare il fenomeno dell’abbandono scolastico.

A tutela dei minori che utilizzano dispositivi informatici viene introdotto l’obbligo, a carico dei siti pornografici, di adottare i sistemi che consentano di accertare la maggiore età dell’utente.

Durante il processo di conversione in legge, il testo originario del Decreto Caivano è stato modificato per migliorare l’efficacia delle misure proposte e rispondere alle critiche e ai suggerimenti emersi dal dibattito pubblico e parlamentare.

Il decreto, nella sua versione convertita in legge con modifiche, rappresenta un tentativo significativo di affrontare problemi complessi di criminalità e degrado urbano attraverso un approccio integrato e multidimensionale. Le modifiche apportate durante il processo legislativo hanno migliorato il testo originale.

Sono stati introdotti meccanismi di partecipazione attiva delle comunità locali nella pianificazione e nell’attuazione degli interventi.

È stata rafforzata la tutela dei diritti civili dei residenti, con l’introduzione di garanzie per evitare abusi.

Viene previsto un potenziamento del supporto psicologico e sociale per le vittime di reati e per i minori coinvolti in situazioni di rischio.

Implicazioni per le comunità interessate

La versione definitiva del Decreto Caivano ha indubbie e significative implicazioni per le comunità coinvolte.

Le misure adottate mirano a migliorare la sicurezza pubblica e a ridurre il crimine nelle aree colpite. L’aumento della presenza delle forze dell’ordine e l’uso di tecnologie avanzate contribuiscono a un controllo più efficace del territorio.

Gli interventi di riqualificazione urbana e i progetti educativi e formativi sono volti a migliorare le condizioni sociali ed economiche, offrendo nuove opportunità ai giovani e alle famiglie.

Il coinvolgimento attivo delle comunità locali nella pianificazione e nell’attuazione degli interventi favorisce un approccio più inclusivo e partecipativo, aumentando la coesione sociale e il senso di appartenenza.

La legge prevede infine  meccanismi di monitoraggio e valutazione che garantiranno l’adattamento delle misure alle esigenze reali delle comunità, promuovendo una sostenibilità a lungo termine degli interventi.

Allegati

petardi strada reato

È reato esplodere petardi per strada La Cassazione ha ricordato che il reato di cui all’art. 703 c.p. integra un reato di pericolo, in relazione alla possibilità concreta che esplosioni di ordigni sulla pubblica via possano compromettere l’incolumità delle persone

Fuochi d’artificio sulla pubblica via

Il caso prende avvio dalla decisone adottata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli con cui l’imputato veniva assolto in relazione all’accusa di aver acceso fuochi d’artificio in pubblica via, perché il fatto non sussiste.

Nella specie, il giudicante aveva rilevato che, al momento dell’esplosione degli artifici pirotecnici da parte dell’imputato in pubblica via “non era in corso alcuna processione religiosa né altra adunanza si sorta e non vi erano per strada persone la cui incolumità fosse stata messa in pericolo dagli spari”.

Avverso tale decisone il p.m. aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, deducendo, in particolare, l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 703 c.p.

A detta del ricorrente, il GIP non avrebbe tenuto conto che, nella fattispecie in esame, considerata la descrizione della condotta illecita, si è in presenza in un pericolo presunto “con la conseguenza che il giudice non è tenuto a verificare se il fatto costituisca o meno pericolo per la pubblica incolumità”.

La fattispecie di cui all’art. 703 c.p. è reato di pericolo

La Corte di cassazione, con sentenza n. 22505-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto in quanto basato su censure non consentite in sede di legittimità.

Ad ogni modo, la Corte, prima di pronunciarsi in relazione all’inammissibilità del ricorso, ha esaminato la fattispecie in contestazione.

In particolare, la Corte ha ricordato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità formatasi sull’argomento, la quale ha ritenuto che “l’ipotesi sanzionata dall’art. 703 cod. pen. (…) integra un reato di pericolo, in relazione alla possibilità concreta che esplosioni di ordigni in centro abitato, o sulla pubblica via (…) compromettano l’incolumità delle persone”.

Anche un comune petardo può essere lesivo

Sulla base di quanto sopra riferito, la Corte ha affermato che “poiché anche l’esplosione di un comune petardo a distanza ravvicinata da persone può essere lesivo delle persone stesse, il semplice riferimento a siffatto tipo di ordigno non esclude la sussistenza del reato”.

Allegati

giurista risponde

Recidiva qualificata e circostanza ad effetto speciale Il limite dell’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., incide sulla qualificazione della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., come circostanza ad effetto speciale?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

Il limite all’aumento di cui alla previsione dell’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal secondo e dal quarto comma del già menzionato articolo, quale circostanza ad effetto speciale, e non influisce sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p., come modificati dalla L. 251/2005. – Cass. Sez. Un., 29 luglio 2022, n. 30046

Nel caso di specie la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare la incidenza del limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., rispetto alla qualificazione di circostanza ad effetto speciale della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., nonché la eventuale influenza dello stesso ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

La questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite si fonda invero su due distinti profili.

Il primo profilo attiene alla natura qualificata della recidiva, che comporta un aumento della pena fino alla metà, della metà o di due terzi ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., eventualmente contestata con l’applicazione della disposizione di cui all’art. 99, comma 6, c.p. quando determina un aumento della pena in misura pari o inferiore ad un terzo.

Il secondo profilo attiene agli effetti dell’applicazione del limite dell’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p. sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo, ai sensi dell’art. 157 c.p., quanto massimo, dovuto all’ulteriore aumento stabilito dall’art. 161, comma 2, c.p., attesa la presenza di atti interruttivi nel corso del processo.

Le Sezioni Unite a tal proposito hanno evidenziato i due contrapposti orientamenti riconoscibili nella giurisprudenza di legittimità sul tema oggetto della questione rimessa.

Secondo l’orientamento maggioritario, la contestazione di una circostanza qualificata ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., comporta che di essa, parificata alla circostanza ad effetto speciale, debba tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione di cui all’art. 157 c.p. Tuttavia, il suddetto calcolo prescrizionale dovrebbe tener conto altresì del limite quantitativo all’aumento di pena, di cui la previsione dell’art. 99, comma 6, c.p. svolge effetto mitigatore (Cass., sez. V, 24 settembre 2019, n. 44099).

Contrariamente, il limite fissato dall’art. 99, comma 6, c.p. ai fini della determinazione della pena, non incide sulle modalità di calcolo del termine massimo di prescrizione, di cui all’art. 161, comma 2, c.p., in quanto tale computo avviene secondo aumenti secchi fissati nella misura della metà o di due terzi.

Secondo il contrario orientamento giurisprudenziale, l’applicazione del limite di aumento di cui all’art. 99, comma 6, c.p., ai fini del computo della pena, comportando un aumento della stessa pena base in misura pari o inferiore ad un terzo, inciderebbe sulla natura della recidiva, escludendone la qualificazione di circostanza ad effetto speciale ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

In relazione al primo punto della questione, la Suprema Corte ha ricordato quanto stabilito da plurime pronunce giurisprudenziali delle Sezioni Unite, che hanno riconosciuto la natura di circostanza ad effetto speciale alle suddette recidive qualificate, in quanto le stesse soggiacciono ad una valutazione comparativa con eventuali circostanze attenuanti e rientrano nel novero delle circostanze ad effetto speciale di cui all’art. 649bis c.p. (Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585).

Inoltre, secondo una ulteriore pronuncia giurisprudenziale cui le Sezioni Unite aderiscono, la natura di una circostanza, tanto comune quanto ad effetto speciale, non può derivare dal meccanismo relativo all’aumento di pena previsto dall’art. 63 c.p. per le circostanze ulteriori rispetto a quella più grave, in quanto ispirato al criterio del cumulo giuridico (Cass. Sez. Un. 8 aprile 1998, n. 16). Se così non fosse, la medesima circostanza cambierebbe natura, da circostanza comune a circostanza ad effetto speciale, a seconda se contestata da sola o dalla posizione assunta nell’ordine di gravità delle circostanze concorrenti.

Pertanto, l’aumento di pena in conseguenza dell’applicazione del limite di cui all’art. 99, comma 6, c.p., in misura pari o inferiore ad un terzo, non incide sulla natura della recidiva qualificata di cui all’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., la cui natura di circostanza aggravante ad effetto speciale rimane immutata.

In relazione al secondo punto, le Sezioni Unite hanno analizzato la riscrittura della disciplina codicistica effettuata dalla L. 251/2005 in tema di calcolo del temine minimo e massimo di prescrizione di cui agli artt. 157, comma 2, c.p. e 161, comma 2, c.p., evidenziando come il momento del computo della pena ai fini del calcolo del termine di prescrizione, che si effettua secondo criteri oggettivi, generali e astratti, vada tenuto distinto dal momento di determinazione della pena da irrogare al condannato, che si fonda su criteri concreti e soggettivi. Inoltre, pur essendo circostanza soggettiva del reato, in quanto inerente alla persona del colpevole, la recidiva qualificata è espressione del maggior disvalore del fatto di reato in senso oggettivo, tale da giustificare un regime più severo nel computo del decorso dei termini di prescrizione.

Le Sezioni Unite hanno infine richiamato quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, la quale ha individuato un parallelismo tra le disposizioni dettate dall’art. 157, comma 2, c.p. e dall’art. 161, comma 2, c.p., in quanto la recidiva qualificata, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo, incide sul termine ordinario di prescrizione del reato (Corte Cost. ord. 34/2009).

Pertanto, la Suprema Corte ha stabilito che il limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla natura della recidiva qualificata quale circostanza ad effetto speciale e non influisce sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo ai sensi di cui all’art. 157, comma 2, c.p., quanto massimo ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p., discostandosi dall’orientamento maggioritario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585
Difformi:      Cass., sez. III, 3 novembre 2020, n. 34949

Niente tenuità per il “nonno” spacciatore La Cassazione ha confermato la decisione del giudice di merito con cui veniva stabilito che, ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto, l’età dell’imputato non rileva

Illecita detenzione di sostanze stupefacenti

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la decisione del Giudice di primo grado con cui gli imputati venivano condannati per i reati di cui all’art. 73, comma 5, DPR n. 309/1990, per avere, in concorso tra loro, illecitamente detenuto per la cessione a terzi di sostanza stupefacente di tipo cocaina.

Avverso tale decisione gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, evidenziando, in particolare, gli indici per l’accertamento della tenuità del fatto quali, per quanto qui rileva, l’età avanzata degli imputati. Secondo i ricorrenti tali elementi non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello.

Nessuna tenuità del fatto per lo spacciatore ultraottantenne

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22017-2024, ha rigettato i ricorsi proposti e ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, i ricorrenti hanno evidenziato molteplici elementi che costituiscono indici positivi per l’accertamento della tenuità del fatto e che, secondo gli stessi, non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello, quali “l’età, l’assenza di precedenti penali recenti, l’assenza di carichi pendenti, le precarie condizioni di salute, lo svolgimento, in modo regolare e continuativo (…) dell’attività lavorativa, il mancato reperimento, durante la perquisizione, di materiale da taglio o da confezionamento della sostanza stupefacente”.

Rispetto al ricorso proposto, la Corte ha anzitutto ripercorso i fatti di causa, dai quali era emerso che “la condotta contestata ai ricorrenti concerneva la detenzione ai fini di cessione di 15,6 grammi di cocaina, suddivisi in 13 involucri di un grammo ciascuno circa, da cui era possibile trarre un numero considerevole di dosi, pari a 66, non potendosi ritenere l’offesa come di particolare tenuità sotto il profilo della esiguità del danno o del pericolo”.

Rispetto a tali circostanze, ha riferito la Corte, il Giudice di merito aveva tenuto in considerazione ai fini della decisione il significativo quantitativo di sostanza detenuta, nonché la personalità negativa degli imputati, entrambi gravati da precedenti penali.

In relazione alla doglianza formulata dai ricorrenti circa il mancato riconoscimento, da parte del Giudice di merito, delle attenuanti generiche, la Corte ha riferito altresì che gli elementi difensivi proposti dai ricorrenti non assumono rilievo determinante ai fini del riconoscimento delle invocate attenuanti e ciò considerato il fatto che il giudice di merito “non è tenuto ad esaminare e valutare tutte le circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa, ma è sufficiente che indichi i motivi per i quali non ritiene di esercitare il potere discrezionale attribuitogli dall’art. 62 bis cod. pen.”.

Niente tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.

La Cassazione ha pertanto evidenziato come, la Corte territoriale, avendo negato l’attribuzione delle attenuanti generiche, ha evidenziato la gravità del fatto in relazione alla quantità di sostanza detenuta e alla personalità degli imputati.

Sulla scorta di quanto sopra, la Corte ha pertanto confermato gli esiti del giudizio di merito e ha ritenuto che, nel caso di specie, non venga in rilievo la tenuità del fatto a norma dell’art. 131-bis c.p., secondo quanto richiesto dai ricorrenti.

Allegati

body shaming

Body shaming Cos'è il body shaming e cosa prevede la proposta di legge che vuole istituire la giornata nazionale contro la denigrazione dell'aspetto fisico

Cos’è il body shaming

Il body shaming è l’atto di deridere o discriminare una persona per il suo aspetto fisico. Questo comportamento prende di mira qualsiasi caratteristica fisica, colpendo chiunque non aderisca ai canoni estetici della società. Questi standard estetici, spesso irrealistici e non rappresentativi della maggioranza, possono indurre vergogna e colpevolizzazione nelle vittime, causando problemi di autostima, ansia, depressione, disturbi alimentari e, in casi estremi, suicidio. Il fenomeno colpisce soprattutto gli adolescenti, le ragazze in particolare, ma non sono immuni da derisioni e offese neppure gli adulti. I canali più utilizzati sono i social network, che hanno un impatto considerevole a causa della potenziale capacità diffusiva dei messaggi denigratori.

Body shaming: giornata nazionale per la sensibilizzazione

La proposta di legge A.C. 1049, presentata dalla parlamentare Martina Semenzato, mira a istituire una Giornata Nazionale contro la denigrazione dell’aspetto fisico 16 maggio di ogni anno. Questa iniziativa si propone di sensibilizzare il pubblico sui danni del body shaming, un fenomeno odioso di derisione e discriminazione basato sull’aspetto fisico delle persone.

Il testo della proposta, presentata il 28 marzo 2023, è in corso di esame alla Commissione Affari sociali in sede referente.

Proposta di legge: cosa prevede

La proposta di legge si articola in sei punti principali:

  • Istituire una Giornata Nazionale contro il body shaming il 16 maggio con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui comportamenti offensivi e promuovere le iniziative necessarie per prevenirli.
  • Invitare le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile e le associazioni a promuovere eventi e campagne informative per contrastare il body shaming nella giornata dedicata, favorendo l’accettazione del proprio corpo e il rispetto per gli altri.
  • Dare le disposizioni necessarie alle scuole di ogni ordine e grado affinché organizzino iniziative didattiche e momenti di riflessione sul fenomeno del body shaming e le sue conseguenze in occasione della celebrazione della Giornata Nazionale.
  • Rimettere alle istituzioni pubbliche e alle associazioni la promozione di campagne di sensibilizzazione sui media, informando il pubblico sulle gravi conseguenze del body shaming e incoraggiando un uso consapevole del linguaggio e delle tecnologie digitali.
  • Assicurare che il servizio pubblico radiotelevisivo dedichi spazio adeguato ai temi legati alla Giornata Nazionale, sensibilizzando il pubblico attraverso la programmazione nazionale e regionale.

L’importanza della sensibilizzazione

La proposta di legge sottolinea l’importanza di una disciplina unitaria a livello nazionale per affrontare il body shaming. La sensibilizzazione attraverso campagne informative, eventi nelle scuole e l’uso responsabile dei media e delle tecnologie digitali rappresenta un passo cruciale per combattere questo fenomeno e promuovere una cultura del rispetto e dell’inclusione.

testimonianza prossimo congiunto

La testimonianza del prossimo congiunto Sollevata l'incostituzionalità dell’art. 199 c.p.p co. 1 nella parte in cui non prevede l’astensione per la persona offesa dal testimoniare contro il prossimo congiunto

Testimonianza penale: facoltà di astensione dei prossimi congiunti

L’ordinanza del tribunale di Firenze, I sezione penale, del 12 febbraio 2024 solleva una questione di legittimità costituzionale dell’art. 199, comma 1, c.p.p.. La disposizione prevede, nello specifico, che i prossimi congiunti dell’imputato non siano obbligati a testimoniare, il tutto al fine di bilanciare l’interesse pubblico all’accertamento della verità e quello privato alla tutela del rapporto familiare.

Il Tribunale di Firenze, nello specifico, solleva la questione di legittimità costituzionale in relazione all’articolo 199 comma 1 c.p.p per violazione degli artt. 3, 27 comma 2, 29 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 8 della CEDU, contestando l’eccezione che obbliga i prossimi congiunti a testimoniare quando essi o un loro prossimo congiunto sono persone offese dal reato o quando hanno presentato denuncia, querela o istanza.

Per identificare i soggetti che beneficiano del diritto al silenzio è necessario il richiamo al contenuto  dell’art. 307 c.p, che identifica, agli effetti della legge penale, i prossimi congiunti, includendo parenti stretti e affini, ampliati successivamente anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Il Giudice remittente precisa comunque che lo status di prossimo congiunto che giustifica l’astensione dal diritto di testimoniale va riferito al processo, non al momento in cui il reato viene commesso. Solo durante il processo infatti sorge il contrasto tra l’obbligo di dire la verità e la volontà di non danneggiare il congiunto imputato.

La facoltà di astenersi comunque non esclude a priori la testimonianza del familiare, ma affida al giudice la valutazione della sua utilità e veridicità, con la possibilità di responsabilità penale per falsa testimonianza. Se un congiunto sceglie di testimoniare, deve farlo infatti secondo verità, pena la punibilità per falsa testimonianza.

Irragionevole non tutelare il rapporto familiare quando il teste è la persona offesa

L’art. 199 c.p.p obbliga i congiunti a testimoniare se hanno presentato denuncia o querela, o se loro stessi o un loro congiunto sono offesi dal reato.

Dubbia per il remittente la ragionevolezza dell’eccezione contemplata dall’art. 199 c.p.p. Il vincolo affettivo che caratterizza i contesti familiari, è privato della sua tutela nel momento in cui la persona offesa dal reato è esposta al rischio concreto di commettere falsa testimonianza al fine di tutelare il proprio familiare.

Non tutelare il rapporto familiare quando il teste è persona offesa dal reato è infatti irragionevole se il giudizio di non meritevolezza è limitata al processo in cui viene contestato il reato ai danni del prossimo congiunto. In un processo eventuale ed ulteriore a carico dello stesso soggetto, ma per altri fatti, il medesimo prossimo congiunto potrebbe infatti regolarmente avvalersi della facoltà di non testimoniare.

Illegittimità costituzionale art. 199 comma 1 c.p.p.

Il Tribunale richiede quindi alla Corte Costituzionale di dichiarare illegittima la norma di quell’articolo 199 co. 1 c.p.p, nella parte in cui, con riguardo alla facoltà dei prossimi congiunti dell’imputato di astenersi dal deporre, prevede un’eccezione per la persona offesa dal reato anche nell’ipotesi in cui la deposizione del prossimo congiunto non sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti.

giurista risponde

Reato di corruzione: come provarlo L’accertamento dell’avvenuta dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale è sufficiente a provare il reato di corruzione o ne costituisce un mero indizio?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Ai fini dell’accertamento del reato di corruzione, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione.

La prova della dazione indebita di un’utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento anti-doveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. – Cass., sez. VI, 22 gennaio 2024, n. 2749.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in materia di corruzione in atti giudiziari ai sensi degli artt. 318, 319ter, 321 c.p. L’indagato, titolare di un’impresa e accusato di un reato fiscale in separato procedimento, aveva ricevuto, da un tenente colonnello della guardia di finanza di sua conoscenza, consigli, consulenze tecniche, nonché una sollecitazione telefonica alla Procura della Repubblica in suo favore. Il contatto tra l’imprenditore e il pubblico ufficiale verteva sulla possibilità, per il primo, di ottenere il dissequestro di alcune somme di denaro: tale provvedimento veniva poi legittimamente emesso dal Pubblico Ministero, alla luce della sussistenza del diritto alla restituzione del suddetto importo.

Successivamente veniva disposta la misura degli arresti domiciliari nei confronti dell’indagato, al quale si addebitava un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari, sotto forma di corruzione impropria. Si riteneva, infatti, che l’aiuto fornito dal colonnello avesse avuto come corrispettivo la disponibilità di un immobile di proprietà dell’imprenditore. Tale utilità era stata ottenuta sia prima, sia dopo la descritta condotta del pubblico ufficiale.

L’ordinanza veniva confermata dal Tribunale e, avverso la stessa, veniva proposto ricorso per Cassazione. In primo luogo, si riteneva insussistente l’asservimento della funzione, dal momento che il contegno del pubblico ufficiale sarebbe stato rispettoso del dovere della pubblica amministrazione di segnalare al contribuente anche gli elementi a suo favore – nel caso di specie, la possibilità di presentare istanza di restituzione dei soldi. In secondo luogo, si riteneva che l’ordinanza fosse viziata quanto alla motivazione circa il nesso di sinallagmaticità tra il comportamento del pubblico ufficiale e la disponibilità dell’immobile dallo stesso ottenuta. Dell’appartamento, infatti, egli aveva goduto in momenti del tutto lontani rispetto ai fatti oggetto del procedimento e, inoltre, si sarebbe trattato di un vantaggio sproporzionato per difetto rispetto alla ritenuta controprestazione.

La Corte di Cassazione ha giudicato il ricorso fondato, alla luce delle motivazioni che seguono. In via preliminare è stato ribadito che il reato di corruzione in atti giudiziari è in rapporto di specialità rispetto alle fattispecie di corruzione propria e impropria, dal momento che essa si caratterizza per il compimento del fatto corruttivo con la finalità di favorire o danneggiare una parte in un processo (Cass. pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 15208).

I Supremi Giudici hanno poi ricostruito le modifiche introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, in particolare quelle dell’art. 318 c.p. Il riferimento al compimento di uno o più atti amministrativi aveva, infatti, creato difficoltà in passato per tutti i casi diversi dal mercimonio di specifici atti e caratterizzati, piuttosto, dall’asservimento sistemico della parte pubblica a favore del soggetto privato. Di conseguenza, con l’intervento legislativo è stato eleminato il requisito dell’adozione di un atto amministrativo legittimo — che, in concreto, può anche del tutto mancare — a favore della specificazione per cui, nel caso di corruzione cosiddetta impropria, il patto criminoso ha ad oggetto la funzione pubblica nel suo complesso. Ad essere punito, cioè, è l’accordo con cui il pubblico ufficiale vende il ruolo da lui rivestito, attraverso la presa in carico degli interessi della parte privata che, a sua volta, crea un inquinamento diffusivo, con conseguenze non preventivabili.

Per quanto concerne i confini rispetto alla corruzione propria, invece, la Cassazione sottolinea come, prima della citata riforma, fosse possibile constatare una riduzione del campo di applicazione dell’art. 318 c.p., a favore dell’art. 319 c.p., per i casi di attività discrezionale. La giurisprudenza maggioritaria, infatti, riteneva che il fatto oggettivo di aver ricevuto denaro o altra utilità valesse a contaminare il processo decisionale del pubblico ufficiale: ne derivavano un’implicita violazione del principio di imparzialità, l’illegittimità dell’atto adottato e, conseguentemente, l’integrazione dell’art. 319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. La sentenza in esame non si sofferma espressamente sugli effetti prodotti dalla riforma del 2012 su questo punto, ma è possibile constatare la presenza di due diverse interpretazioni: ad un orientamento in linea con la lettura prevalente in passato se ne contrappone un altro, secondo il quale occorre verificare se la presa in carico dell’interesse del privato da parte del pubblico ufficiale abbia davvero contaminato la cura dell’interesse pubblico. In caso di risposta negativa, il fatto deve essere ricondotto all’art. 318 c.p., con ciò evitando ragionamenti presuntivi (così Cass., sez. VI, 30 aprile 2021, n. 35927).

I Supremi Giudici hanno poi proseguito sottolineando che la corruzione, reato a concorso necessario, si caratterizza per la presenza di due condotte in reciproca saldatura e condizionamento. Da ciò viene fatta derivare la necessità che la realizzazione del contegno del pubblico ufficiale sia la giustificazione causale della dazione di denaro o di altra utilità, sebbene non ci sia, tra l’una e l’altra, un ordine cronologico inderogabile. La prova della dazione indebita, quindi, può costituire soltanto un indizio della realizzazione di un fatto di corruzione ed esso va valutato, come impone l’art. 192 c.p.p., unitamente ad altre circostanze di fatto che vadano nella stessa direzione ricostruttiva.

Nel caso di specie, i Giudici hanno ritenuto che il Tribunale non avesse sufficientemente motivato in ordine alla sussistenza di tale nesso causale: non era emerso in modo chiaro, infatti, il collegamento tra la condotta del pubblico ufficiale e il fatto che lo stesso avesse avuto, in alcune occasioni, la disponibilità dell’appartamento dell’indagato. A rendere poco evidente tale legame erano, in particolar modo, la non chiara corrispondenza temporale tra i due dati e, altresì, l’assenza di proporzionalità tra gli stessi.

Per questi motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio per un nuovo giudizio al Tribunale.

*Contributo in tema di “ Reato di corruzione ”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

permesso necessità

Permesso di necessità: quando può essere concesso La Cassazione detta chiarimenti sulle condizioni necessarie per concedere il permesso di necessità ex art. 30 dell'ordinamento penitenziario

Permesso di necessità: il caso

No al permesso di necessità, se le condizioni di salute della madre dell’imputato non siano gravissime. Lo ha affermato la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 22619-2024, cogliendo l’occasione per spiegare i presupposti necessari per ottenere il beneficio ex art. 30 dell’ordinamento penitenziario.

Nella specie, l’imputato aveva proposto ricorso innanzi al Palazzaccio avverso l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Torino che aveva respinto l’istanza di permesso di necessità per fare visita alla madre in quanto gravemente ammalata.

Per il tribunale, la madre dell’uomo non si trovava in pericolo di vita considerata la cronicità delle patologie che la affliggevano per cui non sussistevano le condizioni previste dal secondo comma dell’art. 30 ord. pen.
L’imputato, invece, deduceva che detto permesso poteva essere concesso, oltre che nell’ipotesi di pericolo di vita di un familiare o convivente, anche per eventi di particolare gravità ed osservava che la genitrice versava in gravi condizioni che le impedivano di muoversi dal letto.

Quando può essere concesso il permesso di necessità

Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso è infondato e va respinto. Infatti, ricordano preliminarmente, “ai fini della concessione del permesso di necessità, la patologia cronica a sviluppo progressivo da cui è affetto il familiare
non costituisce ‘evento di particolare gravità’ che legittima la concessione del beneficio in quanto tale condizione, connotata da protrazione indefinita nel tempo, è inconciliabile con il carattere straordinario dell’istituto”.

I requisiti richiesti dalla norma per la concessione del permesso di necessità si individuano, tradizionalmente, rammentano quindi dalla S.C., in tre elementi: “il carattere eccezionale della concessione, la particolare gravità dell’evento giustificativo, la correlazione di questo con la vita familiare”.
In particolare, per accedere a tale tipo di permesso occorre che “sussistano particolarissime ragioni di eccezionale rilevanza, quale un evento drammatico o di rara frequenza, legato comunque alla sfera familiare e connesso ad un fatto storico precisato e ben determinato: la normativa prevede un evento e cioè un fatto singolo e non anche una situazione cronica che si prolunga nel tempo, poiché la disciplina normativa del permesso di necessità non può piegarsi ad ogni situazione di tipo familiare, altrimenti si finirebbe per connettere lo stesso a situazioni protratte a tempo indefinito, con la conseguenza di una serie irragionevole di permessi di necessità”.
Nella specie, correttamente, dunque, il tribunale di Sorveglianza ha escluso la sussistenza delle condizioni per
concedere il permesso.

Allegati